Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4 - 25

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e sol per invidia de' Cortigiani, che della di lui grandezza capitali
insidiatori, postolo in odio di Federico con dargli a divedere, che per
opera del Papa gl'ordiva tradimento, gli cagionassero così sventurato
fine; fra' quali fu Dante Alighieri, stimatissimo Poeta di quel secolo,
il quale nel 13. canto dell'Inferno, essendo di tal opinione, fa da
Pietro così favellare in sua difesa.
_Io son colui, che tenni ambo le chiavi_
_Del cuor di Federico, ec._
Da' quali versi, qualunque si fosse la cagion di sua morte, chiaramente
si scorge, ch'egli venuto in odio del suo Signore, di proprio volere
per gravissimo sdegno si uccise. Scrive ancora Matteo Paris, che
l'Imperadore acerbamente si dolse del tradimento, che Pietro commetter
pensava e della sua morte, dicendo (come sono le parole di questo
Autore) _Vae mihi, contra quem saevire coactus_.
Ma dalle insidie tese da Innocenzio contro Federico per mezzo
d'altri personaggi di conto, ben si conosce, che siccome per la sua
potenza tirò al suo partito molti Principi e Signori, che prima erano
partigiani di Federico, con facilità potè anche abbattere la costanza e
fedeltà di Pietro delle Vigne; poichè corruppe ancora con doni, e con
danari per mezzo del Vescovo di Ferrara alcuni Principi d'Alemagna,
i quali non tenendo conto di Corrado suo figliuolo, per compiacere
al Pontefice elessero Re de' Romani Errico di Turingia, il quale dopo
la sua elezione cominciò in quei Paesi con varj successi a fare aspra
guerra contro Corrado.
Corruppe ancora molti suoi Baroni, così di quelli, ch'erano con lui nel
suo esercito, i quali se gli erano congiurati contro per ammazzarlo,
come anche molti di quelli, che dimoravano nel nostro Reame in prima
suoi fedeli, i quali tentarono con sedizioni sconvolgergli il Regno di
Puglia: tanto che bisognò interrompere la guerra contro i Milanesi,
e di lasciare il Re Enzio suo Vicario in Lombardia, ed accorrere
contro i Baroni alla difesa del Regno, i quali aveano contro di lui
manifestamente prese l'armi, ed occupato Capaccio ed altre castella di
quella provincia.
I Baroni, che per opra del Pontefice contro di Federico si congiurarono
erano in prima de' suoi più cari partigiani ed amici: questi furono
Teobaldo Francesco, Pandolfo, Riccardo, e Roberto della Fasanella, con
tutta la lor famiglia, tutti i Sanseverini, Capo de' quali era il Conte
Guglielmo, Jacopo e Goffredo di Morra; Andrea Cicala General Capitano
nel Reame; Gisolfo di Maina, con molt'altri, di cui non sappiamo i
particolari nomi.
Costoro, che contro di lui congiurarono per torgli la vita, mentre
stavano attendendo di porre ad effetto il loro intendimento, furono
scoverti a Federico dal Conte di Caserta, che, come scrivono alcuni
Autori, di tutto gli diè conto per un suo fedele famigliare nomato
Giovanni da Presenzano, sin da ch'egli era in Lombardia; onde alcuni
d'essi fur fatti prestamente imprigionar da Federico, ed alcuni altri
si salvarono con la fuga, fra' quali fu Pandolfo della Fasanella, e
Jacopo di Morra; e pervenuta agli altri la novella della scoverta
congiura, Teobaldo Francesco, Guglielmo Sanseverino ed Andrea
Cicala occuparono di furto Capaccio e Scala, e colà si ricovrarono,
fortificando, e munendo que' luoghi quanto poterono, per difendersi;
ma assalita Scala da' fedeli dell'Imperadore, fu combattuta con molto
valore, e prestamente espugnata; e fur sostenuti in essa Tommaso S.
Severino, ed un suo figliuolo.
