Il Professore Romualdo - 08

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Le cose durarono in tale stato per un quarto d'ora; poi il nembo
principiò a rimettere della sua intensità.
— Oh! — disse la Gilda fra un tuono e l'altro. — Valeva la spesa di
ricoverarsi sotto una rupe! Ho l'acqua fino alle midolle.
— Con un tempo simile si è più sicuri bagnati che asciutti — osservò
gravemente il professore. — Franklin fece una preziosa esperienza.
Con l'elettricità artificiale accumulata egli potè uccidere un topo
asciutto, ma non riuscì a ucciderne uno ch'era bagnato. Quello che è
certo si è che la temperatura dev'essere abbassata di parecchi gradi.
Se non vien presto il sole, si gela.
— Un buon alpinista — ripigliò il pittore — deve aver sempre il farmaco
indispensabile in queste occasioni.
Detto ciò, egli tolse di sotto alle vesti una fiaschetta impagliata
che gli pendeva al fianco, e consigliò il Grolli a bevere un sorso del
liquore che vi era contenuto.
— Che roba è? — chiese la Gilda.
— È _cognac_. Ne beverà anche lei.
— Sì, sì.
— Non più d'una goccia, sai! — ammonì il dottor Romualdo.
Ella si mise a ridere, e mandò giù una gran boccata di liquore. — Bah!
Si sente appena — ella disse, restituendo la fiaschetta all'Albani.
Si riprese la faticosa marcia con tutta la celerità ch'era conceduta
dalle vesti molli e dalle membra irrigidite. Aveva smesso di piovere,
il vento agitava soltanto gli strati superiori dell'atmosfera, le
nubi, spinte da opposte correnti, si ghermivano, si confondevano, si
lasciavano come se giocassero a mosca cieca, il sole faceva fuggevoli
apparizioni negli squarci azzurri del cielo, le cime delle montagne
andavano a grado a grado snebbiandosi, e le vette più eccelse si
mostravano chiazzate di neve recente, ciò che spiegava il freddo
improvviso.
La bufera aveva molto peggiorate le condizioni della strada; qua e là
grosse frane ingombravano il sentiero, e si trovavano rami schiantati,
e pozze, e rigagnoli serpeggianti in tutte le sinuosità del terreno.
Più d'una volta Mario dovette aiutar la Gilda in un passo difficile,
più d'una volta egli sentì il dolce peso di quel corpo delicato e
flessuoso. Sul limitare d'uno spazzo verde che scendeva con un pendìo
alquanto ripido, la ragazza confessò al pittore che il capo le girava
un pochino, e che il suo piede non era ben sicuro. Egli le diede il
braccio con trasporto, e i due giovani scivolarono insieme giù per la
china, a immagine di pattinatori, con la svelta persona arrovesciata
all'indietro, con le guance invermigliate dalla sferza della rigida
brezza, cogli occhi pieni di fuoco, coi capelli svolazzanti. Passavano
rapidi, ora in luce, ora in ombra, secondo che il sole sbucava dalle
nuvole o si rimpiattava, e nella corsa precipitosa ridevano forte, e il
loro riso melodioso, sonoro, rallegrava quelle solitudini alpine.
Sì, senza dubbio, doveva dipendere dal _cognac_. La Gilda aveva un
bisogno infinito di parlare, di ridere, di appoggiarsi a qualcheduno.
E poichè lo zio aveva già da far molto a sostener sè medesimo, era
naturale ch'ella si appoggiasse a Mario. Bensì voltandosi di tratto in
tratto: — Bada — gridava — bada, zio Aldo, di non sdrucciolare.
A malgrado di tanta sollecitudine, ella non si avvide che il
professore incespicò un paio di volte, e nei suoi sforzi per conservar
l'equilibrio riportò una storta ad un piede e una contusione a un
ginocchio. Pure il nostro scienziato non mosse un lamento, non disse
una parola per rallentar la foga della giovine coppia, la cui allegria
rumorosa non aveva più freno. Mario e la Gilda eran tornati bambini, e
accadeva a loro come ai bambini, che quando si son messi in galloria,
finiscono col ridere senza nemmeno saper di che ridono.
