La carità del prossimo - 12

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schiena. Quindici giorni da aspettare! E come vivere intanto?
Mentre cercava di balbettare una risposta che non sapeva nemmen egli
quale avesse da essere, la voce di Bancone risuonò dal gabinetto
vicino chiamando Gustavo.
--Vengo, rispose questi, e sbrigatosi sollecito di Antonio con un
saluto, s'affrettò ad accorrere dal principale, mentre il misero
pittore se ne partiva poco più racconsolato di quel che fosse quando
era penetrato colà dentro.
Bancone giaceva mezzo sdrajato in una larga poltrona, Marone gli stava
dinanzi seduto sopra una seggiola il suo cappello frusto in mezzo alle
ginocchia.
--Venite un po' qua, Pannini, disse il banchiere col suo accento di
superiorità e di protezione. Ecco qua il signor Marone che vuole...
--Scusi, interruppe quest'ultimo: ma gli è a lei solo che
desidererei...
--Questi è il mio segretario: rispose brusco il banchiere; e l'ho
chiamato appunto perchè non è di troppo.
E volto al giovane che già s'avviava verso la porta, disse con tono di
comando:
--Fermatevi Gustavo.
Questi tornò presso al suo principale.
--Il signor Marone ha dei fondi nella banca?
--Signor sì, rispose Pannini: novanta mila lire....
--E gl'interessi da pagarsi adesso allo scader del semestre, soggiunse
vivamente Marone.
Il banchiere fece un gesto che significava...
--Peuh! tutto ciò è una miseria.
--Ed ella, soggiunse forte, vorrebbe riaver quel denaro?
--Signor sì... Ecco: ho fatto un acquisto considerevole....
un'occasione vantaggiosissima che mi si è presentata.... Mi allargo ed
arritondo per bene quel po' di possessi che ho già in Valnota....
Il banchiere l'interruppe con certo piglio di alterigia.
--Insomma vuol ritirar subito quella somma?
--Subito, subito, no... ma se me la potesse dar presto... non mi
farebbe dispiacere.
E Bancone rivoltosi di nuovo al segretario:
--Quel denaro è pagabile a semplice richiesta?
Il padrone di casa d'Antonio cominciò egli una risposta: ma il
banchiere, senza nemmanco guardarlo, gli fece segno di lasciar parlare
Pannini.
Questi andò ad aprire certi cassettini ripieni di carte, ci rovistò
per entro, n'esaminò parecchie, e finì per rispondere:
--Sì signore.
--Va bene, disse Bancone: fatemi venire il cassiere.
Gustavo andò alla scrivania, vicino alla quale, nella parete, ad
arrivo di mano di chi ci fosse seduto vi erano parecchi bottoncini di
metallo dorato; ma prima che ci arrivasse, Marone disse con vivacità:
--Scusi... Una delle cose che più mi secchino è d'esser tenuto per
ricco dalla gente... Non lo sono diffatti... Ho qualche ben di Dio,
gli è vero, ma ci ho tante passività, tanti imbarazzi!... Eppure ci
sono già certi animali che vanno susurrando ch'io ho dei tesori... Se
si venisse ancora a sapere ch'io riscuoto da lei novantamila lire.
--Che cosa ne vuole conchiudere? dimandò con impazienza Bancone.
--Che meno sarebbero le persone che conoscessero questo fatto e più
l'avrei caro.
--Il mio cassiere non è un ciarlone, disse asciutto il banchiere; e
fece segno a Pannini chiamasse senz'altro chi gli aveva detto.
Gustavo premette uno di quei bottoncini di metallo, e un campanello
risuonò sopra la testa del cassiere.
Di lì a un minuto s'udì nella stanza vicina il passo lento e pesante
d'un uomo, o poi la porta s'aprì e comparve la faccia stupida ma
onesta del signor Busca.
--Venite qua, Bernardo, disse il banchiere. Potreste oggi stesso, o
domani, pagare la somma di novantamila lire?
Il cassiere allargo i suoi occhi di vetro e rispose colla sua voce
monotona:
--Nè oggi nè domani. Ella sa che abbiamo da fare quei certi
pagamenti...
--Lo so, lo so: ma questo non ci ha da importare.
--Ci ha da importare, sì signore, perchè la cassa non potrà
snocciolare insieme con tutto il resto altre novantamila lire.
--E allora, quando credete di poterle pagare?