Giunto poi nel seguente anno di Cristo 1246 l'Imperadore nel Reame, fu
assediato Capaccio; ed ancorchè i suoi difensori sentissero estrema
carestia di acqua, non essendosi ripiene le cisterne per mancamento
di pioggia, pure con molto valor si mantennero sino a' 28 di luglio,
quando furono a forza presi i difensori, con rimaner prigioni Teobaldo
Francesco, e la maggior parte degli altri congiurati; i quali furono
dall'adirato Imperadore con atrocissimi tormenti fatti morire,
incrudelendo altresì contro tutti i loro legnaggi, con farne uccidere
grosso numero, ed agli altri dar bando dal Regno. Allora dovette
succedere quel che Matteo Spinello scrive di Ruggieri Sanseverino,
che salvato da Donatello Stazio suo famigliare, fu per opera poi di
Polisena Sanseverina sua zia inviato al Pontefice, da cui fatto con
paterno affetto allevare, divenne poi prode ed avvenente giovane,
il quale con esso Pontefice nel Regno, e con più felice fortuna con
Carlo I d'Angiò divenne Capo de' forusciti napoletani a ricovrare
il suo Stato; perciocchè la rotta di Canosa, che Matteo Spinello
racconta, non fu vera, nè Federico, che scrisse particolarmente questo
fatto in due sue epistole, quando avesse combattuti e debellati i
Sanseverineschi nel piano di Canosa, l'avrebbe taciuto; se pure il
primo trascrittore di Spinello, in luogo di voler dir la presa di
Capaccio, non avesse detto la rotta di Canosa; ovvero ve l'avesse di
sua testa aggiunto, come in molti altri luoghi di quell'Autore si è
fatto, facendogli scrivere quel, che mai non successe, e ch'egli mai
non ebbe intendimento di dire.


CAPITOLO IV.
_FEDERICO prosiegue la guerra contra i Lombardi nell'istesso tempo, che
CORRADO suo figliuolo è travagliato in Alemagna da ERRICO di Turingia,
e da GUGLIELMO Conte d'Olanda. Muore in Fiorentino, e gli succede
CORRADO._

Intanto il Re Enzio seguitava a travagliar con aspra guerra la
Lombardia: ed in Alemagna non minori e men crudeli erano le battaglie
tra Corrado ed Errico di Turingia, il quale ancorchè avesse data
una gran rotta a Corrado, fu poi ucciso da un colpo di saetta mentre
combattea la città d'Ulma: onde Innocenzio saputa la morte d'Errico,
inviò di nuovo quattro altri suoi Legati ad istigare i Principi
tedeschi contro Federico; e per essere stato dal Re Enzio d'ordine del
padre fatto morir impiccato per la gola un parente d'esso Pontefice,
di nuovo amendue scomunicò, e tanto operò co' Tedeschi, che fu eletto
in nuovo Re de' Romani Guglielmo Conte d'Olanda, il quale incamminatosi
dopo la sua elezione a prendere la Corona in Aquisgrana, se gli oppose
intrepidamente col suo esercito Corrado, il quale occupata e munita
quella città lungamente dentro d'essa da Guglielmo, e dai suoi si
schermì. Non avea il Pontefice trascurata ogni opera di far ribellare
Corrado istesso contro il suo padre, e per mezzo del Cardinal Ubaldino
suo Legato, dell'Arcivescovo di Colonia, e di molti altri Baroni
alemani, faceva continuamente insinuare al medesimo a non seguire
l'imprese e le dannate vestigia, com'essi diceano, di suo padre: ma
Corrado Principe pio e costante gli rispose, che avrebbe difese le sue
parti insino all'ultimo spirito di sua vita.
