Il Sacro Macello Di Valtellina - 5
masserizie e cadaveri(62). Non mancarono prodigi al terribile caso: la
cometa che in quel tempo aveva atterrito i popoli e i re. Predizioni
portentose: angeli che avvisarono del pericolo, demoni che infierivano
la procella, chi l'attribuì a vendetta di Dio per il licenzioso vivere
d'alcuni, o per i protestanti che vi avevano culto. I più giudicarono
non senza destino fosse accaduto appunto il giorno della barbara
uccisione dell'arciprete Rusca. Fermo tra i miserabili resti e nel
letto del fiume devastatore, che scorre sopra il diroccato borgo, ben
sei disumano se non ti senti stringere il cuore pensando a quelli, che
repente dalla quiete dei domestici lari, dalla preghiera,
dall'amichevole discorso, dalla soavità degli affetti famigliari,
vennero balzati in quell'incognita regione, dove solo si fa giusta la
retribuzione delle opere umane.
CAPO IV
Scontento dei Valtellinesi--Congiura dei Grigioni e dei
Valtellinesi--Sacro Macello.
Ma, dolorosa verità! L'uomo ha più da temere le passioni dei suoi
simili che i disastri della natura. Gran doglia andava continuando
alla Valtellina il severo procedere dello _Strafgericht_, che per
racconciare la libertà guastava la giustizia: provocava lo sdegno dei
nobili col toglierli singolarmente di mira, mentre i popolani (se le
fazioni non ne traviavano il senno) si accorgevano che, percossi i
capi, rimarrebbero essi alla mercede dei predicanti. Nella Valtellina
intanto i Grigioni ogni di più prendevano rigoglio addosso ai
Cattolici, e questi dovevano mandar giù e mandar giù; e se dicevano
parola di lamento, i padroni si voltavan loro con un viso, quasi i
buoni ed i belli fossero essi. Se ti fai a leggere gli scritti di quei
giorni, ti apparrà come i signori vivessero timorosi e tremendi, nei
sudditi fosse un'ira, un cordoglio, un'affannosa speranza, il silenzio
della paura in tutto il paese, l'idea della vendetta in tutti i cuori,
e quel sordo rumore dello sdegno di Dio che si appressa.
Sciagura al governo, che intende col terrore comprimere i soggetti
mentre potrebbe colla giustizia amicarseli! Tristo a quello, il cui
egoismo crede riparar al male coll'acquistare tempo! I perseguitati
grigioni e valtellinesi, e quelli che riputavano meglio un onorato
ribelle che uno schiavo cittadino, cercando fuor di patria sicurezza,
libertà di lagnarsi, speranza di vendicarsi, si davano attorno per
introdurre le armi straniere nella valle non solo, ma nei Grigioni.
Anche il popolo dal terrore alla pietà, poi allo sdegno passò. E prima
parlottar segreto, poi aperte querele, ché nei patimenti sembra
consolazione il gridare e lamentarsi, e venire per il più leggero
appicco a parole, e tutt'insieme a sassi e coltelli. Avendo voluto i
Reti introdurre una chiesa evangelica in Boalzo e Bianzone, s'opposero
a tutta lor possa i Cattolici. E per vendetta di Biagio Piatti i
Cattolici ammazzarono un evangelico di Tirano, e diedero tal avviso
che mal per lui al predicante di Brusio, _primizie de' Martiri_.(63)
Anche al Calandrino, mentre predicava a Mello, una banda s'avventò, e
lo ferì a morte. Anzi avendo i predicanti, dopo la pasqua, fatto una
solita loro accolta in Tirano, i terrieri in arnese d'armi s'erano
rimpiattati al ponte della Tresenda per trucidarli: ma lor ventura
volle ne sentissero fama a tempo per ripararsi.
Intanto i Valtellinesi non lasciavano cura per trovare rimedio
efficace ai mali sì lungamente pazientati. Dal duca di Feria, nuovo
governatore del milanese, e dal Gueffier ambasciadore francese
ricevevano subdoli incentivi: trattarono colle Corti d'Austria e di
Spagna, ma l'ambigua politica di questa niente lasciava trarre a riva.
Il papa, a cui inviarono non una sola volta, li consolava con un mondo
di promesse, ma intanto li teneva confortati ad una pazienza, che loro
pareva ormai intempestiva. Sopratutto adoperavano i fuorusciti, gente
che, nimicissima di chi la proscrisse e nulla avendo a sperare nella
quiete, tutto nei tumulti, badando ai suoi odj più che ai comuni
interessi, è perpetua autrice di partiti estremi e ruinosi, purché
riesca non tanto al proprio trionfo, quanto a danno o a dispetto
dell'inimico. Colle consuete esagerazioni costoro gridavano per il
mondo l'oppressione della patria loro, e confortavano i Valtellinesi a
levarsi una volta per la causa santa, promettendo tener mano con essi.
Poiché ad ogni partito si vuole un rappresentante, un capo, tal fu
Giacomo Robustelli di Grossotto, parente dei Planta perseguitati,
perseguitato egli stesso, uom d'alto sangue, agiato dei beni di
fortuna, d'animo gagliardo e male al servire disposto, e ricco di
quell'ambizione che dei sagrifizj altrui sa fare vantaggio proprio.
Servendo nell'armi, era da Carlo Emanuele di Savoja stato fatto
cavaliere dei ss. Maurizio e Lazzaro, e molt'aura si era tra i suoi
acquistato coll'affabilità e splendidezza, sicché parve opportuno
centro alle trame per liberare la patria. Ben giungeva all'orecchio
dei dominanti come si parasse mal tempo, farsi appresto d'armi e
danari per venirne ad una: ma il sangue del Rusca era montato al
cielo, grave giudizio stava per avvenirne, e Dio gli inebbriava col
calice che manda talvolta a popoli e a principi, il sopore(64).
Ciò faccia saggi i signori della terra, che il pubblico bene, se vuol
che il suddito soffra alcuna cosa, vuol a più forte ragione che, chi
comanda, paventi stancarne l'obbedienza, schermo d'armi non bastare
ove ingiustizie si continuano, e mostrare più ancora dissennatezza che
atrocità chi ai lamenti dei popoli risponde "Confido nel mio
esercito".
Non intenderà mai la storia chi guardi i passati avvenimenti dalla
camera propria, anzi che trasportarsi in mezzo agli uomini, ai
costumi, alle opinioni tra cui furono compiti. La tolleranza, questo
dolce frutto della civiltà fecondata dal vangelo, per la quale noi
consideriamo fratello l'uom di qualunque credenza, e lasciamo a Dio lo
scrutare i cuori e punir gli errori dell'intelletto. La tolleranza che
nei secoli forbiti si risolve in accidiosa indifferenza tra l'errore e
la verità, e fa oggi da molti guardar come buone del pari tutte le
religioni purché morali, era affatto estranea a secoli dove le
pratiche religiose tenevano il primo posto nella società, dov'era
profonda la persuasione che una credenza sola portasse alla salute, le
altre alla perdizione. Chi però dice che la tolleranza fosse
proclamata dai riformatori, mentisce, e basterebbe a sbugiardirlo
questo nostro racconto. Le persecuzioni furono tra essi comuni non
meno che tra i Cattolici, altrettanto fiere e più durevoli, e nelle
dissensioni religiose di quel secolo si trattava solo qual parte
dovesse scannare l'altra; se in Francia i Cattolici trucidare gli
Ugonotti o in Inghilterra il contrario.
