Istoria civile del Regno di Napoli, v. 5 - 05

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nulladimanco stimolato da Beatrice sua moglie, la quale non poteva
soffrire, che tre sue sorelle fossero l'una Regina di Francia, l'altra
d'Inghilterra e l'altra di Germania, ed ella, che avea avuto maggior
dote di ciascuna di loro, essendo rimasta erede di Provenza e di
Linguadoca, non avesse altro titolo che di Contessa, vedendo suo marito
così sospeso, gli offerse tutto il tesoro, tutte le cose sue preziose,
fino a quelle, che servivano per lo culto della sua persona, purchè
non lasciasse una impresa così onorata. Mosso adunque non meno dal
desiderio di soddisfare alla moglie, che dalla cupidità sua di regnare,
rispose all'Arcivescovo, ch'egli ringraziava il Papa di così amorevol
offerta, e che accordate che si fossero le condizioni dell'investitura
non sarebbe rimasto altro, che di parlarne al Re di Francia suo
fratello, il quale sperava, che non solo gli avrebbe dato consiglio
d'accettare l'impresa, ma favore ed ajuto di poter più presto e con più
agevolezza condurla a fine.
Ed essendosi cominciato a trattar delle condizioni, che il Papa voleva
imporre su i due reami di Sicilia e di Puglia, si vide, che Urbano
voleva investirne Carlo, ma con quelle condizioni, colle quali erasi
stabilita la pace tra Manfredi ed il Cardinal Ottaviano allora Legato
Appostolico, cioè che _Napoli, e tutta la provincia di Terra di Lavoro,
colle sue città e terre e l'isole adjacenti, come Capri e Procida,
Benevento col suo territorio e Val di Guado_ restassero alla Chiesa
romana: e tutte l'altre province, coll'isola di Sicilia si sarebbero a
lui per investitura concedute.
Mostrate al Conte queste condizioni, non volle in conto alcuno
accettarle, e dal suo canto all'incontro si fecero alle medesime queste
modificazioni: _Ch'egli non avrebbe inclinato ad accettar l'impresa,
se non se gli fosse conceduto interamente il Regno di Sicilia, con
tutta la terra di quà dal Faro insino alli confini dello Stato della
Chiesa_; siccome lo possederono i Re normanni e svevi: di manierachè,
eccettuatane la _città di Benevento, con tutti i suoi distretti
e pertinenze_, niente dell'altre terre sarebbe rimasto alla Sede
Appostolica se non il _censo_, ch'egli avrebbe pagato ogni anno di
_diecemila once d'oro_[84].
E perchè premeva ad Urbano di non differir di vantaggio quest'affare;
poichè in altra maniera non si sarebbe potuto scacciar Manfredi dal
Regno; fu contento di moderare secondo il volere di Carlo le condizioni
suddette; onde conchiuso il trattato in cotal modo, scrisse anche al
Re Lodovico, che desse ajuto a Carlo suo fratello, significandogli per
altra lettera, che i denari che fosse per somministrargli, si sarebbon
presi per titolo di prestanza, con animo di restituirgli. Il Re Luigi
non potè resistere a tanti impulsi, e di mala voglia fu alla perfine
costretto a dar il consenso che suo fratello accettasse l'invito.
Questa memoranda deliberazione, siccome fu cagione della fatal ruina
della casa di Svevia, così ancora non può negarsi, ciò che da' savj
politici fu ponderato, che portasse insieme la cagione non pur di tanti
travagli e desolazioni della casa stessa d'Angiò, ma anche tante spese
e tante inutili spedizioni alla Corona di Francia la quale per lo corso
di più secoli si vide impegnata perciò a sostener molte dispendiose
guerre, le quali riuscitele sempre con infelice successo, le han
portato dispendii ed incomodi gravissimi; essendo cosa, e per gli
antichi e nuovi esempi pur troppo nota, che cominciandosi da Gregorio
M. tutti i Papi suoi successori, ancorchè invitassero molti Principi
alla conquista, ebbero poi quegli stessi invitati per sospetti,
quando gli vedevano prosperati, e a maggior fortuna arrivati; onde ne
invitavano altri per discacciar i primi, per la qual cagione il nostro
Reame fu miseramente afflitto, e reso teatro d'aspre e di crudeli
guerre.
