Istoria civile del Regno di Napoli, v. 3 - 12

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seconda insegna de' Duchi, Bartolomeo Cassaneo[267] ce lo descrive in
forma d'uno cappello circondato d'una corona rotonda, ma non diritta,
nè a modo di zona, che circondi il cappello, come usano i Re; e di
questo cappello ducale, confessa Cassaneo, non averne potuto rinvenire
l'origine. La veste ducale, suspica Inveges, che fosse simile all'abito
arciducale d'Austria descritto dal Guazzi[268], cioè una veste di
diversi colori, lunga sino a' piedi, ed ornata di pelli d'Armellini.
In cotal guisa adunque il Duca Roberto in quest'anno 1059 nelle
pubbliche solennità apparve a' suoi sudditi, adornandosi coll'abito e
Corona ducale; e quindi è che ne' privilegi e negli altri suoi diplomi
cominciasse a servirsi di questo titolo: _Ego Robertus Dux Apuliae et
Calabriae_.


CAPITOLO V.
_Il Principato di Capua tolto a' Longobardi, passa sotto la dominazione
de' Normanni d'Aversa._

Non meno de' Normanni di Puglia, que' che collocarono la lor Sede in
Aversa distesero sopra i paesi contorni i loro confini. Riccardo Conte
d'Aversa accresciuto di forze intraprende d'invadere il Principato
di Capua a se vicino, ed aspirando a quel Soglio, di stretto assedio
cinse questa città. Reggeva allora Capua Pandolfo V, il quale se bene
per qualche tempo avesse colle sue forze potuto difendere la città,
nulladimanco Riccardo vie più stringendola, bisognò per liberarsene
che offerisse al nemico settemila scudi d'oro[269]. Per questa somma
Riccardo tolse l'assedio, ma per qualche tempo; poichè morto Pandolfo
V nell'anno 1057, e succeduto Landolfo V, suo figliuolo, Riccardo
invase di nuovo Capua, cingendola d'un più stretto assedio. I Capuani
offerirono altra maggiore somma per liberarsi, ma Riccardo rifiutato
ogni accordo, vuole che la città si renda nelle sue mani. Mal si
possono indurre i Capuani; ma finalmente stretti per la fame, cedendo
Landolfo, e lasciando il Principato, fu Riccardo ricevuto e per
Principe salutato in quest'anno 1058.
Volle Riccardo, non altrimente che fece Arechi primo Principe
di Benevento, farsi ungere coll'olio sacro[270], il qual costume
ritennero ancora da poi tutti gli altri Principi normanni, che furono
di Capua[271]. E se bene i Capuani fra i patti della resa avessero
ottenuto di ritenere per essi le porte e le torri della città, e di
dover essere da loro guardate; nulladimanco dissimulando per allora il
nuovo Principe Riccardo questo lor vantaggio, differì ad altro miglior
tempo di privargli anche di questo. Intanto portatosi in Monte Cassino,
ed ivi con molta solennità ricevuto da que' Monaci, fece ritorno nella
campagna, la quale estendendosi insino al fiume Sele, tutta fra tre
mesi la sottopose alla sua dominazione; indi a Capua tornato, avendo
fatto ragunare tutta la Nobiltà, l'espose esser cosa molto ragionevole,
che si consegnassero a lui le porte e le torri della città; ma
costantemente avendo i Capuani ricusato di farlo, irato il Principe
uscì dalla città, la cinse nuovamente di stretto assedio e la premè con
dura fame.
