Il Professore Romualdo - 10

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Ma nessuno badava a lei. Tutti gli sguardi erano conversi sulla
infelice giovinetta, pochi istanti prima così florida e bella, e adesso
così malconcia. I suoi occhi erano chiusi, ahi forse per sempre, una
larga ferita le deturpava la bocca, la sua fronte era tutta una piaga,
e sparse di luride piaghe erano le membra gentili, che palpitavano
sotto le vesti a brandelli. Un rantolo affannoso le usciva dal petto,
e spesso quel rantolo si mutava in un grido di spasimo da parer quello
di una creatura che muore. E invero, avrebbe ella sopravvissuto a
tanto strazio? Quando, fra atroci convulsioni, fu trasportata sul suo
letto, e il medico l'ebbe esaminata a parte a parte, egli non seppe
dissimulare le sue inquietudini. La cosa era grave in sè, gravissima
per le complicazioni che potevano derivarne; nella migliore ipotesi,
bisognava che passassero parecchi giorni prima di poter fare un
pronostico più tranquillante.
Anche il professor Romualdo avrebbe avuto bisogno di riposo, ma egli
non volle che gliene discorressero, e appena consentì a lasciarsi
medicare le scottature che aveva riportate alle mani e alle braccia.
Poi sedette al capezzale della nipote, e nella sua fisonomia si
dipingeva una sofferenza poco minore di quella di lei. A sentirlo, era
lui la colpa di tutto; maledetti i suoi esperimenti chimici, maledetta
la scienza, maledetta la sua stolida vanità che gli aveva messo in
corpo la smania delle scoperte!
Del resto, il Grolli s'accusava a torto. La disgrazia non era da
attribuirsi che a una sbadataggine della Gilda; era invece merito di
lui se le conseguenze non ne erano assolutamente irreparabili.
Ma egli non ragionava più. Era questo il primo gran dolore della sua
vita. Fino a quel giorno gli studi lo avevano confortato in ogni sua
prova; di fronte al mondo del pensiero, il mondo reale con le sue
passioni, coi suoi affetti, gli era sempre parso insignificante e
piccino; adesso la sua filosofia s'era dileguata: egli soffriva come la
femminetta il cui sguardo non abbraccia più largo orizzonte di quello
della sua casa e della sua famiglia. Ogni gemito della Gilda gli faceva
scorrere un brivido nell'ossa; ogni volta che il chirurgo tormentava
le piaghe di lei, era come se una lama aguzza cercasse la via del suo
cuore.


XX.

Le prime parole articolate dalla Gilda, appena il suo stato glielo
concesse, furono queste: — Non voglio che Mario entri in camera. Non
voglio che egli mi veda così.
E Mario, arrivato sotto sì tristi auspizi, non osò per qualche giorno
infrangere il divieto della sua sposa. Egli non sapeva rassegnarsi
all'idea di vedere sformata colei, che, nella sua fantasia, era rimasta
fulgida e bella come un raggio di sole. Veniva ogni momento nella
camera del professor Grolli, origliava all'uscio, interrogava con lo
sguardo i medici, le infermiere, e poi s'abbandonava accasciato sul
canapè. Di tanto in tanto la sua pupilla s'arrestava sull'effigie che
pendeva dalla parete e ch'era senza dubbio l'opera migliore uscita
dalle sue mani. Erano quelli gli occhi che lo avevano acceso, era
quello il sorriso che lo aveva inebbriato, quella fanciulla divina
doveva essere l'ispiratrice dei suoi quadri venturi. Oh perchè non
poteva, nuovo Pigmalione, infondere la vita nella sua fattura e
strapparla alla tela, e persuadersi che la Gilda vera era questa, e
fuggire con lei lontano lontano, e non rammentarsi dei casi dell'altra
che come d'un cattivo sogno?