Ma mentre il Legato Appostolico era di ritorno in Italia, portando la
novella della venuta di Carlo, ecco che Urbano dimorando in Perugia, se
ne muore in quest'anno 1264 ciò che impedì per allora il passaggio di
Carlo in Italia.


CAPITOLO II.
_Spedizione di CLEMENTE IV e conquiste di CARLO D'ANGIÒ, da lui
investito del Regno di Puglia e di Sicilia._

Re Manfredi intesa la morte di Papa Urbano ne prese grandissimo
piacere, sperando esser in tutto fuor di pericolo, non meno per
le discordie che a quei tempi soleano sorgere tra' Cardinali per
l'elezione, onde nasceva lunga vacazione della Sede Appostolica, che
per la speranza avea che fosse eletto alcun Italiano, il quale non
avesse interesse co' Franzesi, e che avesse abborrimento d'introdur
gente oltramontana in Italia; ma restò di gran lunga ingannato,
perocchè i Cardinali, che si trovavano averlo offeso e dubitavano, che
egli ne avesse presa vendetta, studiaronsi di creare un Papa d'animo
e di valore simile al morto: e di comune consenso a febbrajo del
nuovo anno 1265 crearono Papa il Cardinal di Narbona. Costui non solo
era di nazione franzese, ma vassallo di Carlo[85]: ebbe già moglie
e figliuoli; e fu uno de' primi Giureconsulti della Francia: fu poi,
morta sua moglie, fatto Vescovo di Pois, indi di Narbona, ed appresso
Cardinale, ed ora si trovava Legato in Inghilterra. Tosto che seppe
l'elezione, partissi di Francia, ed in abito sconosciuto di mendicante,
secondo il Platina, o di mercatante, come vuol Collenuccio, venne a
Perugia, ove da' Cardinali con somma riverenza ricevuto, fu adorato
Pontefice e chiamato Clemente IV; indi con molto onore a Viterbo 'l
condussero.
La prima cosa, che e' trattò nel principio del suo Ponteficato, spinto
da natural affezione che la Nazion franzese suol portare a' suoi
Principi, fu la conclusione di seguitare quanto per Papa Urbano suo
predecessore era stato cominciato a trattare con Carlo d'Angiò, per
mezzo dell'Arcivescovo di Cosenza.
(Clemente IV successore d'Urbano, rivocò prima l'investitura data ad
Edmondo; e la Bolla di questa rivocazione è rapportata da Lunig[86];
e da poi nell'istesso anno 1265 investì del Regno Carlo d'Angiò, e la
Bolla di questa investitura con tutti i suoi patti e gravami, si legge
pure presso Lunig[87], siccome anche il giuramento dato da Carlo nel
1266 a Viterbo, pag. 979).
E perchè trovò il Collegio tutto nel medesimo proposito, mandò subito
con gran celerità l'Arcivescovo a sollecitare la venuta di Carlo.
Confermò ancora il Cardinal Simone di S. Cecilia Legato in Francia,
dal suo predecessore eletto; e gli scrisse che assolvesse tutti i
_Crocesignati_ Franzesi per Terra Santa, commutando loro il voto nella
conquista di Sicilia, come si raccoglie da un'epistola di Clemente
stesso riferita da Agostino Inveges[88]. Scrisse ancora al S. Re
Lodovico, che desse aiuto a Carlo suo fratello; ed essendosi renduto
certo, che così il Conte di Provenza, come il Re suo fratello erano
disposti per l'impresa, commise al Cardinal di Tours, che accordasse
i patti, co' quali egli voleva, che si fosse data l'investitura;
ed ancorchè non potesse alterar niente di ciò ch'erasi convenuto
con Urbano sopra le modificazioni già fatte, nulladimanco, ora che
vide Carlo impegnato, volle di gravi e pesanti condizioni obbligarlo
nell'istesso tempo che gli dava l'investitura.