I cittadini intanto mandarono il loro Arcivescovo oltre i monti a
chieder aiuto all'Imperadore Errico: ma questo Principe, che non era
in istato di pensare a queste nostre parti, lo rimandò indietro con
offerte grandi e parole, ma senza alcun fatto ed utilità. I Capuani
allora perduta ogni speranza, nè potendo più resistere, resero le
torri, le porte, se stessi e tutte le loro sostanze alla discrezione e
clemenza di Riccardo. Così in quest'anno 1062 dopo essersi i Capuani
per dieci anni bravamente opposti agli sforzi de' nemici, passò il
Principato di Capua da' Longobardi a' Normanni[272], prima sotto
il Principe Riccardo del sangue d'Asclettino, poi sotto gli altri
suoi successori del medesimo lignaggio, e finalmente passò sotto la
dominazione di quegli altri valorosi Normanni della razza di Tancredi
Conte d'Altavilla, come nel seguente libro vedremo. Per la qual cosa
non è scusabile l'errore del Sigonio[273], il quale reputò questo
Riccardo fratello di Roberto Guiscardo, quasi che fino da questo tempo
il Principato di Capua fosse passato sotto la dominazione de' Normanni
di Puglia a' figliuoli del Conte Tancredi.
Ecco il fine della dominazione de' Longobardi nel Principato di Capua,
che da Atenulfo con non interrotta serie di tanti anni finalmente
nella persona di Landulfo V s'estinse in questa Nazione. Principe
infelicissimo, che oltre essere stato costretto d'abbandonar il suo
Stato, donde ne fu scacciato, avendo generati più figliuoli, gli vide
con suo dolore e cordoglio andar raminghi per que' medesimi luoghi, ove
egli avea regnato. E narra l'Abate Desiderio[274] nei suoi Dialoghi,
aver egli nell'età sua veduti molti figliuoli di Landolfo di qua e di
là esuli e raminghi, andar mendicando per sostenere la lor miserabile
vita: il che egli attribuisce a castigo delle scelleratezze e crudeltà
usate dal pessimo Principe Pandolfo IV, dal quale essi discendevano.
Donde può ciascuno per se medesimo considerare, che il sangue di questi
Principi longobardi non s'estinse affatto nel Principato di Capua;
poichè oltre che vi rimasero alcuni Conti della razza di Atenulfo, de'
quali per qualche tempo per li loro Feudi che possedevano si potè tener
conto e mostrar la loro discendenza in alcune famiglie; vi restarono
ancora i figliuoli di Landolfo, da' quali per la loro estrema miseria e
povertà non sarebbe forse incredibile, che ne fossero nati ed artigiani
e lavoratori di terra ed altra gente di braccia, e che forse anch'oggi
ancorchè ignoti, infra di noi vi siano: documento delle cose mondane, e
della loro incostanza e volubilità, e di non doversi molto insuperbire
per la nobiltà del lignaggio sopra gli altri, i quali se bene non la
potranno mostrare, forse saranno discesi da più illustre e generosa
prosapia ch'essi non sono. Un simile successo narra Seneca al suo
Lucilio[275], che essendo in battaglia stato sconfitto l'esercito di
Mario, molti uomini nati di gran parentado e di sangue nobile, così
Cavalieri, come Senatori, nella sconfitta della fazione Mariana furono
dalla fortuna atterrati, ed alcuni di quelli fece pastori, alcuni altri
lavoratori di zappa ed abitatori di capanne.
Così i valorosi Normanni, debellati i Greci nella Puglia e nella
Calabria, debellati i Longobardi nel Principato di Capua, gli vedremo
nel seguente libro (rimettendo ivi di narrar la politia ecclesiastica
di questo undecimo secolo) tutti trionfanti sottoporsi le restanti
province e stabilirsi un ben ampio e fortunato Regno.

FINE DEL LIBRO NONO.


STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO DECIMO

Il Duca Roberto, che non facendo vedere a Bacelardo suo nipote il
diritto della paterna successione, non già come Tutore del medesimo,
ma come proprj amministrava i Ducati di Puglia e di Calabria, per
maggiormente stendere i confini del suo dominio sopra l'altre province,
e meglio assicurarsi degli acquisti fatti, proccurava con ogni
sommessione, ammaestrato dall'esempio di Lione, tener soddisfatti i
Pontefici romani; anzi reputava per questa via, avendogli per amici, di
giustificare le sue imprese, e renderle al Mondo commendabili, e senza
taccia d'usurpazione. All'incontro i Pontefici rendutisi ora per le
scomuniche più tremendi a' Principi, non trascuravano le occasioni di
profittare dell'opinione, che s'aveano presso tutti acquistata della
loro superiorità e potenza. Perciò nel Ponteficato di Niccolò II si
stabilirono fra noi con maggior fermezza le papali investiture; al che
conferì molto una sollevazione accaduta in Puglia nel medesimo tempo,
che il Duca Roberto trionfava in Calabria.
Bacelardo mal soddisfatto del suo zio Roberto sovente dolevasi essergli
stata tolta la successione dei paterni Stati, e movendo perciò la
compassione di molti, avea tirato al suo partito molti Pugliesi, i
quali apertamente sollevandosi invasero alcune Piazze della Puglia.
Ma la vigilanza di Roberto tosto ripresse i mal conceputi disegni,
perchè precipitosamente essendovi accorso, ridusse i luoghi sollevati,
e spense subito l'incendio; anzi con tal occasione scorrendo nella più
remota parte di Capitanata, ove i Greci si mantenevano ancora in alcune
Piazze, le sorprese, e conquistò infra l'altre la città di Troja, che i
Greci alquanti anni prima aveano edificata, ed aveanla costituita capo
di quella provincia.
L'acquisto della città di Troja diede su gli occhi al Pontefice; poichè
i Pontefici romani aveano in questi tempi pretensione, che questa
città, non altramente, che Benevento, loro si appartenesse per singolar
diritto[276]. Ma tutti gli Autori tacciono, onde mai questa particolar
ragione sia lor venuta; poichè questa città, secondo quel che per
l'autorità di Lione Ostiense[277] fu da noi rapportato, era nel dominio
dei Greci, avendola nell'anno 1022 da' fondamenti edificata sotto il
Catapano Bagiano, alla quale, per memoria della famosa Troja nella
Frigia minore, diedero nome di Troja, e riputaronla come una colonia di
quella.
E quantunque quando Errico calò in Italia con quell'esercito
formidabile, si fosse accampato sopra questa città, come narra
l'istesso Lione[278], ed avesse costretti i Trojani a rendersi a lui;
nulladimanco loro perdonò poi[279], ed abbandonando que' luoghi, fece
in Germania ritorno; nè si legge, che n'avesse fatto dono alla Chiesa
romana, come si legge di Benevento. Ma comunque ciò siasi, Niccolò
II il qual, seguendo il costante tenore de' suoi predecessori, mal
sofferiva questi vantaggi di Roberto, col pretesto, che appartenesse
quella città alla Sede appostolica, gli fece intendere, che dovesse a
lui restituirla. Molto eran lontani i Normanni di restituire vilmente
ciò, ch'essi aveano acquistato sopra i Greci colle loro armi, e con
tante fatiche e travagli; onde Roberto, poco curandosi delle dimande
del Papa, ripigliò il suo cammino verso la Calabria.
Non era in istato il Pontefice Niccolò II seguitando l'esempio di
Lione, di movergli contro un esercito; eran lontani gli ajuti che
poteva sperare dagl'Imperadori d'Occidente; anzi questi cominciavano ad
alienarsi da' Pontefici romani, ed avergli in avversione per cagione,
che contrastavan loro l'elezione del Papa e l'investiture degli altri
beneficj, delle quali erano insin allora stati in possesso. Nè era da
sperar soccorso dagli altri Principi longobardi vicini, poich'essendo
il Principato di Capua passato sotto la dominazione de' medesimi
Normanni, eran molto deboli le forze di coloro di Salerno, e molto più
degli altri di Benevento. Molto meno era da sperare da' Greci, inimici
implacabili de' Pontefici romani, per lo scisma famoso, ch'avea fra
queste due Chiese poste già profonde radici, e che avea alienati i
Greci da' Latini.