Alla lunga però la vergogna lo vinse: egli sentì che aveva obbligo
sacro d'infrangere la proibizione e di assistere colei che doveva esser
sua sposa. Ciò ch'egli soffrisse nel mirarla tutta coperta di bende
e d'empiastri non è difficile immaginare; ella non lo vide, chè aveva
fasciati gli occhi e la fronte, ma sentì la sua voce e gli disse con un
gemito: — Mario, perchè venire? La Gilda che tu amavi è morta.
L'idea di contribuire a salvarla, la speranza che ov'ella guarisse
rifiorirebbe anche la sua bellezza, dava al giovine la forza ch'egli
stesso non avrebbe creduto di avere. Egli non aveva il coraggio di
chiedersi: — L'amerai s'ella rimarrà deformata? — ma intanto sentiva
che bisognava lottare per farla vivere.
Era una lotta seria. La Gilda ebbe febbri terribili, ebbe spossatezze
che facevano tremare i medici, i quali temettero più d'una volta una
irreparabile infezione del sangue. A due riprese si credette tutto
perduto, e il cavaliere Lorati, secondo la sua pietosa consuetudine,
aveva già abbozzato in mente il cenno necrologico della giovinetta.
Ella non desiderava guarire. — Credi, è meglio _per tutti_ che io muoia
— ella disse un giorno allo zio.
— Oh Gilda! — esclamò con un gemito il professore.
— Forse per te no — ella rispose — Tu mi vorresti bene in ogni caso...
Sei tanto buono, zio Aldo...
Egli la guardò intenerito, e queste parole fecero vibrare in lui le più
riposte corde dell'anima.
Se Mario passava parecchie ore presso la malata, il professor Romualdo
non se ne staccava nè giorno nè notte. Soverchiato dalla stanchezza,
egli abbassava le palpebre, lasciava cader la testa sul petto, ma non
si moveva dal suo posto, e il suo sonno era tanto leggero che la Gilda
non lo chiamava mai inutilmente. Egli preveniva, indovinava tutti i
suoi desiderii, le porgeva da bere, aiutava l'infermiera a mutarla
di posizione, invigilava perch'ella prendesse i medicamenti all'ore
prescritte. Non sapeva far altro, non sapeva pensar ad altro; sarebbe
stato inetto a risolvere il più semplice teorema di geometria; si
ricordava appena della sua Università, egli ch'era stato fino a quel
tempo il più assiduo tra i professori. Invano gli si raccomandava la
calma, gli si presagiva, che, tirando innanzi a quel modo, avrebbe
finito coll'ammalarsi anche lui; egli non porgeva ascolto a nessuno.
Vegliando, soffrendo al capezzale della Gilda, gli pareva d'espiare
verso di lei, verso Mario, il gran delitto di aver invidiato la loro
felicità.
Nè la signora Dorotea era avara dell'opera sua. Le supreme necessità
del momento le avevano ridonato una parte dell'antico vigore; era
sempre in moto, aveva sempre un gran da fare a preparar i brodi
succulenti per la malata, e, negli intervalli di riposo, brontolava
contro il professor Romualdo che non le cedeva mai il posto al letto
della nipote. La miglior prova delle preoccupazioni del suo animo
era il suo oblìo quasi assoluto del gioco del lotto. E sì che gli
straordinari accidenti successi in casa erano tali da suggerirle dei
bellissimi _terni!_ Si buccinava anzi che uno ne avesse guadagnato la
portinaja, interpretando con acume il grave fatto dell'esplosione.
Intanto la Gilda migliorava. Sul finire della terza settimana il medico
dichiarò rimosso il pericolo ch'ella perdesse la vista, quantunque
fosse più che probabile che le sarebbe rimasto leggermente offeso
l'occhio sinistro. Di lì ad altri dieci giorni si dileguarono le
ultime apprensioni circa allo stato generale dell'inferma. Cominciava
il periodo della convalescenza, una convalescenza che sarebbe stata
lunga, dicevano i medici, e che doveva esser piena di riguardi e di
cure. Ma che importava tutto ciò, se c'era da gridar al miracolo pei
risultamenti ottenuti?