Aveva Urbano, come si è detto, tentato in questa nuova investitura
che s'offeriva al Conte di Provenza, ricavarne per la Sede Appostolica
gran profitto, proccurando allora con ogni industria, che la provincia
di Terra di Lavoro con Napoli e l'isole adiacenti, non altrimente che
Benevento, fosse eccettuata e si aggiudicasse alla Chiesa; ma Carlo
non volle sentir parola: poichè finalmente non se gli concedeva un
Regno, la cui possessione fosse vacante, ma dovea egli colle sue forze
discacciarne il possessore Manfredi, ed il Papa non vi metteva altro
che benedizioni ed indulgenze ed un poco di carta per l'investitura;
poichè le sue forze erano così deboli, che non poteva nemmeno
mantenersi in Roma. Clemente per tanto, non potendo appropriar a se
quella provincia, proccurò almeno gravare l'investitura di tanti patti
e condizioni, che veramente rese il nuovo Re ligio, spogliandolo di
molte prerogative, delle quali prima eran adorni i predecessori Re
normanni e svevi.
I Capitoli stipolati e giurati da Carlo, nel modo che il Papa gli avea
cercati, secondo che vengono rapportati dal Summonte, da Rainaldo[89]
e da Inveges, sono i seguenti.
I. Fu da Clemente investito Carlo Conte di Provenza del Regno di
Sicilia _ultra_ e _citra_, cioè di quell'isola e di tutta la terra,
ch'è di quà dal Faro insino a' confini dello Stato della romana Chiesa,
eccetto la città di Benevento con tutto il suo territorio e pertinenze:
e ne fu investito _pro se, descendentibus masculis, et foeminis:
sed masculis extantibus, foeminae non succedant; et inter masculos,
primogenitus regnet. Quibus omnibus deficientibus, vel in aliquo
contrafacientibus, Regnum ipsum revertatur ad Ecclesiam Romanam_[90].
II. Che non possa in conto alcuno dividere il Regno.
III. Che debba prestar il giuramento di fedeltà e di ligio omaggio alla
Chiesa romana.
IV. Atterriti i romani Pontefici di ciò che aveano passato co' Svevi,
che furono insieme Imperadori e Re di Sicilia, in più capitoli volle
convenir Clemente, che Carlo non aspirasse affatto, o proccurasse
farsi eleggere o ungere in Re ed Imperador romano, ovvero Re de'
Teutonici, o pure Signore di Lombardia, o di Toscana, o della maggior
parte di quelle Province, e se vi fosse eletto, e fra quattro mesi non
rinunziasse, s'intenda decaduto dal Regno.
V. Che non aspiri ad occupar l'Imperio romano, il Regno de' Teutonici,
ovvero la Toscana e la Lombardia.
VI. Che se accaderà, stante le contese ch'allora ardevano per
l'elezione dell'Imperadore d'Occidente, che fosse eletto Carlo, debba
alle mani del romano Pontefice emancipar il suo figliuolo, che dovrebbe
succedergli, ed al medesimo rinunciar il Regno, niente presso di se
ritenendosene.
VII. Che il Re maggiore d'anni 18 possa per se amministrare il Regno,
ma essendo minore di quest'età, non possa amministrarlo; ma debbasi
porre sotto la custodia e Baliato della romana Chiesa, insino che il Re
sarà fatto maggiore.
VIII. Che se accadesse una sua figliuola femmina casarsi
coll'Imperadore, vivente il padre, e quegli defunto, rimanesse ella
erede, non possa succedere al Regno; e se deferita a lei la successione
del Regno, si casasse coll'Imperadore, cada dalle ragioni di succedere.
