Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4 - 05

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tutta si raggira intorno all'incumbenza de' Maestri Camerari e de'
Baglivi. Si prescrive il numero de' Baglivi e de' Giudici in ciascuna
città e luogo delle province; e s'impone a' Camerari di non rendere
venali questi Uffici, ma di distribuirgli a persone meritevoli e
fedeli: che invigilino sopra i medesimi con vedere i loro processi;
e dà altre providenze attinenti alla retta amministrazione della
giustizia, ed al buon governo delle province.
La decima, che abbiamo sotto il titolo _de quaestionibus inter Fiscum,
et privatum_, prescrive a' Maestri Camerari che eccettuatene le cause
feudali, abbiano a conoscere di tutti i giudicj, così reali, come
personali tra il Fisco ed i privati, colli Giustizieri aggiunti, e
coll'intervento dell'Avvocato fiscale.
L'undecima, sotto il titolo _de cognitione causae coram Bajulis_, dà
facoltà a' Baglivi di poter conoscere ne' luoghi dove sono preposti, di
tutte le cause civili così reali, come personali, eccettuatene le cause
feudali: di conoscere ancora de' furti minimi e d'altri minori delitti,
che non portano pena di mutilazion di membra. La duodecima che si legge
sotto il titolo _de fure capto per Bajulum_, prescrive a' Baglivi,
che prendendo qualche ladro forastiero, l'abbiano insieme colla roba
rubata a consignar in mano de' Giustizieri: se sarà del luogo, ove sono
preposti, parimente lo debbiano consegnare a' Giustizieri, ma le robe
mobili del medesimo dovranno essi applicarle al Fisco di quel luogo.
La decimaterza, sotto il titolo _de Officio Bajulorum_ impone a'
Baglivi di dover invigilare intorno al giusto prezzo delle cose venali;
e la loro incumbenza particolare essere, d'esigere irremissibilmente
le pene a quei che venderanno contro l'assise, o pure se troveranno
mancanti i loro pesi e misure. La decimaquarta, che segue sotto il
titolo _de Poena negantis depositum vel mutuum_, punisce severamente
i depositari, e que' che o per mutuo, o per comodato negheranno a'
padroni di restituire la loro roba.
La decimaquinta, che si legge sotto il titolo _de Clericis conveniendis
pro possessionibus, quas non tenent ab Ecclesia_, merita maggior
riflessione che tutte l'altre. In essa si determina, che se i Cherici
saranno convenuti per qualche eredità, tenimento, o altra roba di lor
patrimonio, che non dalla Chiesa, ma da altri sia ad essi pervenuto:
la cognizione di queste cause spetti alla Corte secolare del luogo,
nel distretto del quale sono le lor possessioni, e quivi dovranno
essi rispondere in giudizio, se avran cosa in contrario: proibendosi
solamente a' Giudici secolari di poter prendere le loro persone,
ovvero carcerarle: ma non già eseguire in vigor della sentenza, che
la lor Corte proferirà, le robe dedotte in giudicio. Questa legge di
Guglielmo nel tempo, che fu promulgata, non parve niente irregolare e
strana, siccome ancora da poi nei tempi di Marino di Caramanico antico
Glossatore di queste Costituzioni, che glossandola, niente trovò che
riprendere. Ma ne' secoli posteriori, quando il diritto canonico de'
decretali cominciò a stabilire nelle menti de' nostri Giureconsulti
altre massime, parve assai strana e mostruosa. Andrea d'Isernia, che
scrisse in questi tempi, non ebbe per ciò difficoltà di dire che tal
Costituzione niente valesse, anzi dovesse reputarsi nulla e vana, come
quella ch'è contro le persone ecclesiastiche, e contro l'ecclesiastica
libertà. Aggiugne ancora essersi ingannato il Legislatore, che vuol
che si dovesse attendere la qualità o condizione delle robe, non
delle persone, quando tutto il contrario, le robe prendono qualità
dalle persone, e queste sono convenute, non quelle. Chiama eziandio
imperiti coloro, che dicono aver il Papa e la Chiesa romana approvate
queste Costituzioni; poichè dice non apparirne la conferma, e se pure
apparisse generalmente fatta, non perciò si dee aver per approvata
questa Costituzione dal Papa, il quale se fosse stato richiesto di
particolarmente confermarla, non l'avrebbe conceduto. Ma da quanto si è
detto ne' precedenti libri, quando della politia ecclesiastica ci toccò
favellare, ben si potrà comprendere, quanta poca verità contenga questo
discorso d'Isernia.