Per quanto sia una bella cosa lo star bene di salute, il guarire
sarebbe una cosa ancora più bella, se non ci fosse il grave
inconveniente che per guarire è necessario essere stati malati. Ciocchè
mi richiama alla mente un romanzo francese, nel quale una signora,
più arguta che costumata, dice a una amica: — Credimi, la miglior
condizione per una donna è quella di vedova. — E l'amica, femmina
della stessa risma, rincarando la dose con un frizzo ancora peggiore,
risponde: — Sì, se per esser vedova non bisognasse prima esser
maritata. — Discorsi immorali, che saranno meritamente riprovati dalle
virtuose lettrici.
Ma venendo a noi, quale pur sia il posto che le dolcezze della
guarigione occupano tra le gioie, non troppo numerose, della vita,
è certo che questo posto è molto elevato. Guarire è un rinascere
con conoscenza di causa, e nello stesso tempo con la disposizione a
rammentare tutto ciò che la vita ha di giocondo, a dimenticare tutto
ciò ch'essa ha di triste. Ci pare che l'universo si adorni per farci
festa; che gli uccelli cantin per noi; che per noi olezzino i fiori,
e il sole c'inviti a bearci ne' suoi raggi. Noi ci affacciamo alla
finestra e la rondine ci dice: _ben tornati_; usciamo all'aperto, e
lo stormir delle foglie, e il mormorio del ruscello, e le mille voci
della natura si fondono ai nostri orecchi in un saluto cortese. Anche
gli uomini son buoni, ci sorridono, ci stendon la mano, ci parlano
di cose allegre, di cose leggiere; non è tempo questo da malinconie
e da grattacapi. Sotto ai nostri piedi è un tappeto di rose, sulla
nostra testa è una danza d'astri lucenti. E nel nostro cuore? Tutto il
meglio ch'è in noi s'agita, ribolle, scintilla; si svegliano i pensieri
gentili, le fedi ardenti, le speranze baldanzose, e quella inesausta
sete d'amore ch'è tormento e dolcezza dell'esistenza. Il mondo è nostro
un'altra volta: avanti!
Però, questa voluttà della vita che torna non brillava negli occhi
della Gilda, quando col lento rimettersi delle forze si sgombravano
le nebbie del suo spirito. Ella sentiva che un abisso la divideva dal
passato; un istante aveva distrutto la sua beltà e la sua giovinezza.
L'avvenire che l'aspettava non poteva esser più quello ch'ella aveva
sognato nell'estasi de' suoi giorni felici; la figura di Mario, ch'ella
mirava talvolta vicino al suo capezzale, le faceva l'effetto d'una
visione d'altri tempi evocata dalla sua fantasia, la voce di lui le
pareva l'ultima risonanza d'una musica che si perde lontano.
Era strano, ma le sembrava d'esser più libera allorchè Mario non era
presente, allorch'ella rimaneva sola con lo zio Aldo. L'affezione
fida, discreta, inalterabile, al cui tepido soffio ella era cresciuta,
non era stata scossa dalla tempesta che aveva sfrondato tante gioie e
tante speranze della sua vita. Ella la trovava accanto a sè, sollecita,
operosa come per lo addietro, più forse che per lo addietro, come se
avesse attinto nuovo vigore dalle prove della sventura. Di quando in
quando, simile a un'ombra, le si affacciava alla mente il ricordo d'un
giorno in cui le parole e gli sguardi dello zio l'avevano sgomentata;
ma oggi quel ricordo non valeva a turbarla, ad offenderla, a scrollar
la sua fede. I suoi occhi non isfuggivano gli occhi del professore che
sovente si volgevano in lei con una tenerezza piena d'ansietà, la sua
mano tremula e scarna cercava volentieri la mano dello scienziato.