IX. Che il Regno di Sicilia non si possa mai unire all'Imperio.
X. Che sia tenuto pagare per lo censo ottomila once d'oro l'anno nella
festa de' SS. Pietro e Paolo in tre termini, e mancando decada dal
Regno; e di più un palafreno bianco, bello, e buono; e più, secondo
un istromento che si legge nel regale Archivio[91], che fecero li
Tesorieri del Re Carlo I nell'anno 1274 con alcuni Mercatanti di
pagare alla Sede Appostolica ottomila once d'oro per questo censo, si
vede, che seimila si pagavano per lo Regno di Puglia, e duemila per
l'isola di Sicilia. Del che furono i Pontefici sì rigidi esattori, che
nell'anno 1276 strinsero in maniera il Re Carlo, che trovandosi in Roma
e senza danari, fu forzato scrivere in Napoli ai suoi Tesorieri, che
impegnassero a' Mercatanti la sua Corona grande d'oro, e tante delle
sue gioje ed oro, che abbiano in presto ottomila once d'oro, e che
gliele mandino subito in Roma per doverle pagare alla Sede Appostolica
per lo censo di quell'anno[92].
XI. Che debba pagare alla Chiesa romana 5000 marche sterline ogni sei
mesi.
XII. Che in sussidio delle terre della Chiesa, a richiesta del
Pontefice, sia tenuto mandare 300 Cavalieri ben armati; in guisa che
ciascuno abbia da mantenere a sue spese almeno tre cavalli per tre mesi
in ciaschedun anno; ovvero si possano commutare in soccorso di Navi.
XIII. Che debba stare a quello diffinirà il Pontefice sopra la
determinazione de' confini da farsi di Benevento.
XIV. Che dia sicurtà a' Beneventani per tutto il Regno; ed osservi i
loro privilegi; e che permetta di poter disponere liberamente de' loro
proprj beni.
XV. Che non possa nelle terre della Chiesa romana acquistar cos'alcuna
per qualunque titolo, nè ottenere in quelle Rettorìa o altra
Podestarìa.
XVI. Che s'abbiano a restituire alle Chiese del Regno tutti i beni, che
alle medesime furono tolti.
XVII. Che tutte le Chiese e' loro Prelati e Rettori godano della
libertà ecclesiastica, e particolarmente nelle elezioni, ristabilendo
Clemente ciocchè Alessandro IV avea aggiunto nell'investitura data
ad Edmondo figliuolo del Re d'Inghilterra; cioè che il Re e suoi
successori non s'intromettano nelle elezioni, postulazioni e provisioni
de' Prelati, in guisa che, _nec ante electionem, sive in electione,
vel post Regius assensus, vel consilium aliquatenus requiratur_[93];
soggiungendosi però che ciò non abbia a pregiudicare al Re e suoi
eredi, in quanto s'appartiene _in jure patronatus, si quod Reges
Siciliae, seu ejusdem Regni, et Terrae Domini, hactenus in aliqua, vel
aliquibus Ecclesiarum ipsarum consueverunt habere: in tantum tamen,
in quantum Ecclesiarum patronis canonica instituta concedunt_; siccome
perciò non furono esclusi i Re, sempre che la persona eletta fosse loro
sospetta d'infedeltà, d'impedire il possesso e concedere il _placito
Regio_ alle Bolle di provisione, come altrove diremo.
XVIII. Che le cause ecclesiastiche saranno trattate innanzi agli
Ordinarj; e per appellazione alla Sede Appostolica.
XIX. Che abbia a rivocare tutti gli Statuti emanati contra la libertà
ecclesiastica.
XX. Che i Cherici nè per le cause civili nè per le criminali si possano
convenire avanti il Giudice secolare, se non si trattasse civilmente di
cause attinenti a' Feudi.
XXI. Che niuno imponga taglie alle Chiese.
XXII. Che nelle Chiese vacanti non possa pretendere, ed avere nè
_regalie_, nè _frutti_.
XXIII. Che gli esiliati della Sicilia si riducano nel Regno, secondo
che comanderà la Chiesa romana.
XXIV. Che non faccia lega o confederazione con alcuno contro la Chiesa.
XXV. Che debba tener pronti mille Cavalieri oltramontani, apparecchiati
per Terra Santa o altro affare della fede.