Federico intanto racchetati i rumori del Regno partì di Puglia, e
passò a Pisa, e di là per li confini dei Parmegiani a Cremona. Quivi
essendo, fugli da alcuni insinuato di dover trovare qualche modo di
riconciliarsi colla Chiesa, e conchiuse perciò di conferirsi di persona
in Lione per umiliarsi al Pontefice; sicchè tolto in sua compagnia
onesto numero di famigliari, passò da Cremona a Torino, e celebrata
quivi un'altra Assemblea, partiva già per Lione; ma giunto appena
alle radici dell'Alpi gli fu per particolar messo significato, per
opra d'Innocenzio essergli stata dai suoi partigiani ribellata Parma;
onde accorse immantenente per riaverla, ed intrigato col Re Enzio suo
figliuolo in questa guerra, ampiamente scritta da Sigonio, passò quivi
tutto quest'anno, e nel seguente anno 1248 per occasione di questa
guerra, nella quale ora perdente, ora vincente, perdè Vittoria città
novellamente da lui edificata a fronte di Parma, nel qual fatto i suoi
nemici uccisero, e fecer prigioni la maggior parte degli assediati,
fra' quali morì _Taddeo di Sessa_, quel celebre nostro Giureconsulto,
e che in questi tempi avea anche avuto l'onore d'essere stato fatto
General Capitano in quell'esercito. E mentre con tali successi era
afflitta Italia, Guglielmo Conte d'Olanda creato Re de' Romani, dopo
un lungo contrasto, presa la città d'Aquisgrana, era stato in essa
dall'Arcivescovo di Colonia incoronato nel dì primo di novembre di
quest'anno; e poco stante azzuffatosi con Corrado, ch'era col suo
esercito di nuovo sopra detta città venuto, il ruppe e pose in fuga.
Nel seguente anno 1249 Federico lasciato il Re Enzio suo Vicario in
Lombardia, se ne passò in Toscana, ove giunto, se creder vogliamo
a Giovanni Villani, non volle entrare in Firenze, perchè per vana
predizione di _Michele Scoto_ grande Astrologo e Mago di que' tempi,
gli era stato detto, che aveva da morirvi dentro, e fermatosi ad un
luogo ivi vicino, poco da poi passò l'Imperadore in Puglia, ove finchè
visse, che fu molto poco, dimorò.
In questo medesimo anno avendo i Bolognesi data una terribile rotta
al Re Enzio, lo fecero prigione; onde crebbe oltremodo la fortuna e
potenza de' Bolognesi, e per la fama dell'acquistata vittoria per sì
riguardevole personaggio, e per la nobiltà del suo aspetto, e per la
fiorita età, che non passava 25 anni, e per la grandezza del padre;
e avendolo condotto con gran trionfo prigioniero a Bologna, diede
manifesto esempio dell'incostanza ed infelicità delle cose umane,
ed i Bolognesi statuito con pubblico decreto, che mai non s'avesse
a riporre in libertà, regiamente a spese del Pubblico, mentre egli
visse lo sostennero, non si movendo a liberarlo, nè per le minacce del
Padre, che sopra di ciò scrisse loro una sua lettera, nè per offerta
di grossa somma d'oro in suo riscatto. In tal maniera ventidue anni, e
nove mesi dimorato, come scrive Cuspiniano, fu poi venendo a morte con
nobilissima pompa sepolto da' Bolognesi nella chiesa di S. Domenico in
un ricchissimo avello di marmo con la sua statua indorata, ove sino al
presente, secondo che scrive Stradero, si legge l'inscrizione in una
piastra di bronzo.
Ricevette, non molto tempo dopo tal successo, l'Imperadore lettere
da' Modanesi, ove significandogli la ricevuta sconfitta si dolevano
della prigionia del figliuolo, a' quali egli rispose magnanimamente
ringraziandogli del loro ben volere, con minacciare aspramente i
Bolognesi, e tutti i partigiani della Chiesa. Ma questi col favor
dell'ottenuta vittoria, dopo aver soggiogate molte città e castelli
di Lombardia e di Romagna, e fra essi Modana, che per alcun tempo
strettamente assediarono, mossero Federico per non perdere affatto
il dominio di quei paesi, essendo già entrato l'anno di Cristo 1250
a raccorre soldati, e moneta per rinovar la guerra, e tentare di
riporre il figliuolo in libertà, e mentre a ciò badava, ammalò del
suo ultimo male nel castel di Fiorentino, ora disfatto, in Capitanata
di Puglia, sei miglia lungi da Lucera, e come scrive Cuspiniano, non
senza sospetto, che Manfredi Principe di Taranto suo figliuol bastardo
l'avesse avvelenato, o come è più verisimile, perchè aspirando al
dominio del Reame, voleva torsi dinanzi il padre, per tentare di porre
il suo pensiero ad effetto, come si conobbe da poi.