Il signor Busca si serrò il mento colla mano destra, e coll'indice si
pose a battere sul labbro inferiore, mentre la sua fronte stretta e
piana si corrugava leggermente per effetto della meditazione. Dopo un
poco alzò in faccia al principale i suoi occhi chiari ed a fior di
capo.
--Fra tre o quattro giorni, disse.
Bancone si volse al suo creditore.
--Ha udito? Tre o quattro giorni sono forse troppi?
--Oh no! s'affrettò a rispondere Marone. Gli è giusto quel che mi
torna.
--Ebbene, oggi è giovedì... Lunedì sera ella avrà il suo denaro.
Bernardo, lunedì terrete in pronto novantamila lire... Le vuole in
oro? chiese a Marone.
--Come le aggrada. Parte in oro e parte in polizze di banca, se le
accomoda.
--Avete inteso, Bernardo? Quella somma la consegnerete al segretario
che ve ne darà scarico. Ora andatevene pure.
Il cassiere fece un inchino e partì.
Bancone proseguiva:
--Ella, signor Marone, si darà la pena di venir qua lunedì sera, e
riceverà la somma da Pannini, col quale farà tutti gli opportuni
incombenti. Così le va?
--Perfettamente. Non mi resta più che ringraziarla e salutarla.
S'alzò da sedere e si curvò in un profondo inchino.
--Buon giorno: disse il banchiere senza neppure fare un saluto col
capo: quindi cessando subito dal badare a Marone che se ne partiva,
soggiunse parlando a Pannini: sedetevi costì, mio caro, che ho da
farvi scrivere alcune lettere.


XVI.

Due giorni erano passati; e il povero Antonio, come facilmente vi
potete pensare, si trovava nelle distrette più che mai.
Pressato dalla necessità egli dovette calpestare il suo orgoglio e la
sua ripugnanza a codesto passo, e si decise di ricorrere alla carità
delle persone generose. Fra le due di queste cotali che gli erano
state suggerite aveva pensato a lungo a quale rivolgersi di
preferenza, se alla vecchia marchesa di Campidoro od al giovane
filantropo Salicotto, e l'aveva poi data vinta a quest'ultimo, perchè
in fama di molto più accostevole, di molto affabile ed alla mano.
Ricorreva giusto una domenica, e il povero pittore, vestiti i suoi
migliori panni--quel certo soprabito color marrone--s'avviava verso le
dieci ore del mattino, che quello gli avevano detto essere il tempo
opportuno, alla dimora del signor Salicotto, pubblicista umanitario e
cavaliere.
E mentre Antonio traversa la strada, entra nella porticina della casa
dirimpetto, sale sino al secondo piano ed esita a tirare il cordone
del campanello, io di questo signor filantropo vi farò conoscere virtù
e miracoli, contandovene la storia.
Abbiamo udito da quel ciarlone di speziale come nel suo paese, che era
quello stesso della sua nipote Anna, vi esistesse una famiglia col
nome di Salicotto, il capo vivente della quale era un povero ortolano;
ma sor Agapito non si pensava mai più che il cavaliere fosse in alcun
modo legato a quella povera gente, figliuolo com'ei si diceva d'un
avvocato. Ma se Anna si fosse trovata una sola volta faccia a faccia
con questo personaggio, benchè tanti anni fossero passati, benchè un
sì gran cambiamento si fosse fatto in lui, non avrebbe tuttavia
mancato certo di riconoscere nel cavaliere il figliuolo del vecchio
Matteo, il vicino di casa, l'antico amicone della sua famiglia. Per
fortuna del nostro filantropo democratico, che nascondeva con tanta
cura la sua modesta origine, in que' due anni che già era rimasta in
città la nipote dello speziale, stando rarissimamente alla finestra ed
uscendo anche meno, non aveva ancora veduto mai colui che
nell'intenzione dei parenti delle due parti doveva essere suo sposo.
Tommaso Salicotto era nato unico figlio; suo padre era un buon
diavolaccio con tanto di cuore, che non sapeva più in là dei cavoli
del suo orto e non desiderava altro di meglio che vender bene i suoi
erbaggi al mercato, ed avere a tempo opportuno il sole e la piova sui
suoi asparagi, sui suoi carciofi, sui susini, sugli albicocchi, e via
dicendo. La madre era altresì una eccellente comare che non pensava
oltre le poche vicende domestiche, far la cucina, rattoppare i cenci,
aiutare tal fiata il su' uomo nei lavori dell'orto. Ebbene--chi può
spiegare codesto mistero?--da questi due era nato in Tommaso un
ambizioso, uno spirito irrequieto, ghiotto di ricchezze ed invidioso
delle fortune altrui.