La decimasesta, ch'è l'ultima di questo Principe, collocata da Pietro
delle Vigne nel libro primo delle Costituzioni del Regno sotto il
titolo _de Officio Castellanorum_, non contiene altro, se non che si
comanda a' Castellani ed altri loro subalterni, che niente esigano
da' carcerati, che non pernotteranno nelle carceri; ma se arriveranno
a pernottarvi, nel tempo della lor liberazione non esigano più che un
mezzo tarino.
Nel libro secondo non abbiamo leggi del Re Guglielmo, ma nel terzo la
decimasettima, che prima si incontra, è quella sotto il titolo _de
Dotariis constituendis_, ove s'impone alle mogli, dopo la morte dei
loro mariti, di dovere assicurare gli eredi di quello del dotario, che
tengono nella Baronia, e prestar giuramento di fedeltà a colui, che
sarà rimasto padrone della medesima.
La decimaottava, che abbiamo sotto il titolo _de Fratribus obligantibus
partem feudi pro dotibus sororum_, permette a' fratelli, se non avranno
mobili, o altri beni ereditarj, di poter costituire in dote alle loro
sorelle, e obbligare perciò parte del Feudo; e di vantaggio, se avranno
tre o più Feudi, che possano uno d'essi darne in dote alle medesime:
ma che in tutti i casi suddetti, e quando s'obbliga il Feudo, e quando
s'aliena, o si costituisce in dote, sempre s'abbia da ricercare la
licenza del Re. E di vantaggio, che i matrimoni non possan contraersi
senza suo permesso ed assenso, ed altrimenti facendosi, tutte le
convenzioni siano nulle, e invalide: ciocchè, come si disse, diede
motivo a' Baroni del Regno di doglianza, che per queste leggi, per le
quali senza licenza della sua Corte non potevano collocar in matrimonio
le lor figliuole o sorelle si era loro imposto duro giogo; ma Federico,
ciò non ostante, volle confermarla per quelle ragioni, che si sono
dette, quando delle leggi di Ruggiero parlossi; poichè la legge non
era gravosa per quello, che ordinava, ma per lo mal uso, che d'essa
Guglielmo faceva, il quale per avidità, che i Feudi ritornassero al
Fisco, era inflessibile a dar il suo permesso nei matrimoni, onde si
mossero quelle querele de' Baroni e quei disordini, che nel Regno di
questo Principe si sono raccontati.