Dunque non restava altro a Niccolò II che di ricorrere alle armi
spirituali ed alle scomuniche. I Pontefici romani aveano già cominciate
ad adoperarle contro i Principi, come s'è veduto ne' precedenti libri;
nulladimanco s'erano mossi allora per cagioni ch'essi almeno credevano
più oneste, e sovente per occasione di religione, e per le loro
detestabili eresie; se ne valsero anche per rompere le confederazioni,
che i Principi cristiani spesso facevano con i Saraceni infedeli,
come fece Giovanni VIII co' Napoletani ed Amalfitani, ciò che riteneva
uno spezioso pretesto di pietà e di religione. Ma da poi, come suole
avvenire, che il buon uso degenera in abuso, cominciarono a valersene
indifferentemente per mondani rispetti, o per gratificare qualche
Principe, o sopra tutto per conservare i beni temporali della Chiesa,
ovvero per ingrandirgli con nuovi acquisti. Così abbiam veduto, che
perchè i Beneventani non vollero aprire le porte della loro città
all'Imperador Errico, questi gli fece scomunicare da Clemente II, che
come un suo corteggiano lo menava seco in Germania.
Le scomuniche nella primitiva Chiesa, siccome allora tutta la cura de'
Prelati era sopra le cose spirituali, così non eran adoperate, se non
contro gli Eretici, ovvero per la correzione de' pubblici peccatori:
il principal uso era contro coloro, che non ben sentivano della nostra
religione, i quali se dopo le tante ammonizioni non si ravvedevan
de' loro errori, eran separati dalla Chiesa; ed in secondo luogo, per
evitar gli scandali, eran adoperate contro i pubblici peccatori. Nè era
altro il loro effetto, che di privargli di tutto ciò, che la Chiesa
dava a' suoi Fedeli di Sacramenti, e d'altre cose spirituali. Ma da
poi, e spezialmente a questi tempi, essendo diminuita ne' Prelati la
cura spirituale, ed all'incontro cresciuta nell'Ordine ecclesiastico
l'avidità de' beni temporali, siccome prima s'usavan solamente per la
correzione dei pubblici peccatori, e per gli Eretici, così da poi eran
più frequentate per li beni temporali, così per difesa di quelli, come
per ricuperargli, se per caso la poco cura de' predecessori gli avesse
lasciati perdere.
Ma inutilmente si sarebbero adoperate quest'armi, se insieme non si
fosse fatto credere a' Popoli, che in qualunque maniera lanciate,
se non si restituivano le robe, erano i possessori irremissibilmente
dannati, imputando ciò ad effetto della censura, più che del peccato.
E per renderle più formidabili aveano ancora proccurato introdurre una
nuova dottrina, che i scomunicati non pur fossero indegni di ciò, che
la Chiesa dava a' suoi Fedeli, qual era l'effetto della scomunica, ma
ancora che la scomunica disumanava, infamava, gli rendeva abbominevoli,
esosi, vitandi, quasi appestati ed orribili, togliendo loro anche l'uso
della vita civile e del commercio, stabilendo perciò molte decretali,
che non potessero far testamenti, contratti, istituire azione alcuna in
giudizio, adottare e far altri atti legittimi, non potessero esercitar
uffici nella Repubblica e mille altre cose, di che forse ci sarà data
occasione altrove di più diffusamente ragionare.
Per queste cagioni non si può credere quanto fosse in questi tempi il
terrore e spavento delle censure non pur nella plebe, ma ne' personaggi
di conto e nei Principi stessi; ed era veramente cosa da stupire, che
i Capitani ed i soldati, uomini per altro scelleratissimi e senz'alcun
timor di Dio, e che senz'alcun riguardo d'offenderlo s'usurpano quello
del prossimo, per timore poi delle scomuniche guardavano con gran
rispetto le cose della Chiesa, nè vi era in questi tempi da poter usare
maggiore difesa per conservar i beni temporali, se non di porgli sotto
la custodia e protezione della Sede appostolica.
