Istoria civile del Regno di Napoli, v. 5 - 06

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_E l'altra, il cui ossame ancor s'accoglie_
_A Ceperan là dove fu bugiardo_
_Ciascun Pugliese; e là da Tagliacozze,_
_Ove senz'arme vinse il vecchio Alardo._
Ecco l'infelice fine di questo invitto e valoroso Eroe, Principe (se
ne togli la soverchia ambizion di regnare e non avesse avuto l'odio di
più romani Pontefici, che lo dipinsero al Mondo per crudele, barbaro
e senza religione) da paragonarsi a' più famosi Capitani dei secoli
vetusti. Ei magnanimo, forte, liberale ed amante della giustizia, tenne
i suoi Reami in istato florido ed abbondante. Violò solamente le leggi
per cagion di regnare, in tutte le altre cose serbò pietà e giustizia.
Egli dotto in filosofia, e nelle matematiche fu espertissimo, non
pur amante de' Letterati, ma egli ancora litteratissimo, e narrasi
aver composto un _trattato della caccia_, a questi tempi da' Principi
esercitata, ed in sommo pregio, e diletto avuta. Biondo era, e bello di
persona e di gentile aspetto, affabilissimo con tutti, sempre allegro e
ridente, e di mirabile ed ameno ingegno; tanto che non son mancati[108]
chi con ragione l'abbia per la sua liberalità, avvenenza e cortesia,
paragonato a Tito figliuolo di Vespasiano, reputato la delizia del
genere umano. Della sua magnificenza sono a noi rimasti ben chiari
vestigi, il Porto di Salerno, e la famosa città di Manfredonia in
Puglia, che dal suo ritiene ancor ora il nome. E se i continui travagli
sofferti per difendere il Regno dalle invasioni di quattro romani
Pontefici, gli avessero dato campo di poter più attendere alle cose
della pace, di più magnifiche sue opere, e di altri più nobili istituti
avrebbe egli fornito questo Reame.
Intanto l'esercito di Carlo avendo interamente disfatto quello
dell'infelice Manfredi, inoltrossi nel Regno, ed in passando, non vi
fu crudeltà e strage, che i Franzesi non usassero; Benevento andò a
sacco ed a ruba, nè fu perdonato a sesso, nè ad età. Que' Baroni, che
nella pugna non restarono estinti, parte fuggendo scamparono la morte,
e parte inseguiti da quei di Carlo furono fatti prigionieri: alcuni
ne furono mandati prigioni in Provenza, ove gli fece morire d'aspra e
crudel morte; alcuni altri Baroni tedeschi e pugliesi ritenne prigioni
in diversi luoghi del Regno; ed a preghiere di Bartolommeo Pignatelli
Arcivescovo di Cosenza, e poi di Messina, diede libertà a' Conti
Gualvano, e Federico fratelli, ed a Corrado, ed a Marino Capece di
Napoli cari fratelli[109].
Erano intanto scorsi tre giorni, e di Manfredi non s'avea novella
alcuna, tanto che si credea avesse colla fuga scampata la morte; ma
fatto far da Carlo esattissima diligenza nel campo tra' corpi morti
fu finalmente a' 28 di febbraio giorno di domenica, ravvisato il suo
cadavero[110]; e condotto avanti il Re, lo fece Carlo osservare da
Riccardo Conte di Caserta, e dal Conte Giordano Lancia, e da altri
Baroni prigionieri de' quali alcuni timidamente rispondendo, quando
fu esposto agli occhi di Giordano, questi tosto che lo riconobbe,
dandosi colle mani al volto, e gridando altamente, e piangendo se
gli gittò addosso baciandolo, e dicendo: _Oimè, Signor mio, ch'è quel
che io veggio! Signor buono, Signor savio, chi ti ha così crudelmente
tolto di vita! Vaso di filosofia, ornamento della milizia, gloria de'
Regi, perchè mi è negato un coltello, ch'io mi potessi uccidere per
accompagnarti alla morte, come ti sono nelle miserie_[111]; e così
piangendo non se gli potea distaccare d'addosso, commendando que'
Signori franzesi molto cotanta sua fedeltà ed amore verso il morto
Principe. E richiesto Carlo da' Franzesi stessi impietositi del caso
estremo, che lo facesse onorar almeno degli ultimi ufficj, con fargli
dar sepoltura in luogo sacro, si oppose il Legato Appostolico, dicendo
che ciò non conveniva, essendo morto in contumacia di Santa Chiesa;
onde Carlo loro rispose, ch'egli lo farebbe molto volontieri, se non
fosse morto scomunicato. Perlaqualcosa fu il suo cadavero seppellito
in una fossa presso il Ponte di Benevento, ove ogni soldato (affinchè
almeno in cotal guisa fosse noto a' posteri il luogo del suo sepolcro,
e l'ossa non fossero sparse, ma ivi custodite) vi buttò una pietra,
ergendovisi perciò in quel luogo un picciol monte di sassi.