Merita la decimanona legge di Guglielmo, posta sotto il titolo _de
Adjutoriis exigendis ab hominibus_, tutta la considerazione; poichè in
essa più cose degne da notarsi s'incontrano. Primieramente si raffrena
l'avidità de' Prelati delle Chiese, de' Conti, de' Baroni, e degli
altri Feudatari, i quali per qualunque occasione estorqueano da' lori
vassalli esorbitanti _adjutorj_; onde volendo togliergli da questa
oppressione, stabilisce i casi ne' quali possano i medesimi giustamente
pretendergli. I casi sono: I Se si trattasse di redimere la persona
de' loro padroni dalle mani de' nemici, da' quali fossero stati presi
militando sotto le insegne del Re. II Se il Barone dovesse ascrivere
un suo figliuolo alla milizia. III Per collocare la sua figliuola, o
sorella in matrimonio. IV Per compra di qualche luogo, che servisse
per servizio del Re, o del suo esercito. Merita ancora riflessione
ciò, che si stabilisce per li Prelati delle Chiese, a' quali anche si
prescrivono alcuni casi, ne' quali possano legittimamente cercar gli
adjutorj da' loro vassalli: I Per la loro consecrazione. II Quando
dal Papa saranno chiamati ad intervenire in qualche Concilio. III Per
servizio dell'esercito del Re, se essi saranno in quello. IV Se saranno
chiamati dal Re; ove è da notare, che in questi tempi non cadea dubbio
alcuno, se i Principi potessero chiamare i Prelati, nè questi facevano
difficoltà d'ubbidire alle chiamate, come si cominciò a pretendere
negli ultimi tempi; se bene nel Regno i nostri Principi sempre si siano
mantenuti in questo possesso, con discacciar i renitenti dal Regno nel
caso non ubbidissero. V Se il Re per suo servigio gli mandava altrove,
siccome indifferentemente soleva fare, impiegandogli sovente negli
affari della Corona; e per ultimo se l'occasione portasse, che il Re
dovesse ospiziare nelle loro terre. In tutti questi casi si permette
a' Prelati poter riscuotere da' loro vassalli gli adjutorj, ma si
soggiunge nella medesima Costituzione, che debbano farlo moderatamente.
Quell'altra, che si legge sotto il titolo _de novis edificiis_, se
bene in alcune edizioni portasse in fronte il nome di Ruggiero, ed in
altre quello di Guglielmo, è chiaro però, che non sia nè dell'uno, nè
dell'altro. L'Autore della medesima fu Federico II come è manifesto
da quelle parole, _ab obitu divae memoriae Regis Gulielmi consobrini
nostri_, intendendo Federico di Guglielmo II, che fu suo fratello
consobrino, come nato da Guglielmo I, fratello di Costanza madre di
Federico.
La vigesima è sotto il titolo _de servis, et ancillis fugitivis_.
Proibisce per quella Guglielmo, ritenere i servi fuggitivi; ed ordina
nel caso sian presi, che immantenente si restituischino a' padroni,
se si sapranno: se saranno ignoti, impone che debbano consegnarsi a'
Baglivi, i quali tosto dovranno trasmettergli alla sua Gran Corte e
facendo altrimenti, s'impone pena ai trasgressori, anche agli stessi
Baglivi, della perdita di tutte le loro sostanze da applicarsi al
Fisco: ma Federico nella Costituzione _de Mancipiis_, dà un anno
di tempo a' padroni di ricuperargli, da poi alla Gran Corte saranno
trasmessi.
L'ultima è quella che si legge sotto il titolo _de pecunia inventa
in rebus alienis_. Se l'altre leggi di Guglielmo sinora annoverate
mostrano l'avidità, che ebbe questo Principe di cumular denari, e
d'imporre tante pene pecuniarie, onde s'arricchisse il suo erario,
maggiormente lo rende manifesto questa, che siamo ora a notare.
Guglielmo sin dall'anno 1161 avea stabilita legge, che chi trovasse un
tesoro, lo trovava per lo Re[53]. In questa, ora ordina che chiunque
ritrovasse oro, argento, pietre preziose ed altre simili cose, che non
siano sue, debba immantenente portarle a' Giustizieri, o Baglivi del
luogo, ove saranno trovate, i quali tosto debbano trasmetterle alla
sua Gran Corte, altrimente come ladro sarà punito. Dichiarando ancora
generalmente, che tutto ciò che nel suo Regno sarà trovato, del quale
non apparisca il padrone, al suo Fisco spezialmente s'appartenga.
Vuol che alla sua pietà si debba ciò che soggiunge, cioè che se fra
lo spazio d'un anno taluno proverà esserne di quelle il vero padrone,
debbansi a lui restituire, ma quello trascorso, stabilmente al Fisco
s'ascrivano. Federico II, nella seguente Costituzione approva la legge,
e questo solo aggiunge, che le robe trovate s'abbiano a conservare
da' Giustizieri e Baglivi delle regioni, ove si trovarono, non già
trasportarsi nella Gran Corte, non parendogli giusto, che i padroni
di quelle per giustificare e provare esser loro, e per ricuperarle,
da lontani luoghi abbiano con molto loro dispendio e travaglio da
ricorrere alla Gran Corte da essi remota.