Da ciò ne nacque (come altrove fu avvertito) un'altra utilità
grandissima per l'aumento de' beni temporali della Chiesa, poichè
mossi da ciò molti di poco potere e di deboli forze, che per se stessi
non erano bastanti di conservar il loro dall'altrui violenza, che per
la corruttela del secolo eran cresciute, desiderosi d'assicurar le
loro sostanze, ne facevano donazioni alla Chiesa con condizioni, che
rimanendo appresso di loro la roba, ella glie le dasse in Feudo con
una leggiera ricognizione; poich'erasi in questi tempi introdotto il
costume, che i privati gli Alodj mutavano in Feudo, con farne donazioni
a' Principi da chi ne erano investiti. E di questa sorte di Feudi
chiamati _Oblati_ pur ne abbiamo memoria ne' nostri libri feudali,
e Cujacio ne tratta ben a lungo. Questo assicurava li beni, che da'
Potenti non erano toccati, come quelli, la di cui protezione e diretto
dominio era della Chiesa, la quale entrava perciò volentieri, nel
caso d'invasione, alle censure per difendergli: e dall'altra parte il
vantaggio della Chiesa era grandissimo, non tanto per la ricognizione
che ne ricavava, ma perchè se ben vivente il possessore non ne
ricavava altro, nulladimanco mancando poi la successione masculina de'
Feudatari, come spesso accadeva in questi tempi per le frequenti guerre
e sedizioni popolari, i beni cadevano alla Chiesa.
I Normanni non meno degli altri prendevano delle scomuniche spavento
e terrore; poichè venuti di fresco alla religione cattolica, ed
essendo di somma pietà e zelo verso la medesima, come lo dimostrano
le frequenti loro peregrinazioni ne' più celebri Santuari di Occidente
e d'Oriente ancora, e divotissimi della Sede appostolica più che ogni
altra Nazione, come si vide da' trattamenti che fecero a Papa Lione;
mal volentieri volevano esporsi a questi fulmini, di cui essi aveano
il più gran terrore. Animato da ciò Niccolò II, volle provarvisi, e
riputando in questa maniera, ciò che Lione non avea potuto con eserciti
armati, di poter ottener egli colle censure, scomunicò solennemente
Roberto co' suoi Normanni.
Furono però questi fulmini lanciati a voto; poichè i Normanni, non men
ch'essi, si sapevano molto bene conservare ciò che co' loro sudori
in mezzo a mille perigli aveansi acquistato, e lor pareva somma
viltà cedere quel che acquistato con tanti travagli possedevano; e
per riverenti che fossero de' Pontefici, e della Sede appostolica,
nulladimanco quando si trattava di lasciar ciò che avean preso,
seguendo gli esempi degli stessi Pontefici, non così volentieri si
persuadevano a farlo; ed ancorchè delle censure scagliate contro di
loro n'avessero sommo spavento e terrore, con tutto ciò non era tanto,
che riputandole per questo fatto ingiuste, si dovessero disporre a
lasciare niente di ciò che aveano preso.
Essendosi adunque portate le cose a questo stato, nel quale non vi
poteva esser riposo e quiete tra l'una parte e l'altra: ciascuna
venne seriamente a pensare, come potessero uscir da tanti sospetti ed
inquietudini per mezzo d'un accordo, che fosse per ambedue vantaggioso.