E provava un senso di calma, di pace, che, in quella sua stanchezza
dell'animo e della persona, era il miglior bene a cui potesse aspirare.
Ma se arrivava Mario in uno di questi momenti d'abbandono, la Gilda
arrossiva, il professore si tirava in disparte; l'incanto era rotto, le
incertezze dell'avvenire penetravano nella camera insieme col giovine
artista. Egli faceva del suo meglio per esser gentile, officioso;
però, il tedio non tardava a dipingerglisi in viso, e la Gilda, con la
chiaroveggenza dei malati, se ne accorgeva anche troppo. Allorchè ella
sorprendeva il suo sguardo fisso su lei, le pareva ch'egli contasse le
sue cicatrici a una a una, le pareva ch'egli dovesse domandarle in tono
di rimprovero — Perchè non sei più bella?
— Oh — ella disse una mattina al professore Romualdo, che accampava
mille pretesti per non darle uno specchio — il mio vero specchio
è Mario. Ho visto da gran tempo nei suoi occhi che son diventata
bruttissima... Non sarà una novità, te lo assicuro, il vederlo in un
pezzo di vetro... Già, presto o tardi, a questo bisogna venirci... Via,
dammi lo specchio.
Alla fine, un giorno in cui Mario era assente, bisognò appagare il
suo desiderio. Prima però ella acconsentì a fare un po' di _toilette_
e anche a lasciarsi tagliare i capelli che le cadevano in gran copia,
come foglie secche dall'albero. — Torneranno a crescere — le si diceva
per confortarla, mentr'ella con moto nervoso ravvolgeva le dita lunghe
e sottili in quei bruni ricci ch'erano stati il suo orgoglio. Ella non
rispondeva nulla.
Poi che le forbici ebbero compìta l'opera loro, le si acconciò in capo
un cuffietta bianca, le si fece infilare un corsetto di bucato, e la
signora Dorotea, di sua propria mano, le annodò intorno al collo un
fisciù di seta azzurra.
La Gilda ruppe il silenzio. — Qua lo specchio, e ch'io faccia la mia
personale conoscenza — ella disse con un'allegria forzata. Indi si
voltò dalla parte dell'uscio. — È ben chiuso?
Le aveano portato uno specchietto ovale molto leggero che soleva stare
appiccato a un chiodo infisso in uno dei regoli della finestra della
camera del professore, il quale se ne serviva nel ravviarsi i capelli
e la barba.
La convalescente lo prese due volte in mano, e due volte lo depose
sulle coperte prima d'avere il coraggio d'alzarlo al livello del viso.
Ella tentò di volgere in celia le sue stesse esitazioni. — È come
quando dovevo prender l'olio da bambina... Se si potesse far come
allora... Chiuder gli occhi, aprir la bocca, e giù... Adesso invece
son proprio gli occhi che bisogna aprire... Coraggio... uno... due...
tre...
Nel bene la previsione va spesso oltre il vero, nel male avviene
sovente il contrario. Gli è che non v'è triste previsione, la quale
non sia temperata da una segreta speranza che il nostro spirito
s'inganni, che le nostre paure siano esagerate. E talvolta anzi noi
esageriamo a studio; fingiamo di prevedere un disastro ove secondo
ogni probabilità non istà per succedere che un incidente sgradevole.
Ma quando l'incidente sgradevole accade, non tardiamo ad accorgerci
ch'esso ha superato, non la nostra aspettazione immaginaria, ma la
nostra aspettazione reale.
— Devo essere orrenda, mostruosa — aveva detto mille volte la Gilda,
e, quantunque non fosse più bella, non era nè mostruosa, nè orrenda.
Nondimeno il vedersi nello specchio fu per lei un colpo di fulmine.
Era lei, era lei veramente quella donna pallida, tutta cicatrici e
lividure, che la mirava tra attonita e costernata? Stette un momento
muta ed immobile, soffocando gl'impeti tumultuosi dell'anima; poi si
guardò intorno smarrita, quasi a persuadersi ch'era ben desta, lasciò
cader di mano lo specchio, abbandonò il capo sui guanciali e si coperse
il viso con le lenzuola. La sentivano piangere sommessamente.
