Istoria civile del Regno di Napoli, v. 3 - 18

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i quali furono i primi che cominciarono in mezzo di tanta oscurità a
recar qualche lume a tutte le professioni in queste nostre province.
La diligenza del famoso Desiderio Abate Cassinense, che innalzato al
Ponteficato Vittore III fu detto, fece che si cominciasse ad aver
notizia di qualche libro di quelli di Giustiniano, siccome degli
altri d'altre facoltà. Questo celebre Abate dopo aver ingrandito quel
monastero d'eccelse fabbriche, diedesi a ricercare molti libri per
fornirlo d'una numerosa Biblioteca; e non essendo ancora in Italia
introdotto l'uso della stampa, con grandissimo studio e molta spesa,
avuti che gli ebbe, fecegli trascrivere in buona forma. Fra gli altri
Codici furono le Istituzioni di Giustiniano e le sue Novelle[395]. Ma
questi libri come cose rare si reputavano allora, nè giravano attorno
per le mani d'ogni uno, come ora; ma si custodivano, come cosa di
molto pregio in qualche illustre Biblioteca. Solo nella Chiesa romana
era più frequente l'uso di quelli, ed anche presso alcuni Imperadori
d'Occidente, i quali alle volte stabilendo qualche loro costituzione
si riportavano a quelli. Del Codice di quest'Imperadore, ancor che
in questi tempi per la Francia (come è chiaro dall'epistole d'Ivone
Carnotense) e per l'Italia ancora (com'è manifesto da alcune leggi
degl'Imperadori d'Occidente, particolarmente d'Errico II[396] e dalle
decretali di alcuni Papi, che allegano alcune leggi del medesimo) ne
girasse qualch'esemplare; nulladimanco a pochi era in uso, eziandio
agli stessi Professori, i quali lo trascuravano per non aver quella
forza e vigore nel Foro, che acquistò da poi.
Le Pandette non s'erano ancora scoverte in Amalfi, in modo che i
nostri Professori n'avessero potuto aver notizia. Ve n'era bensì
qualch'esemplare in Francia, siccome dimostrano l'epistole d'Ivone,
nelle quali sovente s'allegano alcune leggi[397] de' Digesti, poichè
in quella provincia, per le famose sue Biblioteche, non vi era cotanta
ignoranza di questi libri; e del Codice Teodosiano, e del suo Breviario
ne girava attorno ancora più d'un esemplare.
Presso di noi nella sola Biblioteca Cassinense potevan vedersi le
Istituzioni e le Novelle di Giustiniano, tanto è lontano che l'uso
delle medesime a questi tempi fosse così frequente ne' Tribunali delle
città di queste nostre province, come ora.
Solo le leggi longobarde eran le dominanti, e ciascun Tribunale secondo
quelle diffiniva le sue cause, e secondo le medesime si regolavano
le successioni, i testamenti, i contratti, la punizion de' delitti,
le confiscazioni e tutti i giudicj. Sono fra monumenti delle nostre
antichità ancor'a noi rimasi alcuni vestigi, che i Giudici appoggiavano
le loro sentenze sopra queste leggi; e Lione Ostiense[398], il litigio
insorto intorno l'anno 1017 tra il monastero di Monte Cassino con i
Duchi di Gaeta, e' Conti di Trajetto, narra che fu deciso non meno
per le leggi romane, che per le longobarde. Camillo Pellegrino[399]
rapporta un diploma di Riccardo II Principe di Capua, per cui fu fatta
donazione alla chiesa di S. Michele Arcangelo in _Formiis_ di molti
beni, e fra gli altri d'alcuni, che a Riccardo suo avo erano pervenuti
per alcune confiscazioni seguite _secundum Longobardorum legem_. E
questo medesimo Scrittore[400] rapporta due sentenze profferite anche
dopo questi tempi, una dell'anno 1149 sotto il Re Ruggiero, e l'altra
nell'anno 1171 sotto il Re Guglielmo, nelle quali si vede per le leggi
longobarde essere le cause decise.