Queste sono le leggi del Re Guglielmo I, che a Federico piacque
ritenere, e che volle unire colle sue e con quelle di Ruggiero suo
Avo; poichè l'altra, che si legge sotto il titolo _de adulteriis
coercendis_, dove, quando non vi sia violenza, si commette a'
Giudici ecclesiastici la cognizione dell'adulterio, a cui uniformossi
l'Imperadrice Costanza per una sua carta rapportata dall'Ughello, non
è, nè di Ruggiero, nè di questo Guglielmo: ella è di Guglielmo II, suo
figliuolo, come si vedrà chiaro quando delle leggi di questo Principe
farem parola.
Fassi ancora da alcuni Guglielmo autore della Gran Corte, e ch'egli
fosse stato il primo a stabilir questo Tribunale; nè può dubitarsi,
che nell'anno 1162 uno de' Giudici di questa Gran Corte fosse stato
Carlo di Tocco Commentatore delle nostre leggi longobarde. Ma siccome
ciò è vero, così non potrà negarsi, che la Gran Corte a' tempi di
Guglielmo era quella eretta in Palermo, ove tenea collocata la sua sede
regia, non già quella, che a' tempi di Federico II, e più di Carlo I
d'Angiò, veggiamo stabilita in Napoli. In tempo di Guglielmo, Napoli
non era riputata più di qualunque altra città del nostro Reame, anzi
Salerno, e (prima d'averla egli così mal menata) Bari sopra le altre
estolsero il capo. E se bene alcuni rapportano, che questo Principe di
due famosi castelli avesse munita Napoli, cioè di quello di Capuana
contro gli aggressori di terra e dell'altro dell'Uovo, per que' di
mare, ancorchè altri ne facessero pure autore Federico: niun però
potrà negare, che questa città da Federico II, cominciasse pian piano
a farsi capo e metropoli di tutte l'altre, così per l'Università degli
studi, che v'introdusse, come per li Tribunali della Gran Corte e
della Zecca, chiamato poi della Camera Summaria; e che non prima de'
tempi di Carlo I di Angiò fosse sede regia, ove si riportavano tutti
gli affari del Regno, e che finalmente la resero capo e metropoli di
tutte le altre, come si vedrà chiaro nel corso di quest'Istoria. Ne'
tempi di quest'ultimi Re normanni, non vi era in queste nostre province
città, che potesse dirsi capo sopra tutte l'altre. Ciascuna provincia
teneva i suoi Giustizieri, Camerari ed altri particolari Ufficiali,
nè l'una s'impacciava degli affari dell'altra. Nè in questi tempi il
numero delle medesime era moltiplicato in dodici, come fu fatto da poi
(se debbiamo prestar fede al Surgente)[54] nei tempi di Federico; ma
le nostre regioni erano divise secondo i Giustizieri, che si mandavano
a reggerle, onde presero il nome di Giustizierati e poi di province,
governandosi da' Presidi, come s'intenderà meglio ne' libri che
seguiranno di questa Istoria.

FINE DEL LIBRO DUODECIMO.


STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO DECIMOTERZO

La morte di Guglielmo I, e l'innalzamento al Trono di Guglielmo II
suo figliuolo fece mutar tantosto in tranquillità lo stato delle cose
del Regno; poichè l'avvenenza del fanciullo e la sua benignità trasse
di modo a se l'amore e la benevolenza di tutti, che ancor quelli,
ch'erano stati acerbi nemici del padre, fecero proponimento di essergli
fedelissimi, dicendo bastare con la morte del vecchio Re essersi tolto
di mezzo l'autor di tutti i mali, nè doversi all'innocente fanciullo
imputar la colpa della tirannia del padre. Intanto la Reina Margherita
sua madre, fatti convocar tutti i Prelati e Baroni del Regno, lo fece
solennemente coronare nel Duomo di Palermo da Romoaldo Arcivescovo
di Salerno: alla qual celebrità, oltre i Prelati ed i Baroni, fuvvi
innumerabil concorso del Popolo della città, che accompagnollo, finita
l'incoronazione, insino al palagio reale con molti segni d'amore e
d'allegrezza. E la Reina, la quale per la tenera età del figliuolo,
che appena dodici anni compiva e non era atto a governare il Regno,
avea di quello presa la cura, volendo, come saggia, accrescere l'amor
dei Popoli verso di lui, fece porre in libertà tutti i prigioni, e
rivocò dal bando quelli, che v'erano stati mandati dal Re Guglielmo,
richiamando Tancredi Conte di Lecce, e togliendo parimente via molte
gravezze imposte da lui, scrisse a tutti i Maestri Camerarj della
Puglia e Terra di Lavoro, che per l'avvenire non esigessero più
quell'insopportabile peso, chiamato _redemptionis_, che avea ridotte
all'ultima disperazione quelle province[55]. Restituì i Baronaggi a cui
erano stati tolti, e ne concedè molti altri di nuovo a diverse persone,
donando ancora con larga mano molti beni a varie Chiese.
Ma l'aver ella voluto, contro quel che suo marito avea disposto nel
suo testamento, innalzar soverchio Gaito Pietro, e farlo superiore nel
Governo a Matteo Notajo, ed all'Eletto di Siracusa, dandogli tutto il
Governo nelle mani, cagionò nuovi disturbi nel palazzo reale; poichè
gli altri Cortigiani invidiosi della sua grandezza, presa baldanza
dalla fanciullezza del Re, e poco stimando il non fermo imperio della
donna, cominciarono di nuovo a porre in rivoltura la Casa del Re,
consigliere della quale fu Gentile Vescovo d'Agrigento, il quale,
resosi carissimo all'arcivescovo di Reggio, cominciò a tender insidie
all'Eletto di Siracusa, ed a corrompere insieme Matteo Notajo; e
portarono la cosa in tale sconvolgimento, che obbligarono ancora a
Gaito Pietro di fuggirsene in Marocco sotto la protezione di quel Re.
Ma sedati (dopo varj avvenimenti, che ben a lungo vengon narrati dal
Falcando) questi rumori, ed essendo rimaso l'Eletto nel suo luogo, come
prima era, giunsero poco da poi in Palermo gli Ambasciadori mandati
da Emanuele Imperadore d'Oriente, il quale avendo avuta contezza della
morte di Guglielmo, inviò a rinovar la pace col nuovo Re, ed offerirgli
per moglie l'unica sua figliuola con l'Imperio in dote: li cui
Ambasciadori furon lietamente accolti, e rinovossi di presente la pace;
ma il parentato non si potè conchiudere allora per le molte difficoltà,
che occorsero nel trattarlo.
Passarono nel secondo anno del Regno di Guglielmo, non meno in Sicilia,
che in Puglia alcune turbolenze cagionate, non da forze esteriori,
ma dalle discordie di que' del Palazzo, e di alcuni Baroni del Regno,
che obbligarono al Gran Cancelliere, ch'era allora Stefano di Parzio,
figlio del Conte di Parzio parente della Regina (che lo chiamò di
Francia, ed a cui la somma del Governo dopo molti avvenimenti era
caduta) di persuadere al Re, che partisse da Palermo, e lo fece andare
a Messina, ove più dappresso potesse por quiete alle cose di Puglia.
