Il Professore Romualdo - 09

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Intanto il professore Grolli e la Gilda avevano partecipato
l'importantissimo avvenimento al capitano Rodomiti, il quale si trovava
a Cadice, prossimo a partire per la Nuova Guinea. E il marinaio,
deplorando di non poter essere in Italia per l'epoca delle nozze,
inviava le sue più vive congratulazioni al professore e agli sposi, e
annunziava di aver già dato a un amico di Milano gli ordini opportuni
pel corredo della figlioccia.
Così tutto pareva sorridere a questa unione: la gioventù, la bellezza,
le prospettive di una vita comoda e agiata, le brillanti promesse
della gloria. Se la Gilda rifletteva a ciò che sarebbe accaduto di lei
ove fosse rimasta orfana e sola a Montevideo, ella aveva ben ragione
di lodarsi della fortuna e degli uomini che avevano cospirato con
amorosa sollecitudine a sparger fiori sul suo cammino. Dal giorno in
cui sua madre morente l'aveva affidata al capitano Rodomiti perchè la
conducesse in Europa, quante cure soavi l'avevano cinta, di quanti
pensieri gentili era stata l'oggetto! Senza genitori, ella era
stata amata più di molte fanciulle che crescono all'ombra del tetto
domestico; povera, il frutto della previdenza altrui la rendeva quasi
ricca a diciassette anni. Uno zio che non le doveva nulla le faceva
da padre; un estraneo, il capitano Rodomiti, gareggiava con lo zio in
tenerezza per lei. Avrebbe potuto essere una selvaggia, ed era stata
allevata in un ambiente di studi; aveva il culto dell'arte, e l'uomo a
cui doveva unir la sua vita era un artista.
Pure, la sua contentezza non era scevra d'angustie. Come in qualche
giornata estiva si diffondono pel cielo sereno lievi vapori che, senza
prender forma visibile, offuscano nondimeno lo splendore del sole,
così una vaga malinconia s'impossessava talvolta della sua anima, e le
faceva considerar la sua felicità come un castello di carte destinato a
crollare ad un soffio. Mario l'amerebbe sempre? L'affetto che egli le
portava era di quelli che durano alla prova del tempo, che resistono
al tedio, ai capricci della mobile fantasia? Oggi ella era per lui il
tipo di quella bellezza ch'egli idoleggiava; a sentirlo, ella doveva
figurare in tutti i suoi quadri, passare all'immortalità per opera del
suo pennello. Ma domani? Se un altro tipo femminile gli sembrasse più
vicino all'ideale che gli sorrideva nella mente?
Un giorno ella non aveva potuto a meno di dirgli: — Tu non comprendi la
donna che bella!
— È vero — egli aveva risposto — ma che t'importa, poichè tu sei
bellissima?
Tra gli sponsali e le nozze doveva correre un periodo di un anno, nè
l'irrequietissimo Mario sapeva acconciarsi a rimaner tanto tempo fermo
in un luogo. Egli era ora di qua, ora di là; ora a Zurigo, ove aveva
vecchi amici e lavori lasciati incompiuti, ora in questa o in quella
città d'Italia. Lontano, non aveva l'abitudine di scriver troppo di
sovente alla sua sposa; se ne tornava però sempre più innamorato di
prima.
Durante le assenze di Mario, il pensiero della giovinetta si
ripiegava con maggior tenerezza dell'usato su quelli ch'ella stava per
abbandonare: sul professore Romualdo, sulla signora Dorotea, che, pur
brontolando continuamente, aveva mostrato tanto affetto per lei. La
signora Dorotea non era più la matura ma vispa donnetta di dieci anni
addietro, che divideva la giornata tra le cure domestiche e le visite
ai conoscenti; era curva, sdentata, e passava le lunghe ore in un
seggiolone cogli occhiali inforcati sul naso, con la calza in mano.
