Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4 - 12

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ne' suoi Annali il Cardinal Baronio; il quale dice averlo cavato dalla
vita di Papa Innocenzio inviatagli dal Cardinal Carlo de' Conti, da
lui ritrovata nell'Archivio d'Avignone, mentr'era colà Legato, scritta
da antichissimi tempi, nella quale scrittura si narra, che nella fuga
di Marcovaldo, in una rotta che da' Romani gli fu data, non già nella
Marca d'Ancona, ma in una battaglia, della quale avremo occasione di
favellare nel libro che siegue, tra gli arredi suoi fu tal testamento
trovato. È questo testamento molto pio; e' mostra pentirsi delle
passate sue colpe, le quali non potendo ricompensar d'altra maniera
in quell'estremo di sua vita, mostra volontà, che almeno fossero
emendate dal suo erede. In virtù del qual testamento fu, dopo sua
morte, restituita da sua moglie Costanza alla Chiesa, siccome scrive
Ruggiero ne' suoi Annali d'Inghilterra, la maggior parte di Toscana, la
quale egli, ed i passati Imperadori le avean tolta, cioè Acquapendente,
Santa Crispina, Monte dei Falisci, Radicofano e S. Quirico con tutti
i lor Contadi, e più altri luoghi appartenenti alla giurisdizione del
Pontefice.
Narra ancora Matteo Paris, che Errico lasciò ai Frati del Monastero
Cisterciense tremila marche d'argento de' denari pagati dal Re Riccardo
per farsene incensieri del medesimo metallo per tutto il lor Ordine;
ma che l'Abate di quel luogo rifiutasse tal dono, come di moneta
acquistata con cattivo modo.
E finalmente avendo il Papa data licenza, per essersi composti gli
affari d'Inghilterra, che si desse sepoltura al cadavere di lui, fu
trasportato al Duomo di Palermo, ed ivi riposto in un ricco avello
di porfido, il qual sinora si vede: e la sua gente, ch'era non guari
prima del suo morire giunta in Soria sotto la condotta del Vescovo
Corrado, avendo avuta contezza, ch'egli era morto, e ch'era giunto in
Palestina contro di loro il figliuolo del Saladino, smarriti per sì
cattive novelle, si posero tutti i Principi dell'oste vergognosamente
in fuga, non ostante, che i lor soldati fosser disposti a valorosamente
combattere, rimanendo soli fermi nel campo i Vescovi di Verdun e di
Magonza; de' quali poscia quel di Magonza n'andò d'ordine del Pontefice
a coronar il Re d'Armenia, che avea tal cosa instantemente richiesta.
Ma ecco, che dopo questi avvenimenti Papa Celestino, che sette anni
avea governata la Chiesa, si morì in Roma l'ottavo giorno di gennajo
dell'anno 1198, ed in suo luogo fu eletto Giovanni Lotario Cardinal
di S. Sergio e Bacco, di nobilissima stirpe, giovane di non più che
trenta anni, ma di grande avvedimento, ed il maggior Letterato, e
Giureconsulto di que' tempi, che _Innocenzo III_ nomossi.


CAPITOLO II.
_L'Imperadrice COSTANZA prende il Governo del Regno. Sua morte; e fine
del regal legnaggio de' Normanni._

Intanto l'Imperadrice Costanza, vedendo quanto erano odiati dai suoi
vassalli i soldati tedeschi, ed il lor Capitano Marcovaldo, uomo di
perduta vita, ed oltre modo crudele e rapace, volendo tener in pace il
suo Regno, loro diede bando, con ordine che tantosto sgombrassero la
Puglia e la Sicilia, nè ardissero d'entrarvi senza sua licenza[169];
onde tutti ne girono via, e Marcovaldo passato al Contado di Molise,
che morto Mosca in Cervello, gli era stato donato da Errico, con
lettere di salvo condotto dell'Imperadrice, acciocchè non fosse offeso
dagli adirati Regnicoli, ed assicurate anche da Pietro Conte di Celano
e da' Cardinali, che dimoravano in Regno, lasciati suoi Castellani
nelle Rocche del suddetto Contado, se n'andò alla Marca d'Ancona, della
quale era stato fatto Marchese da Errico, e colà dimorò fin che morì
Costanza, ritornando poscia in Puglia, ove poi, come diremo, commise
gravissime malvagità.