Ma l'Arcivescovo di Cosenza fiero inimico di Manfredi, cui non bastò
la morte per estinguere il suo implacabil odio, ad alta voce gridando
cominciò a dire, che se bene non fosse stato Manfredi sepolto in luogo
sacro, era però stato il suo cadavero posto presso a Benevento, in
terreno ch'era della romana Chiesa; che dovea quel cane morto levarsi
da quel luogo, e portarsi fuori del Regno, e le ossa buttarsi al vento;
del di cui zelo cotanto si compiacque Papa Clemente, che furono l'ossa
dissotterrate ed a lume spento furono trasportate in riva del fiume
_Verde_, oggi appellato _Marino_[112], ed esposte alla pioggia, ed al
vento, tanto che gli abitatori di que' luoghi non poteron mai di quelle
trovar segno, o memoria alcuna[113]. Dante come Ghibellino, avendo
compatimento d'un così miserabil caso, finge Manfredi penitente, e lo
ripone perciò non già nell'Inferno, ma nel Purgatorio, e così gli fa
dire:[114].
_son Manfredi_
_Nipote di Costanza Imperatrice:_
_Ond'io ti priego, che quando tu riedi,_
_Vadi a mia bella figlia, genitrice_
_Dell'onor di Cicilia e d'Aragona,_
_E dichi a lei il ver, s'altro si dice._
_Poscia ch'i' ebbi rotta la persona_
_Di due punte mortali, i' mi rendei,_
_Piangendo, a quei che volentier perdona._
_Orribil furon li peccati miei:_
_Ma la bontà infinita ha sì gran braccia_
_Che prende ciò, che si rivolve a lei._
_Se 'l Pastor di Cosenza, ch'alla caccia_
_Di me fu messo per Clemente allora,_
_Avesse in Dio ben letta questa faccia,_
_L'ossa del corpo mio sariéno ancora_
_In co del Ponte presso a Benevento_
_Sotto la guardia de la grave mora:_
_Or le bagna la pioggia, e move 'l vento_
_Di fuor dal Regno quasi lungo 'l Verde:_
_Ove le trasmutò a lume spento._
_Per lor maladizion sì non si perde,_
_Che non possa tornar l'eterno amore,_
_Mentre che la speranza ha fior del verde._


CAPITOLO IV.
_Re CARLO entrato nel Regno comincia a reggerlo con crudeltà e rigori;
onde il suo governo è abborrito, e gli animi si rivoltano, ed invitano
alla conquista Corradino._

Sparsasi intanto la fama della rotta dell'esercito di Manfredi, e la
sua morte, non fuvvi città così dell'uno, come dell'altro Reame, che
non alzasse le bandiere de' Franzesi.
(Le Lettere del Re Carlo scritte a Clemente, per le quali gli dà avviso
di questa vittoria, sono rapportate, oltre il Summonte, da Lunig[115]).
