La carità del prossimo - 06

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ad ogni possibile sacrifizio per soccorrerlo, ma in quel momento la
pena dell'infelice era troppo forte perchè egli la potesse nascondere,
e le impressioni soverchiamente dolorose richiedevano uno sfogo. Si
lasciò andare sovr'una seggiola come uomo disperato per l'affatto e
contò tutto.
Giovanni l'udì in silenzio, tenendo stretta fra le sue una mano
dell'amico. Quando questi ebbe finito, lo trasse a sè, lo serrò al
petto e lo abbracciò come un fratello. Poscia, senz'altre parole, lo
condusse seco ad uno stipetto; aprì questo stipo, ne tirò fuori un
cassettino e mostrò in esso ad Antonio il tesoro di sei napoleoni
d'oro.
--Eccoti il mio peculio, diss'egli. In altra occasione ti direi:
piglialo, gli è tuo; ma siccome a questo tempo ho ancor io qualche
spesetta, non posso che dirti: dividiamo per metà.
Antonio non voleva: ci si rifiutò lunga pezza; ma Selva gli pose a
forza i tre napoleoni nelle mani, ricordandogli ch'egli era padre e
che codesto era per i bambini.
--Con ciò, soggiunse, potrai acchetare i più accaniti de' tuoi
creditori ad aspettare gli eventi. Durante i quindici giorni che ti ha
accordato il proprietario, o il tuo padrino si commuove e ti soccorre,
o noi avremo trovato qualche altro modo di sopperire all'occorrenza.
L'arte, devi oramai esserne persuaso, mio caro Antonio, ti dà giusto
tanto pane quanto ne danno ai poeti le rime.
--Ti capisco! esclamò Vanardi con accento quasi di dolore. Tu vorresti
ch'io l'abbandonassi quest'arte ingrata, maledetta e carissima...
Avresti tu il coraggio di consigliarmi a fare il droghiere?
--E perchè no? Noi viviamo in un secolo di prosa e d'interessi, in cui
è solo il lavoro materialmente utile che procura guadagni. Il
commercio del droghiere soddisfa a parecchi bisogni della società
civile...
--Mah! disse Antonio grattandosi dietro l'orecchio. Queste buone
ragioni ho paura che mi convincerebbero, se mio zio cedesse alle mie
preghiere; ma è più facile che, stante la sua professione, mio padrino
faccia orecchie da mercante, e allora sarà inutile che la tua
eloquenza mi abbia convertito al positivismo della vita.
--Niente affatto. Se tuo zio non ti riapre le sue braccia e il suo
fondaco, ho in mente un partito per te, che già da più tempo rumino
meco stesso, e che se tu hai senno, non vorrai rifiutare.
--Che cosa? che cosa? chiese sollecito Antonio. Oramai son ridotto a
tale che, per salvarmi dalle strette della miseria, non c'è patto,
purchè onesto, a cui oserei dire di no.
--Buono! Vuol dire che t'acconcerai a far da computista, da scrivano
presso un banchiere.
Vanardi fece una smorfia.
--Star chiuso tutto il giorno nell'aria mefitica d'un uffizio!...
Allineare delle colonne di cifre per farle camminare in massa serrata
al risultamento d'una moltiplicazione... Oh, arte mia!... E ciò dopo
tanti sogni, tante speranze, dopo tanti studi!... Ah! l'è dura... E tu
avresti mezzo di ottenermi un simile impiego?
--Forse sì. Qui sotto, al secondo piano, abita un uomo, a cui non so
qual altro potrebbe andare innanzi in punto ad onestà, buon cuore, e
tutte le meglio qualità dell'animo. Egli è oro schietto per ogni
riguardo. Siamo amici quanto lo può permettere la differenza d'età che
passa tra noi (ch'egli è già oltre i sessant'anni), e la profonda e
riverente osservanza ch'io nutro per esso. La giovane di lui
figliuola, sposa da pochi anni, è in istretta relazione con mia
moglie: e due o tre sere per settimana, noi si va giù a far la
vegliata in famiglia in casa Biale.
--Biale? esclamò Antonio. Oh bella! Questa figliuola di cui parli ha
essa per madrina una vecchia marchesa?
--Giusto! La marchesa di Campidoro.
--Ed ha sposato un tale che è segretario d'un banchiere....
--Bravo! Pannini, segretario di Bancone.... Tu dunque la conosci
questa famiglia?