Nè in questi tempi, nel decider le cause, ricercavano i Giudici tanto
apparato e tanta pompa, come osserviamo a' tempi nostri. Essi credevano
che quelle sole potessero bastare, e ciò anche procedeva perchè non
si dava luogo a tante lunghezze, a tanti raggiri e sottigliezze. Ogni
città teneva il suo Tribunale, ed i suoi Giudici: e le liti senza
molto apparato presto eran terminate; quando accaddevano controversie
intorno a' confini, o che in altra maniera vi si richiedesse l'ispezion
oculare, si portavano sulla faccia del luogo, ed ivi presto la causa
si finiva; nè eran dispendiati i litiganti di ricorrere a' Tribunali
remoti, ma nella loro città avanti i loro Giudici le controversie eran
tosto terminate.

§. I. _Prime raccolte delle leggi longobarde; e loro Chiosatori._
Avendo dunque, particolarmente in questi tempi, acquistata tanta
forza in queste province le leggi longobarde, i nostri Professori
tutti s'applicavano allo studio delle medesime; nè essendo stato fin
qui, chi l'avesse in un sol volume raccolte, nel quale e le leggi
de' Re longobardi, e quelle che dagl'Imperadori di Occidente, come Re
d'Italia, erano state sinora promulgate, fossero state unite insieme
per uso del Foro, e per maggior agio e comodità degli Avvocati e dei
Giudici: finalmente intorno a questi tempi ne fu fatta la compilazione,
per la quale in un sol volume furono tutte queste leggi raccolte.
La prima raccolta che noi possiamo mostrare di queste leggi, è quella
che ancor si conserva nell'Archivio del monastero della Trinità della
Cava, ove in un volume membranaceo scritto in lettere longobarde,
si vedono inseriti tutti gli editti de' Re d'Italia, incominciando
da Rotari, che fu il primo a dar leggi scritte a' Longobardi. Dopo
l'editto di Rotari, siegue l'altro di Grimoaldo: indi sieguono le leggi
di Luitprando: poi quelle di Rachi, e finalmente quelle d'Astolfo, che
fu l'ultimo Re longobardo, che avesse stabilite leggi; poichè, come si
disse, Desiderio suo successore ed ultimo de' Re longobardi, intricato
in continue guerre, non potè pensare alle leggi. Ma poichè, non ostante
che Carlo M. avesse discacciato Desiderio, ed il Regno d'Italia da'
Longobardi fosse trasferito a' Franzesi, non cessò la dominazione de'
Longobardi in queste nostre province sotto i Principi di Benevento, i
quali ad esempio de' Re longobardi, stabilirono molte leggi, le quali
lungamente nel Principato di Benevento, che in que' tempi abbracciava
quasi tutto ciò che ora è Regno di Napoli, s'osservarono: perciò il
Compilatore suddetto, che intraprese questa fatica per comodità de'
nostri, in quel suo volume inserì ancora i Capitolari d'Arechi primo
Principe di Benevento, e quel d'Adelchi suo successore; e dopo avere
framezzate in quello alcune sue operette, fa una breve sposizione
d'alquante leggi per uso de' Beneventani, e molto più per gli Capuani,
per li quali mostra aver fatta quella fatica; tanto che per ciò, e
per alcune altre conghietture, suspica Camillo Pellegrino[401], che
l'Autore fosse stato capuano. In questa raccolta aggiunse egli ancora
alcune sue operette legali sotto questi sconci e goffi titoli. _Quantas
caussas debet esse judicata sine Sacramentum. Item quantas caussas
fieri debet per pugna judicata. Memoratorium pro quibus caussis filii
ab haereditate patris exeredati fieri debet_. Chiudono in fine il libro
i _Capitolari_ di Carlo Magno, di Pipino, di Lodovico, e degli altri
Imperadori, i quali discacciati i Longobardi per Carlo Magno furono Re
d'Italia.