Già da bambino il nostro eroe guardava con occhio di livore la
palazzina bianca che sorgeva di faccia al rustico casolare di suo
padre, nella quale veniva ad autunnare ogni anno una famiglia di
_signori_ che abitavano la più vicina città di provincia. S'accostava
cauto al muro del giardino tutto rifiorito, e pel cancello sbirciava
con maligno ed invidioso intendimento le poche e modeste sontuosità di
quell'abitazione che a lui inesperto pareva un paradiso di agi e di
sfarzo. Quando vedeva i fanciulli dei signori pulitamente e con garbo
vestiti di panni bianchi o rosati o d'altri color gai, bene ravviate
le chiome, paffutelle le guancie, piene di giocattoli le mani,
occupata da sollazzi la giornata, egli già sentiva entro il piccolo
petto una gran rabbia che non sapeva pure spiegarsi: e se alcuno di
quegli aggraziati bimbi gli accorreva all'incontro, e faceva a
parlargli, e lo voleva prendere per mano, e lo invitava a partecipare
ai loro giuochi, poco mancava ad ogni volta ch'egli non gli si
lanciasse coll'unghie alla faccia a cavargliene gli occhi. Certo il
potere, se non altro, sciupargli addosso que' panni sì acconci gli
pareva un bel fatto.
Aveva ingegno pronto e svegliato: il povero maestro elementare che,
per alcuni fastelli di legna l'inverno e per un po' di legumi la
state, gli aveva mostrato a leggere e scrivere tutto s'era stupito ed
aveva gridato al miracolo vedendo che in sì poco di tempo il fanciullo
era arrivato a saperne più di lui. A far conti aveva imparato quasi da
sè, e nessuno nel villaggio era capace di farsi un'addizione od una
moltiplica così rapidamente e con tanta sicura esattezza come quel
fanciullo di otto anni, poco pulito, meno leggiadro e molto
spettinato. Per la lettura manifestava una vera passione; ogni libro
che gli capitasse tra mano egli divorava con ardore instancabile, e lo
riandava finchè lo avesse capito del tutto, passando e di molto la
comprensività comune dei coetanei.
In breve, egli era diventato il fanciullo prodigio del villaggio: i
buoni terrazzani lo citavano come una preziosa rarità del loro paese;
il padre quasi lo rispettava, la madre, s'intende, lo amava più che la
pupilla degli occhi suoi di quell'amor cieco onde amano le madri. E
intorno ai genitori tutta la gente s'era posta d'accordo a far gli
elogi del talentone del piccolo Tommaso. Aveva incominciato quel
poveraccio ignorantone d'un maestro elementare, il quale gli aveva
posto in mano la penna e l'abbicì.
--Voi avete in casa vostra un tesoro, aveva detto a Matteo; e se lo
lasciate sciuparsi ne avrete da rendere ragione alla società ed a Dio.
--Che cosa ho da fare? domandava il dabben uomo rimminchionito.
--Fatelo studiare, per bacco! esclamava il maestro. Volete lasciar
perdersi quel bell'ingegno fra le bietole e le rape?... Fatelo
studiare e diventerà qualche cosa di grosso.
E il parroco che era incantato del modo con cui Tommaso sapeva il
catechismo ed aveva imparato a servir la messa:
--Conviene far studiare vostro figlio, Matteo. Egli è un genio. C'è un
mondo in quella testa grossa: e chi sa che cosa ne potrà venir
fuori!... Mandatelo alle scuole, fategli vestir la cotta da cherico,
mettetelo poi in seminario, e un giorno o l'altro voi vedrete vostro
figlio... fors'anche vescovo.
Il buon villano allargava tanto d'occhi, tentennava sì un poco il
capo, ma finiva per tornare a casa fantasticando di veder suo figlio
ancora qualche cosa di più che vescovo.
--Il vostro Tommaso farà la fortuna di tutta la famiglia, gli diceva
un'altra volta il giudice: fatelo studiare, compare Matteo, ci avete
lì la stoffa d'un avvocato, e un buon avvocato, ai nostri dì, può
arrivare a tutto: certo a guadagnare denari e di molto.