Tutti gridavano il nome di Carlo, e promettendosi nel nuovo dominio
franchigia e dovizia grande, credevano dover vivere sotto i Franzesi
non solo liberi da straordinarie tasse, ma d'essere ancora liberati
dai pagamenti ordinari. Non era città, ove Carlo conducevasi, che non
fosse ricevuto con segni d'estrema allegrezza, e giubilo. Tosto da
Benevento parte, e viene in Napoli, e non ancor quivi giunto, che i
Napoletani mandarono a presentargli le chiavi della loro città. Entrò
in quella con la Regina Beatrice sua moglie, con gran pompa e fasto,
accompagnato da tutti i Nobili della città, che 'l gridarono loro
Re, e dall'Arcivescovo di Cosenza assistito, si portò nel Duomo di
S. Restituta a render grazie al Signore di così segnalata vittoria.
Creò da poi Principe di Salerno Carlo suo figliuol primogenito il
quale uscito da Napoli cavalcò per tutto 'l Reame per affezionarsi i
nuovi vassalli: e con non interrotto corso di felicità tutte le cose
succedono ai loro desiderii. Le reliquie del rotto esercito erano
ritirate in Lucera, dove anche erasi salvata la Reina Elena moglie di
Manfredi con Manfredino suo picciolo figliuolo, ed una figliuola[116].
Re Carlo tosto mandò ivi Filippo di Monforte con la maggior parte
dell'esercito ad assediarla, ma difendendosi i Saraceni, ch'erano
dentro, valorosamente, bisognò abbandonar l'impresa, lasciandola
però strettamente assediata, la qual città insieme colla Regina e 'l
figliuolo non si rese, se non dopo la rotta data a Corradino, come
diremo.
I Siciliani ancora, intesa la morte di Manfredi, subito alzarono le
bandiere Franzesi, ed i primi furono i Messinesi. Mandò perciò Re Carlo
Filippo di Monforte in quell'isola, e non passò guari, che tutta la
ridusse sotto l'ubbidienza di Carlo[117].
Ecco come in un tratto si rese Carlo Signore di ambedue questi Reami,
con allegria e giubilo de' Popoli, che si credeano liberati dal giogo,
come dicevano, del Re Manfredi e de' Saraceni, e di vivere sotto il
Regno di Carlo franchi d'ogni pagamento, in una perpetua ricchezza, ed
in una tranquilla e quieta pace.
Ma restarono tosto delusi, poichè i Franzesi scorrendo per tutti i
luoghi, portavano co' loro transiti danni e ruine insopportabili agli
abitatori[118]. Ed il Re chiamando i Baroni dell'uno e l'altro Regno,
che venissero a servirlo, impose ancora un pagamento straordinario
alle terre del Regno contro la loro espettazione e lusinga, falsamente
stimando, che non solo non s'avessero da veder più soldati, nè pagar
pesi estraordinarj, ma d'essere ancora liberati dagli ordinarj. Ma il
novello Re all'incontro badando unicamente ad arricchire per questi
mezzi il suo Erario, chiamò a questo fine tutti i Tesorieri e Camerari
del Regno, e volle da quelli essere minutamente informato de' proventi
del Regno, degli Ufficj, delle giurisdizioni, e di tutte altre sue
ragioni del Regno; e poichè era stato informato, che un di Barletta
nomato Giezolino della Marra era di queste cose instruttissimo, e
che per tal cagione da Manfredi era stato adoperato in simili affari,
valendosi della di lui opera per le nuove imposizioni d'angarìe, taglie
e contribuzioni; fecelo a se venire, il quale per applaudir all'avidità
sua ed acquistarsi perciò merito presso il novello Principe, portogli
non solo tutti i Registri, ove erano notati i proventi degli Ufficj,
delle giurisdizioni, e delle altre ragioni regie; ma anche i registri,
ov'erano rubricate tutte le estraordinarie imposizioni d'angarìe,
parangarìe, collette, taglie, donativi, e contribuzioni, colle quali
sovente erano stati oppressi i miseri Regnicoli[119]. Furon tali
le insinuazioni, ed i consigli di Giezolino, che Carlo per porgli
più speditamente in opera levò tutti gli Ufficiali, che prima erano
nelle province, e creò nuovi Giustizieri, Ammirati[120], Protonotari,
Portolani, Doganieri, Fondachieri, Secreti, Mastri Giurati, Mastri
Scolari, Baglivi, Giudici e Notari per tutto il Regno, a' quali
prepose altri Ufficiali maggiori che sopra di loro invigilassero.