Negli ultimi tempi anche la sua condizione economica s'era molto
peggiorata. La manìa del giuoco del lotto, cresciuta in lei
coll'avanzare dell'età, l'aveva caricata di debiti, e una mattina il
professor Romualdo aveva visto giungere gli uscieri del tribunale
per l'oppignoramento dei mobili. Il professore aveva posto riparo
al disastro rimborsando il danaro dovuto dalla vedova e comprandole
i mobili a prezzo vantaggiosissimo per lei. Così a poco a poco le
parti s'erano invertite fra loro; egli era divenuto il padrone di
casa, ella era l'inquilina. Il professore pagava la pigione; ella,
piuttosto per salvare il decoro che per altro, pagava a lui un piccolo
assegno mensile pel proprio mantenimento. Non aveva rinunziato alla
sopraintendenza alle cose domestiche, ma le sue funzioni attive
si riducevano a nulla. L'ufficio che ella aveva abbandonato con
maggior riluttanza era quello di scriver la polizza del bucato; grave
occupazione, nella quale soleva impiegare tre ore ogni venerdì, dopo
aver fatto acquistare la sera innanzi una penna d'oca temperata
e aver versato una goccia d'aceto nel calamaio affine di render
scorrevole l'inchiostro. Alla lunga però anche un tale incarico era
stato assunto dalla Gilda, che mostrava tutte le qualità di una buona
massaia, e la signora Dorotea aveva sempre più agio di brontolare e di
studiare la cabala del lotto. La prima di queste inclinazioni aveva
trovato un nuovo alimento nella promessa di matrimonio della Gilda.
Quel matrimonio ella non sapeva mandarlo giù, sia che avesse altri
disegni relativamente alla _bambina_, com'ella soleva spesso chiamare
la Gilda, sia che tenesse ancora il broncio a Mario per la marca di
negozio ch'egli le aveva dipinto sulla schiena quand'era fanciullo.
Ordinariamente ella si limitava a sfogare il suo malcontento in lunghi
soliloqui; non lasciava però sfuggirsi l'opportunità di dirne una
parola anche al professore, e di biasimarlo della sua troppo facile
condiscendenza. Nè con la Gilda faceva mistero dell'antipatia che
le inspirava il suo fidanzato. Del resto, si era troppo avvezzi alle
querimonie della signora Dorotea per dar loro gran peso; tuttavia la
Gilda sentiva spuntarsi qualche volta una lagrimuccia di dispetto,
e diceva: — In fin dei conti, che ha con Mario? — Eh, nulla, nulla
— rispondeva la vecchia — ma quello lì non era il marito per te... E
credi tu che il professore veda di buon occhio queste nozze?... Non
parla, ma soffre... Oh! Il professore io l'ho conosciuto prima che tu
avessi lume di ragione.
L'idea che lo zio Aldo soffrisse amareggiava profondamente la Gilda e
la rendeva più sollecita, più affettuosa verso di lui ch'ella non fosse
mai stata. Ella voleva a ogni costo prestargli l'opera sua, voleva
copiare i suoi manoscritti, voleva aiutarlo nel suo laboratorio. E
s'egli si schermiva, ella, che non aveva la virtù dissimulatrice di
lui, mostrava tanta afflizione da vincere ogni sua resistenza. No,
piuttosto di darle un dolore, egli ne avrebbe dati cento a sè stesso.
Nel momento in cui era stato fissato il matrimonio della Gilda, egli
aveva fermo in cuor suo due cose: consacrarsi con lena raddoppiata agli
studi, avvezzarsi a veder la nipote meno che fosse possibile. Di questi
due proponimenti il primo soltanto gli era riuscito; s'era immerso
nel lavoro, s'era impegnato con un editore a fornirgli entro pochi
mesi la materia di un paio di pubblicazioni: un trattato di geometria
superiore, e un libro di minor mole, che avrebbe dovuto essere come la
sintesi del suo pensiero scientifico. A quest'ultimo soprattutto egli
indirizzava le forze dell'intelletto; voleva ch'esso fosse stampato
prima delle nozze della Gilda, voleva ch'esso levasse romore intorno
al suo nome; per la prima volta nella sua vita, al culto disinteressato
del vero si mesceva nell'animo suo il desiderio della gloria.