Questa è la più antica raccolta, che noi abbiamo delle leggi longobarde
fatta da un Capuano, il cui nome è a noi ignoto, la quale non mai
impressa, si conserva nell'Archivio cavense. Il tempo nel quale fu
fatta, suspica il Pellegrino essere nel principio di questo undecimo
secolo intorno all'anno 1001 o poco da poi; poichè l'Autore v'inserisce
un Catalogo dei Duchi e Principi di Benevento, e de' Conti di Capua, e
lo tira sino al detto anno, sino al Principe di Capua Adimaro. Mostra
divantaggio aver conosciuto Pandolfo _Capodiferro_ Principe di Capua,
il quale morì nell'anno 981. E questo è ancora il primo ed il più
antico Autore, che noi possiamo mostrare avere scritte opere legali
adattate a questi tempi, ne quali tutta la cura ed applicazione de'
nostri Professori era intorno alle leggi longobarde.
Chi fosse l'Autore di quell'altra vulgata compilazione divisa in tre
libri, e distinta in più titoli che ora si legge inserita nel volume
dell'autentico, non è di tutti conforme il sentimento. Che fosse ella
antica, si dimostra da' libri feudali[402], dove si allegano molte
leggi longobarde, che ella racchiude. Alcuni[403] credono, che fosse
fatta ne' tempi di Lotario III ovvero II Imperadore da Pietro Diacono
Monaco Cassinense, ancorchè per privato studio, ma con impulso però
dello stesso Imperador Lotario, non potendosi dubitare, che Pietro
fosse stato suo Logoteta in Italia, e costituito da lui Cartulario e
Cappellano nell'Imperio[404]. Lo argomentano dal vedersi, che dopo
Lotario non si leggono in questa compilazione altre Costituzioni
d'Imperadori posteriori; poichè se bene nelle ultime edizioni di
Lindenbrogio e nelle vulgate si legga una costituzione di Carlo IV
si vede chiaro, che quella vi fu aggiunta da poi, non leggendosi
nella raccolta di Melchior Goldasto, ch'è più antica dell'edizione
di Lindenbrogio; nè quella si appartiene punto al Regno d'Italia.
Struvio[405] aggiunge un'altra conghiettura dal vedersi, che alcuni
esemplari portano anche il nome di Pietro Diacono.
Altri per contrarj argomenti di ciò non s'assicurano, ed il suo Autore
dicono esser incerto. Dubitano esserne stato Pietro Diacono, poichè
questi nella Cronaca Cassinense[406] noverando minutamente tutte le sue
opere che compilò dopo essersi fatto Monaco, e facendo di esse minuto
catalogo, sino a porvi i proemj che fece ad alcuni libri non suoi, ed
a riferire due inni che compose a Santa Giusta, ed alcuni sermoni,
ed altre minuzzerie: di questa compilazione non ne favella affatto;
quando, se egli ne fosse stato Autore, non avrebbe mancato di farne
pompa, parlando egli delle sue cose, ancorchè di picciolo rilievo,
con estraordinario compiacimento. Si aggiunge, che Carlo di Tocco,
antichissimo nostro Giureconsulto, nel proemio delle Chiose che fece a
questi libri, parlando dei Compilatori, dice che per la loro antichità,
non avea potuto saperne i nomi; e pure Carlo di Tocco fu molto vicino
a' tempi di Lotario, poichè visse nel Regno di Guglielmo Re di Sicilia,
ed avrebbe potuto sapere se ne fosse stato Autore Pietro Diacono.
Che che ne sia, egli è certo che questa seconda Raccolta divisa in
tre libri, ancorchè mal fatta, senza ordine di tempo, e con grande
confusione, ebbe miglior fortuna, che la prima più metodica, e dove
secondo l'ordine de' tempi furono raccolti tutti gli editti de'
Re longobardi, ed i capitolari degli altri Imperadori Re d'Italia.