Questi esercitando le loro commissioni con inudita acerbità e rigore,
gravarono di peso insopportabile i Popoli, scorticandogli e cavando
loro il sangue e le midolle[121].
Ecco ora mutati i giubili in continui lamenti, gemono sotto il grave
giogo i Regnicoli, e tosto mutano volere, e desiderano già, e sospirano
Manfredi. In ogni angolo si sentono lagrimevoli querele: _O Rex
Manfrede_ (con amaro pianto dicevano) _temet non cognovimus, quem nunc
et ter etiam deploramus. Te lupum credebamus rapacem inter oves pascuae
huius Regni, secuti spem praesentis dominii, quod de mobilitatis, et
inconstantiae more sub magnorum profusione gaudiorum anxie morabamur,
agnum mansuetum te jam fuisse cognoscimus, dulcia tuae potestatis
mandata sentimus, dum alterius, et majora gustamus. Conquerebamur
frequentius nostram partem, partem in dominii tuae Majestatis adduci,
nunc autem omnia bona, quod prius est, et personas alienigenarum
convertere debemus in praedam_[122].

§. I. _Invito di CORRADINO in Italia; e mal successo della sua
spedizione._
Da' lamenti si venne alle mormorazioni, e finalmente alla risoluzione
di chiamar Corradino da Alemagna per discacciare i Franzesi. Molti
Baroni così di questo Reame, come di quello di Sicilia, s'accingono
all'impresa, e istigano ancora, oltre i fuggitivi ed i raminghi,
tutti i Ghibellini di Lombardia, e di Toscana a far il medesimo,
a' quali, per maggiormente stimolargli, espongono l'insopportabile
dominio de Franzesi[123]. Que' che sopra gli altri si distinsero in
questa mossa, furono i Conti Gualvano, e Federico Lancia fratelli, e
Corrado, e Marino Capeci: costoro si portarono in Alemagna a sollecitar
Corradino[124] unico rampollo di tutta la posterità di Federico.
Mandarono ancora, per quest'istesso fine, molte città imperiali i
loro Ambasciadori, i Pisani, i Sanesi, ed altri Ghibellini, e con le
promesse ed esibizioni, portarono ancora molto denaro per agevolar la
venuta.
Era Corradino giovanetto di quindici anni: perciò sua madre Elisabetta
di Baviera troppo amandolo temea esporlo a tanti pericoli per una
impresa reputata malagevole; ma Corradino spinto da generoso cuore
ruppe ogni indugio, ed abbracciò l'invito, stimolato ancora dal Duca
d'Austria ancor egli giovanetto, che s'offerse venir ancora in sua
compagnia a riporlo nei paterni Regni; e Corrado Capece tosto da
Alemagna ne diede avviso in Sicilia.
S'accinse intanto Corradino al viaggio, e nel principio dell'inverno di
quest'anno 1267 partì da Alemagna conducendo seco il Duca d'Austria,
ed un esercito di diecimila uomini a cavallo, e per la via di Trento
nel mese di febbraio giunse a Verona; ove convocò tutti i Principi
della parte Ghibellina, che l'aveano sollecitato a venire; e presa
risoluzione, che dovessero passare per la via di Toscana, si mosse
da Verona, ed inviando la maggior parte dell'esercito per la via di
Lunigiana, egli col resto tolse la via di Genova, ed in pochi dì giunse
a Savona, dove ritrovò l'armata de' Pisani, nella quale s'imbarcò ed
andò a Pisa. I Pisani l'accolsero con molto onore ed amorevolezza, lo
providero di denari, e gli mostrarono l'armata, che volevan mandare a
sollevare le terre marittime d'ambedue i Reami.