Allorchè i viaggiatori giunsero all'albergo, vi trovarono una gran
confusione. Non si aveva notizia di due comitive d'inglesi partiti
la mattina per una salita sul ghiacciaio, alla quale certo dovevano
aver rinunziato in causa dell'uragano. Erano accompagnati da guide
eccellenti; pur si stentava a capire perchè non fossero ancora di
ritorno. Oltracciò si considerava ornai sciupata la stagione d'estate.
La neve caduta aveva già reso impossibili alcune ascensioni, e chi sa
se non sarebbe successo peggio nella notte. C'erano sempre due monti
che _fumavano_, secondo la espressione dell'oste, e que' due monti,
chiamati _i due gemelli_, valevano meglio di qualunque barometro,
perchè la loro cima avvolta di nubi significava un seguito di piogge
e di burrasche. Per poco che si abbassasse ancora la temperatura, non
sarebbe più venuto un solo forestiero, e sarebbero andati via tutti
quelli che ci erano.
L'ostessa intanto si recava ogni momento sulla strada a spiare il
ritorno degli inglesi. Ella si ricordava di una catastrofe avvenuta
anni addietro, quando, di cinque _touristes_ che avevano lasciato
l'albergo la mattina, due soli erano tornati la sera. E fra le vittime
c'era un giovine bello, ricco, pieno di buonumore, un alpinista famoso
ch'era stato uno tra i primi a superare il Cervino, e che in mezzo alla
sua audacia aveva tutta la grazia e l'ingenuità d'un fanciullo. Giocava
volentieri coi bimbi, scherzava onestamente con le ragazze, amava
discorrere di sua madre. E sua madre, poveretta, era corsa da Londra
per avere almeno il cadavere del figlio. Ahimè! Il ghiacciaio non rende
che tardi i suoi morti.
Per buona ventura questa volta non accaddero disgrazie, e gli inglesi
aspettati arrivarono sani e salvi, benchè pieni di freddo, di fame,
con le vesti fradice e con l'ossa peste, e decisi a levar le tende il
dì appresso. La mattina infatti, poichè il cielo era sempre coperto e
il barometro continuava a segnar pioggia e vento, fu un salvi chi può
generale. A mezzogiorno non restavano all'albergo del _Camoscio_ che il
professore Grolli, sua nipote e Mario Albani.


XVI.

Al professore s'era nella notte gonfiato il piede in conseguenza della
storta riportata il giorno innanzi, ed egli aveva potuto a fatica
trascinarsi dal letto fino ad una poltrona che si trovava accanto alla
finestra. Non era nulla, ma bisognava stare almeno una settimana in
riposo.
Il riposo del professore significava la prigionia della Gilda, la quale
si sarebbe annoiata non poco della sua clausura, se Mario Albani non
avesse voluto dare a lei e a suo zio una prova di vera amicizia col
partecipare alla loro sorte. Com'era buono il signor Mario, com'era
gentile!
La mattina per tempo egli veniva a chiedere le notizie del professore
Romualdo, salutava attraverso la parete la Gilda che era ancora mezzo
svestita nella sua camera, e poi se ne andava a girar pei monti con
un libro, col suo _album_ e la sua scatola di colori. Nell'uscir
dall'albergo egli guardava la finestra della giovinetta, e i suoi occhi
s'incontravano sovente in quelli di lei, ch'era presso al davanzale
ravvolta nel suo accappatoio. Ella lo salutava con la mano e gli
gridava: — A rivederci a mezzodì.
E a mezzodì in punto il pittore sedeva alla mensa dei due prigionieri.