Anche in Valtellina si ha per costante che i Riformati si fossero
giurati a fare un vespro siciliano, e ridurre alla nuova religione la
valle, non lasciando razza né generazione dei Cattolici. Questo fatto
potrebbe, se non giustificare, scusare almeno l'estremità dei
Valtellinesi: ma è egli altrettanto vero, quanto asseverantemente
ripetuto? Il Ballarini, il Tuana ed altri scrittori cattolici lo
affermano; e che il governatore di Sondrio si fosse lasciato sfuggire
di bocca, non andrebbe molto che sarebbero tutti d'una fede. Nelle
suppliche sporte dal clero e dal popolo di Valtellina al re cattolico
ed al cristianissimo si asserisce questa congiura. Possibile ardissero
mentire così sfrontatamente in faccia a quelle corone? Parrebbe anzi
che unissero alle suppliche l'atto di quella congiura(65). Ma perché,
mentre si conservarono le suppliche perì tal documento? Come, fra
tanti fasci di carte, che ad altri ed a me non parve fatica rovistare,
questa non si rinvenne? Ben si ragiona di qualche lettera, ed il
Bajacca asserisce nel 1619 esserne caduta in mano dei Cattolici una,
di non si sa qual predicante, che si leggeva "Dio vi salvi, fratelli.
Non potendo la patria conservarsi in altra guisa che col levare di
mezzo i dissidenti, si conchiuse che vengano dalle fondamenta tolte la
città ed il vescovo di Coira, poi la Rezia tutta per riguardo ai
papisti". Ne recitano pure un'altra lunga latina, che suona in questo
tenore: "Fratelli, il dado è gittato... usiamo prestezza: non diamo
agli avversarii tempo a respirare... I papisti non si devono ridurre
alla disperazione se non si possono insieme prendere ed uccidere,
poiché spesso la disperazione è causa di vittoria. Mentre dunque il
ferro è caldo, battiamo: di poi l'occasione sarà calva: moviam loro
liti, molestiamoli citando, disputando, mormorando: calunniamoli,
finché lice quanto piace; quelli d'alto ingegno irretiamo colle
astuzie: allontaniamo così qualunque pericolo possa alle cervici
nostre sovrastare; tronchiamo le più alte: prima il vescovo, gli
abati, i prelati, i ministri avversi prendiamo, poi gli ispanizzanti;
rissiamo gli altri fra loro affinché si consumino: questi cacciamo,
quelli abbattiamo: se non taglieremo, saremo tagliati: oppressi
quelli, nulla è a temere... E ch'io lo dica in una parola: coll'esilio
e la morte di 300 uomini saremo sicuri".
Fin qui la lettera. Ora ti par questo l'ordinamento d'una congiura! O
non anzi il gridare, concediam pure d'un fanatico, ma che non fa che
gettare in mezzo un suo pensamento? Mi dirai che parlar oscuro si
suole in cose di tanto rilievo; ma od egli non temeva che la lettera
cadesse sott'occhio cattolico, e diceva poco; o sì, e diceva troppo.
Chi poi vergò quella lettera? donde? quando? a chi?(66) Manca ogni
data, ogni autenticazione. Come poi cadde in mano ai Cattolici?
Miracolosamente, vi dicono: risposta vaga, che cresce le dubbiezze. E
se considero come pochi fossero i Riformati a petto dei Cattolici,
come fra questi ne fossero di baldanzosi, che, quantunque sbanditi,
vivevano in patria fidando nei satelliti e nel proprio braccio, tanto
da ardire fino insultare i magistrati, sempre più scemo fede a questa
congiura, e vengo a crederla uno spediente, che il secolo nostro non
ignorò. Accusare la parte che soccombette, coprendo l'atrocità colla
calunnia e ammantando di difesa il misfatto.
Ma nulla più facile che ottener credenza perfino all'assurdo in mezzo
al turbinio dei partiti, cui primo effetto è annichilare il buon
senso. Vi si diede dunque retta. Le apparenze si recavano a realtà, i
veri mali s'invelenivano, si fingevano dei non veri, e quelli e questi
aumentavano l'accanimento. Era quello un tempo di rivoluzioni. La
Francia, dopo il macello della famosa notte di san Bartolomeo che
molti guardarono come generosa vendicazione di libertà nel credere, si
era agitata fra guerre terribili, che appena allora avevano posa.
L'Olanda si scoteva sanguinosamente dal giogo della Spagna in nome
della religione. In nome di questa la Boemia rompeva guerra
all'imperatore. Tutta Germania era in tumulto per quella che poi si
chiamò guerra dei Trent'anni. Quanto valga l'esempio nelle rivolte non
fa mestieri ch'io lo dica; né dovette essere allora inefficace a
persuadere i Valtellinesi a procacciare con mano forte ai casi loro.
Il cavaliere Robustelli accozzò nella propria casa a Grossotto alcuni
Valtellinesi di maggior recapito e di spiriti più vivi e con parole da
quel dicitore felice che egli era, discorse i danni ed i pericoli
della patria e della religione. Qui gran disparere. Chi esortava
ancora a pazienza: come si tollerano le brine ed i rovesci del tempo,
doversi tollerare la mala signoria. Esservi altri legali mezzi a
sperimentare, i subugli alla fine non far bene che ai tristi. Essi,
che fin qui potevano mostrare la ragione, non volessero gittarsi al
torto col soverchio avventurarsi, colle rivolte, esperimento
pericoloso quanto la trasfusione del sangue, non s'ottiene che di
cangiar padrone, forse di ribadir le catene, certo di perdere
l'inestimabile dono della pace. I moti popolari, facili ad eccitarsi,
difficili a mantenersi. A parole tutti esser buoni, ma al fatto si
sente che altro è immaginare, altro è soffrire, quando, raffreddo il
primo bollore, si conosce di non aver altro che aperto un varco di
pianto in pianto e d'un male in un peggio. Così dicevano quelli cui
pare che la perseveranza conduca ben più innanzi che non l'impeto; e
che disposti a non transiger mai colla prepotenza confidano fiaccarla
colla sofferenza attiva, persone che il secolo nostro condanna col
titolo di moderati.
Ma uom deliberato non vuol consiglio. E i più ai quali pareva lodevole
il far libera la patria od utile il comandarla o santo il purgarla
dalla eresia, sordi ad ogni voce di moderazione, per bocca del
Robustelli esclamavano essersi sofferto assai: dallo star pazientando
qual buona mercede ce ne venne? I timidi consigli ci fecero
disprezzati, i gagliardi ci faranno rispettati. Chi non comincia non
finisce. Dai padri nostri ne fu lasciata una patria da amare, un
patrimonio da difendere, il dovere di conservare le leggi da loro
promulgate. E la patria ed i beni e le leggi e, che più conta, la
religione ci hanno codesti stranieri tolto o contaminato. Chetare le
speranze in Dio? Quest'è lodevole quando cresca stimolo alle forze,
non quando sia pretesto a cessar dalle opere. Una misera pace ben si
muta anche colla guerra. Cento mila Cattolici, quanti ne abitano dalle
fonti del Liro a quelle dell'Adda, elevano un voto solo: cento milioni
di Cattolici in tutta Europa aspettano da noi esempio, e ci preparano
applausi e soccorsi. Noi dunque concorde volere, noi sdegno generoso,
noi magnanime speranze, noi armi giuste perché necessarie, formidabili
perché impugnate per la patria e per gli altari. Il papa ci benedice,
Spagna ci appoggia, la discordia dei Grigioni ci favorisce. Se
l'occasione fugga, chi più la raggiungerà? Chi non vuole quando può,
non può quando vuole. Torna meglio morire una volta che tremar sempre
la morte. Cadremo colle armi alla mano? Il mondo ci compassionerà, ci
ammirerà come martiri, come eroi. Sopravviveremo alla ben condotta
impresa? Quanto sarà dolce nei tardi nostri anni dire ai figli ed a
chi nascerà da loro: "Noi pugnammo per la patria e per la fede: se
liberi, se cattolici voi siete è merito nostro".