--Io no. Ne ho sentito parlare son pochi minuti nella spezieria di
messer Agapito, da una cameriera della marchesa.
--Spero che del signor Biale la ne avrà parlato bene, disse
vivacemente Giovanni Selva.
--Non ha avuto occasione che di nominarlo; ma disse le più lusinghiere
parole della signora Pannini.
--E se le merita davvero! Una cara personcina, tutto leggiadria ed
affetto. E come ama suo padre e suo marito!... Il signor Biale, a cui
è unica figliuola, come puoi capire, l'adora. Egli è appunto per mezzo
loro che spero farti ottenere un posticino negli uffizi del signor
Bancone. Pannini è assai nelle buone grazie di costui; e inoltre--ciò
che vale anche più--è amicissimo del primo commesso, il quale tanto
nella banca come nella casa di quel re da denari fa tutto ciò che
vuole. Dirò al suocero ed alla moglie di Pannini che lo inducano a
parlar per te. Non gliene parlo io stesso, perchè io e lui non ce la
diciamo di troppo. Egli avvezzo alle grandigie ed agli sbarbagli della
ricchezza guarda con occhio un po' troppo altezzoso le mediocri
fortune d'un povero letterato come son io, e quanto ad orgoglio io non
istò al di sotto di nessuno: dunque ci trattiamo freddamente, e
ciascuno va per la sua strada. Ma quel giovane ama di molto sua
moglie, e s'ella glielo dice farà tutto quello che può in favor tuo.
Di questa sera io parlerò al signor Biale e mia moglie parlerà a
madama Pannini, e domani stesso spero di andarti a portare a casa tua
qualche non iscoraggiante risposta.
--Mio caro Giovanni: esclamò Antonio, gettando le braccia al collo
dell'amico; non ti ringrazio nemmeno; perchè non lo potrei a dovere;
ma la salvezza della mia famiglia che dovrò a te...
--Basta! Tu costeggi il pericolo d'imbrogliarti in una bella frase.
--Tranquillati, lascio lì di botto: ed anzi t'esprimerò un dubbio....
Ah! la disgrazia fa diventar scettico.
--Parla pure.
--Come mai codestoro vorranno darsi briga per uno che non hanno mai
sentito nominare? A questo mondo non si fa del bene che a coloro i
quali ce ne possono rendere....
--Si vede che tu non conosci quell'eccellente famiglia. Hai tu venti
minuti di tempo da passare meco ancora?
Vanardi mando un sospiro.
--Ah! pur troppo ho tutto il mio tempo libero, come quello d'uomo che
vive delle sue rendite.
--Ebbene, siedi lì che ti conterò in breve la storia di questa brava
gente: quando la saprai, avrai finito di dubitare.


IX.

--Il signor Biale, così cominciò Selva, come già ti dissi, è un uomo
che ora conta oltre a sessant'anni. Lo conosci tu di persona?
--No: rispose Antonio, non so d'averlo visto mai.
--È ancora un bell'uomo, alto di persona, a fronte calva, a faccia
severa, quantunque tutto bontà, a sguardo benevolo ed occhi
intelligenti. Fu militare, ed ha conservato qualche cosa della
rigidità del portamento e della bruschezza di maniere del soldato. Ha
la fibra di quel vero acciaio che piega, se occorre, ma fino ad un
certo punto soltanto, e piuttosto s'infrange che andar sotto al
livello della dignità e dell'onestà del carattere, che perdura
inalterabile, ed all'influsso corrosivo delle male parti della
società, delle passioni e della sciagura non si guasta nè s'infiacca.
La natura gli ha regalato un'onestà a tutta prova, la disciplina
militare, a cui fu soggetto ne' suoi giovani anni, gli ha aggiunto un
non so che di puritanismo autoritativo che lo fa abborrire da ogni
discussione, guardare con occhio acuto e sicuro dove stia il dovere, e
vistolo, camminare a passo franco verso di esso, quali che sieno gli
ostacoli che trammezzino.