Sulla tavola, ch'era apparecchiata accanto alla poltrona dello
scienziato, egli deponeva tutti i giorni alcuni fiori colti nella sua
passeggiata mattutina, poscia, durante il pranzo, discorreva con la
sua consueta vivacità d'arte, di letteratura, di viaggi, riuscendo
qualche volta a richiamare un sorriso financo sulle labbra dell'austero
professore.
Dopo il desinare, egli prendeva i suoi pennelli, piantava il suo
cavalletto, e faceva seder la Gilda sopra una seggiola in mezzo
alla camera tentando di ritrarne le sembianze sulla tela. Non aveva
mai lavorato con maggior passione, con maggior impegno, con più
ardente febbre d'artista. Pure i suoi entusiasmi erano interrotti
da scoraggiamenti profondi, e in quegli istanti la sua pittura gli
sembrava misera, fredda, e avrebbe voluto distruggerla. La Gilda
gli leggeva negli occhi quei moti subitanei dell'anima e sorgeva con
energia straordinaria a difendere un'opera ch'ella amava d'un amore
singolare, quasi materno. Talora il professore era chiamato arbitro
nella questione; egli doveva decidere se il ritratto prometteva di
somigliare all'originale, o era invece uno sgorbio, una profanazione,
come diceva Mario nei suoi accessi di pessimismo. E il professore, che
in fatto d'arte se ne intendeva pochino, dava ragione alla nipote, ma
con certi argomenti che non sarebbero stati i più acconci a persuadere
l'artista, s'egli non fosse tornato da sè a più miti consigli.
Quelle sedute duravano circa tre ore. Per solito, alle quattro, Mario
usciva di nuovo per tornar verso le sette. Durante la sua assenza,
la Gilda adempiva coscienziosamente all'ufficio di segretario dello
zio, scriveva per lui qualche lettera sotto dettatura, o gli ricopiava
con la sua nitida calligrafia qualche articolo da mandare all'una o
all'altra Rivista scientifica. Negli intervalli, ella trovava sempre
la maniera di far cadere il discorso sull'Albani e sulla buona stella
che lo aveva messo sul loro cammino. Oppure si fermava davanti al
ritratto, che, nonostante le ubbie del pittore, procedeva rapidamente,
e, diceva lei, avrebbe finito col dare scacco all'originale. Sì, ella
voleva un gran bene a quella mezza figura di giovinetta ch'ella aveva
visto emerger dal nulla, e pallida, scialba, disegnarsi appena sulla
tela quasi fantasma fuggitivo sulla parete, e d'ora in ora, di minuto
in minuto, acquistare il rilievo, il colore, la vita, il sorriso, come
se avesse sangue, e muscoli, e nervi.
— Sono una vanerella — ella osservava talvolta. — Innamorarmi della mia
immagine, come Narciso!
Ma era ella ben certa di non accusarsi a torto? Ammirando il proprio
ritratto, ammirava forse sè stessa?
Tanto per spigrire le membra, ella scendeva ogni giorno a far quattro
passi davanti all'albergo, non dilungandosene mai in modo che il
professore non potesse dalla finestra vederla e parlarle. _Fulmine_, il
vecchio cane di casa, che in quell'ora dormiva per solito attraverso
la soglia, le si metteva a fianco con molta galanteria nelle sue
passeggiate microscopiche, e sembrava disposto ad accompagnarla molto
più in là, ovunque ella avesse voluto. Ordinariamente la Gilda restava
fuori fino al ritorno di Mario. All'arrivo del pittore, i due giovani
facevano un paio di giri insieme, poi salivano entrambi dal professor
Romualdo.
L'ostessa serviva per le otto una cena frugale, il cui piatto più
importante era una trota pescata in un laghetto a poche ore di cammino.