Questa non mai impressa giace ancor sepolta nell'Archivio della Cava;
all'incontro quella, di cui fassene Autore Pietro Diacono, ebbe molte
edizioni, alcune separate, altre unite al volume dell'Autentico;
e Basilio Giovanni Eriold colle leggi Saliche, Alemanne, Sassone,
Brittanne, e d'altre Nazioni, fecela ristampare in Basilea nell'anno
1557. Melchior Goldasto ne fece fare un'altra edizione, e Federico
Lindenbrogio la fece di nuovo ristampare, e l'unì al Codice delle leggi
antiche.
L'uso ed autorità, che diedero i nostri maggiori a questi libri fu
tale, che secondo quelli eran decise le liti ne' Tribunali; perciò
i più antichi nostri Professori v'impiegarono le loro fatiche in
commentarli, e farvi delle note. Il primo che impiegasse i suoi
talenti sopra questi libri, e che con ben lunghe chiose gl'illustrasse
fu _Carlo di Tocco_. Questi nacque nella Terra di Tocco posta su'l
Beneventano, donde, come era l'uso di que' tempi, prese il cognome; e
seguendo l'esempio de' suoi maggiori, per esser nato, com'egli dice,
di padre similmente Dottor di leggi, si portò giovanetto in Bologna
per apprendervi ragion civile; ed ebbe la sorte d'avere per maestri
Placentino[407], Giovanni[408], Ottone Papiense[409], e Bagarotto[410],
discepoli che furono del famoso Irnerio. Ritornato poi nel Regno fu
fatto Giudice in Salerno[411]; ed essendo ancor giovane, fu sotto il
Re Guglielmo I, nell'anno 1162, creato Giudice della Gran Corte[412].
Fu riputato uno de' più insigni Giureconsulti de' suoi tempi, e fra noi
estese la sua fama anche presso coloro, che gli successero.
L'occasione che fu data a questo Giureconsulto di impiegare i suoi
talenti sopra le leggi longobarde, non fu altra se non quella,
ch'ebbero Ermogeniano e Gregorio a compilare i loro Codici. Questi due
Giureconsulti, vedendo che per le nuove leggi de' Principi cristiani,
l'antica giurisprudenza de' Gentili romani ruinava, vollero per mezzo
de' loro Codici, quanto più fosse possibile ripararla, perchè almeno
si conservasse in quelli. Così ne' tempi di Guglielmo, essendosi già
ritrovate le Pandette in Amalfi, ed essendosi cominciate ad insegnare
nell'Accademie d'Italia, i Giureconsulti di que' tempi eran tratti
dalla loro eleganza e gravità ad apprenderle, e con ciò cominciando
a riputar barbare ed incolte quelle de' Longobardi, lo studio delle
medesime era tralasciato. Era stato a suoi dì da Irnerio, Bulgaro,
Martino, Giacomo, Ugone, Pileo, Ruggieri, e da altri chiosato tutto
il corpo della ragion civile; ed al costoro esempio tutti gli altri
abbandonavano lo studio delle longobarde, donde potea ricavarsi maggior
utile nel Foro. A questo fine Carlo di Tocco per finire di toglierne il
disprezzo, come già erasi cominciato, e per invogliarli ad apprenderle,
avendo fatto sommo studio sulle Pandette, proccurò illustrar le
longobarde, confermando, o illustrando ciò che disponevano colle leggi
romane, come fece per mezzo delle sue Chiose, le quali per la maggior
parte non contengono altro, che spesse citazioni delle leggi romane,
acciò che per questo mezzo s'invogliassero i Professori a studiarle,
perchè con più utilità potessero servirsene per uso del Foro, appo a
quale le Pandette non facevano ne' suoi tempi alcuna autorità, come
diremo a più opportuno luogo. Fu questa sua fatica cotanto utile e
commendata dai posteri, che acquistò forza e vigore poco meno delle
leggi stesse; ed Andrea d'Isernia parlando di questa Chiosa del Tocco
fatta alle longobarde, dice che _plurimum in Regno approbatur_[413].
Colla medesima lode ne parlano Luca di Penna, Matteo d'Afflitto, ed
altri nostri antichi Autori.