Queste sono quelle convenzioni, delle quali spesso _Marino di
Caramanico_, _Andrea d'Isernia_ e gli altri nostri Scrittori fanno
memoria, quando trattano de' pesi, che nell'investitura data a Carlo
furono da Papa Clemente aggiunti.
Accordate in cotal maniera queste Capitolazioni, e vie più sollecitando
Clemente la venuta del Conte, intraprende questi il passaggio, ed
avendo fatta accompagnare la Contessa Beatrice sua moglie da molti
Capitani e Cavalieri franzesi e provenzali, costoro fecero il viaggio
per terra; ed egli da Provenza, essendosi posto intrepidamente con
pochi legni a solcar il mare, dopo aver miracolosamente scampate
l'insidie, che Manfredi gli avea tese con 80 galee, finalmente giunge
con somma felicità nel mese di maggio di quest'anno 1265 a Roma,
ove fu da' Romani con molti applausi, e segni d'allegrezza ricevuto
e careggiato; e narra l'_Anonimo_[94], che fu tanta la leggerezza e
vanità dei Romani, che ritenendo essi, per la dignità Senatoria, un
picciol vestigio dell'antica loro libertà, vollero anche di quella
spogliarsi, ed esclusi i loro Nobili, crearono Carlo lor Signore e
Senatore perpetuo di Roma.
Questa sì felice, e presta venuta di Carlo, gli diede tanta riputazione
e fama di Principe valoroso e magnanimo, che pareva, per tutta Italia,
la persona sua valesse per un grandissimo esercito; onde vennero tosto
da lui tutti que' della fazione Guelfa a visitarlo e ad offerirsi di
servirlo. Ed intanto l'esercito di Carlo, che per terra erasi avviato,
dopo varj avvenimenti, era finalmente giunto in Italia, e la Contessa
Beatrice a Roma; onde Carlo desideroso d'entrar presto nel Regno, per
timore, che troppo in Roma trattenendosi, non venisser a mancargli
i denari per supplire alle paghe de' soldati, sollecitò fortemente
l'espedizione, unendo tutta la sua milizia per combattere l'esercito di
Manfredi.

§. I. _Coronazione di CARLO in Roma._
Ma prima d'uscire di Roma, volle che Clemente colle celebrità solite
l'incoronasse Re, ed insieme gl'inviasse l'investitura, secondo ciò
ch'erasi stabilito. Il Pontefice, ch'era a Perugia, gli spedì sua
Bolla, per la quale commise a cinque Cardinali, che in S. Giovanni
Laterano avanti all'altare pubblicassero la Bolla dell'investitura,
e ricevessero dal Conte il giuramento di fedeltà, del ligio omaggio e
dell'osservanza di que' Capitoli di sopra notati, e colle debite forme
l'incoronassero Re dell'una e l'altra Sicilia. Li Cardinali destinati a
questa celebrità furono Rodolfo Vescovo di Albano, Archerio Prete del
titolo di S. Prassede, Riccardo di S. Angelo, Goffredo di S. Giorgio
al Velo d'oro, e Matteo di S. Maria in portico, Diaconi Cardinali, li
quali nel giorno dell'Epifania a' 6 Gennajo di quest'anno 1266 colle
solite cerimonie incoronarono Carlo Re d'ambedue le Sicilie insieme
con Beatrice sua moglie, essendo presenti molti Prelati e Signori con
infinito popolo.
(Di questa Beatrice si legge il Testamento, che fece a Lagopensile
nell'anno 1266 rapportato da Lunig[95]).
Si lesse la Bolla dell'investitura fatta da Clemente per la quale con
que' patti di sopra riferiti l'investiva del Regno di Sicilia, _et de
tota Terra, quae est citra Pharum, usque ad confinia terrarum ipsius
Romanae Ecclesiae, excepta Civitate Beneventana cum toto territorio, et
omnibus districtibus, et pertinentiis_.