Era geloso della celebrità bambina di Mario; ambiva mostrare che la
scienza può dare alla fama una base più sicura e più salda dell'arte.
Il suo stile, ordinariamente arido e disadorno, si risentiva
dell'inspirazione robusta che gli aveva suggerito quest'opera, e
acquistava una vigorìa e un colore inusato. La Gilda, nel ricopiarne
alcune pagine, non aveva potuto a meno di esclamare: — Zio Aldo,
diventi anche poeta? — E aveva soggiunto, additando il suo ritratto
appeso al disopra della scrivania: — Ero stata buona profetessa. Quel
quadro doveva far miracoli.
La Gilda diceva il vero? Era dunque da lei, era dalla sua immagine
che spirava un soffio di poesia in quell'anima austera di scienziato?
Anch'egli dunque cedeva a quella influenza della donna a cui aveva
saputo sottrarre la sua giovinezza? Così finivano i suoi superbi
dispregi?
Ahimè! A questa domanda egli non avrebbe potuto rispondere senza grave
imbarazzo. Tutti i suoi criteri erano scompigliati. Aveva perduto la
calma, eppure sentiva il suo ingegno ringagliardito; aveva perduto
l'antica padronanza di sè, eppure aveva lampi d'energia per lo addietro
non sospettati nemmeno. Ma un dolore sordo, assiduo lo martoriava; egli
invocava ormai come un modo di uscir di pena il matrimonio della Gilda
e la possibilità d'intraprendere un lungo viaggio nel quale forse egli
avrebbe finito col ritrovare sè stesso.


XVIII.

S'eran già fatte le pubblicazioni di legge, e per fissare il giorno
delle nozze non si aspettava che il ritorno di Mario, il quale dopo
molte esitazioni s'era determinato a stabilire la sua futura residenza
in Firenze, e si trovava da qualche giorno in quella città insieme col
signor Gedeone affine di cercarvi un appartamento.
Intanto il corredo ordinato a Milano dal capitano Rodomiti era giunto,
e formava l'ammirazione degli intelligenti, e soprattutto delle
intelligenti. Le Lorati si rodevano dall'invidia; anzi la signora
Olimpia mormorava con le sue amiche che questa grande tenerezza del
capitano Rodomiti aveva certo le sue buone ragioni, e che senza dubbio
_c'era stato qualche cosa_ tra lui e la madre della ragazza... Ma! Se
anche lei fosse stata di manica larga in gioventù, non le mancherebbero
adesso i protettori per la Ginevra e la Giulia.
Nonostante queste caritatevoli insinuazioni, la signora Olimpia e le
sue figliuole attendevano assiduamente a ricamare un tappeto da tavola
da regalarsi alla Gilda. Era un lavoro di polso, specialmente in virtù
d'un quadro centrale che doveva raffigurare la favola del cigno e
di Leda. Soggetto arrischiatissimo, ma trattato con molta innocenza,
perchè il cigno pareva una pacifica oca aliena da pensieri galanti, e
il bel corpo di Leda dava l'idea d'una stufa di pietra cotta. Non era
facile intendere come da quella stufa potesse uscire la famosa Elena
destinata a mettere a soqquadro la Grecia; ma tolta questa piccola
menda, l'opera collettiva delle signore Lorati era veramente pregevole.
La signora Olimpia, da mamma esemplare, ne dava tutto il merito alle
ragazze, e specialmente alla Ginevra, ch'era la maggiore e che andava
maturandosi a colpo d'occhio.