Ma questi moti del Regno, a riguardo di que' maggiori, che si vedeano
in Lombardia, ed a petto di ciò, che allora passava tra il Pontefice
Alessandro III coll'Imperadore Federico Barbarossa, erano di piccola
considerazione, e riputati come di facile componimento: siccome non
passò guari, che il tutto fu posto in pace e tranquillità. Erano gli
occhi di tutti rivolti all'Imperadore Federico, il quale con grande
e poderosa oste era calato in Italia, per far guerra al Pontefice
Alessandro, ed a' Romani, i quali avendo voluto combattere senz'ordine
alcuno, e con troppa baldanza, furono da Federico posti in rotta,
uccidendone, e facendone prigioni grosso numero, essendosi gli altri
appena potuto con la fuga salvare entro le mura della loro città. Il
Papa e tutto il Popolo si vide in grande afflizione, e l'Imperadore
avuta contezza del felice successo, avendo già presa Ancona, e stando
in pensiero di passare in Puglia sopra gli Stati del Re Guglielmo,
venne prestamente anch'egli col rimanente del suo esercito a Roma[56],
ed avendo dato un gagliardo assalto alla porta del Castel S. Angelo,
combattè poscia la chiesa di S. Pietro, e non potendola agevolmente
prendere vi fece attaccare il fuoco: il perchè smarriti i defensori,
la diedero in sua balia, ed Alessandro temendo della furia di
lui, abbandonato il palagio di Laterano, si ricovrò nella casa de'
Frangipani, e colà si afforzò con tutti i Cardinali entro una torre
della Cartolaria.
L'Imperadore nella vegnente domenica fece dal suo Antipapa Guidone da
Crema cantar solennemente la messa nella chiesa di S. Pietro, e fece
coronarsi colla Corona reale, e 'l lunedì, in cui si celebrò la festa
di S. Pietro in Vincula, si fece dal medesimo Antipapa con nobil pompa
coronare Imperadore insieme con Beatrice sua moglie.
Il nostro Guglielmo, che seguitando in ciò l'esempio di suo padre
continuava con Alessandro la medesima corrispondenza ed unione, tanto
che costui non s'offese punto, che Guglielmo si fosse fatto incoronare
Re senza sua saputa, come gli altri suoi predecessori avean preteso:
avendo inteso l'angustie nelle quali si ritrovava il Papa, e saputo
il pensiero di Federico di passare in Puglia sopra i suoi Stati,
ritrovandosi, come si è detto in Messina, mandò tosto ad Alessandro due
sue galee con molta moneta, acciocchè avesse potuto sopra esse partir
di Roma, le quali giunte improvviso al Tevere, consolarono estremamente
con la lor venuta Alessandro; il quale non volendo per allora partirsi
dalla città, trattenuti seco gli Ambasciadori del Re otto giorni,
gli rimandò indietro, rendendo molte grazie al loro Signore di così
opportuno soccorso, e diede parte della moneta a' Frangipani, e parte
a Pier Leoni, acciocchè con maggior costanza, e valore avesser difesa
la città. Ma vedendo poscia, che l'Imperadore tentava di farlo deporre
dal Papato, e che i Romani cominciavano a mancargli di fede; vestitosi
da peregrino, uscì con pochi de' suoi assistenti di Roma, e si ricovrò
a Gaeta, ove essendo prestamente seguito da' Cardinali, ripreso l'abito
ponteficale, se n'andò a Benevento.
Ma non passò guari, che Federico fu obbligato tornarsene in Alemagna;
perciocchè essendo stato assalito il suo esercito da mortifera
pestilenza, fra lo spazio di otto giorni morirono quasi tutti i
suoi soldati, e i suoi maggiori Baroni che avea seco, fra' quali
furono Federico Duca di Baviera, il Conte di Vastone, Bercardo Conte
d'Arlemonte, il Conte di Sesia, Rinaldo Arcivescovo di Colonia con
un suo fratello, ed il Vescovo di Verdun; ond'egli con pochi de' suoi
arrivò in Alemagna.