Applausi non mancano mai a chi parla alle passioni più che alla
ragione, e non tardarono ad entrar tutti nel parere più violento. Si
faceva grande appoggio sulle armi e sui maneggi dei Planta, si sperava
dai Cantoni cattolici; "Ribellione (diceva il capitano Guicciardi) si
chiama il macchinare e non compiere l'impresa". "Non mancheranno
ragioni (esclamava Anton Maria Paravicini) se non mancherà la forza di
sostenerle". "Tolgo sopra di me (soggiungeva il valente giureconsulto
Francesco Schenardi), il mostrare al mondo che abbiamo diritto d'esser
liberi ed indipendenti".
Ma come operare il gran fatto? Levarsi in arme, proponevano alcuni:
intimare ai Grigioni di partirsi, ai nostrali di convertirsi alla
fede; dar mano agli _ispazzinanti_ della Rezia per abbattere la parte
ereticale, e chiusi nei propri monti, respingere le armi che venissero
per soggiogarli. Ma "No no (gridava il dottor Vincenzo Venosta), non è
più tempo di mezzi consigli. Le ingiurie contro i principi non si
cominciano per farsi a mezzo: chi trae contro i padroni la spada,
getti il fodero, né ponga speranza che nel proprio valore. Or che
clemenza? che discorrere di diritto e non diritto, di pietoso o di
crudele, quando si tratta di salvare la patria e la religione? Non
sono costoro che uccisero Biagio Piatti ed il santo arciprete Nicolò?
Che chiesero a morte i migliori di noi? Che congiurarono per
iscannarci tutti inermi? Volti Iddio sovr'essi il loro consiglio, e si
scannino fino ad uno quanti eretici dannati al demonio vivono in mezzo
all'ovile di Cristo. Se noi li uccidiamo, se ne parlerà alcun tempo,
indi scaderà fin la memoria loro: se vivi li lasciamo, continueranno a
darsi attorno, cercando a noi nemici, a sé vendetta. Gusti il popolo
la voluttà del sangue, e sia suggello al voto di eterna nimistà con
questi esecrati padroni". Quel caldo parlare vinse i ritrosi pareri, e
fece precipitare la bilancia dei consigli esagerati. Onde, accesi
tutti in gran volontà di un passo terminativo, serrandosi le mani con
quella potenza che è data dall'accordo delle volontà, giurarono
ridurre le vendette ad un colpo e fare a pezzi quanti eretici natii o
stranieri, fossero nella valle. E senza punto frammettere, venne
spedito il capitano Giovanni Guicciardi di Ponte per amicare il
cardinale Federico Borromeo, il duca di Feria e gli altri magnati del
governo milanese. Nel che riuscito a poca fatica, ed avutone anzi 3000
doppie,(67) assoldò esuli e gente d'ogni sorta pel primo sforzo di
liberare la patria.
Non crederete che, fra tanti complici, questi trattati passassero
nascosti ai Grigioni: ma dagli interni tumulti occupati rimessamente
provvedevano, mentre i Valtellinesi per questo appunto acceleravano
vieppiù. E già avevano composto che il 19 luglio, mentre gli
Evangelici erano assembrati alla predica festiva, dovessero assalirli
e trucidarli nel punto stesso, truppe milanesi entrerebbero nella
valle. I Planta dal Tirolo, il Giojero, già podestà dì Morbegno, dalla
Mesolcina, piomberebbero sopra la Rezia. Tutti quei concerti insomma
che al tavolino pajono immancabili, e all'atto svaniscono, lasciando
chi vi credette in faccia alla nuda realtà. Disajutò gravemente
quest'ordine esso Giojero, che ai 13 di quel mese valicò il San
Bernardino, e sceso in val di Reno, difilò sovra Coira, presumendo con
un avventato colpo dare buon cominciamento all'impresa: ma dai
Grigioni respinto, sperperata quella sua marmaglia, fu mandato in fumo
il tentativo.
Né però i congiurati fecero come sbigottiti e vinti al primo colpo
fallito: anzi tenevano pronto armi, munizioni e bravi per un terribile
domani. Ma di rado van piane queste pratiche. Il capitano Giammaria
Paravicini di Ardenno, cancelliere generale ed uno dei più vivi in
tale faccenda, dando nome di dover accudire a certi suoi poderi in
Vacallo, terra nei baliaggi svizzeri, si era messo colà per far còlta
di gente, con cui doveva, appena cominciata la strage, mozzare le
strade del chiavennasco perché di là non venissero Grigioni in
soccorso. Ora non so qual urgentissimo negozio lo chiamò di tutta
prontezza a Milano, donde fece inteso a Giovanni Guicciardi come per
ciò fosse mestieri dare al fatto l'indugio di otto giorni, finché
spedito egli si fosse dagli affari per cui era partito. Quanto se ne
turbasse il Guicciardi lascio a voi pensarlo, ben sapendo di qual
momento sia un'ora sola nelle crisi d'un popolo come d'un malato.
Spedì dunque per il Robustelli, che da Grossotto a Tirano in diligenza
venuto, nella tinaja del podestà Francesco Venosta unitisi molto alle
strette, si consultarono su qual partito fosse a pigliare al caso. Per
evidenti segni appariva il loro consiglio essere trapelato ai Grigioni
o per ispioni, genia non mai scarsa, o per qualche parola mal
avvisata, o per quei piccoli segni che si notano quando si ha niente
indizio d'una pratica. Onde, vigili in loro terrore, si erano recati
in miglior guardia, avevano raddomandate dai Valtellinesi le chiavi di
tutte le pubbliche fortificazioni ed armerie, rifrustavano con rigore
alcune case, avevano posto su ciascun campanile chi, ad ogni primo
rumore, toccasse a stormo, proibito l'uscir dalla valle e fin lo
spedire lettere, tenuti ben d'occhio i caporioni, disposta una tela di
cagnotti che ronzassero alle frontiere.
E appunto in queste guardie cadde un corriere, spacciato a posta con
lettere dal Robustelli al Paravicini. Ciò sapevano i congiurati,
ignorando però come il corriere fosse stato destro abbastanza, da
gettare nell'Adda i dispacci, che avrebbero messa in luce la trama.
In così terribile intradue che fare? Fuggire, proponeva il Guicciardi,
mentre lo scampare era a tempo, e serbarsi a migliore opportunità. Ma
dissentivano fermamente gli altri due: essersi ormai là, dove se
andasse al contrario avevano giocata ogni speranza. Già era in forza
dei padroni un dei loro complici, che al domani doveva esaminarsi alla
corda: e se i tormenti gli strappassero la verità? Poi se anche
riuscisse a loro di fuggire, che ne sarebbe dei tanti, che per
confidenza avevano preso parte con loro? Che della patria, abbandonata
ad un offeso padrone? Già sono in punto d'armi molti satelliti, già il
Paravicini mandò un gomitolo di 40 uomini i quali, dato che siano
scarsi di numero, basteranno poco o assai a coprire il terziere
inferiore. I momenti che il vile usa a fuggire, il prode gli adopra al
vincere. Si tolga dunque ogni indugio al fatto, usando quell'audacia
che padroneggia gli eventi.
Neppur tanto bisognava perché anche l'altro scendesse nel loro parere:
onde navigando perduti, vinse il partito di dar corpo al feroce
disegno, se ne andasse quel che volesse. Le terre superiori non erano
da verun accattolico abitate, né i Bormiesi avevano di che lagnarsi
dei Grigioni(68). Doveva dunque la strage cominciarsi a Tirano, ove
aggregati i manigoldi in casa del Venosta, coll'avidità del fanatismo
già pareva loro mill'anni d'essere al sangue. Appena si oscurò quella
notte, trista per cielo perverso, più trista per i disegni che vi
dovevano maturare, sono fuori, altri a guardare le vie perché non esca
fama del fatto, altri a serragliare la strada di Poschiavo, altri a
collocarsi opportuni. Poi in un sogno pieno di fantasmi e di paure,
quale scorre fra il concepire d'una terribile impresa ed il compirlo,
stettero aspettando l'ora pregna di tanto dubbio avvenire, con quel
gelo di cuore, con quell'indicibile sospensione d'animo, che non
conosce se non chi la provò. Là sul biancheggiare dell'alba quattro
archibugiate danno il segno convenuto, le campane suonano a popolo,
compunti il cuore di paura, balzano dal sonno i quieti abitanti, ma
come all'uscire ascoltano gridare 'ammazza ammazza', e vedono darsi
addosso ai Riformati, tutti sentono il perché di quell'accorruomo.