L'Imperadore aggravato dal male, pentitosi de' suoi falli, e
chiedendone a Dio perdono, si confessò a Bernardo Arcivescovo
di Palermo, e da lui ricevette l'assoluzione, ed il sacramento
dell'Eucaristia, se creder dobbiamo ad Alberto Abate di Strada; e
persuaso dall'istesso Arcivescovo fece il suo testamento, il qual tutto
intero, come quello, che contiene più notabili cose, addurremo.
Soggiunge Cuspiniano, che mentre superando la forza del veleno o della
malattia, o per la sua robusta complessione, o per la diligente cura
de' Medici, stava per riaversi, Manfredi aggiungendo fallo a fallo per
tema non il padre campasse, di notte tempo, postogli un piumaccio alla
bocca crudelmente il soffocò; alla qual opinione di violenta morte par
che concorra lo Scrittor di Giovennazzo, quando dice, che a tempo si
sparse voce, che l'Imperadore era già guarito, e che il seguente giorno
voleva uscir di letto, per aver mangiato la sera certe pera cotte con
zuccaro, si ritrovò poi il mattino morto nel letto, verificandosi il
vaticinio fattogli (se tai vanità son degne di fede) che aveva a morir
in Fiorenza, ma secondo le solite anfibologie degl'Astrologi non in
Fiorenza di Toscana, ma in Fiorentino di Puglia; se bene l'Anonimo[383]
Autor della Cronaca di Manfredi, come troppo appassionato di questo
Principe, passa sotto silenzio le circostanze di questa morte violenta,
per non incolpar Manfredi suo Eroe.
Cotal fu dunque il fine di Federico II Imperador romano, il quale morì
in età di cinquantasei anni, e nel trentesimo ottavo del suo Imperio,
lo stesso giorno, che fu eletto a cotal dignità in Alemagna, dopo aver
cinquantatre anni dominato il Reame di Napoli e di Sicilia, e 28 quello
di Gerusalemme, Principe degno di chiara ed immortal memoria, per le
molte e singolari virtù, che così nell'animo, come nel corpo di pari
in lui fiorirono; perciò, lasciando star da parte quello, che alcuni
Scrittori italiani di lui con troppa malevoglienza, e alcuni altri
tedeschi con troppa adulazione scrissero: egli è certo, che fu un savio
ed avveduto Signore, valoroso e prode di sua persona, e di nobile, e
signoril presenza: fu liberale e magnanimo, perchè premiò ampiamente
coloro, che l'aveano servito, così nell'opere di pace, come nella
guerra, ed onorò i Signori dell'Imperio di grandissime prerogative e
privilegi; poichè primieramente creò Federico, detto il _Bellicoso_,
di Duca, che in prima egli era, Arciduca d'Austria[384], e gli diede
l'insegne reali per quel, che ne scrive il Cuspiniani; ma nel sesto
libro delle Pistole di Pietro delle Vigne appare, che nel creò Re,
benchè secondo il Zurita, di cotai titoli di Re, e d'Arciduca non si
servì niuno de' suoi seguenti Signori, che quella provincia dominarono
fin all'Imperador Federico III ch'il concedette di nuovo a Filippo suo
nipote, quando stava trattando d'ammogliarsi con una delle figliuole
di Ferdinando Re di Castiglia e d'Aragona, detto poi il Re Cattolico,
nell'anno di Cristo 1488.