«Il dovere è per lui la formola suprema, la regola inflessibile a cui
misurare tutte le sue azioni. Esso lo fa inchinare venerando innanzi a
Dio; esso lo rende caritatevole e pronto al sacrifizio verso il
prossimo; esso lo fa amoroso e previdente padre di famiglia, ed
insieme egregio cittadino, pronto a dare le sostanze e la vita per la
patria. Per effetto della sublime bontà del suo animo, dovere ed amore
si confondono per lui in una medesima cosa. Egli, quello che dice, ama
di farlo. Sotto alla rigidità delle sue maniere ed alla soldatesca
asciuttezza de' suoi contegni e' nasconde tesori d'amore da
disgradarne l'anima della donna più pietosa e meglio fornita di
affetti. Questa profonda e contenuta bontà si manifesta raro nel
laconismo delle sue parole, ma prova eloquentemente nelle opere,
avvolte pur sempre in quel caro e prezioso appannamento, lasciami dir
così, della semplicità e della modestia.
«Suo padre era un uomo duro, a cui per contro la pietà parlava poco al
cuore, troppo invece l'interesse. D'un'onestà ancor egli a tutte
prove, non avrebbe fatto torto d'un centesimo ad uomo al mondo, ma non
avrebbe dato nemmeno un soldo, nemmanco un suo incomodo di mezzo
minuto per fare un'ombra di bene ad un suo simile, cui non avesse
ragione da amare, o temere, o sperarne ricambio; non si sarebbe
peritato neppure un istante a rovinare chicchessiasi, un uomo ed anche
un'intiera famiglia, per soddisfare le due passioni che più
violentemente possedevano la sua anima fiera: l'amor del guadagno e
quello della vendetta.
«Di quest'ultima sua feroce passione ben ebbe a sentirne gli effetti
la famiglia del povero Pannini...
--Pannini, interruppe Antonio, quello stesso che ora ha sposato la
figliuola del signor Biale?
--Lui no; il marito della signora Lisa a quel tempo era ancora in
_mente dei_; e suo padre medesimo non era che un fanciullo; un
fanciullo era eziandio, di pochi anni anzi minore, il signor Carlo, il
padre della Lisa medesima; ma gli è appunto di quella famiglia che si
tratta e dell'avo del vivente signor Pannini. Fra costui e il padre
del signor Carlo esisteva da tempo una ruggine che sempre era venuta
crescendo. Biale era segretario ed amministratore delle fortune
copiosissime della nobile famiglia di Campidoro. Pannini ne era il
maggiordomo. Tutte due erano da tempo legati a quella casa e ne
curavano od ostentavano di curarne gli interessi, e tuttedue avevano
delle benemerenze verso i padroni che davano loro un influsso che
altri non avrebbe avuto nelle loro condizioni. Pannini, quando la
famiglia, per gli sconvolgimenti politici dell'invasione straniera e
del dominio francese in Piemonte, aveva emigrato di paese, aveva
voluto associare la sua alla sorte de' suoi padroni, li aveva seguiti,
e poichè essi erano ridotti a povere fortune dal sequestro e dalla
vendita dei loro beni patrimoniali, esso li aveva generosamente
mantenuti, senza che loro quasi se ne avessero ad accorgere, col
frutto dei risparmi che egli aveva potuto fare in addietro ed aveva
seco portati in esilio. Ma Biale non aveva dimostrata minor devozione
per quella stirpe: quando i beni della medesima erano stati posti in
vendita, egli aveva fatto così bene, che direttamente per sè, e
mediatamente per alcuni suoi fidatissimi, erasi reso acquisitore di
tutto quanto, giungendo persino a salvare la parte più preziosa e che
avessero più cara dei loro mobili e delle loro domestiche memorie.
Quando poi i Campidoro erano ritornati col loro re, egli modestamente
era andato a riporli in possesso d'ogni parte di quel patrimonio che
possedevano prima della tempesta della rivoluzione. Son codesti
servizi di tali che non si dimenticano più, e Pannini e Biale furono
pei Campidoro qualche cosa di meglio che un ragioniere ed un
maggiordomo, quasi due membri della famiglia; la quale, a quel tempo,
era ridotta a due uomini, il padre vecchio cadente oramai e un solo
figliuolo non più giovane, marito dell'attuale vecchia marchesa, che
sarà l'ultima a portare quel nome illustre, non avendo il Cielo
benedetto di figli il suo matrimonio.
«In quella situazione in cui si trovavano era troppo facile che
nascesse rivalità fra il signor ragioniere ed il signor maggiordomo, e
che perciò, a scavalcarsi a vicenda, l'uno tendesse a danneggiar
l'altro nello spirito dei padroni; e così avvenne di fatto. Pare anzi
che il primo a cominciare siffatta guerra sia stato Pannini; e Biale,
accortosene, ebbe la maggior rabbia che possa tormentare anima d'uomo
e giurò di fargliela pagare.