Giunto per tanto Corradino a Pisa insieme con molti Principi
d'Alemagna, e con Corrado Capece di Napoli, costui cercò a' Pisani
che gli dessero navi per poter tragittare in Tunisi a sollecitare
il soccorso de' Saraceni. Erano in Tunisi agli stipendj di quel Re,
Federico, ed Errico di Castiglia[125], i quali lividamente invidiando
la grandezza e prosperità del Re di Castiglia lor fratello, si
tirarono sopra l'indignazione del medesimo, onde cacciati di Spagna
militavano in Tunisi sotto gli stipendj di quel Re. E per la continua
conversazione, che tenevano co' Saraceni, eransi quasi dimenticati
della religione cristiana, e ne' costumi poco differivano da' Saraceni
medesimi[126]. Federico era in Tunisi quando vi giunse Corrado, dal
quale informato delle cose di Corradino, l'indusse a prendere la
difesa, e proccurare presso quel Re valido soccorso. Ma Errico per
la sua natural superbia ed ambizione, entrato in sospetto del Re di
Tunisi, era passato a trovar Carlo in Italia, e poi con finzioni ed
astuzie si mise a tentare nella Corte di Roma i suoi avanzamenti; per
la qualità de' suoi natali fu ricevuto onorevolmente da que' Ministri,
e pose in trattato la pretensione, che promovea del Regno di Sardegna.
Giunto a Roma, colle sue arti e macchinazioni, seppe far tanto, che
ancorchè non vi concorresse buona parte di que' Nobili romani, e de'
Cardinali, si fece eleggere Senatore di quella città[127]. Fu prima
amico di Carlo, che gli era cugino, da cui sperava col favor suo
qualche Stato in Italia: ma vedendolo troppo ingordo di Signorie, e
che voleva ogni cosa per se, cominciò ad odiarlo e ad invidiar la sua
grandezza e cercar opportunità di ruinarlo. Altamente ancora si dolea
di lui, che avendolo soccorso di molti denari quando era in bassa
fortuna e quando calò in Italia contro Manfredi, da poi salito in tanta
grandezza e con tante dovizie, che con facilità potea restituirglieli,
non volea in conto alcuno renderglieli. Avendo adunque avuta novella
dell'invito fatto a Corradino in Italia, credette aver nelle mani
opportuna occasione di vendicarsi di Carlo, ed insieme collegandosi con
Corradino, si pose in isperanza d'ottener da lui quello che non avea
potuto ottener da Carlo; mandò perciò più lettere e messi a Corradino,
affinchè si sollecitasse a venire, perchè egli avrebbegli facilitata
l'impresa, desiderando il suo arrivo più che tutti i Regnicoli, Roma e
tutta l'Italia, e sperava con certezza discacciarne i Franzesi.
Intanto Corradino sollecitato per queste lettere d'Errico, era, come si
è detto, calato in Pisa, e per maggiormente istigare i Popoli d'Italia,
e del Reame di Puglia e di Sicilia, fece spargere da per tutto più
esemplari di un suo _Manifesto_[128], ove querelandosi acerbamente di
quattro romani Pontefici, e di due Re, Manfredi e Carlo, invita i suoi
devoti a dar mano all'espulsione de' Franzesi da' suoi Reami di Puglia
e di Sicilia.
Non si può credere che grandi movimenti fece in Sicilia, Puglia e
Calabria questa Scrittura: tutti gridavano il nome di Corradino; ed a
questi stimoli si aggiunse un fatto d'arme accaduto al Ponte a Valle
vicino Arezzo; poichè proccurando Guglielmo Stendardo e Guglielmo di
Biselve, Capitani di molta stima del Re Carlo, impedire il passaggio
all'esercito di Corradino, furono rotti, ed appena Guglielmo Stendardo
si salvò con 200 lance, ed il Biselve restò prigione con alcuni pochi
Cavalieri franzesi, ch'erano rimasti vivi.