Innocenzio III tosto che fu coronato Pontefice, impegnossi con ogni
suo potere, che si riponessero in libertà la Regina Sibilia, suo
figliuol Guglielmo, e le figliuole, l'Arcivescovo Niccolò di Salerno,
i suoi fratelli, e gli altri Baroni siciliani e regnicoli, che
benchè fosse morto l'Imperadore, erano ancor sostenuti nelle prigioni
d'Alemagna, e si leggono perciò tre sue epistole, la prima indrizzata
agli Arcivescovi di Spira, d'Argentina e di Vormazia, ove dice
loro, che debbiano scomunicare tutti coloro, che teneano in prigione
l'Arcivescovo di Salerno, se nol rimettean di presente in libertà,
inviandolo onorevolmente a Roma, ed anche tutta la provincia, ove egli
fosse stato imprigionato; la seconda al Vescovo di Sutri, ed all'Abate
di S. Anastagia, ordinando loro, che assolvessero Filippo Duca di
Svevia, e fratello d'Errico, dalla scomunica, nella quale era incorso
per aver assalito, ed occupato lo Stato della Chiesa, pur ch'egli
procacciasse di riporre in libertà il Prelato suddetto; e la terza a'
medesimi Vescovi ed Abati, imponendo loro, che se non fossero posti
in libertà la Reina Sibilia, Guglielmo e le sorelle, e tutti gli altri
prigioni, dovessero scomunicare tutti coloro, che gli avesser sostenuti
ed interdire i loro Baronaggi[170]. Per la qual cosa il Duca Filippo,
che avea per moglie Irene greca, vedova già del giovanetto Ruggiero
Re di Sicilia, mosso a pietà di quelle donne illustri così acerbamente
trattate dalla fortuna, e per obbedir parimente ad Innocenzio, essendo
poco innanzi morto in prigione Guglielmo, le ripose in libertà e le
inviò a Roma al Pontefice; ma di quel che poscia avvenne loro, ed al
Duca Gualtieri di Brenna, che si ammogliò con una di quelle fanciulle,
ed entrò ostilmente con grosso stuolo d'armati in Terra di Lavoro,
scriveremo nel seguente libro di quest'Istoria. Furono ancora posti
in libertà l'Arcivescovo Niccolò, il Conte Riccardo e Ruggiero suoi
fratelli, che tornati in Salerno vissero poi lungamente.
Intanto l'Imperadrice Costanza, dimorando ancora il suo figliuol
Federico in poter di Corrado Duca di Spoleti, lo fece condurre dal
Conte di Celano e da Bernardo Conte di Loreto nel Reame, ed indi in
Sicilia; e non guari dapoi dimandò al Papa l'investitura, per se e
per Federico, la quale gli fu molto contrastata, non volendo darla
nella maniera, che Papa Adriano la diede a Guglielmo I, e con tutto
che Costanza gli avesse offerte larghe ricompense, non fu possibile
piegarlo, se non si cassassero quattro capitoli, de' quali parleremo
appresso, accordati prima con Guglielmo, onde rivocati questi, ottenne
dal Papa per lei, e per lo figliuolo l'investitura del Regno per mano
del Cardinal d'Ostia, che andò a Palermo, Legato di Santa Chiesa a
coronargli amendue, e riceverne il giuramento di fedeltà, e la promessa
del censo annuo di 600 schifati per la Puglia e per la Calabria, e di
400 per la Marsia. L'investitura la rapporta il Baronio, ove si leggono
le seguenti parole: _Quoniam Regnum Siciliae in Apostolicae Sedis fide
adhuc permansit, et Rogerius quondam pater tuus, et Willelmus frater,
et Willelmus nepos Reges Apostolicam Sedem, et praedecessores nostros
summa constantia coluerunt, etc. concedimus Regnum Siciliae, Ducatum
Apuliae, et Principatum Capuae, Neapolim, Salernum, Amalfim, Marsiam