Dopo cena si chiacchierava, si leggeva. Mario aveva trovato in salotto,
fra gli altri libri, il primo volume delle poesie di Longfellow, e
sapendo discretamente l'inglese, traduceva ad alta voce l'_Evangelina_;
indi sbozzava col lapis alcune tra le scene di quel pietoso
racconto. Qualche sera l'oste chiedeva licenza di prender parte alla
conversazione, e insieme con lui veniva anche _Fulmine_, scodinzolando
e fregandosi carezzevolmente intorno a Mario e alla Gilda. In queste
solenni occasioni il signor Emanuele (che era l'oste) si permetteva
di far sturare in onore dei suoi ospiti una bottiglia, di cui, pure in
loro onore, egli beveva almeno i due terzi. Il vino però non lo rendeva
espansivo; anzi condensava la sua eloquenza in certi _ma!_ sonori che
egli emetteva dal labbro a intervalli regolari di due o tre minuti. Poi
lasciava cader la testa sul petto, chiudeva gli occhi, apriva la bocca
e dormicchiava fino alle dieci, ora nella quale il professore voleva
andare a letto, e Mario e la Gilda si ritiravano ciascuno nelle proprie
stanze.
Questa distribuzione della giornata subiva lievi modificazioni
quando il tempo, che non s'era mai rimesso al bello, era tale da non
permettere a Mario d'uscire. Allora egli supplicava umilmente che
gli si accordasse una più lunga ospitalità, e la Gilda, col piglio
d'una castellana del medio evo, gli concedeva di rimanere. Nè certo il
professore poteva mettere il suo veto alla onesta domanda.
Il ritratto volgeva al suo termine. All'ottava seduta, nell'ora in cui
Mario soleva deporre i pennelli, egli disse alla Gilda: — Non vado via,
sa, oggi... Ho una buona giornata e voglio finire... Rimanga al suo
posto.... Pieghi un po' la testa verso sinistra... Così... sorrida...
— Dio mio!... Non faccio altro da una settimana.
— È vero, ma oggi soltanto mi par di cogliere la giusta espressione di
quel suo sorriso... Ah sì, sì... ecco.
E il pittore, tiratosi due passi indietro, mirava con compiacenza
l'opera sua. Il professore Romualdo, ch'era in via di guarigione e
camminava senza difficoltà per la stanza, venne a collocarsi dietro a
Mario e non potè a meno di esclamare: — Bravo! È parlante.
L'Albani si rimise tosto al lavoro. Il suo occhio scintillava, un
fremito gli correva tutte le membra, la punta del suo piede batteva
impaziente sul pavimento, mentre il suo pennello sicuro ora sfiorava,
ora mordeva la tela, creando sul suo passaggio nuovi effetti d'ombra e
di luce, spirando un soffio potente in quella bella testa di vergine.
Ancora un tocco, un altro, e poi Mario depose la sua tavolozza, si
ravviò con la mano i capelli e disse: — Si alzi, signora Gilda; è
finito.
Un grido d'ammirazione proruppe dal labbro della giovinetta quand'ella
vide il ritratto compiuto. Ella ne aveva seguìto i progressi con fede
incrollabile, ma la riuscita superava ogni sua aspettativa.
— Oh signor Mario, ha fatto miracoli oggi — ella soggiunse commossa.
— E dire che se non ero io, avrebbe lacerato questa tela una mezza
dozzina di volte...
— È stata la mia collaboratrice — egli rispose — Ha mantenuto il mio
coraggio. Dovrò tutto a lei.
Ella chinò il volto confusa e sentì spuntarsi una lagrimetta sul
ciglio. Scosse leggiadramente il capo, si rivolse al professore e
continuò accennando al quadro: — Lo faremo mettere in una elegante
cornice, in una cornice dorata, e poi lo collocheremo nella tua
camera... al disopra della tua scrivania...; così lei, signor
disprezzatore delle donne, non potrà alzare gli occhi dai suoi
dottissimi libri senza vedere una donna, che, via, non è tanto
brutta... Chi sa le belle ispirazioni che ti scenderanno da quella
immagine!...