Intanto nella Sicilia eran accadute nuove turbolenze, e nuovi tumulti,
pure per le medesime cagioni di cortigiani, e degli antichi familiari
della Casa del Re, che per non appartenere all'istituto dell'Istoria
presente molto volentieri le tralasciamo; tanto più che minutamente
furono alla memoria de' posteri tramandate da Ugone Falcando, e
modernamente con molta diligenza raccolte da Francesco Capecelatro
nella sua Istoria de' Re normanni, e da Agostino Inveges nella sua
Istoria di Palermo. Seguì ancora in questi medesimi tempi la famosa
congiura fatta da' Siciliani contro il Cancellier Stefano di Parzio,
che finalmente l'obbligarono a partirsi da Palermo, e ricovrarsi
in Palestina, ove morì, scritta in più luoghi da Pietro di Blois
Arcidiacono di Battona, uomo chiarissimo, il quale da Francia passò
con lui nell'isola, ed insegnò per un anno lettere al Re Guglielmo, e
fu suo Segretario e Consigliere, ed essendo stato eletto Arcivescovo
di Napoli per opera de' suoi nemici per allontanarlo con sì fatta
cagione dalla Corte, rinunciò il Vescovado. E dimorato per cagion
della sua infermità, dopo la partita del Cancelliere, per alcuno
spazio in Sicilia, quantunque pregato da Guglielmo a restarvi per
sempre, promettendogli di tenerlo in grande stima, perchè avea preso in
orrore i costumi de' Siciliani per ciò che aveano fatto al Cancelliere
Stefano; non volle a patto alcuno rimanervi. Di lui abbiamo oggi
giorno molte sue opere, ed un volume di epistole, e fu uno de' maggiori
Letterati, che fiorissero in questo secolo[57]. Fin qui distese la sua
famosa Istoria Ugone Falcando siciliano, il quale avendo cominciato
la sua narrazione dalla morte del Re Ruggiero seguita nel principio
del 1154, e dandole fine nel presente anno 1170, egli ordì un'erudita
istoria di 15 anni, con tanta eleganza, ch'è veramente cosa da
recar maraviglia, come in tempi così incolti, egli sì politamente la
scrivesse.
Era in questo mentre morto in Roma Guido da Crema Antipapa, detto
Pascale III, ch'era stato creato in luogo d'Ottaviano per opera
dell'Imperador Federico; e perchè non vollero i suoi seguaci cedere
al Pontefice Alessandro, ne crearono in quest'anno 1170 tantosto il
terzo, che fu un tal Giovanni Ungaro Abate di Strumi, che Calisto III
chiamarono; benchè Alessandro che dimorava a Benevento, fosse stato
intanto riconosciuto come vero Pontefice da tutti i Cristiani, fuor
che da Cesare, e da alcuni suoi Tedeschi. Partissi poscia Alessandro da
Benevento per andar in Roma; ma li Romani sdegnati con lui, perchè avea
ricevuto in sua grazia il Conte di Tuscolo loro scoverto nemico, non lo
vollero ricevere, laonde ritornò in dietro a Gaeta, e quivi molto tempo
si trattenne; indi si partì per Alagna, ove fermò sua residenza.
Inviò in questo l'Imperador Emanuele nuovi messi a Guglielmo, i quali
conchiusero con lui il maritaggio di sua figliuola nomata Icoramutria,
e statuirono il tempo da condurla per mare in Puglia; ed il Re poco
stante col fratello Errico Principe di Capua, se ne passò a Taranto
per ricever colà la novella sposa; ma il perfido Greco, non sapendosi
la cagione, spregiando le pattovite nozze, non curò d'inviar la
fanciulla. Altri[58] niente scrivono di questo fatto, anzi rapportano,
che Guglielmo per non disgustarsi col Papa, ricusò queste nozze. Che
che ne sia, Guglielmo partissi da Taranto, e gitosene a Benevento
inviò il Principe suo fratello, ch'era infermato gravemente, a
Salerno, acciocchè imbarcandosi sulle galee passasse più agiatamente
a Palermo per ricuperar sua salute, la qual cosa non gli giovò;
perciocchè gli si aggravò di modo il male, che giuntovi appena, se ne
morì nel decimoterzo anno della sua vita, e nell'anno 1172 dell'umana
Redenzione. Fu con nobil pompa seppellito nel Duomo presso il sepolcro
dell'Avolo Ruggiero, e di là poi trasportato nella chiesa di Monreale,
ove si vede sinora il suo avello[59].