cum iis, quae ad horum singula pertinent._ Viene anche rapportata
dal Chioccarelli[171], e da Rainaldo[172], e riferita dall'istesso
Innocente III in una sua epistola[173]. Scrisse ancora Innocenzio
all'Imperadrice una sua epistola, o sia Breve, prescrivendogli il modo,
che osservar si dovea nell'elezione de' Vescovi in tutti i suoi Stati,
restringendogli molto quell'autorità, che in vigore di antichissimi
privilegi e de' concordati che passarono fra Guglielmo I ed il
Pontefice Adriano, ebbero nell'elezione de' medesimi i Re di Sicilia;
di che ci tornerà occasione di far parola più innanzi trattando della
politia ecclesiastica; perlaqualcosa soleva dolersi Federico II, che
Innocenzio trattando con una donna, mentr'egli era fanciullo, avea
saputo ingannarla, ma che egli non avrebbe sofferto, che si fosser in
minima cosa derogate l'antiche ragioni e privilegi de' Re di Sicilia;
onde avvenne, che si rese odioso ai Pontefici romani, e che fosse
ciò una delle cagioni delle tante discordie e guerre, che lungamente
travagliarono l'Europa, come diremo, quando di tali avvenimenti ne'
seguenti libri dovremo ragionare.
Ma ecco finalmente l'Imperadrice Costanza, ultima degli eredi legittimi
del Re Ruggiero, ammalandosi gravemente in Palermo, passò di questa
vita il quinto giorno di dicembre di quest'anno 1198. Fu sepolta nel
Duomo della stessa città in un sepolcro di porfido a canto a quello del
marito, le cui iscrizioni, secondo che scrive il Baronio[174], fatte
novellamente scolpire da un tal Ruggiero Paruta Canonico palermitano
poco inteso della verità di questi avvenimenti, contengono la favola
del Monacato di Costanza, che sacrata e canuta divenisse moglie
d'Errico.
Lasciò ella nel suo testamento, che fece due giorni prima della sua
morte, il figliuol Federico, ed il suo Reame sotto la cura e baliato
d'Innocenzio III[175] con pessimo e pernizioso consiglio, poichè
questo fatto, oltre d'aver partoriti disordini gravissimi e d'essersi
aperta ben larga strada a' Pontefici romani d'intraprendere molte
cose sopra il Reame, come si vedrà nel seguente libro, fece nascere
l'altra pretensione dei medesimi, in congiuntura di minorità, di dover
essi assumere il governo e l'amministrazione del Regno, anche se nel
testamento dell'ultimo defunto non fosse loro conferito il Baliato,
pretendendo che di ragione, come diretti padroni, a loro si appartenga
durante la minorità del Re, siccome in fatti Clemente IV ciò pose per
ispezial patto nell'investitura, che diede a Carlo d'Angiò; e nel corso
di quest'Istoria si leggeranno molti disordini, e contese accadute in
questo nostro Regno per queste pretensioni.
Ecco come in Costanza ebbe fine il real legnaggio de' Normanni, i quali
da che Ruggiero prese la Corona in Palermo nell'anno di Cristo 1130
avean sessantotto anni con titolo reale dominato gloriosamente il Regno
di Puglia e di Sicilia: Principi per le lor degne e lodevoli azioni
meritevoli di chiara ed immortal memoria, i quali in mezzo a due Imperi
stabilirono in Italia il più possente e nobil Regno, che vi fosse in
que' tempi in tutta Europa, e che sotto Ruggiero, e i due Guglielmi
fece tremar non men l'Occidente, che l'ultime parti dell'Oriente. Ma
non perciò s'estinse in queste nostre province il sangue normanno.