Ogni cosa è un gridare, un fuggire, un dar di piglio all'armi, chi per
difesa, chi per offesa, e piombare sovra i nemici, e difendentisi
invano, gridanti a Dio mercé della vita e dell'anima, tra le braccia
delle care donne che ponevano i bambini a pié dei sicarj per
ammansarli, e tra i singulti degli innocenti figliuoli, nelle case,
per le strade, sui tetti, trucidarli. Il cancelliere Lazzaroni,
valtellinese riformato, fuggì ignudo su per li tetti, e s'occultò in
luogo schifo; ma additato da una donna, fu finito, e con lui un
cognato suo cattolico, che gli aveva dato mano al camparsi. Il pretore
Giovanni di Capaul si rendette alla misericordia dei sollevati, ed i
sollevati l'uccisero. Trascinarono nell'Adda il pretore di Teglio. Al
cancelliere Giovan Andrea Cattaneo non valse il farsi scudo del petto
di una sposa, che pur era cugina del Robustelli e del Venosta. Non al
Salis vicario della valle ed al cancelliere suo il fuggire a
franchigia nella casa del capitano Omodei, leale cattolico aborrente
di quelle estremità. Al ministro Basso fu tronca la testa e posta, fra
barbari dileggi, sul pulpito da cui soleva predicare. Ben sessanta
vennero in diversa foggia scannati, fra cui tre donne, e le altre ed i
fanciulli perdonati se abbracciassero la cattolica fede. II
Robustelli, entrato a Brusio in val di Poschiavo, schioppettò un
trenta persone, poi mise fuoco al paese. Falò, diceva egli, per la
ricuperata libertà di religione.
Che premeva a costoro? Che difendevano essi? La religione di Cristo?
No, se ne falsavano il primo precetto, il supremo distintivo, amare.
Era abitudine di antichi riti, era quel furore che accompagna le
fazioni, era zelo iniquamente incitato da fanatici capi, che
predicavano questi orrori nel nome del Dio della pace, a sostegno di
una religione, che deve essere propagata con armi incolpate, colla
santità degli esempj, coll'efficacia della parola e della grazia.
Guai se la plebe comincia a gustare il sangue! È un ubbriaco, che più
beve, più desidera il vino. "Ripurgato così (uso le parole del
Quadrio) dalla eretica peste Tirano e le sue vicinanze", si spedirono
a Teglio uomini vestiti di rosso, che annunziassero il felice
incammino dato all'impresa. All'avviso, i Besta corrono coi manigoldi
addosso alla chiesa degli Evangelici e prima li prendono a tiri di
scaglia dalle finestre, poi, atterrate le porte, a coltella li
sgozzano. Diciannove rifuggirono nel campanile, e gli insorgenti,
messovi fuoco, li soffocarono. D'ogni sesso, d'ogni età, fin settanta
ne uccisero, fin un cattolico, Bonomo de Bonomi, perché non prendeva
parte all'esecrando atto. Fin te, povera Margherita di quattordici
anni, che, colla viva eloquenza d'una giovinezza innocente, opponevi
il capo alle ferite dirette al sessagenario tuo padre Gaudenzio
Guicciardi.
Intanto Giovanni Guicciardi levava a strage i paesi da Ponte in giù e
la val Malenco e drizzava i sollevati con forte mano sopra Sondrio,
sede del magistrato supremo della valle. Al governatore di colà
l'usata moderazione giovò per ottenere che colla famiglia riparasse in
patria. Settanta altri, di viva forza apertosi il passo tra gli
assassini, fidati nella disperazione, si salvarono per Malenco
nell'Engadina, e si sparsero a Zurigo, a Ginevra, a Sangallo. Toltì
questi pochi, la plebe, gridando _Viva la fede romana_, saccheggiò le
case, e fece orribile guazzo di sangue. Si figuri a cui regge l'animo
l'orrore di quel giorno, quando ben cenquaranta furono trucidati, ed
un Agostino Tassella, coll'insensata gioja del delitto, come di
bellissima prodezza andava trionfante d'averne egli solo _mandati
diciotto a casa del diavolo_; e un tal Cagnone si vantava pronto a
trafiggere anche Cristo; e la ciurmaglia, stanca ma non satolla,
facendo insane gavazze in Campello, gridava: ecco la vendetta del
santo arciprete.
A Bartolommeo Porretto di Berbenno fu scritto l'ordine dell'uccisione,
ma il buon uomo mostrò la lettera ai Riformati. Qual ebbe merito la
sua virtù? Un furibondo Cattaneo trucidò lui e due altri cattolici:
esordio alla strage dei calvinisti di colà.
La fama precorsa aveva intanto fatto agio a molti delle squadre
inferiori di cansarsi. Ma quando i satelliti, messi alla posta sulle
frontiere, ebbero sentore della sommossa, precipitarono a Morbegno per
pigliar parte all'impresa _gloriosa_ dei fratelli. Alcuni calvinisti,
assicurati di salute sulla pubblica parola, furono richiamati, e poi
crudelmente ed iniquamente ammazzati. I predicanti Bortolo Marlianici,
G. B. Mallery di Anversa, M. A. Alba furono uccisi. L'Alessio campò
con Giorgio Jenatz predicante di Berbenno ed altri. Francesco Carlini
frate apostato e predicatore calvinista, fu mandato all'inquisizione,
ove abjurò. Paola Beretta, monaca apostata, inviata anch'essa a quel
tribunale, resistette, e fu arsa viva.
Andrea Paravicini da Caspano, preso dopo molti giorni, fu messo fra
due cataste di legna e minacciato del fuoco se non abjurasse: durando
costante, fu arso vivo. E si videro spiriti celesti aleggiargli
intorno a raccoglierne lo spirito. Né fu questo il solo prodigio, onde
le due parti pretesero che il Cielo ad evidenti segni mostrasse a
ciascuna il suo favore.
Ignobili affetti presero il velo della religione, e coll'eterna
iracondia del povero contro il ricco, contadini e servi piombarono sui
loro padroni, i debitori su cui dovevano, i drudi sui cauti mariti.
Molte donne, ancora e nella florida e nella cadente età andarono a fil
di spada: Anna Fogaroli, Pierina Paravicini, Caterina Gualteria,
Lucrezia Lavizzari scannate: Cristina Ambria, moglie di Vincenzo
Bruni, e Maddalena Merli precipitate dal ponte del Boffetto. Ben venti
nel solo Sondrio(69). Anna di Liba vicentina di sette lustri con un
bambolo alla mammella, perché ritrosa a rinnegare la fede che aveva
abbracciata col marito Antonello Crotti di Schio, venne in quattro
trinciata. Costanzina di Brescia, giovinetta di viva bellezza, era
troppo piaciuta ad un giovinastro, che chiestala invano d'amore, covò
la vendetta sino a quel giorno quando di sua mano le passò la gola.
Caterina si era ad onta dei fratelli, sposata in un Marlianici
protestante, ed i fratelli si piacquero sfracellare il cognato, e
balzare nell'Adda la miserabile che lo piangeva.