All'incontro i Cardinali riceverono il ligio omaggio dal Re ed il
giuramento di fedeltà, la di cui formola insieme coll'istromento
dell'incoronazione vien rapportata dal Tutini[96] ed è del seguente
tenore: _Nos Carolus Dei gratia Rex Siciliae, Ducatus Apuliae, et
Principatus Capuae, ec. Vobis Dominis Rodulpho Albanensi Episcopo,
Archerio, ec. Diaconis Cardinalibus quibus per literas suas Dominus
Papa commisit receptionem ligii homagii, quod pro Regno Siciliae, ac
aliis Terris Nobis a predicta Ecclesia Romana concessis tenemur, eidem
Dom. Clementi Papae IV et ejus successoribus canonice intrantibus, et
predictae Ecclesiae Romanae facere, ac in manibus vestris, vice, et
nomine ipsius Domini Clementis Papae, et hujusmodi ejus successorum,
ac predictae Romanae Ecclesiae, et per nos eidem Dom. Papae, ejus
successoribus ac Romanae Ecclesiae ligium homagium facimus pro Regno
Siciliae, ac tota Terra, quae est citra Pharum, usque ad confinia
Terrarum, excepta Civitate Beneventana cum toto territorio, et omnibus
districtibus, et pertinentiis suis, nobis, et haeredibus nostris a
predicta Ecclesia Romana concessis, ec._
Donò ancora questo Principe in ricompensa, e memoria di quest'atto al
Capitolo di S. Pietro e suoi Canonici in perpetuo le rendite e proventi
della Bagliva della città d'Aitona, e l'altre rendite, che la Camera
regia esigeva sopra di quella sita negli Abruzzi, come per una carta
dell'Archivio regio rapporta il Tutino[97], e di più ogni anno in
perpetuo 50 once d'oro sopra la Dogana di Napoli[98].
Il Sommario della Bolla di quest'investitura co' Capitoli di sopra
esposti vien rapportata dal Summonte, e parte della medesima vien anche
rapportata da Baldo[99] ne' suoi Comentarj al nostro Codice. E questa è
la prima scrittura, nella quale questi due Regni vengon la prima volta
chiamati di Sicilia _citra et ultra Pharum_, leggendosi quivi: _Clemens
IV infeudavit Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum_. E da qui in
progresso di tempo ebbe origine l'altro moderno titolo: _Rex utriusque
Siciliae_. Non già che Carlo l'usasse mai ne' suoi diplomi e privilegj;
poichè ritenne sempre gli antichi titoli, de' quali s'erano valsi i Re
Normanni e Svevi, siccome si è osservato nella riferita scrittura del
ligio omaggio, ed in molte altre fatte nei seguenti tempi osservarsi il
medesimo fa vedere Agostino Inveges ne' suoi Annali di Palermo.
Il Biondo, Platina, ed alcuni altri affermano, che ora Carlo ricevesse
anche il titolo e la corona di Re di Gerusalemme; ma sono di gran lunga
errati, poichè questo titolo ancora non era stato tolto a Corradino,
che per Jole madre di Corrado suo padre il riteneva, e 'l Papa non glie
lo contrastò mai. Pervenne poscia a Carlo dopo la morte di Corradino
nell'anno 1276 per cessione di Maria d'Antiochia; onde avvenne, che ne'
suoi privilegj si leggono per questa cagione in maggior numero gli anni
di Sicilia, che quelli di Gerusalemme[100].
Terminate le feste della coronazione, il Re Carlo senza perder tempo
si pose in cammino con le sue genti contro Manfredi, e per la Campagna
di Roma s'avviò verso S. Germano. Il Papa non cessava di sollecitarlo,
e per agevolar l'impresa mandò in Sicilia il Cardinal Rodolfo Vescovo
d'Albano, acciò _crocesignasse_ i Siciliani, e sollevasse que' popoli
contro Manfredi. Altra _Crociata_ avea già pubblicata in Italia, dove
per la fortuna e felicità di Carlo la parte Guelfa era notabilmente
cresciuta di seguito, ed all'incontro i Ghibellini tutti depressi.


CAPITOLO III.
_Re MANFREDI riceve con intrepidezza e valore il nemico: ferocemente si
viene a battaglia, nella quale, tradito da' suoi, rimane infelicemente
ucciso._

Dall'altra parte il Re Manfredi non tralasciava con intrepidezza e
valore accorrere in tutte le parti per prepararsi ad una valida difesa.