Nè il cavalier Diomede se ne stava con le mani alla cintola. Egli era
in grandi faccende per approntare un volume di circa duecentocinquanta
pagine, contenente un'edizione riveduta e corretta dei discorsi letti
da lui stesso nell'Accademia di cui era segretario. Erano diciotto
discorsi e potevano corrispondere a diciotto grosse dosi di cloralio da
prendersi in caso d'insonnia.
In quanto al professore Romualdo, egli si proponeva di dedicare alla
nipote l'opera scientifica alla quale attendeva da alcuni mesi e in
cui aveva versato tanta parte del suo pensiero. Avrebbe potuto con
molto maggior ragione dedicare il libro a qualche uomo illustre nel
campo degli studi, ma lo allettava l'idea di associare al nome della
sua pupilla il frutto delle sue lunghe meditazioni e delle sue veglie.
Certo, la Gilda non avrebbe potuto a meno di sentirne un po' d'orgoglio
e di gratitudine, e avrebbe detto: Povero zio Aldo! Ha _anche lui_ i
suoi meriti.
E il Grolli aveva già riveduto tutte le stampe del suo lavoro, ad
eccezione dell'ultimo capitolo. Qui s'era urtato contro uno scoglio.
Egli correva dietro a una formula che non poteva essergli data che
da una esperienza chimica alla quale s'era accinto con ardore mal
ricompensato dalla fortuna. Quell'esperienza non gli riusciva secondo i
suoi desiderii, per quante volte egli ritentasse la prova. Rinunciarvi
non voleva, giacchè gli sarebbe parso rinunciare alla parte più
brillante del suo lavoro; e poi la scienza ha anch'essa il suo punto
d'onore, e s'ostina di più dove trova maggiori gli ostacoli. Ma intanto
il tempo passava ed era abbastanza difficile che l'opera potesse uscire
dai torchi prima delle nozze.
Ciò contribuiva a metter di cattivo umore il professore Romualdo, e
il cattivo umore dello scienziato faceva brontolar più del solito la
signora Dorotea e stendeva un'ombra sulla felicità della Gilda.
Fu appunto in uno di questi giorni critici che Mario annunziò alla
sposa il suo imminente ritorno. Ormai tutto era pronto, non c'era che
da diventar marito e moglie.
Siccome però ci voleva il tempo di ammobiliare il quartierino preso a
pigione (un amore di quartierino a piedi del colle di Bellosguardo), i
due primi mesi del matrimonio si sarebbero consumati in viaggio. Mario
si riprometteva miracoli da una peregrinazione artistica con la Gilda
in Sicilia. — Quel cielo limpido, quella natura lussureggiante — egli
le scriveva entusiasta — faranno degna corona alla tua bellezza, e chi
sa che a me non ispirino un capolavoro! — Per onor del vero, dopo il
ritratto così egregiamente riuscitogli, egli non aveva prodotto nulla
di notevole. Ammetteva egli stesso che la condizione di fidanzato gli
si attagliava pochino. Una volta marito, sarebbe stata ben altra cosa.
_Sentiva_ già dentro di sè cinque o sei quadri, in ciascuno dei quali
era serbato un posto d'onore alla sua sposa. V'erano momenti in cui la
Gilda non poteva a meno di domandare a sè medesima: — Mi prende dunque
come una modella? — Ma più sovente la sua vanità era lusingata dalla
idea che la sua immagine, riprodotta in diverse guise, passasse ai
posteri come quella della moglie d'un gran pittore.
La Gilda, poichè ebbe la lettera di Mario, corse in camera dello
zio tenendo in mano il foglio spiegato, e gridando: — Mario sarà qui
domani.
Sia che il professore pensasse all'impossibilità di pubblicare il suo
libro per l'epoca voluta, sia che, dopo aver affrettato col desiderio
questo matrimonio, sentisse ch'esso avrebbe lasciato un vuoto troppo
grande nella sua vita, fatto si è che la nipote non ebbe punto a
lodarsi della sua accoglienza.