E il maestro di latinità, sotto cui Tommaso incominciava a declinare:
_haec musa_, la musa:
--Matteo, diceva con enfasi ciceroniana all'ortolano, e' conviene
fargli studiare le belle lettere. Vi guarentisco io ch'ei diverrà un
professorone di calibro da illustrare sè stesso e la patria.
Con tante e sì importanti sollecitazioni, come resistere a quello che
era pure il massimo desiderio del dilettissimo Tommaso? Dai proventi
del suo orto, Matteo ricavava tanto che bastava da poter ogni anno
mettere in disparte una sommetta ad aumentare il gruzzolo dei
risparmi: e benchè a quel suo poco di tesoruccio ci tenesse di molto
con quell'amore taccagno che è proprio dei villici, pure si decise a
sminuirlo d'alquanto per mettere a studiare suo figlio. Certo il
pensiero che questi sarebbe diventato un pezzo grosso e con guadagni
vistosi avrebbe compensato di poi a mille doppi il sacrifizio
presente; questa speranza, dico, giovò non poco di sicuro a decidere
Matteo, ma la sua parte, e non da meno, l'ebbe altresì la tenerezza e
quasi direi l'osservanza che egli, e sua moglie ancora più, avevano
pel figliuolo.
Di vestir la cotta e farsi prete, che sarebbe stato mezzo assai più
economico di far gli studi, Tommaso non volle saperne malgrado le
belle parole e le sollecitazioni del parroco; innanzi alla mente del
giovinetto stavano gli sbarbagli del mondo, i vantaggi della
ricchezza, la leccornia degli agi signorili, e lo stato chericale era
una rinuncia a tutto, od a gran parte, e la più attraente, di codesta
roba. E nemmeno il padre aveva molta propensione a vedere suo figlio
tonsurato. Era unico della famiglia, ed anche ad un villano è pensiero
increscioso che non gli sopravvivano eredi, i quali sieno in grado di
continuare il suo lignaggio. Fin dai primi anni della vita di Tommaso,
col vicino padre di Anna si era detto sul più sodo che i loro figli si
sarebbero sposati, e quella poca nuova ambizione entrata nell'animo di
Matteo non era tale da fargli dimenticare e cessare d'aver caro quel
progetto nè da persuaderlo di non mantenere altrimenti la scambiata
promessa.
Tommaso fu posto in città a dozzina da un maestro, e per compensare la
maggiore spesa dell'assegno mensile che conveniva pagare pel
figliuolo, i genitori sminuirono a sè la pietanza e persino il pane
quotidiano. L'unico che non avesse approvato questa determinazione era
il padre di Anna, il quale, vero profeta, andava predicendo a Matteo
che così avrebbe fatto allevare un ingrato ai tanti sacrifizi che
faceva per lui. Ma l'ortolano, che in ogni altra cosa teneva in molto
conto il parere del vicino, in codesta non voleva sentire osservazioni
e tanto meno appunti, di tal maniera che codesta fu ragione per cui i
due vecchi amici quasi si guastassero insieme, e sminuisse quella
domestichezza poco meno di parentevole, che dapprima aveva luogo fra
loro.
Tommaso frattanto si distingueva assai. In ogni cosa a cui bastasse la
volontà e l'applicazione egli andava senza fallo il primo, non così
là, dove ci occorresse ispirazione, retta percezione, vivacità
d'immaginativa e fecondità di pensiero. Fra i compagni, i quali, nel
portar giudizio gli uni degli altri, non si sbagliano mai o di rado,
fu egli conosciuto tosto per uno sgobbone, per uno di quel gran
semenzaio di pedanti e d'impostori che è la schiera di quelle mediocri
intelligenze piene d'orgoglio coi compagni e di ostinazione indefessa
nello studio e di piacenteria verso i superiori, le quali si
guadagnarono sempre la benevolenza degli insegnanti e l'antipatia dei
colleghi.
Diffatti la nota caratteristica dell'ingegno come dell'essere morale
di Tommaso Salicotto era quest'essa: pedantismo ed impostura; come il
movente ultimo, la susta cardinale dei suoi sforzi e delle sue azioni,
erano la vanità e la voglia del denaro. Colla sua ipocrisia, aveva
egli saputo ingannare tutte le persone cui s'era accostato, fin da
quando era ancora bambino. Egli la sua tenacità e la sua ambizione
aveva saputo fare scambiare per effetti di un'elevata intelligenza
costretta dalle misere circostanze della sua condizione; egli aveva
saputo comparire agli occhi altrui come un genio travelato, un
diamante nella rozza sua ganga, a cui lo studio e la vita cittadina
non avrebbero mancato di procurare lo sprigionarsi dall'involucro, e
il raggiare di tutta la sua luce.