La novella di questa rotta sparsa dalla fama per tutto il Regno di
Puglia e di Sicilia, ed ingrandita assai più del vero, trovando gli
animi già disposti, sollevò quasi tutte le province; ed i Saraceni,
ch'erano soliti sotto l'Imperador Federico, e Re Manfredi d'esser
stipendiati, rispettati ed esaltati con dignità civili e militari, e
non poteano soffrire di stare in tanto bassa fortuna sotto l'imperio
del Re Carlo, preso vigore, fecero sollevar Lucera, la quale inalberò
tosto le bandiere di Corradino. Seguirono il di lui esempio quasi
tutte l'altre città di Puglia, di Terra d'Otranto, di Capitanata
e di Basilicata, ed era veramente cosa da stupire, vedere tanta
volubilità, e leggerezza in que' medesimi Popoli, i quali poc'anzi
ardentemente desideravano la venuta di Carlo co' suoi Franzesi, ed
ora averne cotanto abborrimento, invocando incessantemente il nome
di Corradino; dal che, e da molti altri esempi passati, e da quelli
che si leggeranno, ne nacque, così presso gli antichi Storici, che
moderni, quell'opinione de' nostri Regnicoli, d'essere i più volubili
ed incostanti, e che sovente, tosto infastiditi di un dominio, ne
desiderano un nuovo. Taccia, la quale nemmeno Scipione Ammirato[129]
ne' suoi Ritratti, osò di negarla a' nostri Regnicoli; e della quale
mal seppe difendergli Tommaso Costa in quella sua infelice _Apologia
del Regno di Napoli_.
Re Carlo stupiva pure di tanta volubilità, non men de' Regnicoli,
che della sua fortuna: e posto in gran pensiero, era tutto inteso di
accrescere il suo esercito, per andare ad opporsi a Corredino, il quale
a grandi giornate se ne calava a Roma, ove da Errico di Castiglia e da'
Romani era aspettato, per entrare per la via d'Abruzzi nel Regno.
Intanto Papa Clemente ch'era a Viterbo, avendo inteso i progressi di
Corradino in Italia ed i moti del Regno, per opporsi dal suo canto
in ciò che poteva, non avea mancato, tosto che Corradino giunse in
Verona ed in Pavia, di scrivere calde e premurose lettere a varie città
d'Italia inculcando loro, che non aderissero a Corradino; ma scorgendo,
che queste lettere producevan poco frutto, volle vedere se per un altro
verso potesse spaventarlo.
(Oltre di queste lettere scrisse pure ne' precedenti mesi una terribile
lettera all'Arcivescovo di Magonza perchè dichiarasse pubblicamente
scomunicato Corradino, co' suoi, che affettava invadere il Regno di
Sicilia, che si legge presso Lunig[130].).
Gli spedì per tanto in aprile di quest'istesso anno 1267 una terribile
citazione, colla quale se gli prescriveva certo tempo a dover comparire
avanti di lui, se avesse pretensione alcuna sopra i Reami di Puglia
e di Sicilia, e che non cercasse di farsi egli stesso giustizia colle
armi, ma proponesse sue ragioni avanti la Sede Appostolica, che glie
la avrebbe renduta; altrimente non comparendo, avrebbe contro di
lui proferita la sentenza. Corradino non comparve già, ma proseguì
armato il suo cammino; ed egli nella Cattedral Chiesa di Viterbo a'
28 aprile alla presenza di tutto il Popolo pronunziò la sentenza.
Da poi invitò Carlo a venir a Viterbo, dove s'abboccarono insieme,
e lo fece Governadore di Toscana; e poichè l'Imperio d'Occidente
vacava, lo creò egli Paciero, ovvero Vicario Generale dell'Imperio.
All'incontro a' 29 giugno nella festa degli Appostoli Pietro e Paolo,
con grande apparato e celebrità scomunicò pubblicamente Corradino, e
lo dichiarò nemico e ribelle della romana Chiesa, e decaduto da tutte
le sue pretensioni[131]. Scrisse ancora a Fr. Guglielmo di Turingia
Domenicano, che scomunicasse tutti coloro che non volessero prestar
ubbidienza a Carlo; ed all'incontro ricolmasse di benedizioni ed
indulgenze quelli, che per lui prendessero l'arme contro Corradino.
E dopo tutto questo, essendosi reso certo, che erasi confederato
con D. Errico di Castiglia, lo scomunica di nuovo la seconda volta.