A questi discorsi il professore sentiva un peso, un'oppressione al
cuore, di cui non sapeva rendersi conto. E intanto, per non rimaner
muto affatto, egli rinnovava a Mario le sue congratulazioni. Erano
del resto congratulazioni sincere, perchè i pregi singolari di quella
mezza figura non potevano sfuggire nemmeno a lui, ed egli paragonava
sospirando gli effetti rapidi, fulminei, ottenuti dall'arte, coi
successi lenti, modesti, spesso ignorati, della scienza. In altri
tempi questo confronto gli avrebbe fatto parer tanto più cari gli studi
scientifici quanto minore è lo strepito che essi levano intorno a sè e
il compenso ch'essi danno ai loro cultori. Oggi la sua fede vacillava;
egli era tentato di chiedersi: — Perchè non nacqui artista anch'io?
— Ah! — riprese la giovinetta, mutando discorso con la solita infantile
volubilità — Ho le membra intorpidite... Son rimasta seduta cinqu'ore.
— Dica pur sei — osservò l'Albani. — Si è cominciato al tocco, e sono
quasi le sette.
— Ebbene — soggiunse la Gilda, rivoltasi allo zio — scendo a fare i
miei quattro passi d'ogni giorno... Mi farà da cavaliere, non è vero,
signor Mario? Le nostre colonne d'Ercole saranno quei soliti abeti
laggiù... E tu, zio Aldo, potrai vigilare sopra di noi, come l'angelo
custode... dall'alto.
Dopo l'uragano, era quello il primo giorno in cui il cielo si mostrava
quasi interamente sereno. Spirava un'aria mite, annunziatrice di una
rivincita dell'estate sull'autunno precoce; l'oste spianava la fronte
corrugata e riapriva l'animo alla speranza vedendo che _i due gemelli_
non _fumavano_ più.
— Bel tempo! — disse il signor Emanuele a Mario e alla Gilda. — Bel
tempo! — E si fregò le mani per la contentezza.
Il signor Emanuele se ne stava ritto davanti alla soglia dell'albergo.
Vicino a lui c'erano due guide, un cacciatore di camosci, e una guardia
daziaria. _Fulmine_, che scherzava un po' più lontano col cane del
cacciatore, corse festosamente verso i due giovani. Il crocchio si
divise per lasciarli passare.
— Sono fidanzati? — chiese la guardia daziaria.
— Ma! — rispose il laconico oste.
E una delle guide soggiunse: — Paion fatti l'uno per l'altra.
Il professore era alla finestra coi gomiti appoggiati al davanzale. La
Gilda guardò in alto, sorrise allo zio, e lo salutò colla mano.
— Voglio raccontarle la storia di Van Dyck e di Miss Dolly Ruthwen —
cominciò Mario.
— Oh bravo, racconti, racconti.
E la bellissima coppia si diresse verso la macchia d'abeti, ora
preceduta, ora seguìta da _Fulmine_, che carolava sull'erba e prendeva
fra i denti le pine cadute dagli alberi. Il professor Romualdo li
accompagnava con lo sguardo.
Giunti al termine stabilito, Mario e la Gilda si avvicinarono di nuovo
all'albergo.
— Sicuro — disse Mario, continuando la sua narrazione, — se Miss Dolly
Ruthwen non avesse posato per lui, Van Dyck non avrebbe mai fatto uno
dei suoi capolavori.
— E che avvenne poi? — domandò la ragazza.
— Fa bujo — gridò dalla finestra il professore.
— Un altro giro, un altro giro, e siamo con te.