— Hai avuto troppa fretta — le ripetevano a gara il professore e la
signora Dorotea. — Di qui a un paio di settimane sarà tutt'altra cosa.
Ella, rannicchiata sotto le coltri, si stringeva nelle spalle e diceva:
— Lasciatemi sola... Per carità, lasciatemi sola... Mi calmerò da me.
Infatti, di lì a un'ora, ella era appieno ricomposta. Alla sera
s'intrattenne a lungo col medico, e con aria disinvolta lo pregò
di dirle quali tra i segni che le deturpavano la fisonomia il tempo
farebbe sparire e quali le resterebbero sempre. L'interrogato si provò
a dipinger tutto in rosa, ma la Gilda, che gli teneva inchiodati gli
occhi addosso e gli leggeva le bugie in viso, lo riprese amorevolmente.
— Non la trattasse come una bimba, se anche quella mattina ella aveva
fatto un capriccetto; ormai ella aveva messo giudizio e aveva diritto
di conoscere la verità tutta intiera.
Il medico si schermì quanto più potè, ma alla fine espose sinceramente
il parer suo, soggiungendo però, che la natura sbugiarda spesso i
pronostici della scienza e che in gioventù soprattutto si vedono dei
miracoli.
— Grazie — ella replicò, stringendo la mano al dottore. E il suo
volto aveva l'espressione seria e tranquilla di chi, uscendo da molte
incertezze, ha preso un partito decisivo.


XXI.

Da qualche giorno la Gilda aveva cominciato ad alzarsi, e, appoggiata
al braccio dello zio, passava lentamente dalla sua camera in
salotto, ove sedeva in una poltrona accanto alla finestra. Le Lorati
non mancavano mai di venirle a tener compagnia un paio d'ore e le
mostravano un'amicizia tanto più calda quanto maggiore era in loro la
soddisfazione di veder avvilita quella famosa bellezza. Nell'andarsene
esse facevano un'infinità di commenti.
— L'occhio sinistro è sciupato affatto.
— E il labbro inferiore?
— E quella cicatrice sulla fronte?
— E l'altra alla guancia?
— Povera Gilda, è proprio brutta.
— Bruttissima.
— Orribile.
— Vedete, ragazze — osservava la savia genitrice — come i pregi fisici
possano svanire da un giorno all'altro.
— Se non trovava lo sposo prima di questa disgrazia....
— Uhm! Il matrimonio non è ancora successo. Ci credo poco.
— Ella non ne parla mai...
— In ogni caso c'è tempo. Va così adagio a rimettersi... Il medico ha
detto che prima di pensare alle nozze ci vorranno dei mesi.
— E Mario intanto è assente da oltre una settimana.
— Ma torna presto.
— Pover'uomo! Se cerca qualche svago, bisogna perdonargli. È toccata
grossa anche a lui.
— Se la prende, non può essere che per rispetto alla sua parola....
— Un po' per questo e un po' per compassione.
— Essere sposata per compassione... Io non mi degnerei certamente —
sentenziò la maestosa Ginevra.
— Povera Gilda!
— Ma! Chi avrebbe potuto immaginarselo? Lei che si credeva una Venere...
Per Mario, reduce dal suo viaggetto, non fu piccola meraviglia trovar
alzata la Gilda. Quando egli la vide adagiata nella poltrona, smunta
in viso, col suo corpicino sottile perduto nell'ampia veste da camera,
pensò alla stupenda e florida giovinetta che aveva incontrato sulle
Alpi, e durò fatica a frenare una lagrima.
Ella s'accorse del suo turbamento, abbassò gli occhi, e si passò
rapidamente la mano sulla fronte.