— Venga, vada, che me ne importa? — egli disse in tono sgarbato.
— Oh, zio — cominciò la Gilda, a cui questi modi inurbani facevano male.
Ma egli la interruppe: — Lo so che hai fretta d'andartene... Vuoi
fissare le nozze per posdomani, per domani sera?...
— Zio Aldo, zio Aldo — ella esclamò in mezzo alle lagrime — mi volevi
tanto bene una volta! Che ti ho fatto perchè da qualche tempo tu debba
odiarmi?
— Odiarti?... Io?... — gridò il professore fuori di sè in veder quel
bel viso molle di pianto... — Odiarti?... Ma io invece...
Avrebbe avuto mille cose da soggiungere, ma si arrestò a un tratto.
Come colui che guardando alla casa del vicino vede il riflesso
delle fiamme che investono la casa propria, così il professore, nel
turbamento che si dipinse in viso alla Gilda, lesse il segreto che gli
era sepolto nell'anima e che non aveva voluto fino allora rivelare a sè
stesso. Sentì il precipizio sotto i suoi piedi e disse balbettando: —
Perdonami... Ho bisogno d'aria...
Prese il cappello, e uscì senza dar ascolto alla signora Dorotea, che
seduta nel suo seggiolone in salotto chiedeva: — Che cosa c'è! Che è
accaduto?
— Che c'è! Che è accaduto? — tornò a domandare la signora Dorotea
quando vide comparirsi davanti la Gilda pallida e stravolta.
La Gilda appoggiò i gomiti al tavolino, si nascose il viso tra le palme
e ruppe in singhiozzi.
— Ma insomma? — ripetè la vedova, avvicinandosi.
— Oh, signora Dorotea — proruppe la giovinetta, per la quale la buona
femmina era divenuta in questo momento una difesa e un rifugio — non
conosco più lo zio Aldo.
— Spiegati dunque...
Quando la ragazza ebbe narrato l'accaduto, la signora Dorotea tentennò
il capo e congiunse le mani. — Il cuore me lo diceva... Odiarti? Lo zio
Aldo?... Sciocchina che sei... Ah, se tu avessi avuto giudizio!... Ma
pur troppo la gioventù di oggi si appiglia al peggio.
— O signora Dorotea, che dice mai? — riprese la Gilda, diventando
scarlatta di pallida ch'era.
— Lo so, non c'è rimedio... Hai dato la parola a quell'altro... e la
parola, capisco, bisogna tenerla... Ma povero professore!... Questo
matrimonio gli costerà la vita... E adesso dove sarà andato, dove sarà
andato? — ella proseguì, colta da un subito spavento. — Voglia il cielo
ch'egli non faccia qualche sproposito.
— No, per carità, non lo pensi nemmeno — gridò sbigottita la Gilda, che
aveva trovato nuove inquietudini dove era venuta a cercare un conforto.
— Dio mio; sono pure infelice!
Il professore era corso via senza saper dove andava, senz'altro
desiderio che quello di trovarsi all'aperto.
Uscì dalla città e prese a caso la prima strada che gli si parò davanti.
Era dunque possibile? Il suo affetto di zio, di tutore, di padre, s'era
cambiato in un sentimento di tutt'altra natura?... Innamorato?...
Lui?... Alla sua età, con le sue abitudini austere, con la sua
ripugnanza verso quanto sapeva di galanteria?... E s'era tradito?...