Poi per molti giorni, come bracchi entrati sulla traccia, si mettevano
cometa che in quel tempo aveva atterrito i popoli e i re. Predizioni
portentose: angeli che avvisarono del pericolo, demoni che infierivano
la procella, chi l'attribuì a vendetta di Dio per il licenzioso vivere
d'alcuni, o per i protestanti che vi avevano culto. I più giudicarono
non senza destino fosse accaduto appunto il giorno della barbara
uccisione dell'arciprete Rusca. Fermo tra i miserabili resti e nel
letto del fiume devastatore, che scorre sopra il diroccato borgo, ben
sei disumano se non ti senti stringere il cuore pensando a quelli, che
repente dalla quiete dei domestici lari, dalla preghiera,
dall'amichevole discorso, dalla soavità degli affetti famigliari,
vennero balzati in quell'incognita regione, dove solo si fa giusta la
retribuzione delle opere umane.
CAPO IV
Scontento dei Valtellinesi--Congiura dei Grigioni e dei
Valtellinesi--Sacro Macello.
Ma, dolorosa verità! L'uomo ha più da temere le passioni dei suoi
simili che i disastri della natura. Gran doglia andava continuando
alla Valtellina il severo procedere dello _Strafgericht_, che per
racconciare la libertà guastava la giustizia: provocava lo sdegno dei
nobili col toglierli singolarmente di mira, mentre i popolani (se le
fazioni non ne traviavano il senno) si accorgevano che, percossi i
capi, rimarrebbero essi alla mercede dei predicanti. Nella Valtellina
intanto i Grigioni ogni di più prendevano rigoglio addosso ai
Cattolici, e questi dovevano mandar giù e mandar giù; e se dicevano
parola di lamento, i padroni si voltavan loro con un viso, quasi i
buoni ed i belli fossero essi. Se ti fai a leggere gli scritti di quei
giorni, ti apparrà come i signori vivessero timorosi e tremendi, nei
sudditi fosse un'ira, un cordoglio, un'affannosa speranza, il silenzio
della paura in tutto il paese, l'idea della vendetta in tutti i cuori,
e quel sordo rumore dello sdegno di Dio che si appressa.
Sciagura al governo, che intende col terrore comprimere i soggetti
mentre potrebbe colla giustizia amicarseli! Tristo a quello, il cui
egoismo crede riparar al male coll'acquistare tempo! I perseguitati
grigioni e valtellinesi, e quelli che riputavano meglio un onorato
ribelle che uno schiavo cittadino, cercando fuor di patria sicurezza,
libertà di lagnarsi, speranza di vendicarsi, si davano attorno per
introdurre le armi straniere nella valle non solo, ma nei Grigioni.
Anche il popolo dal terrore alla pietà, poi allo sdegno passò. E prima
parlottar segreto, poi aperte querele, ché nei patimenti sembra
consolazione il gridare e lamentarsi, e venire per il più leggero
appicco a parole, e tutt'insieme a sassi e coltelli. Avendo voluto i
Reti introdurre una chiesa evangelica in Boalzo e Bianzone, s'opposero
a tutta lor possa i Cattolici. E per vendetta di Biagio Piatti i
Cattolici ammazzarono un evangelico di Tirano, e diedero tal avviso
che mal per lui al predicante di Brusio, _primizie de' Martiri_.(63)
Anche al Calandrino, mentre predicava a Mello, una banda s'avventò, e
lo ferì a morte. Anzi avendo i predicanti, dopo la pasqua, fatto una
solita loro accolta in Tirano, i terrieri in arnese d'armi s'erano
rimpiattati al ponte della Tresenda per trucidarli: ma lor ventura
volle ne sentissero fama a tempo per ripararsi.
Intanto i Valtellinesi non lasciavano cura per trovare rimedio
efficace ai mali sì lungamente pazientati. Dal duca di Feria, nuovo
governatore del milanese, e dal Gueffier ambasciadore francese
ricevevano subdoli incentivi: trattarono colle Corti d'Austria e di
Spagna, ma l'ambigua politica di questa niente lasciava trarre a riva.
Il papa, a cui inviarono non una sola volta, li consolava con un mondo
di promesse, ma intanto li teneva confortati ad una pazienza, che loro
pareva ormai intempestiva. Sopratutto adoperavano i fuorusciti, gente
che, nimicissima di chi la proscrisse e nulla avendo a sperare nella
quiete, tutto nei tumulti, badando ai suoi odj più che ai comuni
interessi, è perpetua autrice di partiti estremi e ruinosi, purché
riesca non tanto al proprio trionfo, quanto a danno o a dispetto
dell'inimico. Colle consuete esagerazioni costoro gridavano per il
mondo l'oppressione della patria loro, e confortavano i Valtellinesi a
levarsi una volta per la causa santa, promettendo tener mano con essi.
Poiché ad ogni partito si vuole un rappresentante, un capo, tal fu
Giacomo Robustelli di Grossotto, parente dei Planta perseguitati,
perseguitato egli stesso, uom d'alto sangue, agiato dei beni di
fortuna, d'animo gagliardo e male al servire disposto, e ricco di
quell'ambizione che dei sagrifizj altrui sa fare vantaggio proprio.
Servendo nell'armi, era da Carlo Emanuele di Savoja stato fatto
cavaliere dei ss. Maurizio e Lazzaro, e molt'aura si era tra i suoi
acquistato coll'affabilità e splendidezza, sicché parve opportuno
centro alle trame per liberare la patria. Ben giungeva all'orecchio
dei dominanti come si parasse mal tempo, farsi appresto d'armi e
danari per venirne ad una: ma il sangue del Rusca era montato al
cielo, grave giudizio stava per avvenirne, e Dio gli inebbriava col
calice che manda talvolta a popoli e a principi, il sopore(64).
Ciò faccia saggi i signori della terra, che il pubblico bene, se vuol
che il suddito soffra alcuna cosa, vuol a più forte ragione che, chi
comanda, paventi stancarne l'obbedienza, schermo d'armi non bastare
ove ingiustizie si continuano, e mostrare più ancora dissennatezza che
atrocità chi ai lamenti dei popoli risponde "Confido nel mio
esercito".
Non intenderà mai la storia chi guardi i passati avvenimenti dalla
camera propria, anzi che trasportarsi in mezzo agli uomini, ai
costumi, alle opinioni tra cui furono compiti. La tolleranza, questo
dolce frutto della civiltà fecondata dal vangelo, per la quale noi
consideriamo fratello l'uom di qualunque credenza, e lasciamo a Dio lo
scrutare i cuori e punir gli errori dell'intelletto. La tolleranza che
nei secoli forbiti si risolve in accidiosa indifferenza tra l'errore e
la verità, e fa oggi da molti guardar come buone del pari tutte le
religioni purché morali, era affatto estranea a secoli dove le
pratiche religiose tenevano il primo posto nella società, dov'era
profonda la persuasione che una credenza sola portasse alla salute, le
altre alla perdizione. Chi però dice che la tolleranza fosse
proclamata dai riformatori, mentisce, e basterebbe a sbugiardirlo
questo nostro racconto. Le persecuzioni furono tra essi comuni non
meno che tra i Cattolici, altrettanto fiere e più durevoli, e nelle
dissensioni religiose di quel secolo si trattava solo qual parte
dovesse scannare l'altra; se in Francia i Cattolici trucidare gli
Ugonotti o in Inghilterra il contrario.