Roberto fra se medesimo considerava, che se bene stesse sicuro di non
potere colla forza da' Pontefici romani esser costretto lasciar le sue
conquiste, nelle quali s'era per tante vie stabilito; nulladimanco
che non bisognava avergli inimici, poichè quantunque secondo lo
stato presente delle cose non potessero ricever aiuti dagl'Imperadori
d'Occidente, nè da altri Principi convicini; nulladimanco erasi per
lunga esperienza veduto, che non sarebbon loro mancate occasioni,
quando l'opportunità d'altro tempo lo portava, di turbargli: che le
maggiori inquietudini ed ostacoli la sua Nazione gli avea sofferti
da' Papi, più che dai Greci stessi. Lo spaventavano le censure, e più
gli eventi infelici, che aveano sovente portato agli altri Principi:
che presso i Popoli, a cui eran in sommo orrore, non potesse nascere
qualche sollevazione, e particolarmente appo i Pugliesi, che non ben
s'erano rassodati: che i suoi acquisti eran recenti in paesi stranieri,
ove bisognava più tosto farsi degli amici, che degl'inimici: che i
tumulti nati per Bacelardo suo nipote potrebbero esser fomentati di
nuovo, con porre in su quel partito, nel che i Papi solevano usare ogni
accortezza, tanto maggiormente che si portava opinione essergli da lui
stata usurpata la successione: finalmente che bisognava aver amico il
Papa, non solo per ciò che s'era acquistato, ma molto più per quel che
rimaneva a conquistare nell'altre province, affinchè per l'autorità che
s'aveano i Papi presa, potesse confermarlo nella possessione di ciò che
sperava di avere.
Dall'altra parte il Papa considerava, che co' Normanni erano inutili
le scomuniche; ch'essi non erano gente da lasciare niente, se non
s'adoperassero quei medesimi mezzi, che avean tenuto per conquistarle;
che queste forze non eran da sperare dagli Stati della Chiesa, o dagli
altri Principi vicini, e molto meno dagl'Imperadori d'Occidente, i
quali essendosi da loro alienati per cagione dell'investiture e per
l'elezione de' Pontefici, ancorchè Niccolò in un Concilio tenuto
poc'anz'in Roma avesse proccurato soddisfare ad Errico; nulladimeno
per l'avversione de' Romani erano vicine le cose a prorompere in
aperte dissensioni e guerre crudeli: che per poter sostenere la
causa del Clero, e del Popolo romano, e de' Sommi Pontefici contro
gl'Imperadori, bisognava pensare da ora ad appoggiarsi ad un Principe
forte e valoroso, perchè altrimenti sarebbe riuscita vana ogni loro
impresa: ch'egli non poteva far miglior elezione di Roberto, il quale
colle sue forze avrebbe potuto opporsi efficacemente, e restituire alla
Chiesa romana quella prerogativa, che gl'Imperadori s'aveano usurpata:
che finalmente vi poteva esser modo, col quale la Sede appostolica
accordandosi con Roberto più tosto ne ritrarrebbe vantaggio, che
nocumento.
Erano per queste considerazioni gli animi ben disposti per mezzo d'un
accordo di far terminare ogni contesa, e far nascere la pace in mezzo
a tanti sconvolgimenti. Roberto volle prevenire il Papa, ed essendosi
ritirato in Calabria, inviogli un Ambasciadore con offerte generose
di voler egli soddisfarlo in tutto ciò che desiderava, e che per tal
effetto lo invitava ad un congresso, di cui gli prometteva, che avrebbe
gran soggetto d'essere soddisfatto[280].
Il Papa, che non desiderava altro, e che avea ancora i suoi disegni,
ne fu contentissimo, e ricevuta quest'offerta, coll'occasione di dover
tenere un Concilio per riformare in qualche parte i detestabili costumi
degli Ecclesiastici, gli mandò a dire, ch'egli quel Concilio l'avrebbe
intimato in Melfi, dove sarebbesi portato in persona, ed ove uniti
insieme avrebbero con soddisfazione comune composta ogni contesa.