Forse dapprima egli neppure non conosceva bene sè stesso, e
quell'inganno che produceva in altrui provava egli medesimo sul suo
conto. Ma quando finite le scuole inferiori, passato il corso liceale,
Tommaso ebbe intrapreso il corso, ch'egli aveva scelto, di belle
lettere, allora e' fu chiaro del tutto che cosa fossero il suo ingegno
e le forze della sua anima, del suo cuore e della sua natura; capì
quello che valeva e che voleva, e si pentì affatto e della strada per
cui s'era messo e del cammino che già aveva corso e della meta che si
mirava dinanzi. Conobbe che nelle lettere non sarebbe riuscito che
alla meschinità d'un rettorico; nelle lettere, in cui anche ad esser
sommi, sono tanto scarsi i guadagni ed è sì poco soddisfatta
l'ambizione. S'accorse che il commercio e la politica tengono il campo
della fortuna e degli onori: che ad arricchire è mezzo più spiccio di
tutti il primo, che a diventare uomo influente non c'è altra strada
che la seconda. Se si fosse posto in qualche banca! se avesse
domandato ai facili studii della legale la laurea d'avvocato! Egli
avrebbe potuto conseguire in poco tempo, con non disagevol arte, il
soddisfacimento de' suoi desiderii. Ora era troppo tardi. La sua mente
non si prestava a quelle rapide evoluzioni per cui si può mutare
indirizzo, occupazioni, abitudini. Era più saggio continuare per la
strada intrapresa, e tentare d'averne ogni possibil vantaggio.
Era giovane fatto ed aveva l'inutile e fastoso titolo di professore.
Vivacchiava dando lezioni che erano pagate poco e valevan meno; ma
imparava ogni giorno più a conoscere il mondo, e sapeva da qual
parte conviene di meglio circonvenire gli uomini per irretirli.
Comprese la forza e il meccanismo, per così dire, di quella
sfacciata ipocrisia moderna che si chiama ciarlatanismo, ed apprezzò
tutta la potenza della leva che muove il mondo morale dell'oggi, la
pubblica stampa. Domandò a questa in unione con quello la celebrità
al suo nome e gli agognati guadagni alla sua povertà. Fondò un
giornale, e parendogli essere nella schiera del giornalismo allora
esistente un posto vuoto ancora da occupare, in cui facile il farsi
discernere dalla comune e far chiasso, il suo periodico fu, meglio
che politico, economico-umanitario-socialista. Non ci voleva troppa
scienza: paroloni sonanti ed uno stile fragoroso bastavano: e del
resto le raccolte dei giornali socialisti di Francia d'un tempo
erano lì, miniera inesauribile da pigliarvi per entro articoli e
declamazioni.
Le vicende non cominciarono col volgergli prospere. Dapprima non si
fece molta attenzione alle sue vesciche rettoriche; ma egli non si
perdette d'animo. Più d'una volta lo stampatore minacciò di far morire
il giornale, rifiutandosi di metterlo in torchio se non veniva pagato
almeno in parte di quanto gli era dovuto; ma Salicotto seppe sempre
industriarsi così bene, che di qua o di là ottenne pur sempre qualche
bocconcino da gettare nelle fauci del tipografo e tirare innanzi.
Lottò con una pertinacia di che soltanto poteva esser capace la sua
natura testarda di villano. Per lo meno ora egli aveva uno sfogo al
suo segreto agognare ed alla rabbia della sua impotente ambizione.
Patrocinando la causa di chi non possiede, egli lusingava le proprie
invidie, esprimeva i proprii tormenti. Alcune fiate, minacciando ed
imprecando ai ricchi, nei limiti che gli concedeva la legge, essendo
egli troppo accorto per cadere nella ragna d'un processo, Tommaso
consolavasi e temperava le sue smanie di ambizioso ancora deluse. Se
non la sua fame di guadagni, almeno già avevano un qualche ripago il
suo livore e la sua vanità.