«La brutta lotta durò assai tempo con varia vicenda. Il marchese padre
pareva propendere pel maggiordomo, il figliuolo e specialmente la
moglie sembravano invece più inchinevoli al ragioniere. Pannini aveva
un torto che pare essere un difetto inerente all'organismo di quella
famiglia, poichè fu quello che menò poi a rovina suo figlio, in quel
tempo appena adolescente, e che io stesso ho già avuto occasione di
notare nel suo nipote Gustavo: un amore straordinario dello sfarzo di
comparire in pubblico colle mostre della ricchezza e dell'eleganza e
un'alterigia sciocca verso chi presumeva da meno di lui per la fortuna
e pel grado sociale; onde avveniva che tra i famigli egli avesse poco
o punto simpatia, e tutti invece fossero più disposti a favorire il
segretario, il quale in realtà superiore di grado al maggiordomo era
in fatti meno di lui altezzoso e superbo, e di cui la vita modesta non
offuscava gli sguardi a nessuno, non chiamava in alcun modo l'invidia
e le maligne supposizioni della gente.
«Avvenne frattanto che il vecchio marchese ammalasse e di quella
malattia che esser doveva l'ultima; il maggiordomo fu pieno di cure
per esso; il suo ufficio era più adatto a concedergli di star presso
il malato, e questi era così contento de' suoi servigi che quasi non
voleva intorno altri più che il maggiordomo. Fece il marchese il suo
testamento e questo mostrò gli effetti di quel suo stato presente
dell'animo, poichè mentre Biale vi era appena nominato e col legato
d'un ricordo da nulla, vi si contenevano invece per Pannini alcune
espressioni le più lusinghiere di riconoscenza per quanto aveva egli
fatto in beneficio dei Campidoro, e il lascito d'un vistoso legato.
«Quando, morto il marchese, Biale ebbe conosciuto il tenore di quel
testamento, egli provò una rabbia come forse non aveva ancora provato
mai. Amante come ti ho detto esser egli del guadagno, aspramente gli
cuoceva la meschinità del regalo a lui lasciato, appetto alla
vistosità di quello destinato al suo rivale; gli cuoceva del pari e
fors'anco più la sconoscenza che aveva fatto passar sotto silenzio i
servizi da lui resi ai Campidoro per magnificar quelli di quel rivale
medesimo cotanto favorito. Gli parve una vera ruberia che s'era fatta
a suo danno: ruberia di denaro e ruberia di considerazione; e il
colpevole di questo misfatto era Pannini, il quale se ne vantaggiava e
trionfava. L'odio suo contro di costui, il qual odio non aveva pur
bisogno di crescere per diventare enorme, tuttavia s'infierì vieppiù.
Pannini, da parte sua, ebbe la stoltezza e l'audacia di quasi menar
vampo di questo suo successo; e i suoi contegni verso Biale presero un
non so che di sprezzante, che erano pel padre di Carlo una continua e
reiterata e sempre più pungente provocazione.
«Biale si racchiuse in un cupo silenzio, parve cedere innanzi al
rivale, ma si raccoglieva invece per trovar modo di perdere affatto
l'odiato suo nemico.
«Ti ho detto che il modo di vivere di Pannini era tale da destare
anche le maligne supposizioni della gente, e le aveva destate difatti.
I famigli susurravan piano, e le comari del quartiere ripetevano forte
che a pagare tutto il lusso del signor maggiordomo non bastavano le
paghe onestamente da esso guadagnate, ma concorrevano alcune
particelle dei redditi della casa di Campidoro, abilmente da esso
stornate ne' suoi conti. Il male e le colpe dei nostri nemici si
credono molto agevolmente e con molto diletto; Biale credeva codesto
di Pannini, e determinò provarlo ai padroni e vi si accinse con tutta
la pertinacia e la sagacità dell'odio.