La corruttela de' costumi ch'era nell'Ordine ecclesiastico in
questi tempi, era in eccesso: e sopra tutto, tolta ogni vergogna,
non aveano nè tampoco difficoltà tener le concubine pubblicamente
nelle proprie case, ed i figliuoli nati da quelle, come con dolore
narra Pier Damiani. Niccolò nel Concilio romano diede contro tali
Concubinari, qualche provvidenza; ma in queste nostre province avea
questo vizio poste sì profonde radici, che non v'era nè Vescovo, nè
Prete, nè Diacono, nè minimo Cherico, che non se ne provedesse: Niccolò
perciò in quest'anno 1059 nella città di Melfi tenne Concilio, ove
condannò e detestò l'abuso, ponendo molte pene contro i concubinari,
e depose ancora il Vescovo di Trani. Ma non perciò potè svellersi
la mala radice; pareva quasi che impossibile, che i Preti potessero
distaccarsene, e quindi è che ne' Concili tenuti da poi, non si vide
inculcar altro, che di toglierle a' Preti, ma sempre invano; anzi in
queste nostre province era così pubblico questo uso delle concubine,
ed il numero fu tale, che arrivarono sino a pretendere l'esenzione
dal Foro secolare, e di non star sottoposte alle pene, che i Principi
secolari contro i concubinari avean stabilite, dicendo, ch'essendo
della famiglia de' Preti, doveano non meno che questi godere del
privilegio del Foro. Ed è cosa maravigliosa il sentire, che Carlo
II d'Angiò ordinasse ne' suoi tempi, che le concubine de' Preti non
stassero sottoposte alla pena della perdita del quarto, come l'altre
de' secolari, ancorchè non gli piacesse esentarle dal Foro, come i
Preti pretendevano.
Essendo adunque il Papa al Concilio in Melfi, sopraggiunse ivi il
famoso Roberto, che portò seco il Principe Riccardo con tutta la
Nobiltà normanna; le allegrezze e l'accoglienze furono grandi; ma si
venne da poi a quel che più importava.
I Normanni per assicurar meglio i loro Stati, proccuravano impegnare i
Papi nella loro difesa, particolarmente contro gl'Imperadori, i quali
avean ragione di ricuperargli, poichè ad essi si toglievano: la Puglia
e la Calabria era cosa fuori di controversia, che agli Imperadori
d'Oriente si toglievano, non già a' Pontefici romani, i quali non
v'aveano alcun diritto. Dall'altra parte gl'Imperadori d'Occidente
pretendevano, che ciò che I Normanni possedevano in queste nostre
province, lo tenessero da loro in Feudo, avendogli investito Errico II,
e che come vassalli dell'Imperio dovessero riconoscergli per Sovrani:
Riccardo che avea involato il Principato di Capua a Landolfo, dovesse
riputarsi come lor vassallo, non altramente che vi furono gli altri
Principi di Capua longobardi suoi predecessori, essendo quel Principato
sottoposto agl'Imperadori d'Occidente come Re d'Italia; pretendevano
queste istesse ragioni sopra i Principati di Benevento e di Salerno,
che Roberto intendeva d'invadere. Doveano adunque impegnarsi i Papi
contro questi due potenti nemici, sopra i cui Stati finalmente si
raggirava l'accordo.