Il sole era fuggito dalle cime dei monti, il breve crepuscolo cedeva
il posto alla sera, e già le stelle cominciavano a tremolare nel
firmamento. Il cappuccio di lana rossa della Gilda spiccò ancora
per qualche istante tra il grigio uniforme di tutte le cose; poi il
professor Romualdo non vide più che due ombre. E intanto Mario narrava
alla Gilda come Miss Dolly Ruthwen fosse divenuta moglie dell'artista
ch'ella aveva ispirato col suo bel viso. Il cane _Fulmine_, quasi
a significare la sua approvazione al felice connubio, abbajò
rumorosamente destando l'eco della valle, e i due giovani si misero
anch'essi a gridare per celia: _Gilda! Mario!_ L'eco rimandava confusi
insieme i due nomi _Mario! Gilda!_
Lo scienziato non sapeva staccarsi dalla finestra. Egli seguiva con
l'occhio il moversi di quelle ombre, egli tendeva l'orecchio a quei
suoni. E indovinava l'amore. L'amore, che fino allora egli non aveva
nè provato in sè, nè compreso negli altri, adesso gli passava rasente
come un soffio infocato, gli turbava i sensi e lo spirito. Oh perchè
aveva egli tanti anni addietro accolto il grave legato di una sorella
con la quale non lo vincolava obbligo alcuno? E quando pure avesse
voluto conservare ed accrescere il piccolo patrimonio della nipote;
quando pure avesse voluto colmarla di benefizi, perchè tenerla sotto il
suo tetto? Per sentirsi dire un giorno: — la tua parte è finita. Tutto
l'affetto prodigato a questa creatura nel lungo periodo dell'infanzia e
dell'adolescenza val meno del primo sorriso d'un ignoto che la rapirà
alla sua casa? E a te che le hai fatto da padre, non resta altro che
mettere il tuo _visto_ sotto il passaporto che le servirà a varcar la
tua soglia per non ricalcarla forse mai più? Senonchè, altri pensieri
succedevano a questi nell'animo del professore. Egli non poteva a
meno di confessare che se la Gilda gli aveva costato dei sacrifizi,
egli ne aveva pure avuto un ricambio. Ella era stata docile, buona,
le sue grazie schiette ed ingenue, la sua intelligenza vivace, il
suo desiderio di apprendere avevano fruttato a lui soddisfazioni care
e ineffabili. Non aveva ella aperto nuovi orizzonti alla sua mente,
non aveva contribuito ad ingentilirgli il costume, a renderlo insomma
migliore di quello ch'egli era una volta? E ora, di che cosa poteva
incolparla? Di amare. Chi non ama nel mondo? Dacchè egli aveva spinto
lo sguardo oltre le sue formule e le sue storte, di chi poteva dire:
— Costui non ama, costui non ha mai amato? — Di sè... forse... No; la
Gilda non aveva nulla da rimproverarsi. Egli piuttosto, egli che ne
era il tutore, il secondo padre, aveva adempiuto alla parte sua? Che
aveva fatto mentre il sottile veleno dell'amore s'infiltrava nelle
vene della giovinetta? Egli non aveva nè provocato dal suo labbro una
confidenza, nè chiesto a Mario Albani una spiegazione; aveva assistito
con le braccia incrociate al crescere di una simpatia che forse non
era più che un capriccio pel giovine artista, ma che certo aveva messo
salde radici nell'anima della Gilda, e, delusa, le avrebbe turbata
tutta la vita. Oh improvvido e inetto! Ed egli andava orgoglioso della
sua scienza, egli che non aveva saputo fare ciò che sa ogni più umile
persona del volgo a cui siano affidate le sorti d'una fanciulla!
Lo prese un'inquietudine affannosa, e gridò: — Gilda! Gilda! È tardi...
— Eccoci, eccoci — rispose la Gilda. E _Fulmine_, abbaiando, precedette
all'albergo la coppia felice.
Quella sera Mario Albani si ritirò più presto del solito nella sua
camera. Il professore, fattosi animo, trattenne la Gilda, e con voce
che la commozione rendeva tremula: — Gilda — le disse — non mi nascondi
nulla?
Ella abbassò gli occhi e arrossì.