«Non saprei dirti come ci sia riuscito; il fatto è ch'egli raccolse
certi documenti e li presentò al marchese ed alla marchesa, i quali ne
furono convinti che il loro maggiordomo rubava a man salva. Il modo
con cui Pannini aveva ottenuto dal vecchio padrone moribondo que'
vantaggi e quelle note di encomio nel testamento non era piaciuto
nemmeno all'allora vivente marchese ed a sua moglie, i contegni del
maggiordomo di poi avevano sempre più indisposto l'animo loro verso di
esso: onde, alle rivelazioni avute da Biale, senza voler scendere a
spiegazioni di sorta, senza il menomo rimprovero nè altro, il marchese
e la marchesa, pagato Pannini di quanto per ogni ragione gli
spettasse, gli fecero significare che aveva da considerarsi aver
cessato di essere loro maggiordomo.
«A Pannini fu come una tegola che gli fosse cascata sul capo
passeggiando. Capì che la sua disgrazia la doveva a Biale, e se glie
ne accrescesse odio è facile pensarlo: fosse l'accoramento per questa
sua sventura o la rabbia di non potersi vendicare, il fatto è che non
andò molto tempo ch'egli si morì lasciando suo figlio in povere
fortune e nell'animo di lui l'odio verso il Biale, maggiore ancora di
quello ch'egli non avesse.
«Questo suo figlio, che è poi il padre del marito della signora Lisa,
aveva ancor egli, come e più che il padre, un grande amore per lo
sfarzo e per lo spendere, e trovavasi disgraziatamente al verde.
Venduto quel poco che gli era rimasto dell'eredità paterna, egli era
andato ad arruolarsi in un reggimento dell'esercito, e in questa
carriera militare, che egli abbracciava quasi per disperazione, doveva
trovarsi a fronte il figliuolo del nemico di suo padre, il quasi a lui
coetaneo Carlo Biale.
«Questi aveva scelto tale carriera parte per inclinazione, parte
eziandio per torsi da casa, dove l'umore diventato acre, intollerante
ed ingiustissimo di suo padre, gli rendeva quasi insopportabile il
soggiorno. Dopo la cacciata del Pannini e ancora più dopo la morte di
lui, Biale mentre di fisico pareva invecchiato di dieci anni, di
morale era divenuto il più cupo, il più irritabile, il più scontroso
degli uomini. Si sarebbe detto che una pena interna lo rodeva
continuamente, e ch'egli non potendo nè scacciarla nè sfogarsene
altrimenti, si travagliava maledettamente in una continua rabbia
contro sè stesso e contro altrui; rabbia che tutta incessantemente
andava a cadere sul capo del povero Carlo.
«Non ci volle poco a far consentire il padre ch'egli andasse soldato;
ma l'intervento del marchese, e della marchesa sopra tutto, la quale
andava pazza per le monture militari, valsero a vincere la sua
renitenza. Carlo a diciott'anni entrò semplice soldato in un
reggimento di fanteria; non volle esenzioni e privilegi nella vita del
soldato, benchè la protezione dei Campidoro gliene avrebbe potuto
procurare d'ogni fatta, e non si distinse da ogni altro che per zelo e
buona condotta. Ma tuttavia la protezione della nobile famiglia non
gli fu inefficace, perchè passato rapidamente pei gradi subalterni,
quattro anni dopo d'essersi arruolato, egli era promosso ufficiale. Il
figliuolo del disgraziato Pannini da molti più anni si impazientava
alla soglia di questa ambita promozione nel grado subalterno di
sergente. Ma in quella ecco avvenire a Carlo una sciagura e
svelarglisi un tremendo segreto che doveva influire su tutta la sua
vita di poi.
«Era egli di guarnigione a Genova, quando riceve una lettera pressante
che lo invita a venire senza il menomo indugio a Torino, se vuole
ancora vedere in questo mondo suo padre, assalito da una violenta
malattia, e condannato senza rimedio. Il colonnello del suo
reggimento, che di molto amava e stimava il giovane Carlo, gli dà
tosto di suo capo il permesso di venirsene, ed egli accorre colla
maggiore rapidità che gli era concessa. Arriva che suo padre è proprio
all'agonia; ma nel moribondo è ancora tutta la sua cognizione, ed è
ardente, pieno d'impazienza il desiderio di veder suo figlio, di
potergli dire alcune ultime parole prima di chiuder per sempre gli
occhi. Carlo s'accosta al letto, tremante, piangente, e quasi non
riconosce suo padre in quel cadavere in cui non c'è più di animato che
due occhi sbarrati, febbrili, riarsi da un fuoco interno, agitati e
quasi direste paurosi. Il morente gli fa cenno accosti più che può
l'orecchio alle sue labbra, da cui greve, affannato, penoso esce il
rifiato interrotto dal singhiozzo della morte, e Carlo si curva sul
giacente e questi con quel filo di voce che gli rimane sussurra:
«--Non morivo tranquillo senza svelarti una cosa che da tempo mi
tormenta... che è un mio gran rimorso... che temo Dio non mi
perdoni...