Intanto si cominciava a discorrere per la città del suo giornale,
alcun rumore cominciava a farsi intorno al suo nome; le teorie e gli
spropositi sociali, ch'egli accattava dagli stranieri per annacquarli
e divulgarli nel suo stile pretenzioso e stentato, la sua politica
rabbiosa avevano destata l'attenzione della gente. Capì allora il
furbo l'efficacia di due mezzi che appo noi non erano ancora
introdotti: la moltiplicità, la bizzarria, la impudenza dell'annunzio
e l'attacco personale. Fece tappezzare tutte le cantonate di
cartelloni immensi in cui spiccavano in caratteri cubitali il titolo
del giornale e il nome del direttore, volse la punta d'una satira che
non era ingegnosa ma insolente, non contro i vizi, gli errori, i
torti, ma contro le individualità, e di queste le più spiccate e le
più note. Ad ogni numero c'era qualche botta contro una di codeste,
tanto se benevise quanto se in uggia al pubblico. Aveva l'accortezza
di designar la persona così bene, che non vi potesse cadere sbaglio, e
tuttavia non dirne il nome mai: ogni lettore ce lo metteva di per sè,
trovandoci appagamento alla naturale malignità che pur troppo è comune
a tutti gli uomini. Si limitò dapprima alla capitale: ma poi, visto lo
spediente dar buoni frutti, lo estese anche alle provincie. Si fece
una quantità di nemici, ma si acquistò una immensità di lettori: i
suoi fogli il pubblico, sempre ghiotto di scandali, se li strappava di
mano: si vendevano a diecine di migliaia, e Salicotto dalla soffitta
che abitava dapprima era passato ad un comodo quartieretto al terzo
piano.
Fu odiato da molti, fu ammirato da' più, fu temuto da tutti. Quando un
uomo, nella nostra società vigliacca innanzi al si dice, è giunto a
far temere la sua lingua o la sua penna, è diventato una potenza con
cui le autorità medesime hanno da fare i conti. Salicotto fu
accarezzato dal potere municipale, fu accarezzato dal ministero, fu
adulato dai ricchi, fu adorato dai poveri che lo salutavano loro
campione. Egli apparteneva oramai a tutte le commissioni di
beneficenza, a tulle le amministrazioni d'opere pie, non si
distribuiva un sussidio senza che il cavaliere Salicotto (la sua
filantropia era stata ricompensata da una croce) non fosse chiamato a
curarne l'erogazione; non succedeva un infortunio, non si lamentava
una miseria senza che egli nel suo giornale aprisse una sottoscrizione
per venire in soccorso ai disgraziati. I denari piovevano; e i maligni
dicevano sotto voce che il filantropo sapeva molto bene trafficarli in
suo vantaggio prima di farli colare là dov'erano destinati.
Con ciò il suo giornale prosperava sempre più. In pochi anni Tommaso
Salicotto, il figliuolo dell'ortolano, ebbe un suntuoso quartiere per
sua abitazione: quello in cui andremo or ora a trovarlo; ebbe delle
buone rendite in cartelle del debito pubblico; ebbe una ben avviata
stamperia ch'egli aveva stabilita pel suo giornale, e cui la sua
influenza procacciava molti guadagni; ebbe la bagattella d'un'entrata
annua di cinquanta mila lire.
E colla sua famiglia quest'avventurato filantropico pubblicista come
s'era egli regolato?
Il buon villano, per dirla con un'espressione volgare, s'era aperte le
quattro vene, affine di mantenere alla capitale il figliuolo a
studiare ed a farvi buona figura. Tommaso aveva capito fin da
principio che le apparenze sono tutto nel mondo, e che per farsi
strada conveniva vestire e spendere come uomo che ha del superfluo. Il
tesoretto delle economie di Matteo sminuiva con una rapidità
spaventosa, a dispetto delle privazioni che s'imponevano i due
genitori; e il buon uomo se ne desolava seco stesso, non sapendo
porvi, non dico un termine, ma neppure un freno. Il figliuolo aveva
acquistato sempre più sopra la sua famiglia un imperioso ascendente
che di poco si scostava dall'assoluto comando. Le maniere
cittadinesche e le vesti signorili di lui imponevano a quella buona
gente; e quando Tommaso andava a passare alcun tempo col padre e colla
madre vi era trattato come un principe che onori l'abitazione d'un suo
suddito. Ed egli stava appunto in tale contegno da affermare il
paragone: sussiegoso, altiero, parlando poco e con aria di degnazione,
era insopportabile a chi lo vedesse, fuorchè agli acciecati suoi
parenti.