— Devo parlarti — disse poi — fatti più vicino... No... anzi, prima
chiudi quei due usci... quello che dà nell'andito, e quello che mette
nella camera della signora Dorotea. Dall'altra parte non può venir
nessuno... Mio zio è all'Università.
Questi preparativi lo sgomentarono alquanto. Che rivolgeva ella
nell'animo?
— Sii franco come sarò io — ella principiò. — Il dissimulare non
giova... Nulla può mutare omai la mia risoluzione.
— La tua risoluzione?... Quale?
— Io non sarò più tua moglie.
— Che dici? Perchè?
— Oh! Non me lo domandare... Guardami. Egli comprese il significato
delle sue parole, ed esclamò: — È per questo? È per questo?
— Sì... Ci pensai fin dal primo giorno in cui mi colse la mia
sciagura... Adesso ho deciso... inesorabilmente deciso.
— Ma tu credi dunque che io...
Ella non lo lasciò finire. — No, Mario, non credo quello che tu
supponi... Tu mi sposeresti, ma saresti infelice.
— Oh Gilda...
— Sii sincero... Cento volte tu mi dicesti che non sai concepire la
donna che non sia bella... Io ne tremavo allora, e tu per rassicurarmi
mi protestavi ch'ero bellissima... Cento volte tu mi lasciasti
intendere che, artista anzitutto, tu cercavi nella donna il tipo
eterno della bellezza... e io ne tremavo e tu mi ripetevi che per
te io ero quel tipo... Ero io che col mio sguardo, col mio sorriso,
dovevo sprigionar dal tuo petto la sacra scintilla con cui si creano
i capolavori... lo dicevi tu... e mi venivano le vertigini a sentirmi
levata sì alto... Io mi chiedevo: — Potrò reggermi dove egli mi ha
posta? Potrò sempre dargli il segreto della linea e del colore? Sarò
sempre giovine, sarò sempre bella? Oh Mario, quando mi angustiavano
questi dubbi ero ancora vagheggiata, ammirata; adesso tu vedi ciò ch'è
divenuta la Dea che avevi cinta d'un nimbo... Fissami bene, Mario; che
ispirazioni potrai tu cercare su questo volto contraffatto?
Mentr'ella parlava, la sua voce, sulle prime leggermente commossa, si
faceva a grado a grado più limpida e sicura, e una espressione dolce ma
risoluta si dipingeva sulla sua fisonomia. Mario l'ascoltava attonito,
colpito dalla stoica fortezza di quella fanciulla di diciott'anni che
rinunziava senza esitazioni e senza lamenti alle sue più care speranze.
Com'egli si sentiva umile e piccino in confronto a lei! Come avrebbe
voluto nasconderle il suo cuore, di cui ella metteva a nudo i segreti!
Come si ribellava all'idea ch'ella dicesse il vero!
E accumulava frasi su frasi, e tentava ingannar lei, e tentava ingannar
sè medesimo, e chiamava stupida aberrazione il suo culto esclusivo
della bellezza fisica, e giurava alla Gilda che standole vicino egli
aveva imparato a pregiare in lei altre qualità e ad amarla per quelle.
Ma per quanto facesse, non gli usciva dal labbro uno di quei gridi
dell'anima che scendono all'anima e vincono ogni resistenza.
Ella lo lasciò dire; poi riprese con un sospiro: — Sì, Mario, tu devi
parlar come fai, io tener fermo il mio punto... La mia schiettezza
può parer dura oggi, ma verrà giorno in cui dirai: — la Gilda aveva
ragione. — E sarà quel giorno nel quale, se ti dèssi retta, mi
rinfacceresti il sacrifizio della tua libertà.
— Oh Gilda, Gilda, mi reputi dunque ben vile — interruppe Mario,
torcendosi le mani, tanto più turbato, tanto più confuso quanto più la
fanciulla, discorrendo, coglieva nel segno.