Anche in Valtellina si ha per costante che i Riformati si fossero
giurati a fare un vespro siciliano, e ridurre alla nuova religione la
valle, non lasciando razza né generazione dei Cattolici. Questo fatto
potrebbe, se non giustificare, scusare almeno l'estremità dei
Valtellinesi: ma è egli altrettanto vero, quanto asseverantemente
ripetuto? Il Ballarini, il Tuana ed altri scrittori cattolici lo
affermano; e che il governatore di Sondrio si fosse lasciato sfuggire
di bocca, non andrebbe molto che sarebbero tutti d'una fede. Nelle
suppliche sporte dal clero e dal popolo di Valtellina al re cattolico
ed al cristianissimo si asserisce questa congiura. Possibile ardissero
mentire così sfrontatamente in faccia a quelle corone? Parrebbe anzi
che unissero alle suppliche l'atto di quella congiura(65). Ma perché,
mentre si conservarono le suppliche perì tal documento? Come, fra
tanti fasci di carte, che ad altri ed a me non parve fatica rovistare,
questa non si rinvenne? Ben si ragiona di qualche lettera, ed il
Bajacca asserisce nel 1619 esserne caduta in mano dei Cattolici una,
di non si sa qual predicante, che si leggeva "Dio vi salvi, fratelli.
Non potendo la patria conservarsi in altra guisa che col levare di
mezzo i dissidenti, si conchiuse che vengano dalle fondamenta tolte la
città ed il vescovo di Coira, poi la Rezia tutta per riguardo ai
papisti". Ne recitano pure un'altra lunga latina, che suona in questo
tenore: "Fratelli, il dado è gittato... usiamo prestezza: non diamo
agli avversarii tempo a respirare... I papisti non si devono ridurre
alla disperazione se non si possono insieme prendere ed uccidere,
poiché spesso la disperazione è causa di vittoria. Mentre dunque il
ferro è caldo, battiamo: di poi l'occasione sarà calva: moviam loro
liti, molestiamoli citando, disputando, mormorando: calunniamoli,
finché lice quanto piace; quelli d'alto ingegno irretiamo colle
astuzie: allontaniamo così qualunque pericolo possa alle cervici
nostre sovrastare; tronchiamo le più alte: prima il vescovo, gli
abati, i prelati, i ministri avversi prendiamo, poi gli ispanizzanti;
rissiamo gli altri fra loro affinché si consumino: questi cacciamo,
quelli abbattiamo: se non taglieremo, saremo tagliati: oppressi
quelli, nulla è a temere... E ch'io lo dica in una parola: coll'esilio
e la morte di 300 uomini saremo sicuri".
Fin qui la lettera. Ora ti par questo l'ordinamento d'una congiura! O
non anzi il gridare, concediam pure d'un fanatico, ma che non fa che
gettare in mezzo un suo pensamento? Mi dirai che parlar oscuro si
suole in cose di tanto rilievo; ma od egli non temeva che la lettera
cadesse sott'occhio cattolico, e diceva poco; o sì, e diceva troppo.
Chi poi vergò quella lettera? donde? quando? a chi?(66) Manca ogni
data, ogni autenticazione. Come poi cadde in mano ai Cattolici?
Miracolosamente, vi dicono: risposta vaga, che cresce le dubbiezze. E
se considero come pochi fossero i Riformati a petto dei Cattolici,
come fra questi ne fossero di baldanzosi, che, quantunque sbanditi,
vivevano in patria fidando nei satelliti e nel proprio braccio, tanto
da ardire fino insultare i magistrati, sempre più scemo fede a questa
congiura, e vengo a crederla uno spediente, che il secolo nostro non
ignorò. Accusare la parte che soccombette, coprendo l'atrocità colla
calunnia e ammantando di difesa il misfatto.
Ma nulla più facile che ottener credenza perfino all'assurdo in mezzo
al turbinio dei partiti, cui primo effetto è annichilare il buon
senso. Vi si diede dunque retta. Le apparenze si recavano a realtà, i
veri mali s'invelenivano, si fingevano dei non veri, e quelli e questi
aumentavano l'accanimento. Era quello un tempo di rivoluzioni. La
Francia, dopo il macello della famosa notte di san Bartolomeo che
molti guardarono come generosa vendicazione di libertà nel credere, si
era agitata fra guerre terribili, che appena allora avevano posa.
L'Olanda si scoteva sanguinosamente dal giogo della Spagna in nome
della religione. In nome di questa la Boemia rompeva guerra
all'imperatore. Tutta Germania era in tumulto per quella che poi si
chiamò guerra dei Trent'anni. Quanto valga l'esempio nelle rivolte non
fa mestieri ch'io lo dica; né dovette essere allora inefficace a
persuadere i Valtellinesi a procacciare con mano forte ai casi loro.
Il cavaliere Robustelli accozzò nella propria casa a Grossotto alcuni
Valtellinesi di maggior recapito e di spiriti più vivi e con parole da
quel dicitore felice che egli era, discorse i danni ed i pericoli
della patria e della religione. Qui gran disparere. Chi esortava
ancora a pazienza: come si tollerano le brine ed i rovesci del tempo,
doversi tollerare la mala signoria. Esservi altri legali mezzi a
sperimentare, i subugli alla fine non far bene che ai tristi. Essi,
che fin qui potevano mostrare la ragione, non volessero gittarsi al
torto col soverchio avventurarsi, colle rivolte, esperimento
pericoloso quanto la trasfusione del sangue, non s'ottiene che di
cangiar padrone, forse di ribadir le catene, certo di perdere
l'inestimabile dono della pace. I moti popolari, facili ad eccitarsi,
difficili a mantenersi. A parole tutti esser buoni, ma al fatto si
sente che altro è immaginare, altro è soffrire, quando, raffreddo il
primo bollore, si conosce di non aver altro che aperto un varco di
pianto in pianto e d'un male in un peggio. Così dicevano quelli cui
pare che la perseveranza conduca ben più innanzi che non l'impeto; e
che disposti a non transiger mai colla prepotenza confidano fiaccarla
colla sofferenza attiva, persone che il secolo nostro condanna col
titolo di moderati.
Ma uom deliberato non vuol consiglio. E i più ai quali pareva lodevole
il far libera la patria od utile il comandarla o santo il purgarla
dalla eresia, sordi ad ogni voce di moderazione, per bocca del
Robustelli esclamavano essersi sofferto assai: dallo star pazientando
qual buona mercede ce ne venne? I timidi consigli ci fecero
disprezzati, i gagliardi ci faranno rispettati. Chi non comincia non
finisce. Dai padri nostri ne fu lasciata una patria da amare, un
patrimonio da difendere, il dovere di conservare le leggi da loro
promulgate. E la patria ed i beni e le leggi e, che più conta, la
religione ci hanno codesti stranieri tolto o contaminato. Chetare le
speranze in Dio? Quest'è lodevole quando cresca stimolo alle forze,
non quando sia pretesto a cessar dalle opere. Una misera pace ben si
muta anche colla guerra. Cento mila Cattolici, quanti ne abitano dalle
fonti del Liro a quelle dell'Adda, elevano un voto solo: cento milioni
di Cattolici in tutta Europa aspettano da noi esempio, e ci preparano
applausi e soccorsi. Noi dunque concorde volere, noi sdegno generoso,
noi magnanime speranze, noi armi giuste perché necessarie, formidabili
perché impugnate per la patria e per gli altari. Il papa ci benedice,
Spagna ci appoggia, la discordia dei Grigioni ci favorisce. Se
l'occasione fugga, chi più la raggiungerà? Chi non vuole quando può,
non può quando vuole. Torna meglio morire una volta che tremar sempre
la morte. Cadremo colle armi alla mano? Il mondo ci compassionerà, ci
ammirerà come martiri, come eroi. Sopravviveremo alla ben condotta
impresa? Quanto sarà dolce nei tardi nostri anni dire ai figli ed a
chi nascerà da loro: "Noi pugnammo per la patria e per la fede: se
liberi, se cattolici voi siete è merito nostro".