Per quest'istessa cagione ne' tempi dell'Imperador Federico II
innalzandosi assai più lo studio delle leggi romane, che traeva a se
tutti i Professori, i quali scordatisi con poca loro utilità delle
leggi longobarde, ch'erano quelle, per le quali potevano vincer le
cause ne' Tribunali, erano tutti intesi alle romane, fu data occasione
ad _Andrea Bonello da Barletta_ di far alcuni Commentarj sopra le
longobarde, per li quali notò tutte le differenze, che v'erano tra
l'une e l'altre leggi, affinchè nell'avvenire, com'egli dice, non si
dasse occasione d'errare agli Avvocati, i quali mentre erano tutti
intesi ad apparare le leggi romane, trascuravano le longobarde; onde
sovente nelle cause era forza di soggiacere, e d'esser vinti da'
Professori d'inferior grado e dottrina. Così egli narra esser accaduto
una volta ad un grande Avvocato, il quale con ben grandi apparati
difendendo una causa, avendo allegate a pro del suo Clientolo molte
leggi romane: surse all'incontro certo Avvocatello suo oppositore,
il quale portando nascosto sotto il mantello il libro delle leggi
longobarde, dopo averlo fatto arringare a sua posta, cacciò fuori il
libro, dal quale recitate alcune leggi, che decidevano a suo favore
il caso, riportò la vittoria con grande scorno del suo Avversario, il
quale pien di rossore vinto andò via.
Fu Andrea Avvocato fiscale sotto l'Imperador Federico II, ed avuto in
molta stima da questo Principe, il quale per suo consiglio istituì
la Curia Capuana. Fu un Giureconsulto molto rinomato nella sua
età, e presso i suoi successori avuto in molta riputazione. Andrea
d'Isernia[414] lo chiama _valente Dottore_, Matteo d'Afflitto[415]
_gran Giurista_; ed altri non lo nominano, se non con grandi elogi.
Compose, oltre a quest'opera utilissima, e necessaria per sapersi le
differenze dell'une e dell'altre leggi, altri Commentarj sopra le leggi
romane, sovente allegati da Napodano e da Afflitto; e poichè, oltre
di questi Autori, non si ha riscontro che fossero allegati da altri,
si crede che fossero da poi dispersi; siccome le sue Chiose sopra le
nostre Costituzioni, furono per poca diligenza de' Copisti confuse con
quelle di Marino di Caramanico, tal che ora mal si possono discernere.
_Biase da Marcone_, che visse a' tempi del Re Roberto, e fu suo
Consigliere e familiare, pure sopra le leggi longobarde impiegò
i suoi talenti, commentandole[416]. Ne compilò un grosso volume,
che manuscritto si conservava appresso Marino Freccia, come egli
dice nel libro de' Suffeudi. Francesco Vivio[417] lo chiama uomo
di grand'autorità nel Regno, e specialmente pel suo trattato delle
differenze del diritto dei Romani, e quello de' Longobardi: fu egli
coetaneo ed amico di Luca di Penna, e discepolo di Benvenuto di Milo
Vescovo di Caserta, cui professava grandi obblighi per averlo da niente
ridotto a quello stato. _Niccolò Boerio_ pure impiegò le sue fatiche
sopra queste leggi. E negli ultimi tempi sotto l'Imperador Carlo
V, _Giambattista Nenna di Bari_ famoso Giureconsulto della sua età,
compose un libro sopra queste leggi, con una spiega per alfabeto delle
parole astruse de' Longobardi, che fece stampare in Venezia nell'anno
1537[418]. Ma in decorso di tempo scemandosi sempre più la forza e
l'autorità presso noi di queste leggi, ed andate finalmente in disuso,
finirono i nostri Professori d'impiegarvi più i loro studj, e rimangono
ora affatto oscure ed abbandonate.