Fu nella militar disciplina espertissimo, per la quale ottenne
nobilissime vittorie de' suoi nemici; e mostrò non men fortezza ne'
casi avversi, che temperanza e continenza ne' prosperi. E provvido
ne' consigli, e prudente nel riordinare i suoi Regni di molte utili e
giuste leggi.
Per aver avuti nemici tre romani Pontefici, Onorio, Gregorio ed
Innocenzio, e le città Guelfe partigiane dei medesimi, acquistò egli
presso i posteri nome di spergiuro, e di crudele con tutti i Prelati
e Ministri della Chiesa; e per averne perseguitati molti, e scacciati
dalle loro sedi, altri imprigionati, e fatti morire in esilio, ed avere
in altre strane guise fatto impiccare grosso stuolo di Frati e Preti;
e per aver taglieggiate le chiese, i monasterj, e gli Ecclesiastici,
con torre loro i beni e facoltà: pose timore a tutti gli Ecclesiastici,
non volesse ridurgli alla strettezza e povertà della primitiva Chiesa,
tanto maggiormente ch'era lor riferito, che l'Imperadore soleva avere
spesso in bocca cotali voci; onde Matteo Paris, che prima che Federico
fosse stato deposto, avea sempre nella sua Cronaca aderito al suo
partito, quando da poi intese, che Federico soleva dir queste parole,
come che egli si trovava Abate di Monte Albano d'Inghilterra, e ricco
di molti Beneficj e Commende, dispiacendogli tal proponimento, cominciò
a mutar stile e scrivere contro di lui in altra maniera, che prima avea
fatto.
Se questo fece _Paris_, ognun può credere, che cosa mai facesser gli
altri Scrittori italiani partigiani dei Pontefici romani, e tutti
Guelfi: e particolarmente i Frati. Paolo Pansa nella Vita d'Innocenzio
IV rapporta, che Fr. _Salimbene_ da Parma Frate Minore, che visse
in que' tempi, e conobbe Federico, in una sua Cronaca a penna lasciò
scritto, che Federico in quest'ultima sua infermità fu afflitto da'
vermi, che scaturivano dalle sue carni, e che morto che fu, usciva tal
puzza da quel cadavere, che non si poteva in alcun modo tollerare, e
che per allora non gli si potè dar sepoltura: ch'era poco cattolico,
anzi epicureo, come quegli, che non credea trovarsi altra vita, che
questa; soggiungendo, che quando e' fu in Oriente, e vide la Terra, che
si chiama di _Promissione_, si pose a ridere, e facendosene beffe, ebbe
a dire che se il Dio de' Giudei avesse veduto il Reame di Napoli, e
massimamente Terra di Lavoro, non avrebbe fatto sì gran conto di quella
sua terra di Promissione.
(Oltre a ciò i Monaci nelle loro Croniche anche scrissero, che Federico
passando un giorno col suo esercito vicino alcuni campi di formento,
che avea le spiche già mature, e danneggiando i Soldati coi loro
cavalli le spiche, e rapportato ciò a Federico, avesse motteggiando
risposto, che se ne astenessero, e le portassero rispetto, poichè un
giorno i grani di quelle spiche potevano divenire tanti CRISTI. Le
parole sono rapportate da _Simone Hanh, Hist. Germ. in Friderico II_).
Lo dipinsero perciò, ch'egli fosse ateo, e che negando l'immortalità
dell'anima avesse posto ogni suo intendimento ne' diletti del corpo,
godendosi, e sollazzandosi con quel, che più gli aggradiva, e che
perciò si contaminasse con ogni sorte di lussuria, tenendo sempre,
oltre alla moglie, uno stuolo di concubine attorno, alcune delle
quali erano anche Saracene; della quale opinione mostra essere
stato anche Dante[385], ancorchè Ghibellino, ponendolo a patire
le pene dell'Inferno, in un luogo, ove era simil peccato d'eresia
punito, con il padre di Guido Cavalcanti, e Farinata degli Uberti
Cavaliere Fiorentino, e col Cardinale Ottavio degli Ubaldini, facendo
dall'istesso Farinata dire:
_Qua entro è lo secondo Federico,_
_E 'l Cardinale, e degli altri mi taccio._
Ma da ciò, che s'è in questi libri veduto, si conosce, che Federico
quando fu corrisposto da' Pontefici, fu cotanto attaccato alla Chiesa
romana, ed ai suoi Ministri, che Ottone soleva perciò chiamarlo il _Re
de' Preti_. E si vede ancora dalle tante sue Costituzioni promulgate
tutte favorevoli alla giurisdizione della Chiesa, le quali insino oggi
s'osservano. Quanto perseguitasse gli Eretici ben si è di sopra veduto,
e ben lo dimostrano le severe sue Costituzioni, che promulgò contro i
medesimi, non meno per estirpargli da Italia, che dalla Germania[386].