Applausi non mancano mai a chi parla alle passioni più che alla
ragione, e non tardarono ad entrar tutti nel parere più violento. Si
faceva grande appoggio sulle armi e sui maneggi dei Planta, si sperava
dai Cantoni cattolici; "Ribellione (diceva il capitano Guicciardi) si
chiama il macchinare e non compiere l'impresa". "Non mancheranno
ragioni (esclamava Anton Maria Paravicini) se non mancherà la forza di
sostenerle". "Tolgo sopra di me (soggiungeva il valente giureconsulto
Francesco Schenardi), il mostrare al mondo che abbiamo diritto d'esser
liberi ed indipendenti".
Ma come operare il gran fatto? Levarsi in arme, proponevano alcuni:
intimare ai Grigioni di partirsi, ai nostrali di convertirsi alla
fede; dar mano agli _ispazzinanti_ della Rezia per abbattere la parte
ereticale, e chiusi nei propri monti, respingere le armi che venissero
per soggiogarli. Ma "No no (gridava il dottor Vincenzo Venosta), non è
più tempo di mezzi consigli. Le ingiurie contro i principi non si
cominciano per farsi a mezzo: chi trae contro i padroni la spada,
getti il fodero, né ponga speranza che nel proprio valore. Or che
clemenza? che discorrere di diritto e non diritto, di pietoso o di
crudele, quando si tratta di salvare la patria e la religione? Non
sono costoro che uccisero Biagio Piatti ed il santo arciprete Nicolò?
Che chiesero a morte i migliori di noi? Che congiurarono per
iscannarci tutti inermi? Volti Iddio sovr'essi il loro consiglio, e si
scannino fino ad uno quanti eretici dannati al demonio vivono in mezzo
all'ovile di Cristo. Se noi li uccidiamo, se ne parlerà alcun tempo,
indi scaderà fin la memoria loro: se vivi li lasciamo, continueranno a
darsi attorno, cercando a noi nemici, a sé vendetta. Gusti il popolo
la voluttà del sangue, e sia suggello al voto di eterna nimistà con
questi esecrati padroni". Quel caldo parlare vinse i ritrosi pareri, e
fece precipitare la bilancia dei consigli esagerati. Onde, accesi
tutti in gran volontà di un passo terminativo, serrandosi le mani con
quella potenza che è data dall'accordo delle volontà, giurarono
ridurre le vendette ad un colpo e fare a pezzi quanti eretici natii o
stranieri, fossero nella valle. E senza punto frammettere, venne
spedito il capitano Giovanni Guicciardi di Ponte per amicare il
cardinale Federico Borromeo, il duca di Feria e gli altri magnati del
governo milanese. Nel che riuscito a poca fatica, ed avutone anzi 3000
doppie,(67) assoldò esuli e gente d'ogni sorta pel primo sforzo di
liberare la patria.
Non crederete che, fra tanti complici, questi trattati passassero
nascosti ai Grigioni: ma dagli interni tumulti occupati rimessamente
provvedevano, mentre i Valtellinesi per questo appunto acceleravano
vieppiù. E già avevano composto che il 19 luglio, mentre gli
Evangelici erano assembrati alla predica festiva, dovessero assalirli
e trucidarli nel punto stesso, truppe milanesi entrerebbero nella
valle. I Planta dal Tirolo, il Giojero, già podestà dì Morbegno, dalla
Mesolcina, piomberebbero sopra la Rezia. Tutti quei concerti insomma
che al tavolino pajono immancabili, e all'atto svaniscono, lasciando
chi vi credette in faccia alla nuda realtà. Disajutò gravemente
quest'ordine esso Giojero, che ai 13 di quel mese valicò il San
Bernardino, e sceso in val di Reno, difilò sovra Coira, presumendo con
un avventato colpo dare buon cominciamento all'impresa: ma dai
Grigioni respinto, sperperata quella sua marmaglia, fu mandato in fumo
il tentativo.
Né però i congiurati fecero come sbigottiti e vinti al primo colpo
fallito: anzi tenevano pronto armi, munizioni e bravi per un terribile
domani. Ma di rado van piane queste pratiche. Il capitano Giammaria
Paravicini di Ardenno, cancelliere generale ed uno dei più vivi in
tale faccenda, dando nome di dover accudire a certi suoi poderi in
Vacallo, terra nei baliaggi svizzeri, si era messo colà per far còlta
di gente, con cui doveva, appena cominciata la strage, mozzare le
strade del chiavennasco perché di là non venissero Grigioni in
soccorso. Ora non so qual urgentissimo negozio lo chiamò di tutta
prontezza a Milano, donde fece inteso a Giovanni Guicciardi come per
ciò fosse mestieri dare al fatto l'indugio di otto giorni, finché
spedito egli si fosse dagli affari per cui era partito. Quanto se ne
turbasse il Guicciardi lascio a voi pensarlo, ben sapendo di qual
momento sia un'ora sola nelle crisi d'un popolo come d'un malato.
Spedì dunque per il Robustelli, che da Grossotto a Tirano in diligenza
venuto, nella tinaja del podestà Francesco Venosta unitisi molto alle
strette, si consultarono su qual partito fosse a pigliare al caso. Per
evidenti segni appariva il loro consiglio essere trapelato ai Grigioni
o per ispioni, genia non mai scarsa, o per qualche parola mal
avvisata, o per quei piccoli segni che si notano quando si ha niente
indizio d'una pratica. Onde, vigili in loro terrore, si erano recati
in miglior guardia, avevano raddomandate dai Valtellinesi le chiavi di
tutte le pubbliche fortificazioni ed armerie, rifrustavano con rigore
alcune case, avevano posto su ciascun campanile chi, ad ogni primo
rumore, toccasse a stormo, proibito l'uscir dalla valle e fin lo
spedire lettere, tenuti ben d'occhio i caporioni, disposta una tela di
cagnotti che ronzassero alle frontiere.
E appunto in queste guardie cadde un corriere, spacciato a posta con
lettere dal Robustelli al Paravicini. Ciò sapevano i congiurati,
ignorando però come il corriere fosse stato destro abbastanza, da
gettare nell'Adda i dispacci, che avrebbero messa in luce la trama.
In così terribile intradue che fare? Fuggire, proponeva il Guicciardi,
mentre lo scampare era a tempo, e serbarsi a migliore opportunità. Ma
dissentivano fermamente gli altri due: essersi ormai là, dove se
andasse al contrario avevano giocata ogni speranza. Già era in forza
dei padroni un dei loro complici, che al domani doveva esaminarsi alla
corda: e se i tormenti gli strappassero la verità? Poi se anche
riuscisse a loro di fuggire, che ne sarebbe dei tanti, che per
confidenza avevano preso parte con loro? Che della patria, abbandonata
ad un offeso padrone? Già sono in punto d'armi molti satelliti, già il
Paravicini mandò un gomitolo di 40 uomini i quali, dato che siano
scarsi di numero, basteranno poco o assai a coprire il terziere
inferiore. I momenti che il vile usa a fuggire, il prode gli adopra al
vincere. Si tolga dunque ogni indugio al fatto, usando quell'audacia
che padroneggia gli eventi.
Neppur tanto bisognava perché anche l'altro scendesse nel loro parere:
onde navigando perduti, vinse il partito di dar corpo al feroce
disegno, se ne andasse quel che volesse. Le terre superiori non erano
da verun accattolico abitate, né i Bormiesi avevano di che lagnarsi
dei Grigioni(68). Doveva dunque la strage cominciarsi a Tirano, ove
aggregati i manigoldi in casa del Venosta, coll'avidità del fanatismo
già pareva loro mill'anni d'essere al sangue. Appena si oscurò quella
notte, trista per cielo perverso, più trista per i disegni che vi
dovevano maturare, sono fuori, altri a guardare le vie perché non esca
fama del fatto, altri a serragliare la strada di Poschiavo, altri a
collocarsi opportuni. Poi in un sogno pieno di fantasmi e di paure,
quale scorre fra il concepire d'una terribile impresa ed il compirlo,
stettero aspettando l'ora pregna di tanto dubbio avvenire, con quel
gelo di cuore, con quell'indicibile sospensione d'animo, che non
conosce se non chi la provò. Là sul biancheggiare dell'alba quattro
archibugiate danno il segno convenuto, le campane suonano a popolo,
compunti il cuore di paura, balzano dal sonno i quieti abitanti, ma
come all'uscire ascoltano gridare 'ammazza ammazza', e vedono darsi
addosso ai Riformati, tutti sentono il perché di quell'accorruomo.