Oh s'era tradito senza dubbio... Lo sgomento della Gilda parlava
chiaro... Imbecille, imbecille!... Egli aveva sciupato in un secondo
il frutto di tanti anni di sacrifizio e di abnegazione. La Gilda non
si ricorderebbe più di lui come di un tutore sollecito, come di uno
zio tenero e affettuoso, ma come d'uno spasimante ridicolo che s'era
offeso perchè ella gli aveva preferito un uomo giovine e bello... E
se la Gilda parlasse?... Se rivelasse tutto a Mario, come ne aveva il
diritto?... Se Mario venisse a provocarlo?... Oh, Mario ne avrebbe
riso, ne avrebbe riso insieme con la sua sposa! Questa paura del
ridicolo lo perseguitava nel suo cammino; avrebbe voluto nascondersi
sotto terra, tanto gli pareva che anche le cose inanimate dovessero
acquistar la favella per dargli la baja. Eppure, mentre si vergognava
di sè stesso, gli sarebbe stato di grande sollievo il poter versare
le sue pene in un cuore amico. Ma dove trovarlo? La sua vita era
stata dissimile da quella degli altri giovani, la cui intrinsichezza
si aumenta con le confidenze reciproche; coi suoi coetanei egli aveva
discorso di matematica; confidenze intime non ne aveva mai chieste, non
ne aveva mai fatte. E comincerebbe a trentasette anni? Un uomo forse
l'avrebbe sorretto di virili consigli, ma quell'uomo era lontano, e a
che pro scrivergli? Che avrebbe potuto far per lui il capitano Rodomiti
finchè stava col suo legno nei mari dell'India o dell'Africa?
Dopo più d'un'ora di cammino, egli si accinse al ritorno, sempre
molestato dagli stessi pensieri, sempre agitato dall'idea di
doversi ripresentare alla Gilda... Procurerebbe di rientrare in casa
inosservato, si chiuderebbe nella sua camera, nel suo laboratorio,
per non mostrarsi che all'ora di desinare. Nel suo laboratorio?...
I bei risultati ch'egli vi aveva ottenuti! Anche le storte gli eran
diventate ribelli!... Ebbene; bisognava ritentare per la centesima, per
la millesima volta... Già il suo mondo era lì, era tra le sue formole,
tra le sue esperienze... Meglio le severe ripulse della scienza che lo
scherno della donna!
A poca distanza dalla città il professore s'imbattè in una frotta di
studenti che si levarono il cappello al suo passaggio e lo fissarono
con curiosità.
Come mai erano a zonzo così presto? Il professore Romualdo ne interrogò
uno. — Hanno vacanza?
Il giovine diede un'occhiata ai suoi condiscepoli, e poi rispose
sorridendo: — Scusi... era la sua ora.
— La mia ora?... Il giovedì!
— Ma oggi è venerdì, signor professore.
— Venerdì — esclamò esterrefatto il Grolli, osservando distrattamente
l'orologio, come se potesse trovarvi l'indicazione della giornata.
— Appunto...
— Sicchè... io non ho fatto la mia lezione?
— Eh pare... Anzi temevamo che non istèsse bene.
Il professore si allontanò tutto confuso. In diciotto anni
d'insegnamento non gli era accaduta una cosa simile.


XIX.

Le esagerate apprensioni delle due donne si dissiparono a veder tornare
il professore sano e salvo a casa. Egli però non lasciò loro il tempo
di far commenti; entrò difilato nella sua camera e vi si chiuse a
chiave. A desinare non disse una parola; teneva gli occhi sprofondati
nel piatto e mangiava macchinalmente. Più volte la Gilda avrebbe voluto
rompere il ghiaccio, ma gliene era sempre mancato il coraggio. Era così
nuova, era così impreveduta la sua situazione di fronte allo zio! Anche
la signora Dorotea si sentiva incapace di aprir bocca, ed è tutto dire.
Dopo pranzo, il professore Romualdo tornò a chiudersi nella sua stanza,
e la Gilda e la signora Dorotea, inquiete di nuovo, rimasero a vigilare
in salotto. A un certo punto la signora Dorotea, avvicinatasi all'uscio
che metteva nella camera del professore, si chinò a guardare attraverso
il buco della serratura.
— Non c'è nessuno — ella disse.
— Sarà in laboratorio — osservò la ragazza, e passando nel luogo di
sbarazzo, ch'era contiguo al laboratorio, appoggiò l'orecchio alla
parete.