§. II. _Le discipline risorgono fra noi per opera de' Monaci
Cassinensi._
Nel principio di questo secolo risvegliati gl'ingegni dal sonno, in
cui erano stati nel precedente, si applicarono alle discipline; ed i
contrasti che vi furono non meno fra gl'Imperadori d'Occidente ed i
romani Pontefici, che fra i Greci ed i Latini, eccitarono gli animi a'
studj, e diedero occasione a coloro, che si erano attaccati ad un de'
partiti, che aveano qualche capacità, d'esercitare le penne, e di far
comparire il lor sapere. Lo scisma, che in questi tempi teneva divisa
la Chiesa greca dalla latina, e particolarmente la contenzione sopra il
dogma della processione dello Spirito Santo, teneva ancora esercitati
gl'ingegni, perchè più del solito s'applicassero a studj sacri e
della teologia. Alcuni imitarono assai bene gli antichi, o nello
stile, o nella maniera di scrivere, ma per la maggior parte essendo
senza cognizione di lingue e d'istoria, sentirono della barbarie
e della rozzezza del secolo precedente; ed alcuni cadettero nella
maniera di scrivere secca e sterile de' Dialettici. Lo studio della
teologia e delle altre scienze, che nel secolo precedente era stato
posto in dimenticanza, fu tra di noi rinovato per opera de' Monaci,
ma sopra ogni altro per quelli di Monte Cassino. Nel principio ognuno
contentavasi di seguire l'antico metodo, e di riferire l'esplicazione
de' Padri sopra la Scrittura Sacra; nè trattavano de' dogmi che di
passaggio e per accidente. Ma sul fine di questo secolo si cominciarono
a fare delle lezioni di teologia sopra i dogmi della religione, a
proponere varie questioni sopra i nostri misterj, e a risolverle per
via di ragionamenti, e secondo il metodo della dialettica. I libri
d'Aristotele cominciavano a farsi sentire per gli Arabi che a noi li
portarono; e credettero i nostri Teologi averne bisogno per le dispute
contro gli Arabi stessi, onde l'accomodarono alla nostra religione, i
cui dogmi e morale spiegarono secondo i principj di questo Filosofo,
e trattarono la dottrina della Scrittura e de' Padri coll'ordine e
con gli organi della dialettica, e della metafisica tratta da' suoi
scritti. Questa fu l'origine della teologia _Scolastica_, che divenne
poco da poi la principale, e quasi l'unica applicazione de' nostri
Monaci e delle nostre Scuole.
I Monaci Cassinensi si distinsero fra noi in questo secolo sopra tutti
gli altri: essi s'applicarono a questi studj; e mantennero presso
di noi le Scuole sacre con molta cura, e dove il Catechismo era con
molta diligenza spiegato da valenti Teologi, de' quali era in questi
tempi il numero grande. Oltre il celebre Abate Desiderio cotanto noto
nell'istoria, fuvvi _Alfano_, che da Monaco Cassinense passò poi alla
Cattedra di Salerno, e compose molte opere delle quali Pietro Diacono e
Giovanni Battista Maro tesserono lunghi Cataloghi[419]. Fuvvi _Albarico
di Settefrati_ Terra posta nel Ducato d'Alvito, Monaco Cassinense,
che parimente si segnalò e per la sua pietà, e per le molte opere, che
scrisse[420]. _Oderisio_ de' Conti de Marsi, di cui Pietro Diacono e
Maro rapportano le opere che compose. _Pandulfo Capuano_, che fiorì in
Cassino sotto l'Abate Desiderio nell'anno 1060, e che si distinse sopra
gli altri per la letteratura non meno sacra che profana, come si vede
dal Catalogo delle sue opere, che ci lasciò Pietro Diacono[421]. Il
Monaco _Amato, Giovanni Abate di Capua_, di cui il Diacono e 'l Marco
lungamente ragionano. L'istesso _Pietro Diacono_, e tanti altri, che ci
lasciarono per le loro opere, di loro non oscura memoria.