Si pensò per tanto un modo, nel quale ciascheduno trovava il suo
vantaggio. Era già, come s'è detto, introdotto costume, che ciascuno
per conservar meglio i suoi beni gli sottoponeva alla Chiesa romana,
alla quale, obbligandosi i possessori con una leggiera ricognizione,
si dichiaravano ligi, giurandole fedeltà. I Pontefici romani in questi
rincontri sempre v'aveano i loro vantaggi, poich'essi niente davano del
loro, ed all'incontro, oltre della fedeltà giurata, ed il censo, nel
caso di mancanza di prole legittima e maschile, i Stati si devolvevano
alla Chiesa, ed era in loro arbitrio d'investirne da poi altri. I
Popoli ed i Principi poco curavano d'esaminare se potessero farlo,
o no, e donde venisse questo lor dritto d'investire, farsi giurare
fedeltà, e di conceder anche titoli di Conti e di Duchi: bastava ad
essi che fossero difesi colle scomuniche, delle quali si aveva tanto
spavento, osservando, che i loro nemici sovente s'astenevano di mover
loro guerra per non esporsi a' fulmini della Chiesa. S'aggiungeva
ancora il vedere la potenza de' Pontefici romani essere in sì sublime
grado ridotta, che s'arrogavano la potestà d'assolvere i loro vassalli
da' giuramenti, e di poter ancora deponere gl'Imperadori ed i più
grandi Monarchi della terra; onde molto meno recava loro maraviglia se
potessero dar titoli di Conte e di Duca, quando presumevano di far essi
gl'Imperadori stessi d'Occidente, e trasferire l'Imperio da una Nazione
in un'altra.
Ma quello, che veramente portava stupore era il vedere, che s'erano
persuasi, che non solo potessero i romani Pontefici investire e farsi
dar giuramenti di fedeltà di quelle terre, che erano a loro offerte
a questo fine; ma anche di province e Regni, che doveano ancora
conquistarsi. E presso coloro che s'accingevano alla conquista, trovava
ciò facile credenza, perch'era cosa per loro molto acconcia, di poter
in cotal guisa essere non pur animati all'impresa, ma assicurarsi delle
future conquiste, perchè volendosi opporre i possessori, che erano
spogliati, doveano ancora esporsi agli fulmini della Chiesa, che loro
si opponeva.
Fu dunque cosa molto facile venire a capo di quest'accordo, come
quello che finalmente si raggirava, come meglio sopra gli Stati altrui
potesse ciascuno profittare. Niente importava che sopra le spoglie dei
Greci e de' Longobardi si pattuisse. Niente ancora si badò al Principe
Bacelardo, che si teneva dal zio spogliato. Niente al Principe Landolfo
discacciato da Capua; ma ciascuno rimirando a' suoi propri comodi e
disegni, conchiusero di buon accordo il tutto in cotale guisa. Che
Roberto co' suoi Normanni fossero assoluti da tutte le censure. Che a
Roberto si confermasse il Ducato di Puglia e di Calabria, ed oltre a
ciò, che cacciando i Greci ed i Saraceni, che in gran parte tenevano
occupata la Sicilia, dovesse il Papa investirlo anche di quell'isola
con titolo di Duca; ed in fine, che a Riccardo Principe di Capua si
confermasse il Principato, che a Landolfo avea usurpato.
All'incontro fu convenuto, che Roberto e Riccardo ed i loro successori
si mettessero sotto la protezione del Papa, il quale confermava
loro la possessione di tutti i Stati che aveano in Italia, e della
Sicilia quando essi l'avessero conquistata sopra i Saraceni: che gli
prestassero perciò il giuramento di fedeltà come Feudatari della
Santa Sede, alla quale dovesse Roberto per ciascun anno pagare il
censo di dodici denari di Pavia per ogni paio di buoi; siccome narra
Lione Ostiense[281]; e Fr. Tolomeo di Lucca aggiunge, che Roberto non
s'obbligò a quest'annuo censo, o costretto, o ricercato dal Papa, ma di
sua spontanea e libera volontà.
Questo fu stabilito in Melfi in quest'anno 1059 ed ancorchè alcuni
scrivano, che ciò anche fu confermato nel Concilio dal Papa ivi tenuto;
nulladimeno non essendo quest'affare appartenente al medesimo, che
erasi sol ragunato per riformare i costumi degli Ecclesiastici, altri
non ardiscono di dirlo, ma solamente che mentre il Papa coll'occasione
del Concilio si trovava in Melfi, avesse ricevuto da' Normanni il
giuramento della fedeltà, e data l'investitura. Che che ne sia, egli
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