Rimasero molti Baroni e Conti normanni, che per lunga serie d'anni
trasmisero co' Contadi l'illustre lor sangue nei posteri; nè senza
fondamento a' dì nostri vantano alcuni Baroni trarre la lor origine da
sì illustre e generosa prosapia. E vedi intanto come sì nobil Reame da'
_Normanni_ per diritto di successione non già per ragion di conquista,
passasse a' _Svevi_ dopo la morte di Costanza ultima di quell'illustre
legnaggio. Noi colla morte della medesima, dopo aver narrata la politia
ecclesiastica di questo secolo, daremo fine a questo libro, già che
l'alte e generose gesta di Federico suo figliuolo richiamandoci a più
nobili e magnifiche imprese, daranno ben ampio e luminoso soggetto a'
libri seguenti di questa Istoria.


CAPITOLO III.
_Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto il duodecimo
secolo, insino al Regno de' Svevi._

Lo Stato ecclesiastico si vide in questo secolo in un maggior splendore
e floridezza. I Pontefici romani innalzati sopra tutti i Re della
terra stendevano la lor mano in ogni Regno e provincia: ed i Re istessi
rendevansi a sommo favore dichiararsi loro ligi, e rendere i loro Regni
tributari alla Sede Appostolica. Stabilirono in questo secolo la loro
sovranità in Roma, e la lor independenza dall'Imperadore; e fecero
valere la lor pretensione di concedere la Corona imperiale. Roma erasi
renduta la Reggia universale, dove si riportavano non solo tutti gli
affari delle Chiese di Europa, ma ancora i più rilevanti interessi
delle Corone di quella, dipendendo i Principi con gran sommessione
da' cenni de' romani Pontefici; e sotto Innocenzio III il Ponteficato
si vide nella sua maggior grandezza. I Concilj per la maggior parte
erano convocati da essi, ovvero da' loro Legati, dove vi stabilivano
regolamenti, che giudicavano più confacenti per la loro grandezza; ed
a' Vescovi niente altro era rimaso, che di prestarvi il loro consenso.
Le appellazioni di tutte le sorte di cause e d'ogni sorta di persone
erano divenute tanto frequenti, che non v'era affare alcuno, che
subito non fosse portato a Roma. I Papi s'aveano appropriata gran
parte nel conferire i Vescovadi, perch'erano Giudici della validità
dell'elezioni, ancorchè queste si fossero lasciate al clero, e le
ordinazioni ai Metropolitani. A questo fine si proccurò innalzare la
dignità de' Cardinali, elevandogli a tal grado, che furono considerati,
non solo superiori a' Vescovi, ma eziandio a' Patriarchi ed a' Primati;
e sopra tutto ristringendo ad essi il potere d'eleggere il Papa. Per
mostrare maggiormente la loro sterminata potenza, e ricavarne insieme
profitto, non vi era cosa, che ricorrendosi in Roma, con facilità non
si dispensasse, onde la disciplina ecclesiastica venne ad indebolirsi;
ciocchè mosse S. Bernardo a declamare contro l'abuso di queste
dispense, come uno de' gran disordini introdotti nella Chiesa.
Ma quello che sopra ogni altro rendè il Ponteficato sublime, si fu
perchè non accadeva contesa fra' Principi d'Europa, nè controversia
d'ampj Stati e di grandi preminenze, che non si ricorreva a Roma, con
sottoporsi i litiganti alla decisione del Pontefice, di che ne possono
essere ben chiari documenti le tante epistole, e le tante decretali
d'Innocenzio III. I Re di Inghilterra, que' di Francia e di Spagna
rispettavano quella Sede con profondo ossequio: ed i nostri Re normanni
sopra tutti gli altri erano loro ossequiosissimi. Gli affari più grandi
de' loro Stati si maneggiavano da' Prelati. Si è veduto che ne' Reami
di Puglia e di Sicilia, gli Arcivescovi di Palermo, di Salerno, di
Messina, di Catania, e tante altre persone ecclesiastiche trattavano
i maggiori, e più rilevanti interessi della Corona. L'ambascerie più
cospicue ad essi erano appoggiate; e la Casa regale si reggeva da loro.
Essi erano del Consiglio regale, e nelle deliberazioni più serie e
gravi si ricercavano i loro pareri.