«Un singhiozzo l'interruppe: Carlo volle dire alcune parole di
conforto, ma il padre accennando cogli occhi lo lasciasse parlare,
temendo di non avere il tempo di finire la fatale confidenza, si
affrettò a soggiungere:
«--Pannini era innocente... Sono io che l'ho rovinato... io che l'ho
fatto morire nella miseria calunniandolo... «Carlo fece un moto di
sorpresa che poteva anche dirsi di orrore.
«--Ah!... potessi riparare... balbettò ancora il morente in cui la
voce veniva meno, poi torse gli occhi, agitò le labbra per pronunciare
altre parole, ma nessun suono ne uscì più; una lieve contrazione ne
corse i lineamenti, e il capo ricadde abbandonato sul guanciale. Era
morto.
«Pensate qual esser dovesse l'animo dell'onesto, intemerato Carlo, in
presenza del cadavere di suo padre dopo una rivelazione siffatta!
«Il pensiero che subito sorse nella dolorosa confusione ond'era stata
invasa la sua mente all'apprendere quel fatale, inaspettato segreto,
siffatto pensiero era quello cui avevano accennato le ultime parole
pronunziate da suo padre, le quali rivelavano di certo il desiderio
con cui egli era morto; era quello che non poteva a meno di sorgere in
un'anima così onesta: riparare!
«Ma come farlo? In qual modo e in qual misura? Carlo stette innanzi a
suo padre morto, le mani serrate con forza di contrazione muscolare,
muto, immobile, pallido, fissando quel cadavere come se da quei
lineamenti distesi dalla mano della morte, da quelle labbra chiuse per
sempre gli dovesse venire tuttavia un'indicazione del come eseguire il
dover suo, poichè egli non aveva menomamente indugiato a sentire che
quello era oramai un suo impreteribile dovere.
«Che notte fosse quella ch'egli passò dopo la morte del padre e la
terribile rivelazione, egli solo potrebbe dirlo, e non disse mai a
nessuno; ma il mattino la sua decisione era presa. Per prima cosa si
recò dai signori di Campidoro ed apprese loro tutta la verità, perchè
nel loro concetto fosse riabilitata la memoria del morto maggiordomo.
Egli aveva sentito che di due sorta doveva essere la riparazione da
farsi al calunniato: una morale, distruggendo il falso giudizio che di
lui aveva recato chi l'aveva creduto colpevole; l'altra materiale,
risarcendo per quanto a lui fosse possibile la famiglia di quella
vittima, dei danni finanziari che aveva sofferto. Dopo aver dunque
manifestato il vero al marchese ed alla marchesa di Campidoro, fece
due parti dell'eredità che gli aveva lasciato suo padre ed una fece
pervenire misteriosamente al figliuolo di Pannini. Verso di costui
egli non aveva nessun debito di svelare la colpa di suo padre: purchè
lo risarcisse ampiamente di quello che aveva perduto. Gli fece
pervenire la vistosa somma come il pagamento d'un debitore di suo
padre, che desiderava rimanersi sconosciuto. Pannini accolse questo
come un bel regalo della sorte, e non cercò altro, non sospettando
nemmeno che la cosa potesse venire da Biale; e siccome era sempre del
medesimo umore spendereccio, si diede a farla alla grande con quei
denari, per quanto gli consentiva la vita di subalterno militare.
Avrebbe rinunziato a questa uggiosa esistenza, ma i Campidoro volendo
alla loro volta risarcire in alcun modo il figliuolo del loro antico
maggiordomo, ottenevano a poco andare anche per lui le spalline da
ufficiale, ed egli trovandosi assai leggiadro e piacente sotto la
montura, continuava volonteroso. Poco dopo si univa in maritaggio con
una bella ragazza che gli arrecava una discreta dote, e ne nasceva un
figliuolo, che è il presente Gustavo Pannini.
«Ma volle sventura che un giorno Carlo Biale, promosso ad un grado
superiore, fosse cambiato di reggimento, e mandato in quello appunto
in cui era Pannini. Nell'animo di costui non era punto scemato l'odio
che nutriva verso il figliuolo del nemico di suo padre, di cui non
sospettava, e non avrebbe creduta mai la generosa azione a suo
riguardo.