— Non me lo rinfacceresti a parole, lo so — ella riprese con soavità
— ma lo capirei a ogni modo... e allora... adesso soffro forse...
ma allora sento che ne morrei di dolore... Bada a me, Mario, non
insistere... eri sincero quando mi rivelavi le tue debolezze d'artista;
in quel tempo non avevi ragione d'infingerti..., oggi sì... oggi hai
pietà di me, e io devo difenderti contro te stesso.... Va, Mario, non è
colpa tua; tu hai bisogno di moto, d'aria, di luce, hai bisogno di fare
un viaggio; qui il tuo ingegno si sfibra; l'ozio, lo scoraggiamento ti
uccidono.
— Ma sei tu che ti crei questi fantasmi...
— Non mentire, Mario... Io t'ho conosciuto nei tempi in cui la fiamma
dell'arte ti splendeva negli occhi e movevi incontro all'avvenire con
fronte alta e sicura... Allora la tua mente era piena di immagini,
il tuo album era pieno di disegni... da più mesi tu non fai nulla...
oh è inutile che tu accenni di sì col capo... Puoi mostrarmi, non
dico un tuo quadro, ma un tuo schizzo, ma una linea segnata dalla tua
matita?... Lo puoi?
— Tu eri malata, Gilda...
— Oh, le inquietudini sul conto mio sono cessate da oltre un mese. Che
hai fatto in questo mese?... Lo vedi, tu taci...
— Sei un giudice inesorabile — egli disse, quasi piangendo di dispetto
e di rabbia.
— Sono un giudice clemente. Tu ti dibatti in una lotta tremenda fra
ciò che stimi il tuo dovere e il desiderio immenso di libertà che
ti affanna. Va, Mario; dal tuo dovere, s'è tale, io ti sciolgo; la
tua libertà, io te la rendo... Va... io ti apro la gabbia, povero
prigioniero.
Mario si trovava in una condizione d'animo ben singolare. La libertà
che gli era offerta egli la sospirava come l'assetato sospira una
goccia d'acqua, eppure all'idea di accettarla gli salivano al viso
i rossori della vergogna; egli doveva riconoscere che la Gilda aveva
ragione, che l'amore ch'egli le aveva portato non era sopravvissuto
allo strazio della sua bellezza, eppure sentiva che mai come adesso
ella era stata degna di essere amata.
E intanto lo sguardo della giovinetta non si staccava da lui e sembrava
dovergli legger nell'anima i più riposti segreti.
— Ascolta — egli le disse infine — oggi, per quanto io facessi, le mie
parole non ti persuaderebbero... Ma domani?
— Domani? — ella ripetè distratta.
— Sì, consentimi di ritentar la prova...
— S'egli mi amasse davvero! — pensò la Gilda. Ma seppe frenar la sua
commozione, e rivoltasi a Mario con apparente tranquillità, lo licenziò
con queste parole: — Allora ci diremo addio domani.
Per quel giorno ella non lasciò trapelar nulla del colloquio avuto col
suo fidanzato, e deluse la curiosità della signora Dorotea, che voleva
sapere il perchè di quella sconvenienza del chiudere gli usci per di
dentro.
Il giovine pittore partì di là che aveva la febbre addosso. Che
fare?... Poteva esserci un dubbio su ciò che doveva fare?... Doveva
dire alla Gilda: — la sventura ha stretto di più il vincolo che ci
unisce; ora più che mai voglio farti mia sposa... — Ma se non l'amava,
se non era in poter suo di amarla?... Se aveva questa fatalità di non
saper amare che un bel viso? Se col suo eroismo non fosse riuscito
che a sacrificar sè e a rendere infelice lei?... Era già dubbio se il
matrimonio si conciliasse col suo spirito mobilissimo, anche quando
si trattava di sposare una giovine avvenente, florida, vispa... ma il
matrimonio con una malata?... Perchè la Gilda ormai era una malata e
sarebbe stata tale per un pezzo... Invece di averla compagna nelle sue
peregrinazioni artistiche, avrebbe dovuto vegliarla, assisterla... e
queste qualità d'infermiere egli non le possedeva... In mezzo alle cure
del nuovo suo stato si sarebbe spenta del tutto la sua ispirazione già
illanguidita, e allora... che avvenire per lui, che avvenire per la
Gilda!