Si sentiva un tintinnìo di vetri e un suono di passi. Non c'era dubbio;
il professore attendeva a uno dei suoi esperimenti.
— Solite diavolerie! — borbottò la signora Dorotea, non tranquillata
che a mezzo — Una volta o l'altra va in aria la casa.
— Le sue analisi chimiche, le sue dimostrazioni geometriche, ecco ciò
che gli preme soprattutto — pensò la Gilda, e si persuase che le sue
inquietudini non avevano alcun fondamento. Però è così capriccioso
questo cuore umano, che una tale persuasione le diede più noja che
altro.
Sul tardi vennero le Lorati a prenderla, ed ella non rientrò che tardi.
Nell'intervallo il professore era uscito e rientrato anche lui, e dopo
aver chiesto conto della nipote, s'era ritirato in camera lasciando
ordine che non lo disturbassero fino alla mattina dopo. La signora
Dorotea si era messa per intavolare un discorso, ma egli le aveva dato
sulla voce e l'aveva piantata in asso. — Benedetto uomo! — disse la
vedova Salsiccini alla Gilda. — È di un umore bestiale. Scatta per
nulla come una molla.
A malgrado di questo avvertimento, la Gilda, sul punto di coricarsi,
non potè a meno di gridare in modo da esser sentita nella stanza
attigua: — Buona notte, zio Aldo.
Al suono di quella voce così cara al suo orecchio, il professore, che
era seduto davanti alla scrivania, trasalì e rispose: — Buona notte,
Gilda... Fa di dormire, adesso.
— Non ho sonno...
— A ogni modo — ripigliò il professore — non è ora da far
conversazione... Parleremo domani. — E soggiunse con uno sforzo: —
Parleremo anche delle tue nozze... Buona notte, buona notte.
— Abbiamo preso senza dubbio un equivoco — riflettè la Gilda. — Egli
era preoccupato del suo esperimento... Me lo aveva pur detto giorni fa,
che c'era un'esperienza che lo faceva impazzire...
La Gilda non vide due grosse lagrime calar lentamente giù per le guance
del professore, che forse da quand'era bambino non aveva mai pianto,
e cader sopra le pagine d'un libro. In quel libro era trascritta
la partita aperta da quindici anni presso la Banca dei prestiti e
degli sconti al nome _Gilda Natali_, e il professore vi aveva in
quel momento conteggiati in margine gli interessi ed esposta la somma
totale. Le lire 10,674 50 versate nel maggio 1861 erano diventate circa
lire 34,800, e il dottor Romualdo poteva esser contento della dote
raggranellata per la nipote. Quel cervellino di Mario avrebbe saputo
amministrar così bene la sostanza della moglie?
Fosse l'idea delle prossime nozze, o fosse altra ragione, la Gilda
non fece in tutta notte che voltarsi e rivoltarsi nelle coltri.
Assopitasi verso l'alba, la svegliò quasi subito l'allegro canto dei
suoi cardellini, che scioglievano un inno alla luce nascente, un inno
all'amore. E quell'inno destava un'eco nella sua anima. Anche per
lei sorgeva uno splendido giorno, e l'amore tutto malizie e sorrisi
le susurrava all'orecchio misteriose parole. Ella diventava rossa
alle confidenze del suo invisibile interlocutore, e istintivamente
raccoglieva le coperte intorno alla sua persona.
Nella camera attigua si moveva qualcheduno. La Gilda si fece pensosa.
Povero zio Aldo! Era possibile ch'egli l'amasse in modo diverso da
quello in cui gli zii e i tutori sogliono amare? Povero zio Aldo!