Ma Corradino poco curando di questi fulmini, non s'atterrisce, e
fermo nel proponimento bada unicamente ad unir gente, e denaro per
l'impresa[132].
Dall'altra parte Corrado Capece, e D. Federico fratello di Errico,
ch'erano ancora a Tunisi, seguendo le buone disposizioni di
quest'impresa, partirono da Tunisi con 200 Spagnuoli, ed altrettanti
Tedeschi, e 400 Turchi, che teneva a' suoi stipendj quel Re, e si
portarono in Sicilia. Corrado giunto a Schiacca, pubblicandosi Vicario
di Corradino, sparge lettere per tutta quell'Isola, sollevando que'
Popoli a ricevere il loro Re Corradino, che con numeroso esercito
veniva. Le lettere erano dettate in questo tenore: _Ecce Rex noster
cito veniet in celebri, etc._ e sono rapportate da Agostino Inveges. Le
quali furono cotanto efficaci, che in brieve, avvalorate dal coraggio
di Capece, quasi tutta la Sicilia alzò le bandiere di Corradino, tanto,
che Fulcone Vicario in quell'Isola per Re Carlo restò sorpreso, e
volendo colle armi frenar la sollevazione, furono le sue truppe rotte,
ed egli obbligato colle sue genti a mettersi in fuga. E qui terminando
l'_Anonimo_ la sua Cronaca, si ricorrerà ora al _Villani_, ed agli
Scrittori non meno diligenti che fedeli rapportatori de' successi di
questi tempi.
Papa Clemente avendo nel nuovo anno 1298 intesa la rotta di Fulcone in
Sicilia, bandì la _Crociata_, e scomunicò tutti coloro, che assalivano
la Sicilia di qua e di là dal Faro. A Corradino mandò nuovamente suoi
Legati, perchè tosto uscisse d'Italia. Questi non ubbidendo, lo priva
del Regno di Gerusalemme, lo dichiara inabile all'Imperio e ad ogni
altro Regno. Scomunica di nuovo tutti i Popoli, le città e tutte le
terre, che 'l favorissero. Fulminò anche scomunica contro D. Errico,
e lo priva della dignità Senatoria, conferendola al Re Carlo per dieci
anni.
Ma Corradino, niente di ciò curandosi, prosiegue il suo viaggio, e
giunto a Roma, fu ricevuto in Campidoglio dal Senatore Errico e da'
Romani con gran pompa ed allegrezze a guisa d'Imperadore; ed ivi
ragunata molta gente e denaro, unito con D. Errico e colle sue truppe,
inteso ancora i moti delle città e Baroni del Regno, si partì da Roma
a' 10 d'Agosto con D. Errico e i suoi Baroni, e con molti Romani, nè
volle far la via di Campagna, sapendo che il passo di Cepperano era
ben guardato, ma prese la via delle montagne tra Abruzzo e Campagna,
conducendo il suo esercito per luoghi non guardati e freschi,
abbondanti di carni e di strame, e d'acque fresche, che fu a' Tedeschi
impazienti del caldo di grandissimo ristoro, e finalmente nel piano di
Tagliacozzo collocò il suo esercito.