Ma non pure in questi studj, che per altro dovean essere loro proprj,
i Monaci Cassinensi si segnalarono, ma si distinsero ancora per le
buone lettere e varia erudizione; e quel poco che si sapeva presso
di noi a questi tempi, in loro era ristretto, e qualche cognizione,
che se n'avea, ad essi la doveano le nostre province. Così osserviamo
nella Cronaca[422] di quel monastero, che Alberico compilò un libro
_de Musica_, ed un altro _de Dialectica_. Pandulfo Capuano scrisse _de
Calculatione_, e _de Luna_; altri sopra consimili soggetti, come può
vedersi presso Pietro Diacono[423], dai Cataloghi delle loro opere,
che tessè; ed altri impiegarono la loro industria a ricercar libri di
varie erudizioni e scienze, e farli trascrivere, come fece Desiderio,
che oltre i libri appartenenti alle cose sacre ed ecclesiastiche, fece
trascrivere l'Istoria di Giornande de' Romani e de' Goti: l'Istoria de'
Longobardi, Goti e Vandali: l'Istoria di Gregorio Turonense: quella
di Giuseppe Ebreo _de Bello Judaico_: l'altra di Cornelio Tacito con
Omero: l'Istoria d'Erchemperto: Cresconio _de Bellis Libicis_: Cicerone
_de Natura Deorum_: Terenzio ed Orazio: i Fasti d'Ovidio: Seneca:
Virgilio con l'Egloghe di Teocrito: Donato ed altri Autori. Nè minore
poco da poi fu la cura e la diligenza di Pietro Diacono, il quale oltre
alle sue opera raccolse l'astronomia da più antichi libri. Ci diede
Vitruvio abbreviato _de Architectura_: un libro _de Generibus lapidum
pretiosorum_, ed altri moltissimi, dei quali egli ne tessè un lungo
catalogo.

§. III. _Della Scuola di Salerno famosa a questi tempi per lo studio
della filosofia e della medicina introdotte quivi dagli Arabi._
Gli Arabi, non già perch'eran Maomettani, è da dire, che abbiano fatta
sempre professione d'ignoranza, come comunemente si crede: fuvvi tra
loro un gran numero d'uomini insigni pel loro sapere, gli scritti de'
quali riempirebbero grandissime librerie. Prima di questo undecimo
secolo, erano più di trecento anni, che studiavano con applicazione;
ed i loro studj non furono mai tanto forti, quanto allora, che presso
di noi furono più deboli, cioè nel nono e decimo secolo. In qualunque
paese dove per tante conquiste si stabilivano, essi coltivavano due
sorte di studio: l'una lor propria riguardante la lor religione, ch'è
quanto dire l'Alcoirano, e le tradizioni che attribuivano a Maometto,
ed a' primi suoi discepoli ed espositori, onde ne uscirono le quattro
Sette da noi nel libro sesto rammentate; l'altra riguardava gli studj,
ch'essi avean presi dai Greci, e questi eran più nuovi, rispetto a
quelli dei Musulmani, i quali erano tanto antichi, quanto era la lor
religione.
Questi Popoli, come altrove fu narrato, avendo soggiogate molte regioni
del romano Imperio, e depredate molte province dell'Asia, infra le
prede ed i bottini fatti in Grecia, avendovi per avventura trovati
alcuni libri, si diedero con fervore non ordinario agli studj delle
lettere; e se ne invogliarono in guisa, che verso l'anno 820 fecero da
Califo Almanon dimandare all'Imperadore di Costantinopoli i migliori
libri greci, ed avuti, gli fecero tradurre tutti in Arabico. Ma di
questi libri, di quelli della poesia non facevano alcun uso, perchè
oltre d'essere dettati in una lingua straniera, e d'un gusto tutto
differente dal loro, vi era ancora il rispetto della propria religione,
la qual facevagli abborrire l'Idolatria, onde giudicavano non esser
loro permesso di leggerli, e contaminarsi per tanti nomi di falsi Dei,
e per tante favole, onde erano ripieni. La medesima superstizione gli
fece ancora abborrire i libri dell'Istorie, sprezzandosi da loro ciò
ch'era più antico del loro Profeta Maometto. Dei libri politici non
potevan certamente averne uso, perchè la forma del loro governo era
tutta altra delle Repubbliche più libere: essi viveano sotto un Imperio
assolutamente dispotico, ove non bisognava aprir bocca se non per
adulare il lor Principe; e di non ricercare altri mezzi, che d'ubbidire
al volere del lor Sovrano.