E se dobbiam credere a Capecelatro[387], Inveges[388], e ad alcuni
Scrittori, egli fu, che per osservar la promessa fatta al Pontefice
Innocenzio III istituì nell'anno 1213 il Tribunal dell'Inquisizione in
Sicilia.
In questo nostro Reame si è ancor veduto quanto fosse grande il suo
zelo in estirpargli; poichè oltre d'aver pubblicata quella celebre
Costituzione _Inconsutilem_, avendo preinteso, che in queste nostre
province, e particolarmente in Napoli, era penetrata l'eresia de'
_Patareni_, mandò l'Arcivescovo di Reggio, e Riccardo di Principato
suo Maresciallo a carcerargli. Non istituì però (che che si facesse
in Sicilia, di che alcuni anche ne dubitano, non essendovi Scrittor
contemporaneo, che lo rapporti) per queste nostre Province particolar
Tribunale d'_Inquisizione_ contro i medesimi. Solo comandò a' suoi
Ufficiali, che contro di loro, ancorchè non accusati, procedessero
_ex inquisitione_, siccome si costumava negli altri enormi e gravi
delitti, e con molto più rigore di quello, che si praticava ne' delitti
di lesa Maestà umana. Perciò stabilì, che gl'indiziati, ancorchè
per leggieri sospetti, si dovessero portare ad esaminarsi avanti i
Prelati e persone ecclesiastiche, come coloro, a' quali appartiene,
ed è della lor perizia di conoscere se le opinioni deviano dalla fede
cattolica in qualche articolo; i quali Prelati se evidentemente,
e con manifeste e chiare pruove conosceranno essere i rei convinti
d'eresia, era solamente della loro incumbenza di ammonirgli _pastorali
more_, affinchè lasciassero gli errori, e l'insidie del Demonio; e
se, così ammoniti, pertinacemente s'ostineranno ne' loro errori, e
costantemente vorranno in quelli perseverare, era terminata la loro
incumbenza[389]; e de' rei in cotal guisa convinti, prendevano cura
i Magistrati secolari, i quali a tenore di quella sua Costituzione
gli sentenziavano a morte, e ad esser bruciati vivi nel cospetto del
Popolo. Stabilì ancora che nelle Corti generali, che due volte l'anno
doveano tenersi nel Regno, i Prelati dovessero denunciar gli Eretici
al suo Legato, ed agli Ufficiali, che componevano quella Corte[390],
affinchè ne prendessero severo castigo. E quantunque presso di noi
non istituisse particolar Tribunale, volendo, che que' medesimi suoi
Ufficiali, a' quali era commessa la punizione di tutti gli altri
delitti, procedessero anche in quello: i modi però, che prescrisse di
procedere contro gli Eretici, e le pene, ed i mezzi per iscovrirgli,
furono troppo diligenti e rigorosi. Egli fu il primo, che generalmente
gli condennò a pena di morte: egli castigava severamente i loro
recettatori, e coloro, dai quali erano ajutati: favoreggiò le pruove,
e volle, che contro di quelli si procedesse anche _ex inquisitione_,
come in tutti gli altri enormi delitti, e che a somiglianza di questi,
per inquisirgli bastassero leggieri indizj: separò con ben fermi e
chiari confini le conoscenze, che gli Ecclesiastici, ed il Magistrato
secolare doveano avere intorno a questo delitto. La conoscenza del
diritto, se tal opinione era eretica, o no, tutta intera la lasciò
agli Ecclesiastici; e perciò volle, che gl'imputati d'eresia fossero
esaminati da persone ecclesiastiche, perchè non altronde poteva
conoscersi se l'errore era dannabile o no, se s'opponeva alla nostra
Fede, ed a' suoi Dogmi, o non s'opponeva. Essi doveano ricercarli,
essendo ciò della lor perizia, non altrimente che negli altri delitti,
ne' quali accade richiedersi il giudicio de' periti. La conoscenza
del fatto, e la condanna era del Magistrato secolare, non potendo
la Chiesa, come altrove fu notato, in questi delitti, toltone di
separargli dal consorzio de' Fedeli, condennar a morte, nè a mutilazion
di membra, nè d'affliggere i rei con altre temporali pene.