Egli le aveva sacrificato tutto, ed ella, in compenso, lo rendeva
infelice... Poteva ella lasciarlo nel dubbio ch'ella non avesse
più verso di lui la fede di un tempo? No certo; era pur necessario
ch'ella gli facesse comprendere come nulla era cambiato fra loro,
era necessario ch'ella gli dicesse una parola affettuosa prima delle
nozze, subito anzi, prima che la venuta di Mario la costringesse
a non attendere ad altri che al suo fidanzato. Scese con cautela
dal letto, aprì adagio le imposte, si vestì senza far romore, e poi
stette alcuni minuti in silenziosa aspettazione. Quando il cigolare
d'un uscio la ebbe fatta sicura che il professore era entrato nel suo
santuario chimico, ella passò dalla sua camera in salotto e dal salotto
alla camera dello zio; traversata questa in punta di piedi, sospinse
l'usciolo del laboratorio, e si fermò sulla soglia. Il professore
concentrava la sua attenzione sopra un apparecchio attraverso il quale
si svolgevano alcuni gas.
— Chi è? — egli chiese, dando un balzo.
— Sono io, zio Aldo.
— Non voglio nessuno, non voglio nessuno — gridò il professore, tutto
assorto nella sua esperienza.
Ella non gli diede retta, e si accostò trattenendo il fiato. Quand'ella
fu vicina ai fornelli: — Sei tu? — disse il professore Romualdo,
mutando tono. — Resta adesso.
Le afferrò il braccio, e con volto trasfigurato le mostrò una sostanza
che si precipitava in fondo a una storta. Egli era quasi bello nel suo
entusiasmo.
— Ebbene? — chiese la Gilda, fissandolo in viso.
— L'esperienza a cui tenevo tanto, e alla quale stavo per rinunciare,
è finalmente riuscita a modo mio — egli esclamò con enfasi. — Possedo
finalmente la mia formula. Anche la scienza ha i suoi trionfi.
— Una volta ero la tua assistente — osservò con accento malinconico la
giovinetta.
Egli ripetè sospirando: — Una volta.
— Mi spiegherai almeno di che si tratta.
— Or ora — egli rispose. — Aspettiamo che sia finito.
Un colpo di vento aprì d'improvviso la finestra, e fece sbattere con
violenza l'uscio del laboratorio che la Gilda, entrando, aveva soltanto
accostato.
— Ih che aria! Bisogna chiuder quella finestra — disse il professore,
allontanandosi dai fornelli e salendo sopra una sedia per rimuovere una
tendina che s'era impigliata nello spigolo d'un'imposta.
— E io chiuderò l'uscio — soggiunse la Gilda. Ma nel punto d'avviarsi
urtò inavvertitamente col gomito l'apparecchio, una storta si ruppe,
uno scoppio terribile fece rintronar la volta dello stanzino, e
in un attimo la povera fanciulla si trovò circondata dalle fiamme,
mentre dei pezzi di vetro slanciati in aria dall'esplosione le si
conficcavano nelle carni. Mise un urlo straziante, e si precipitò fuori
del laboratorio, ma appena giunta in camera dello zio, le gambe non la
sorressero più, e stramazzò sul pavimento.
Per buona fortuna il professore Romualdo, sebbene ferito anche lui da
una scheggia, non si smarrì interamente d'animo, ma, strappati dal
letto i guanciali e le coperte, li gettò addosso alla Gilda, indi,
senza badare al pericolo, le si abbandonò sopra di peso e a prezzo
di non lievi scottature riuscì a spegnere il fuoco che le investiva
la persona. Lo strepito aveva intanto chiamata la signora Dorotea e
la fantesca, le quali, al miserevole spettacolo, furono a un punto di
cadere in deliquio e a stento si trascinarono sino alla scala mettendo
la casa a rumore. Salirono i vicini spaventati, salirono i commessi
del fondaco Albani, salirono perfino dalla strada alcuni passanti, e il
loro soccorso non fu inutile ad arrestare un principio d'incendio nel
laboratorio, ove le vampe correvano lungo i fornelli.
— L'ho sempre detto io che doveva finire con una disgrazia! —
borbottava con voce mezzo spenta la signora Dorotea.
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