Non trovarono adunque altri libri accomodati al loro uso, che quelli
de' Matematici e de' Medici e de' Filosofi. Ma come non cercavano
nè politica, nè eloquenza: così la lezione di Platone non era lor
convenevole; tanto più, che per bene intenderlo era necessaria la
cognizione de' Poeti, che trattano la religione e l'Istoria de' Greci.
Abbattutisi perciò nell'opere di Aristotele, d'Ippocrate e di Galeno,
si diedero con fervore a studiarle. Piacque lor molto più Aristotele
colla sua dialettica e colla metafisica, studiandolo con tutto il
fervore, e con incredibile assiduità. Si applicarono anche alla sua
fisica, principalmente agli otto libri, che non contengono quella se
non in generale; imperciocchè la fisica particolare, che ha bisogno
d'esperienze e di osservazioni, non la riputavano tanto necessaria.
La medicina fu sopra ogni altro da essi tenuta in pregio, e la
studiavano sopra i libri d'Ippocrate e di Galeno; ma la fondavano
principalmente sopra generali discorsi delle quattro qualità del
temperamento de' quattro umori, e sopra le tradizioni de' rimedi,
senza farne alcun esame, ma mischiandoli con infinite superstizioni; e
perciò non coltivavano l'anotomia ricevuta da' Greci molto imperfetta.
Ma non così fecero della chimica, la quale se non è stata da essi
inventata, ricevette al certo da essi molto ingrandimento; ma vi
frammischiarono anche tanti vizj che sino ad oggi è sommamente
difficile di separarli: tante vanità di promesse, tanta stranezza di
discorsi, tanta superstizione di operazioni, e tutto ciò che poscia
generò i ciarlatani e gl'impostori. Passavano quindi agevolmente
dagli studj della chimica a quelli della magia, e di ogni sorta di
divinazione, alli quali gli uomini naturalmente s'arrendono, quando
non sanno la fisica, la storia e la religione. Ciò che lor diede molto
aiuto in queste illusioni, fu l'astrologia, ch'era il fine principale
de' loro studj di matematica. Infatti coltivarono questa pretesa
scienza sotto l'Imperio de' Musulmani con tanto fervore, ch'ella era
ormai divenuta la delizia de' Principi, regolando su tal fondamento le
imprese loro più grandi. Lo stesso Califo Almanon prese a calcolare le
tavole astronomiche, che furono tanto celebri; e bisogna confessare,
che hanno molto servito per le sue osservazioni, e per le altre utili
parti della matematica, come per la geometria e l'aritmetica. Lor deesi
l'algebra e lo zero per moltiplicare per dieci; il che poi rendette le
operazioni degli Aritmetici tanto facili. Quanto all'astronomia aveano
il vantaggio medesimo, che avea stimolato gli antichi Egizj e Caldei a
bene applicarvisi, perchè abitavano i medesimi paesi, ed avevano di più
tutte le osservazioni degli antichi, e tutte quelle aggiunte da' Greci.
Questi Popoli adunque inondando le province di Europa ne' tempi più
barbari ed incolti, e nel colmo dell'ignoranza e stupidezza: ne' paesi
ove arrivavano si conciliavano, o col nome de' loro famosi Maestri,
sotto i quali aveano studiato, o per li gran viaggi da essi fatti, o
per la singolarità delle loro opinioni una stima ed un credito grande.
Si sforzavano di rendersi distinti con qualche nuova sottigliezza di
logica o di metafisica, e non s'applicavano, che al più maraviglioso,
al più raro, al più malagevole a spese del gradimento, del comodo e
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