Il Re Carlo dall'altra parte, avendo ordinato a Ruggiero Sanseverino,
che con buon numero di altri Baroni suoi partigiani tenessero a
freno i sollevati; egli con tutte le sue forze cavalcò da Capua per
andare ad opporsi a Corradino; ma accadde, che in quelli dì capitò
in Napoli _Alardo di S. Valtri_, Barone nobilissimo Franzese, che
veniva d'Asia, dove con somma sua gloria avea per venti anni continui
militato contro Infedeli, ed ora già fatto vecchio ritornava in Francia
per morire nella sua patria. Costui non ritrovando il Re in Napoli,
andò a ritrovarlo a Capua, dove era coll'esercito: Re Carlo, quando
il vide, si rallegrò molto, e subito disegnò di valersi della virtù
di tal uomo e del suo consiglio, e lo pregò che volesse fermarsi ad
ajutarlo in sì gran bisogno: e bench'egli si scusasse, che per la
vecchiezza avea lasciato l'esercizio delle armi, e s'era ritirato ad
una vita cristiana, e che non conveniva, che avendo spesa la gioventù
in combattere con Infedeli, alla vecchiezza avesse da macchiarsi del
sangue de' Cristiani: nulladimanco avendogli Carlo dato a sentire,
che militando contro Corradino, pure militava contro gl'Infedeli,
essendo ribelle del Papa, scomunicato, e fuori della Chiesa, oltre che
il Re di Francia l'avrebbe sommamente gradito; tanto fece, fin che lo
strinse a restare; e sentendo che Corradino era alloggiato nel piano di
Tagliacozzo, volle che l'esercito di Carlo da lui guidato s'accampasse
forse due miglia lontano da quello: da poi con pochi cavalli salito in
un poggio, e considerato bene il campo de' nemici, s'avvide l'esercito
suo esser di numero molto inferiore di quello di Corradino, e perciò
dover sperarsi più nella prudenza ed astuzie militari, che nella
forza; ed avendo appiattato il terzo squadrone dietro ad una valle,
fece presentare la battaglia al nemico, il quale avidamente la ricevè,
sdegnato dall'ardire dei Franzesi, che con tanto disvantaggio di numero
venivano a far giornata. Si attaccò il fatto d'arme, ed ancor che i
Franzesi con due soli squadroni valorosamente sostenessero l'impeto
de' nemici, a lungo andare bisognò che cedessero, facendosi una strage
crudele de' Franzesi. Re Carlo che con Alardo sopra il Poggio vedea
la ruina de' suoi, ardeva di desiderio d'andare a soccorrergli, ma fu
ritenuto da Alardo, e pregato che aspettasse il fine della vittoria,
la quale avea da nascere dalla rotta de' suoi, siccome avvenne; poichè
cominciando i Franzesi a gettar l'arme, a rendersi prigioni, e gli
altri a fuggire, le genti di Corradino, credendosi aver avuta intera
vittoria, si dispersero, parte si misero ad inseguire i fuggitivi,
altri attendevano a spogliare i Franzesi morti ed a seguitare i cavalli
degli uccisi, ed altri a menare i prigioni. Allora Alardo volto al Re
Carlo, disse: _Andiamo, Sire, che la vittoria è nostra_; e discendendo
al piano con lo terzo squadrone, che era rimaso nella Valle, diedero
con grand'impeto sopra l'esercito nemico in varie parti diviso, ed
agevolmente lo posero in rotta, e spinti innanzi, trovarono, che
Corradino e 'l Duca d'Austria, e la maggior parte de' Signori ch'erano
con lui, certi della vittoria, s'aveano levati gli elmi, e stavano
oppressi dalla stanchezza e dal caldo; e non avendo nè tempo, nè vigore
da riarmarsi, si diedero a fuggire, e nella fuga ne fu gran parte
uccisa.
Corradino ed il Duca d'Austria, col Conte Gualvano ed il Conte
Girardo da Pisa pigliaron la via della marina di Roma, con intenzione
d'imbarcarsi là, ed andare a Pisa; e camminando di giorno e di notte,
vestiti in abito di contadini, arrivarono in Astura, terra in quel
tempo de' Frangipani nobili Romani: dove con acerbo lor destino a caso
scoverti, furono da uno di que' Signori fatti prigioni, e di là a poco
condotti e consignati a Re Carlo, che gli mandò prigioni in Napoli,
e gradì questo dono, come preziosissimo, donando a quel Signore la
Pelosa ed alcune altre castella in Valle Beneventana, e volle, che
si fermasse in Napoli: da cui discesero i Frangipani che goderono gli
onori lungamente del Seggio di Portanova di Napoli.
D. Errico di Castiglia, mentre fuggiva, fu incontrato dalle genti di
Carlo, i quali ruppero le sue truppe, e ne fecero molti prigioni; ed
egli si salvò fuggendo per beneficio della notte. Alcuni narrano, che
si ricovrò in Monte Cassino, ove da quell'Abate, che credette farsi
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