Le maggiori loro occupazioni non erano perciò più per lo governo
spirituale delle loro Chiese, ma tutti i loro pensieri erano negli
affari di Stato, ed indirizzati ad ingrandire le loro Chiese di
giurisdizione, di prerogative e d'onori, e sopra tutto di beni
temporali.
Crebbe perciò, per lo favore de' Principi, la loro conoscenza nelle
cause; poich'essendo i Vescovi per lo più assunti per Consiglieri del
Re, fu cagione di accrescere in immenso l'autorità del Foro episcopale;
ed abbiam noi veduto, che l'Arcivescovo di Palermo ottenne dal Re
Guglielmo di potere i Giudici ecclesiastici conoscere del delitto
d'adulterio e l'Imperadrice Costanza, Regina di Sicilia, drizzò un
editto ai Conti, Giustizieri, Baroni, Camerarj ed a' Baglivi della
diocesi del Vescovo di Penne, nel quale espressamente proibisce
loro di procedere ne' delitti d'adulterio, ma che lascino procedere
in quelli la Giustizia ecclesiastica; e quando accadesse che negli
adulterii, si fosse usata violenza, il Giudice ecclesiastico conoscerà
dell'adulterio, ed il Magistrato secolare della violenza, siccome
si legge nell'editto dato in Palermo l'anno 1197, e rapportato
dall'Ughello nella sua Italia sacra[176]. A questo s'aggiunse, che
gli Ecclesiastici, come quelli che meglio de' laici s'intendevano di
lettere, erano riputati migliori, e più sufficienti ad amministrar
giustizia, onde con facilità s'inducevano ad avergli per Giudici, e di
vantaggio, non potendo la Chiesa condennare a pena di sangue, nè anche
all'ammenda, ciascuno, per essere più dolcemente trattato, non solo
non sfuggiva, ma desiderava sottoporsi al giudicio di quella. Ma sopra
ogni altro si accrebbe la loro conoscenza, perchè i Re e i Signori
temporali, ed i loro Giudici non badavan molto allora a mantenere la
lor giurisdizione nelle cause, le quali non erano lucrative, e di gran
rendita per essi, com'è oggi, ma più tosto eran loro di peso, perchè
le loro cariche erano esercitate gratuitamente, e senza poter dalle
Parti esigere emolumento alcuno. Ed oltre a ciò quando s'entrava in
contenzione di giurisdizione con gli Ecclesiastici, le scomuniche
fulminavano, di che eravi presso di noi vestigio, che tutte le
domeniche ne' sermoni delle Messe parrocchiali si scomunicavano coloro,
che impedivano la giurisdizione della Chiesa.
Questo accrescimento dell'autorità del Foro episcopale, e
l'applicazione de' Vescovi in cose maggiori e più rilevanti, fece che
quando prima per ufficio caritatevole erano essi impiegati per via
d'amicabile composizione a decidere i piati tra' Fedeli, e vennero poi
ad acquistare per privilegio de' Principi la giurisdizione, esercitando
da se stessi la giustizia a' litiganti: finalmente se n'esentarono
in tutto, e cominciarono a crear Ufficiali per amministrarla; onde
eressero Tribunali con particolari Giudici, ed in decorso di tempo a
crear anch'essi Notaj, che avessero il pensiero, e la cura degli atti e
de' processi. Quindi sgravandosi ancora del peso d'insegnare i misterj
della nostra fede, stabilirono Professori di teologia per insegnare
nelle Chiese cattedrali la teologia, e tenendo a vile gli esercizj
delle cose sacre, tutta la loro applicazione era nelle cose del
secolo, e negli affari politici e di Stato. Da ciò nacque, che bisognò
provvedere il Foro episcopale d'un nuovo Corpo di leggi ecclesiastiche,
onde surse il decreto di Graziano, per istabilir meglio la giustizia
ecclesiastica, e la grandezza Pontificia.