Coll'andar del tempo, come gli erano rincresciuti i panni della sua
nativa condizione, gliene rincrebbe forte che in faccia al mondo
apparisse la rozzezza e la bassezza della sua famiglia. Di quando in
quando il padre e la madre capitavano a Torino per vederlo, ed egli si
vergognava troppo della pezzuola di panno cotone in testa e della
vesticciuola corta di bambagia che portava la madre, e della
grossolana carniera e del cappellaccio a larga tesa del padre. Li
accoglieva freddamente, di mala voglia, talvolta con brusca
impazienza. Le donne sono sempre più fini osservatrici che gli uomini;
e la madre si accorse presto del dispiacere che le loro visite
facevano a Tommaso; ne disse al marito, ma questi non volle credere.
--Eh via: rispos'egli, sei matta. Masino studia, ha sempre il capo
farcito di non so quante cose e ciò lo rende distratto, ma nel cuore,
l'ho per certo, e' prova, nel vederci, quel gran gusto che noi a
venire.
Continuarono a visitarlo; e meno male se si fossero rimasti a passare
con esso lui nel suo alloggio una giornata! Ma il padre, felice e
superbo d'un tanto figliuolo, voleva uscire a braccetto con lui e
farsene accompagnare di qua e di là, e la madre gli occhi larghi, con
esclamazione d'ignorante stupore sulle labbra ad ogni passo, gli
veniva, facendosi trascinare al braccio, dall'altra parte. Codeste
passeggiate erano per Tommaso un supplizio. Egli avrebbe pure
agevolmente potuto liberarsene; ma a quel tempo le cose sue non erano
ancora prospere, il suo giornale lottava tuttavia con poco felice
successo contro l'indifferenza del pubblico, ed egli aveva troppo
bisogno della già smunta borsa paterna per arrischiarsi a scontentare
addirittura del tutto il povero Matteo.
E sì che quella borsa paterna era già proprio a' suoi ultimi
spiccioli. Consumati per l'affatto i risparmi da tanto tempo
accumulati, il dabben padre, a pagare i debiti del figliuolo ne aveva
contratti de' proprii, ipotecando il poco terreno d'un orto, che
possedeva presso a quello del suo padrone. Un dì venne lettera da
Tommaso che diceva con laconica disperazione come, se fra tanti giorni
egli non avesse una certa somma, sarebbe costretto a darsi a qualche
violento partito: il più temperato quello di fuggire dal paese per non
tornarci mai più. Pensate se il misero genitore si diede con isgomento
le mani attorno per trovare questa somma! E ci riuscì; e nel giorno
stabilito, il poveretto se ne arrivò alla città, afflitto, spallidito,
dimagrato dall'angoscia di quei pochi dì, dal dolore del sacrifizio
che aveva dovuto fare, come da una malattia di mesi, a porre in mano
del figliuolo i chiesti denari: ma egli per ciò era stato obbligato a
vendere ogni sua masserizia, il dilettissimo orticello, ed egli e sua
moglie, già innanzi negli anni, si trovavano senza asilo, senza
possessi, quasi senza pane! Pure non un lamento, non un rimprovero
spuntò sulle labbra del povero vecchio, e quando Tommaso,
ringraziandolo con una certa effusione, lo strinse fra le sue braccia,
egli quasi quasi credette di essere in abbondanza ripagato di tutto.
Matteo abbandonò il villaggio nativo, dove non c'era più mezzo per lui
di ricavar da vivere, e con che dolore ciò facesse è facile pensarlo;
ed ebbe la fortuna di trovare ad allogarsi, in paese dal suo non molto
lontano, come giardiniere e coltivatore d'orto presso un proprietario.
A Tommaso parve una buona ventura che suo padre abbandonasse il
villaggio natale: così era rotta ogni sua attinenza con quel luogo e
quella gente che avevano vista la sua povera infanzia e conoscevano le
sue troppo umili origini.
Intanto per l'ambizioso il sacrifizio del padre parve avere aperto il
corso delle prospere sorti. Egli aveva incominciato a vivere da
signore, e la presenza dei genitori in mezzo al suo sfarzo gli
rincresceva sempre più. Un giorno padre e madre ebbero il torto di
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