Ogni cosa è un gridare, un fuggire, un dar di piglio all'armi, chi per
difesa, chi per offesa, e piombare sovra i nemici, e difendentisi
invano, gridanti a Dio mercé della vita e dell'anima, tra le braccia
delle care donne che ponevano i bambini a pié dei sicarj per
ammansarli, e tra i singulti degli innocenti figliuoli, nelle case,
per le strade, sui tetti, trucidarli. Il cancelliere Lazzaroni,
valtellinese riformato, fuggì ignudo su per li tetti, e s'occultò in
luogo schifo; ma additato da una donna, fu finito, e con lui un
cognato suo cattolico, che gli aveva dato mano al camparsi. Il pretore
Giovanni di Capaul si rendette alla misericordia dei sollevati, ed i
sollevati l'uccisero. Trascinarono nell'Adda il pretore di Teglio. Al
cancelliere Giovan Andrea Cattaneo non valse il farsi scudo del petto
di una sposa, che pur era cugina del Robustelli e del Venosta. Non al
Salis vicario della valle ed al cancelliere suo il fuggire a
franchigia nella casa del capitano Omodei, leale cattolico aborrente
di quelle estremità. Al ministro Basso fu tronca la testa e posta, fra
barbari dileggi, sul pulpito da cui soleva predicare. Ben sessanta
vennero in diversa foggia scannati, fra cui tre donne, e le altre ed i
fanciulli perdonati se abbracciassero la cattolica fede. II
Robustelli, entrato a Brusio in val di Poschiavo, schioppettò un
trenta persone, poi mise fuoco al paese. Falò, diceva egli, per la
ricuperata libertà di religione.
Che premeva a costoro? Che difendevano essi? La religione di Cristo?
No, se ne falsavano il primo precetto, il supremo distintivo, amare.
Era abitudine di antichi riti, era quel furore che accompagna le
fazioni, era zelo iniquamente incitato da fanatici capi, che
predicavano questi orrori nel nome del Dio della pace, a sostegno di
una religione, che deve essere propagata con armi incolpate, colla
santità degli esempj, coll'efficacia della parola e della grazia.
Guai se la plebe comincia a gustare il sangue! È un ubbriaco, che più
beve, più desidera il vino. "Ripurgato così (uso le parole del
Quadrio) dalla eretica peste Tirano e le sue vicinanze", si spedirono
a Teglio uomini vestiti di rosso, che annunziassero il felice
incammino dato all'impresa. All'avviso, i Besta corrono coi manigoldi
addosso alla chiesa degli Evangelici e prima li prendono a tiri di
scaglia dalle finestre, poi, atterrate le porte, a coltella li
sgozzano. Diciannove rifuggirono nel campanile, e gli insorgenti,
messovi fuoco, li soffocarono. D'ogni sesso, d'ogni età, fin settanta
ne uccisero, fin un cattolico, Bonomo de Bonomi, perché non prendeva
parte all'esecrando atto. Fin te, povera Margherita di quattordici
anni, che, colla viva eloquenza d'una giovinezza innocente, opponevi
il capo alle ferite dirette al sessagenario tuo padre Gaudenzio
Guicciardi.
Intanto Giovanni Guicciardi levava a strage i paesi da Ponte in giù e
la val Malenco e drizzava i sollevati con forte mano sopra Sondrio,
sede del magistrato supremo della valle. Al governatore di colà
l'usata moderazione giovò per ottenere che colla famiglia riparasse in
patria. Settanta altri, di viva forza apertosi il passo tra gli
assassini, fidati nella disperazione, si salvarono per Malenco
nell'Engadina, e si sparsero a Zurigo, a Ginevra, a Sangallo. Toltì
questi pochi, la plebe, gridando _Viva la fede romana_, saccheggiò le
case, e fece orribile guazzo di sangue. Si figuri a cui regge l'animo
l'orrore di quel giorno, quando ben cenquaranta furono trucidati, ed
un Agostino Tassella, coll'insensata gioja del delitto, come di
bellissima prodezza andava trionfante d'averne egli solo _mandati
diciotto a casa del diavolo_; e un tal Cagnone si vantava pronto a
trafiggere anche Cristo; e la ciurmaglia, stanca ma non satolla,
facendo insane gavazze in Campello, gridava: ecco la vendetta del
santo arciprete.
A Bartolommeo Porretto di Berbenno fu scritto l'ordine dell'uccisione,
ma il buon uomo mostrò la lettera ai Riformati. Qual ebbe merito la
sua virtù? Un furibondo Cattaneo trucidò lui e due altri cattolici:
esordio alla strage dei calvinisti di colà.
La fama precorsa aveva intanto fatto agio a molti delle squadre
inferiori di cansarsi. Ma quando i satelliti, messi alla posta sulle
frontiere, ebbero sentore della sommossa, precipitarono a Morbegno per
pigliar parte all'impresa _gloriosa_ dei fratelli. Alcuni calvinisti,
assicurati di salute sulla pubblica parola, furono richiamati, e poi
crudelmente ed iniquamente ammazzati. I predicanti Bortolo Marlianici,
G. B. Mallery di Anversa, M. A. Alba furono uccisi. L'Alessio campò
con Giorgio Jenatz predicante di Berbenno ed altri. Francesco Carlini
frate apostato e predicatore calvinista, fu mandato all'inquisizione,
ove abjurò. Paola Beretta, monaca apostata, inviata anch'essa a quel
tribunale, resistette, e fu arsa viva.
Andrea Paravicini da Caspano, preso dopo molti giorni, fu messo fra
due cataste di legna e minacciato del fuoco se non abjurasse: durando
costante, fu arso vivo. E si videro spiriti celesti aleggiargli
intorno a raccoglierne lo spirito. Né fu questo il solo prodigio, onde
le due parti pretesero che il Cielo ad evidenti segni mostrasse a
ciascuna il suo favore.
Ignobili affetti presero il velo della religione, e coll'eterna
iracondia del povero contro il ricco, contadini e servi piombarono sui
loro padroni, i debitori su cui dovevano, i drudi sui cauti mariti.
Molte donne, ancora e nella florida e nella cadente età andarono a fil
di spada: Anna Fogaroli, Pierina Paravicini, Caterina Gualteria,
Lucrezia Lavizzari scannate: Cristina Ambria, moglie di Vincenzo
Bruni, e Maddalena Merli precipitate dal ponte del Boffetto. Ben venti
nel solo Sondrio(69). Anna di Liba vicentina di sette lustri con un
bambolo alla mammella, perché ritrosa a rinnegare la fede che aveva
abbracciata col marito Antonello Crotti di Schio, venne in quattro
trinciata. Costanzina di Brescia, giovinetta di viva bellezza, era
troppo piaciuta ad un giovinastro, che chiestala invano d'amore, covò
la vendetta sino a quel giorno quando di sua mano le passò la gola.
Caterina si era ad onta dei fratelli, sposata in un Marlianici
protestante, ed i fratelli si piacquero sfracellare il cognato, e
balzare nell'Adda la miserabile che lo piangeva.
Poi per molti giorni, come bracchi entrati sulla traccia, si mettevano
- Parts
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 1
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 2
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 3
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 4
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 5
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 6
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 7
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 8
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 9
- Il Sacro Macello Di Valtellina - 10