Quando noi rifuggiamo da un grave sacrifizio, ci piace assai spesso
ripararci dietro l'idea che quel sacrifizio non gioverebbe neppure
a quelli per cui dovremmo farlo, e così Mario concludeva volentieri
i suoi ragionamenti col dirsi che la Gilda sarebbe stata infelice
sposandolo.
Pure una fiera lotta si agitò nel suo spirito, e ne portava le tracce
il foglio pieno di pentimenti e di scancellature che la Gilda ricevette
il dì appresso: — «Crudele, crudele, perchè suscitar la tempesta nella
mia anima? Io seguivo la via che mi pareva la sola buona, la sola
onorevole; tu con amara schiettezza hai voluto mostrarmene le insidie e
i pericoli, tu mi hai detto che non potrei percorrerla senza uccidere,
qual ch'esso sia, questo mio ingegno d'artista. È un'idea che mi toglie
la pace. Tutti devono essere qualche cosa nel mondo; io, che sarei se
non sono un pittore?... Non auguro al mio peggior nemico la notte che
ho passato... Ripensavo alle tue parole, e, a vicenda, ti adoravo, ti
ammiravo, ti colmavo di vitupèri... Sì, la tua generosità è spietata...
tu puoi darmi licenza d'essere un vile, non puoi impedirmi di credermi
tale... Vedi in qual bivio m'hai messo. O restare, con l'incubo di
non esser più atto a far nulla; o partire vergognandomi della mia
condotta... Ebbene, parto, cerco il moto, l'aria, la luce, di cui, come
dici, ho tanto bisogno, cerco la lena perduta. Se farò un capolavoro,
lo dovrò a te. A ogni modo, non ripatrierò prima di aver assodata la
mia riputazione d'artista. E tu, Gilda?... Non oso venire a stringerti
la mano; sarò già in viaggio quando riceverai questo foglio... Tu
meriti un uomo migliore di me, tu lo troverai senza dubbio... Ma, se tu
fossi libera al mio ritorno, potrei sperare di non esser respinto?...
Se ti riesce, non disprezzarmi, e fa che non mi disprezzi il tuo ottimo
zio... È troppa audacia chiedere una tua lettera, almeno una, a Zurigo,
ferma in posta? Addio, addio.»
In conformità a quanto egli scriveva, Mario era partito con la
prima corsa, diretto sulla linea di Modane. Giunto a Torino, vi si
trattenne per poche ore affine di salutarvi suo padre, il quale si
trovava colà per ragioni del suo commercio. L'ottimo signor Gedeone
fu molto addolorato, non tanto delle nozze sfumate quanto della nuova
partenza di Mario, ch'egli amava sinceramente. Nondimeno egli riempì
di napoleoni d'oro la borsa del figliuol prodigo e s'impegnò a non
fargli mancar danaro finchè non fosse in grado di mantenersi co' propri
guadagni. — Quattrini, e poi quattrini, e sempre quattrini — borbottò
tristamente il signor Gedeone. — Senza contare la pigione del casino di
Firenze e la spesa dell'ammobiliamento... È inutile, son fatto così;
per questo figliuolo darei il sangue... con quel sugo... per averlo
sempre lontano.
E il signor Gedeone cercò un sollievo alle sue amarezze domestiche
nell'acquisto di una partita di farina avariata che poteva servir
benissimo per la sua fornitura agli Istituti Pii.


XXII.

Il professore Romualdo stava quella mattina rivedendo i suoi
manoscritti che giacevano abbandonati da tanto tempo, e come succede
a chi non è in vena di lavorare sul serio e pur vorrebbe poter dire
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