§. I. _Nuove collezioni de' canoni, e del decreto di GRAZIANO._
Le raccolte, che si fecero nel precedente secolo, furono delle prime
dove i canoni si videro distribuiti per via di materie; ma quasi tutte
furon contaminate dalle varie cose suppositizie d'Isidoro, che in
quelle furono inserite. _Burcardo_ Vescovo di Vormes ne distese una
divisa in venti libri, che intitolò _Magnum Canonum Volumen_[177]. Ad
_Anselmo_ Vescovo di Lucca se ne attribuisce un'altra; ma quantunque
porti il suo nome, si vede altri esserne stato l'Autore, poichè vi
sono racchiusi alcuni decreti d'Urbano II, e d'altri Pontefici suoi
successori, li quali vissero dopo Anselmo[178]. Ve n'è un'altra
di _Adiodato_ Cardinale del titolo di S. Eudossia fatta intorno
l'anno 1087 per comandamento di Vittore III.[179] L'altra del Prete
_Gregorio_, intitolata _Policarpus_; siccome quella di _Bernardo_
di Pavia, che s'intitola _Populetum_, non han mai veduta la luce del
Mondo, ma manuscritte si conservano nella Biblioteca Vaticana[180]. Ma
quella che compilò _Ivone di Sciartres_ nel fine del precedente secolo,
oscurò tutte l'altre. Egli la divise in diciassette parti, e l'intitolò
_Decretum_. Dell'altra intitolata _Pannomia_ ovvero _Panormia_
attribuita al medesimo Ivone, sono alcuni, che ne fanno autore _Ugone_
catalano[181]. Queste Collezioni erano a quei tempi le più rinomate,
e delle quali valevansi le nostre Chiese, insino che surgesse quella
cotanto famosa di _Graziano_, che tolse lo splendore a tutte l'altre,
e che ricevuta con applauso da' Canonisti, meritò d'essere insegnata
nelle pubbliche Scuole, ed in poco tempo ebbe tanti Commentatori, che
fu riputata la principal parte della ragion canonica.
Graziano fu un Monaco dell'Ordine di S. Benedetto, il quale nel
Ponteficato d'Alessandro III insegnò teologia in Bologna. E' nacque in
Chiusi città della Toscana, e fu fama che fosse procreato d'adulterio
insieme con _Pietro Lombardo_ chiamato il _Maestro delle sentenze_,
e con _Pietro Comestore_ Scrittore dell'Istoria Scolastica, creduti
suoi fratelli; narrasi ancora, che la loro comune madre non potè mai
ridursi ad aver pentimento degli adulterj commessi quando gli generò,
dicendo esserne ben paga, per aver dato al Mondo tre preclari e grandi
uomini; e corretta dal suo Confessore, non potè ridurla, imponendole
alla fine, che almeno si pentisse di questo suo non potersi pentire. Ma
Guido Pancirolo[182] rifiutò come favole questi racconti, massimamente,
perchè non fu una la patria di coloro, essendo Graziano di Chiusi,
Pietro Lombardo di Novara, e 'l Comestore fu Franzese.
Compilò egli questa Raccolta in Bologna nel monastero di S. Felice
intorno l'anno 1151 nel Ponteficato d'Eugenio III[183], e l'intitolò
_Concordia discordantium Canonum_. La divise in tre parti. La prima
contiene i principj, e ciò che riguarda il diritto canonico in
generale, ed i diritti e ragioni delle persone ecclesiastiche, sotto
il titolo di _Distinzioni_. La seconda, la decisione di diversi casi
particolari, coll'occasione de' quali si risolvono molte quistioni; ed
è intitolata le _Cause_. La terza ha per titolo _della Consecrazione_
perchè riguarda quanto appartiene al ministerio ecclesiastico, a'
sacramenti, a' riti, alle ordinazioni, e consecrazioni. La presentò
egli a Papa Eugenio, ma non costa, che ne avesse da costui ottenuta
conferma alcuna: ma non perciò che da' Pontefici non si fosse con
pubblica legge approvata, rimase ella senza autorità e vigore. Fu
ricevuta con tanto applauso, che gl'istessi romani Pontefici se ne
valsero, e tacitamente per innalzare la loro autorità, ed abbassare
quella dell'Imperadore e degli altri Principi la promossero; quindi
sotto Federico Barbarossa sursero i _Decretisti_ di fazione Guelfa, i
quali difendendo le ragioni del Papa, si opponevano a' Ghibellini[184].