Dolevasi dell'avversa sua fortuna, e fremeva insieme e stupiva in
veggendo il suo nemico non solo aver con tanta felicità su poche navi
valicato il mare e sfuggito l'incontro delle sue galee, ma con giubilo
e feste essere stato ricevuto in Roma e, istrutto il suo esercito,
essere già ne' confini del Regno. Stupiva ne' medesimi suoi sudditi
vedere tanta incostanza e volubilità[101], sembrandogli, che tutti
chiamassero Carlo, e già per ogni angolo non s'udiva altro, che il suo
nome e quello de' Franzesi. Non tralasciava intanto il mal avventuroso
Principe inanimirgli ed incoraggiargli alla difesa; ed a tal fine
convocò in Napoli una general Assemblea di tutti i Conti e Baroni,
richiedendogli del loro ajuto[102]: scorreva egli ora a Capua, ora a
Cepperano, ora a Benevento, e commise la custodia dei passi a due, de'
quali dovea promettersi ogni accortezza e fedeltà: al Conte di Caserta
suo cognato, ed al Conte Giordano Lancia suo parente. Presidiò San
Germano, ed ivi pose gran parte de' suoi Cavalieri tedeschi e pugliesi,
e tutti i Saraceni di Lucera; ed intanto va in Benevento per tenere in
fede quella città e per accorrere da quivi a' bisogni del suo esercito;
ed indi passa a Capua.
Ma tutte queste cauzioni niente giovarono a quest'infelice Principe;
poichè essendo Carlo giunto all'altra riva del Garigliano, presso
a Cepperano, il Conte Caserta ch'era alla guardia di quel passo,
con alcune scuse si ritirò indietro, e lasciò che passasse il fiume
senz'alcuno ostacolo: il Conte Giordano stupisce del tradimento,
e torna indietro per la via di Capua a trovar Manfredi. Così, come
deplora l'Anonimo, _ad malum destinatus Manfredus, qui apud Ceperanum
gentis suae resistentiam ordinare debebat, passus Regni vacuos, et
sine custodiae munitione reliquit, ut liber ad Regnum aditus pateat
inimicis_. Ecco come Carlo col suo vittorioso esercito entra nel Reame,
e come tutti i luoghi aperti se gli rendono, tosto prendendo Aquino e
la Rocca d'Arci.
Il Re Manfredi avendo inteso, che Re Carlo avea passato il fiume
senz'alcun contrasto, inorridisce al tradimento, ed avendo subito unite
le sue genti coll'esercito, che teneva il Conte Giordano, cominciò a
temere non gli altri Baroni facessero il medesimo; ed avendo già per
sospetta la fede de' Regnicoli, tentò di volersi render Carlo amico
e di trattar con lui di pace; mandò per tanto i suoi Ambasciadori al
medesimo a cercargli pace o almeno tregua. Ma il Re Carlo, che vedeva
la fortuna volar dal suo canto, non volle perdere sì buone occasioni,
onde agli Ambasciadori, nel suo linguaggio franzese, diede questa
altiera, e rigida risposta: _Dite al Soldan di Lucerna, che io con
lui non voglio, nè pace, nè tregua, e che presto, o io manderò lui
all'Inferno, od egli manderà me in Paradiso_[103]. Avea Carlo, per
inanimire i suoi soldati, lor persuaso, che egli militava per la fede
cattolica contro Manfredi scomunicato, eretico, e Saraceno: ch'essi
erano soldati di Cristo, e che in qualunque evento, si sarebbero
esposti ad una certa vittoria, o d'esser coronati colla corona del
martirio morendo; o debellando l'inimico con corona trionfale d'alloro,
e renduti gloriosi ed immortali per tutti i secoli[104].