— Ti ricordi — continuò il professore Romualdo — dei discorsi tenuti
dal capitano Antonio l'ultima sera che egli passò con noi?... Guardami
in viso... Quel momento che il capitano presagiva vicino, è venuto?
Ella abbandonò la sua testina sulla spalla dello zio, e bisbigliò tra
un sorriso e una lagrima: — Mi pare di sì.
— La tua quiete è in pericolo, la mia fanciulla! — egli riprese,
carezzandole con mano nervosa i capelli. — Oh il malaugurato accidente
che c'imprigionò qui per tanti giorni!
— Sì, la cagione del nostro soggiorno fu invero molto spiacevole... Ma
la prigionia non è stata una gran disgrazia.
— Gilda, Gilda, tu scherzi col fuoco... Perchè il signor Mario affine
di passare il tempo ti fece il ritratto, perchè egli ti disse qualche
galanteria...
— Quanto a questo — ella interruppe con vezzo infantile — prima di
giudicare, aspetta un certo discorso che ti verrà fatto domattina...
— Dal signor Mario?
— Sicuro, da Mario, il quale si presenterà dal mio signor zio e tutore
a chiedergli... insomma a fargli un discorso serio...
— Ma, Gilda, questo giovine si può dire che tu lo conosci appena.
— Oh zio Aldo, lo conosco fin da ragazzo.
— Sì, come un ragazzo sventato... E vorrebbe farsi una famiglia?
— Proprio vorrebbe questo....
— Senza uno stato?
— Aspetteremo che l'abbia.
— E suo padre?
— Oh! Egli non vede che per gli occhi di Mario.
— E fu ben compensato della sua cieca affezione! Poveri padri!
— No, no. Nè poveri padri, nè poveri zii — ella ripigliò con grazia...
— Si vuol loro tanto bene... E poi noi conosciamo il fondo del loro
pensiero meglio che non lo conoscano essi medesimi... Dio! Dio! Come
leggo chiaro qui... qui, nel tuo cuore.
— Smetti, bimba — egli interruppe tra fastidito e turbato.
— Leggo in grandi caratteri — soggiunse ella senza badargli — queste
parole esplicite e solenni: _Desidero soltanto una cosa, che la Gilda
sia felice..._ Non è vero, che so legger bene?
Un amaro sorriso sfiorò il labbro del professore, ma egli si ricompose
subito. — Lasciami solo adesso, Gilda... te ne prego... ho bisogno di
rimanere solo.
E appoggiando uno dei gomiti al bracciale della poltrona, nascose il
volto nella palma della mano.
Ella accese lentamente la candela, s'avvicinò in punta di piedi allo
zio e gli diede un bacio in fronte. Poi sguisciò via.
— È inutile che tu faccia il cattivo, zio Aldo.... Non ti credo.
E la giovinetta rientrò nella sua camera, e sciolse il volo alle sue
gioconde fantasie d'innamorata.
Il professor Romualdo, appoggiato al suo bastone, si mise a passeggiar
per la stanza. Giunto davanti al cavalletto dove era il ritratto della
Gilda, egli sollevò il lino bianco che copriva quelle care sembianze, e
stette a lungo immobile a contemplarle. Era quella la Gilda che sarebbe
rimasta sempre con lui, che gli avrebbe sempre sorriso... L'altra... oh
l'altra egli l'aveva perduta!


XVII.