In questo Errico finirono i Principi di Capua normanni, i quali tennero
questo Principato 114 anni, incominciando dal primo, che fu Riccardo
Conte d'Aversa nell'anno 1058, insino ad Errico figliuolo di Guglielmo
I in quest'anno 1172, nel quale mancò la lor successione, poichè non
essendo a Guglielmo II nati figliuoli, non potè ad esempio di suo
padre, e del suo Avolo Ruggieri continuar quest'istituto, che coloro
tennero di crear uno de' loro figliuoli Principe di Capua; e quantunque
del Re Tancredi, che a Guglielmo II succedette, si dovesse credere,
che avrebbe continuato il medesimo costume; nulladimanco, stando
questi sempre implicato in continue guerre, e mancandogli figliuoli
maggiori, prevenuto egli poco da poi dalla morte, non potè praticarlo.
E gli altri Re posteriori estinsero affatto questo Principato, e
_Dinastia_; poichè sebbene ne' pubblici Atti avessero serbato il nome
del Principato, come s'osserva essersi praticato insino all'anno 1435
nel Regno di Giovanna II[60], nulladimanco, toltone questo nome, fu
in tutto il resto il Principato estinto, e coloro che ne' seguenti
anni tennero Capua, non devono così nella dignità, come nel dominio
esser paragonati a questi Principi a' quali furono di molto intervallo
inferiori.
La morte d'Errico recò a Guglielmo gravissimo cordoglio, il quale poco
da poi portossi anch'egli in Sicilia, donde nell'anno 1174 avendo
ragunata una grossa armata, la inviò in Alessandria d'Egitto contro
il Saladino, per favoreggiare i Cristiani, che colà militavano, sotto
il comando di Gualtieri di Moac, che pochi anni da poi fu creato
suo Ammiraglio[61]. E volendo il medesimo Re nella pietà superare i
suoi maggiori, parte de' tesori, che aveano essi accumulati, impiegò
nella fabbrica d'un superbo tempio non guari da Palermo lontano in un
colle chiamato _Monreale_, che ornollo di superbi lavori di marmo e
di mosaico; ed avendolo arricchito di grosse rendite consistenti in
molte città e castelli, ed in ricchi poderi, e fornitolo di arredi
regali e preziosi, lo dedicò a nostra Signora, sotto il nome di S. M.
Maria Nuova, dandolo a' PP. dell'Ordine di S. Benedetto. Nè qui deve
tralasciarsi, che i primi ch'ebbero la cura di questo tempio furono i
Monaci del monastero della Trinità della Cava, che da Guglielmo furono
da queste nostre parti richiamati in Sicilia; perchè per la fama della
lor santità, essendo sparsa da per tutto, erano da' Principi normanni,
e sopra tutti da Guglielmo, in sommo pregio tenuti. Crebbe poi il
Santuario, poichè oltre la santità de' Monaci ivi adoperati per li
divini Uffici, per consiglio di Matteo Gran Protonotario di Sicilia,
creato, come scrive Riccardo da S. Germano, già Vicecancelliere del
Regno, Guglielmo impetrò da Papa Alessandro III, che la chiesa suddetta
non fosse sottoposta a niuno Arcivescovo, Vescovo o altra persona
ecclesiastica, ma solamente al Pontefice romano, ed indi da Lucio
III la fece ergere in Arcivescovado. Il tutto si fece da Matteo per
dispetto di Gualtieri Arcivescovo di Palermo, nella cui giurisdizione
ella era, il quale per le gare solite della Corte era suo fiero nemico,
e Gualtieri in processo di tempo ben seppe vendicarsene, e gliene rese
il contraccambio, come diremo. Il primo Arcivescovo, che fu creato di
Monreale fu Fr. Guglielmo Monaco del monastero della Cava, che n'era
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