Ed ancor che quest'opera contenesse infiniti errori, fosse fatta
senz'ordine, ed in una somma confusione, in guisa che fu d'uopo
poi emendarla, nè bastò l'industria e la diligenza di tanti insigni
Professori per poterla affatto pulire[185], con tutto ciò acquistò
tanta autorità, che tirò a se tutti i Letterati, i maggiori Teologi di
que' tempi ad impiegarvi i loro talenti in farvi glosse e commenti;
e nel Foro ebbe gran peso la sua autorità nelle decisioni delle
cause; tanto che Graziano era comunemente appellato il _Maestro_; e
nell'Accademie il suo _Decreto_ era pubblicamente insegnato, e coloro,
che l'insegnavano erano decorati col titolo di _Dottore_, prendendo tal
dignità per mezzo d'una bacchetta, onde si dissero _Baccellieri_[186].
Accrebbe ancora la sua autorità la fama dell'Accademia di Bologna,
la quale in que' tempi sopra tutte l'Accademie d'Italia e di Francia
teneva il vanto; ed il gran numero de' Glossatori.
I primi furono _Lorenzo da Crema_, _Vincenzo Castiglione_ di Milano
gran Canonista, ed _Ugone da Vercelli_. Seguitarono le costoro
vestigia _Tancredi_ da Corneto Arcidiacono di Bologna, il quale
intorno l'anno 1220 vi fece le chiose; _Sinibaldo Fieschi_, il quale
innalzato al Ponteficato fu detto Innocenzio IV e _Giovanni Semeca_
detto il _Teutonico_. Costui reformò tutte le chiose prima fatte ed
aggiungendo le sue, fece al _Decreto_, ciò che Accursio fece alle
_Pandette_[187]. Sursero da poi infiniti altri Glossatori, _Bernardo
Bottone_, _Goffredo_, _Egidio da Bologna_ ed altri; fra' quali
s'estolse _Bartolomeo da Brescia_ discepolo di Vincenzo Castiglione, il
quale intorno l'anno 1256 aggiunse le sue chiose a quelle di Giovanni
Teutonico, le corresse, le riformò ed in gran parte le mutò. Quando
Gregorio XIII ordinò l'emendazione del decreto di Graziano, i romani
Espurgatori ebbero molto che fare, non solo in pulendo il corpo del
decreto, ma anche per espurgarlo dagli infiniti spropositi ed assurdi,
che questi Canonisti Glossatori v'aveano aggiunti; tanto che surse quel
proverbio: _Magnus Canonista, magnus Asinista_[188].
Si credette a questi tempi, che il _Decreto_ di Graziano bastasse per
innalzare l'autorità pontificia al sommo dove potesse ascendere; ma in
decorso di tempo, mutate le cose, questa compilazione non fu riputata
sufficiente; onde al _Decreto_ successe il _Decretale_, che poi anche
non ha soddisfatto: ma secondo, che di tempo in tempo li Pontefici si
sono andati avanzando in autorità, si sono formate nuove regole, onde
ad emulazione del Corpo delle leggi civili, perchè si vedesse come,
ed in qual maniera dentro un Imperio potesse fondarsene un altro,
alle _Pandette_ opposero il _Decreto_: al _Codice_, il _Decretale_:
alle _Novelle_, il _Sesto_, le _Clementine_, e le _Estravaganti_; e
perchè niente mancasse, Paolo IV comandò a Gio. Paolo Lancellotto che
ad imitazione delle _Istituzioni_ di Giustiniano compilasse anche le
Istituzioni Canoniche, come fu fatto.