Ricevuta Manfredi questa risposta, fu tutto rivolto all'armi, ed avendo
riposta tutta la sua speranza nel gagliardo presidio, che avea lasciato
in S. Germano, credea, che Re Carlo non avesse da procedere più oltre,
per non lasciarsi dietro le spalle una banda così grossa di soldati
nemici, e che per lo sito forte di S. Germano, si sarebbe trattenuto
tanto, che o l'esercito franzese fosse dissoluto, per trovarsi nel mese
di gennajo in que' luoghi palustri e guazzosi; o che a lui arrivassero
gagliardi soccorsi di Barberia, dove avea mandato ad assoldare gran
numero di Saraceni; o di Ghibellini di Toscana e di Lombardia. Ma
ecco i giudicii umani come tosto vengono dissipati dagli alti giudicii
divini: poichè contra la natura delle stagioni i giorni erano tepidi e
sereni, come sogliono essere i più belli giorni di primavera; e quelli,
ch'erano rimasi al presidio di S. Germano, non mostrarono quel valore
nel difenderlo, ch'egli s'avea promesso; perchè in brevi dì, per la
virtù de' Cavalieri franzesi, dato l'assalto alla terra, con tutto che
i Saraceni valorosamente si difendessero, fu nondimeno quella presa e
gran parte del presidio uccisa.
Come Manfredi intese la perdita di S. Germano, ritornando di là la
gente sconfitta, sbigottì: e mandata molta gente a presidiar Capua,
egli consigliato dal Conte Gualvano Lancia, e dagli altri suoi fidati
Baroni, si ritirò nella città di Benevento, per aver l'elezione, o
di dar battaglia all'inimico quando volea, ovvero di ritirarsi in
Puglia se bisognasse. Il Re Carlo intendendo la ritirata di Manfredi
in Benevento, si pose a seguitarlo, e giunse a punto il sesto dì di
febbraio alla campagna di Benevento, e s'accampò due miglia lontano
dalla città, e manco d'un miglio dal campo de' nemici. Allora Manfredi
col consiglio dei principali del suo campo deliberò dar la battaglia,
giudicando, che la stanchezza de' soldati di Carlo potesse promettergli
certa vittoria. Dall'altra parte Re Carlo spinto dall'ardire suo
proprio, e da quello, che gli dava la fortuna, la qual pareva, che
a tutte l'imprese sue lo favorisse, posto in ordine i suoi, ancorchè
stanchi, uscì ad attaccare il fatto d'arme, onde si cominciò quella
memoranda, e fiera battaglia, la quale non è del nostro istituto
descriverla a minuto, potendosi con tutte le sue circostanze leggere
nell'Anonimo, nel Summonte, Inveges, Tutini; e presso molti altri
Istorici, che la rapportano.
L'infelice Manfredi mentre la pugna tutta arde, ed egli la mira da un
rilevato colle, vede due schiere del suo esercito, ch'erano malmenate
da' nemici, e volendo movere la terza, ch'era sotto la sua guida, tutta
di Pugliesi, grida a' Capitani suoi, che tosto ivi accorressero alla
difesa, s'avvede che molti de' nostri Regnicoli corrotti da Carlo,
seguivano il suo partito, e con infame tradimento non ubbidivano, ma
s'astenevano di combattere, quando il bisogno più lo richiedeva[105].
Allora Manfredi con animo grande ed invitto, deliberando di voler più
tosto morire, che sopravvivere a tanti valorosi suoi Campioni, che
vedea in quella strage morire; cala egli al campo, ed ove la pugna più
arde si mischia nella più folta schiera de' suoi nemici, e tra loro
combattendo, da colpi di sconosciuto braccio, perchè niuno potesse
darsi il vanto di sua morte, restò infelicemente in terra estinto;
e sconosciuto tra innumerabile folla di cadaveri estinti, tre dì,
prima che fosse ravvisato, miseramente giacque. Così infamemente da'
suoi tradito morì Manfredi[106]. Il cui tradimento non potè Dante
(siccome l'Anonimo) non imputarlo a' nostri Regnicoli, chiamati allora
comunemente _Pugliesi_, quando nel suo Poema[107] commemorando questa
rotta, coll'altra data a Corradino, disse:
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