A torto adunque vien lacerata la fama di Federico da' nostri Scrittori
italiani, per lo più tutti Guelfi. E se egli fu crudele contro alcuni
Prelati, e più contro i Frati e Monaci, ben nel corso di questo libro
si sono vedute le cagioni di tanta severità, e delle occasioni dategli
d'usarla. Nè deve riputarsi estraneo dalla potestà del Principe,
quando si mova con giuste cagioni, e precisamente se lo faccia per
ragion di Stato, d'esiliare i Vescovi, discacciargli dalle loro sedi,
imprigionare i Frati, ed incrudelire contro di essi, quando sono
perturbatori dello Stato, e della pubblica quiete. E molto meno deve
parer cosa strana di taglieggiare i beni degli Ecclesiastici, quando il
bisogno del Principe e della Repubblica lo richieda.
I Principi, sempre che il bisogno de' loro Regni il richiedeva,
sono stati soliti imporre alle Chiese e Monasterj certo tributo, che
esigevano unitamente dalle città e Feudatarj; e come altrove fu notato,
li _Patrimonj_ delle nostre Chiese pagavano il tributo agli Imperadori
d'Oriente.
Carlo M., discacciato Desiderio, e resosi padrone del Regno d'Italia,
lo impose alle Chiese e Monasterj d'Italia, come lo testimonia il
Sigonio[391]. E coloro, che sotto il nome di Principi di Benevento
ressero la maggior parte di queste province, che oggi compongono
il nostro Regno, han sempre esatto questi tributi dalle Chiese e
monasterj che si tassavan a proporzione, dal valore delle robe, che
possedevano. Così quando nell'anno 851 sotto Lotario Imperadore,
e Lodovico Re d'Italia suo figliuolo, fu diviso il Principato di
Benevento, ed eretto in Principato di Salerno tra Radelchiso Principe
di Benevento e Siconolfo Principe di Salerno, abbiamo, che fra l'altre
cose, che furono accordate tra questi due Principi, fu che di tutte le
robe de' Vescovadi e monasterj, ovvero _Xenodochii_, se ne prendesse
conto, e secondo il valore delle medesime si tassasse il censo solito
a contribuirsi al Principe: nel che furono solamente eccettuati i
monasterj di Monte Cassino, e l'altro di S. Vincenzo a Vulturno, i
quali perchè stavano sotto l'immediata protezione dell'Imperador
Lotario, e del Re Lodovico, furono esentati per li privilegi e
prerogative, che ne tenevano. Siccome ne furono anche eccettuate le
robe degli Abati e d'altri Ecclesiastici, che servivano al Principe
nel proprio palazzo[392]. Ma poi mutate le cose ed innalzato da' Papi
l'Ordine ecclesiastico in più sublime stato, sottraendogli, così per
ciò che riguarda le loro persone, come le loro robe, dalla potestà e
giurisdizione del Principe; sembrava Federico empio e tiranno, il quale
seguendo gli antichi esempj, si studiava restituire l'antiche ragioni,
e preminenze sopra le loro persone e beni.