«La severità di modi, l'asciutto riserbo di Carlo dispiacquero sempre
più a Pannini, il quale non lasciava occasione di scoccare qualche
frizzo mordace contro di lui: nè valse a placarlo il modo degno e
leale con cui Carlo trattava; e tutti, in breve, nel reggimento furono
persuasi che una gran ruggine era fra quei due, e che sarebbe bastata
una lieve circostanza a far nascere fra loro una collisione: questa
circostanza Pannini tentava ad ogni modo di far nascere, e Biale
invece con pari cura e con successo migliore faceva ad impedire. Di
codesto, come accade, fra gli ufficiali del reggimento si faceva un
gran discorrere, e chi temeva per l'uno e chi per l'altro, con
discussioni calorose che minacciavano persino produrre le più triste
conseguenze; gli amici di Pannini cominciavano a tacciare di
pusillanimità la prudenza di Biale, e i parteggiatori di quest'ultimo
battezzavano per impertinenza la volontà provocatrice del primo. In
verità Pannini aveva molti più aderenti che non Carlo, il quale,
venuto l'ultimo nel reggimento, colla serietà del suo carattere
allontanava da sè la famigliarità e la confidenza che sogliono aver
luogo fra camerati.
«Le cose erano a questo punto, quando la circostanza tanto aspettata
da Pannini avvenne pur troppo. Si era in piazza d'armi alle manovre, e
Biale in mancanza dell'aiutante maggiore faceva egli siffatto
servizio. In un movimento qualunque, Pannini, che comandava un
pelottone, si sbagliò e Carlo l'ebbe ad ammonire: era un movimento
importante, occorreva fosse eseguito rapidamente, e si era sotto gli
occhi del colonnello severissimo, che avrebbe acerbamente rampognato
l'errore: per ciò le parole di Biale furono forse più vivaci ed
impazienti che non sarebbero state in altro momento, e Pannini sentì
montarsi la stizza, offeso il suo orgoglio, che era cotanto,
nell'essere rimbrottato in presenza del reggimento. Si fermò egli
fuori delle righe, al posto in cui si trovava, e rispose alcune
insolenti parole al suo correttore; Biale rimbeccò ordinandogli, come
superiore, tacesse ed obbedisse: in quella soprarrivò il colonnello,
che volle sapere ciò che accadesse: informatone brevemente da Carlo,
il comandante del reggimento, il quale in siffatte cose era
scrupolosissimo, disse forte colla sua voce chiara di comando:
«--Sottotenente Pannini, cinque giorni di arresto nella propria
camera.
«Pannini tornò al suo posto pallido e mordendosi le labbra.
«--Biale me la pagherà: l'udirono mormorare fra i denti i suoi vicini.
«Mentre il sottotenente, era agli arresti, i suoi amici andavano
dicendo a bassa e ad alta voce che appena uscitone, Pannini avrebbe
domandato ragione a colui che era stato causa fosse così punito; e
Biale quando questa voce gli venne all'orecchio si contentò di fare un
sorriso e di crollar le spalle. Invero il signor Carlo non aveva
nessun'apprensione da provare per un simile scontro, tra perchè era
coraggiosissimo innanzi ad ogni pericolo, tra perchè nel maneggio
d'ogni arma andava dei primi nel reggimento e di molto innanzi al suo
avversario.
«La cosa avvenne infatti com'era stata prevista. Il giorno stesso in
cui erano finiti gli arresti di Pannini, questi alla prima radunata
degli ufficiali investiva aspramente il suo nemico e lo sfidava a
duello. Biale s'era proposto d'esser calmo e di non accettare la
tenzone, riparandosi dietro la buona ragione che avendo parlato a
Pannini in qualità di superiore e per cose di servizio, non poteva
essere il caso di darne conto con un duello, ma come si fa ad esser
calmi quando un uomo vi provoca insolentemente in presenza d'una
frotta di compagni che si sanno pronti a prendere la vostra
moderazione per un meno nobile sentimento, e si ha il sangue di
venticinque anni nelle vene? Biale dimenticò tutti i suoi propositi di
mitezza innanzi alla tracotanza del suo avversario e, accettato il
duello, volle che fosse alla spada, l'arma degli scontri più seri, e
con tali condizioni che lo rendessero pericolosissimo.
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