§. II. _Elezione di Vescovi ed Abati._
Ebbe in questo secolo grande incremento la potestà de' Pontefici romani
intorno alla creazione de' Vescovi ed Abati; ed ancorchè al Clero ed a'
Monaci si lasciasse l'elezione, nè apertamente s'impedisse a' Principi
il loro diritto che v'aveano per gli _assensi_; nulladimanco essendosi
i Pontefici resi Giudici della validità d'ogni elezione, inventò la
Corte romana altri modi, co' quali spesse volte la collazione de'
Vescovadi e Badie si tirassero a Roma. Furono stabilite perciò molte
condizioni da dover'essere necessariamente osservate prima di venirsi
all'elezione; altre nella celebrazione di essa; ed infinite qualità
erano ricercate nella persona dell'eletto; aggiungendo che quando
alcuna di quelle non fosse osservata; gli elettori fossero privati
allora della potestà d'eleggere, la quale si devolvesse a Roma.
Accadeva perciò e per diversi altri rispetti e cagioni, che sovente
nascevano difficoltà sopra la validità dell'elezione; il perchè una
delle parti appellava a Roma, dove per lo più si dava il torto ad
ambedue; ed era l'elezione invalidata e tirata la collazione del
Vescovado o Badia per quella volta a Roma.
Quando ancora si sapeva in Roma vacare qualche buon Vescovado o Badia,
era spedita subito una _Precettoria_, ordinandosi in quella, che non si
procedesse all'elezione senza saputa del Papa; e con onesto colore di
aiutare o prevenire i disordini, che potessero occorrere, si mandava
persona che assistesse e presedesse all'elezione, per opera della
quale con diverse vie e maneggi, si faceva cader l'elezione in colui
che dovea essere di maggior beneficio di Roma. Per queste cagioni
poche elezioni di Vescovadi e Badie erano celebrate, che per alcuni di
questi rispetti non fossero esaminate in Roma; onde i Pontefici romani
quasi in tutte s'intromettevano, coprendosi ciò con onesto titolo
di devoluzione per servizio pubblico: perchè gli elettori ordinari
mancavano di quello, ch'era debito loro. Questi modi usati variamente
secondo l'esigenza de' casi, non furono a questi tempi stabiliti in
maniera, che avessero forza di legge, ma più tosto di consuetudini o
di ragionevolezza; insino che Gregorio IX ridotti in un corpo tutti li
rescritti, che servivano alla grandezza romana, ed esteso ad uso comune
quello, che per un luogo particolare e forse in quel solo caso speziale
era statuito, cacciò fuori il suo _Decretale_, che principiò di fondare
e stabilire la Monarchia romana.
Questa medesima soprantendenza si pretese da' Pontefici romani
esercitare nelle nostre Chiese e monasteri, e metter mano a quella
parte che nell'elezioni s'apparteneva a' nostri Principi, e si
tentò escludergli anche dall'_assenso_ ricercato in quelle. Ma il
Re Guglielmo I nella pace fatta con Papa Adriano, volle ciò pattuire
con Capitolazione particolare, in vigor della quale, siccome altrove
fu narrato, fu l'assenso del Re stabilito per necessario in tutte
l'elezioni delle nostre Chiese, in guisa, che se l'eletto non fosse
piaciuto al Re, o perchè fosse persona a lui odiosa e che per qualunque
altra cagione non volesse assentire, non potesse quegli intronizzarsi
e consecrarsi[189].
Ma non mancarono in Roma di dire, che quelle Capitolazioni accordate
da Guglielmo con Adriano, fossero state estorte per violenza e colle
armi alle mani; tanto che quando lor veniva in acconcio, abusandosi
della bontà o debolezza di qualche Principe, sotto onesto colore di
prevenire i disordini o che i nostri Re s'abusassero di questa facoltà,
si facevano i Papi ben sentire, pretendendo di più, che riconoscendo
tal prerogativa per beneficio e privilegio lor conceduto dalla Sede
Appostolica, avvertissero a ben servirsene perchè altrimente sarebbe
stata lor tolta. E nel Regno di Guglielmo il Buono, essendosi questo
Principe valso di questa ragione nell'elezione del Vescovo d'Agrigento,
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