Del rimanente, tolte da lui queste false accuse, fu Federico un
Principe, in cui di pari gareggiavano la giustizia, la magnificenza e
la dottrina. Egli ci lasciò molte sagge ed utili leggi; ed a cui molto
deve questo Regno, e Napoli più d'ogni altra città del medesimo. Egli
amantissimo delle lettere vi fondò una famosa Accademia, ove chiamò gli
scolari da tutti i suoi dominj. Egli ancora dottissimo in filosofia,
ed in ogni altra scienza, pose in grande onoranza lo studio pubblico
di Salerno per la medicina, e ne fondò un altro di nuovo in Padova,
togliendolo da Bologna città sua inimica, ordinando, che in questi
Studj non dovessero gire a studiare i cittadini delle città Guelfe sue
nemiche di Lombardia, di Toscana e di Romagna.
E ciò che è da ammirare, in un secolo, nel quale, come dice
l'Anonimo[393], _erant Literati pauci, vel nulli_, egli non solo fu
amante delle buone lettere, ma come studiosissimo di filosofia e d'ogni
altra scienza compose un libro _de Natura, et Cura Animalium_[394].
Egli spinse _Giordano Ruffo_ Maestro della sua Manescalchia reale a
comporre un Trattato della cura e medicamenti de' cavalli, il quale
nel fine del libro, che si conserva in S. Giovanni a Carbonara, fra i
libri, che furono del Cardinal Seripando, dice, che egli di quanto avea
scritto n'era stato istrutto da Federico suo Signore.
Fece dal Greco e dall'Arabico traslatare molti libri in linguaggio
latino, come l'_Almagesto di Tolomeo_, l'opere di Aristotele, e molti
altri di medicina, e di altre scienze, de' quali, siccome scrive
Giovanni Pontano, inviò a donare con sua particolar lettera, che si
legge nel terzo libro dell'epistole di Pietro delle Vigne, alcune opere
d'Aristotele a' Maestri e Scolari dello Studio di Bologna, prima che
divenissero suoi nemici.
Fece parimente comporre da _Michele Scotto_ famoso Medico ed Astrologo
di que' tempi, e suo carissimo famigliare molti libri di filosofia, di
medicina, e di astrologia, come testifica l'istesso Michele in alcuni
d'essi, che li dedica, e Corrado Gesnero nel suo Compendio; ond'è,
che le cose filosofiche e le matematiche cominciarono ad aver vita:
e per essersi queste opere d'Aristotele, e libri di Galeno, e degli
altri Medici arabi lette nelle nostre Scuole, e favorite da Federico,
quindi la filosofia d'Aristotele, e la medicina di Galeno, acquistarono
appresso di noi, e fecero quei progressi nelle Scuole, che insino a'
nostri tempi abbiam veduto.
Fece ancora ridurre in ordine quelle sue Costituzioni, donde furon
prese molte Autentiche ed inserite nel Codice di che altrove abbiam
ragionato; siccome i libri delle nostre _Costituzioni_ pur a lui li
dobbiamo che fece compilare da Pietro delle Vigne celebre Giureconsulto
di questi tempi. Compose ancora un libro della Caccia de' Falconi,
della quale non s'avea allora notizia alcuna; e Manfredi suo figliuolo
vi aggiunse poscia molte altre cose.
E se in sì gran Principe questo anche annoverar si dee, fu egli
versatissimo in molte lingue, così nella latina, come nella greca,
nella italiana, nella francese ed anche nella saracena, oltre della
tedesca sua natia; e si dilettò di poesia italiana, e vagamente
molti Sonetti e Canzoni compose, che insino ad ora si leggono unite
con quelle di Pietro delle Vigne, di Enzio suo figliuolo e d'alcuni
altri Poeti di que' tempi, quando la nostra lingua italiana surta dal
mescuglio di tante altre lingue e dalla latina precisamente, cominciava
a diffondersi, e che raffinata poi da valenti Scrittori, meritò d'esser
paragonata alla latina, ed alla greca istessa, anzi contendere con
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