Prima dell'inverno, Mario e la Gilda erano fidanzati. Il giovine Albani
era venuto in persona a rinnovare la sua domanda, e il professor
Romualdo aveva finito coll'accordare, spontaneamente o no, il suo
consenso. In quanto al signor Gedeone, padre di Mario, egli accolse
con molto favore il pensiero di questo matrimonio, cosa che può parer
singolare in un uomo positivo come lui. Ma il signor Gedeone era da
qualche tempo sotto la cura d'un medico omeopatico, che gli aveva
insegnato le sue teorie. — _Similia cum similibus_ — diceva l'egregio
negoziante. — I savi si governano con le idee savie, i matti con le
idee matte. Chi sa che il matrimonio non faccia venir giudizio a mio
figlio! — Inoltre si trattava di una ragazza per bene, di una ragazza
che il signor Gedeone si era vista crescere sotto gli occhi e di cui
tutti lodavano le maniere e i costumi. Aggiungasi infine l'onore di
stringer parentela con un uomo sapiente come il professore Grolli.
Gl'ignoranti, e tale era il signor Gedeone, affettano disprezzo per la
scienza, ma nel fondo sentono solleticata la loro vanità dal poter dire
che hanno domestichezza con qualche dotto.
Anche dal lato dell'interesse l'affare era meno cattivo di quanto si
sarebbe creduto. Certo, se Mario fosse rimasto in negozio, s'egli
avesse voluto essere un continuatore della casa _Gedeone Albani_,
non gli sarebbe mancata l'offerta di qualche ragazza con centomila
lire e più; ma un artista in principio della sua carriera non poteva
aspirare a tanto, ed era già molto ch'egli trovasse una dote. La Gilda
aveva quasi trentacinque mila lire; il signor Gedeone aveva supposto
ch'ella non possedesse un centesimo. A lui, Gedeone Albani, negoziante
di granaglie e coloniali, toccava di far onore al suo nome, creando
al figliuolo una condizione indipendente e decorosa. E invero egli
non aveva altri che Mario al mondo; le sue operazioni commerciali
meno delicate, i suoi ingegnosi contrabbandi avevano sempre avuto uno
scopo che li giustificava, quello cioè di accrescere il patrimonio di
quest'unico figlio. Ora poi ch'egli doveva far delle spese maggiori per
conto di lui, il signor Gedeone s'era risolto di assumere la fornitura
di alcuni Istituti pii.
Le nozze vennero fissate per quando la Gilda compirebbe i diciotto
anni; Mario ne avrebbe allora ventitrè e qualche mese. Gli sposi si
stabilirebbero in Milano, o in Firenze, o in altra città dove vi fosse
una vita artistica. All'allestimento della casa provvederebbe il signor
Gedeone, il quale si obbligava inoltre a passare un congruo assegno
annuo a Mario.
Com'è naturale, in tutti questi accordi i due fidanzati non avevano
la menoma parte; i concerti erano presi tra il signor Gedeone e il
professor Grolli per iniziativa del primo e col sussidio di un uomo di
legge. _I patti chiari fanno i buoni amici_, diceva il signor Albani
_seniore_, e al professor Romualdo, che insisteva sulla superfluità di
metter penna in carta quando potevano intendersi a voce, egli replicava
sentenziosamente: _Verba volant._
Sopra un altro punto il signor Gedeone fu irremovibile; egli volle cioè
dare una grande solennità agli sponsali. La ditta Gedeone Albani non
aveva mai fatto taccagnerie e non voleva farne in questa occasione.
Si trattava nientemeno che della promessa di matrimonio del figlio di
quella rispettabile ditta, di colui al quale per un certo tempo il
signor Gedeone aveva sperato di legare i suoi affari di grani e di
coloniali e i segreti delle sue contravvenzioni a danno del fisco.
Speranze pur troppo fallite; ma non importa; il figlio era sempre
figlio, e il signor Gedeone doveva mostrarsi uguale a sè stesso.
Vi fu in casa Albani un invito numerosissimo; parenti del signor
Gedeone, parenti della sua defunta moglie, membri della Camera
di commercio; poi, in onore del Grolli, parecchi professori
dell'Università, e in onore della Gilda la madre e le ragazze Lorati,
le quali dicevano che la Gilda non poteva a meno di essere una gran
civetta se aveva trovato così presto marito, mentre esse invece
non ne venivano mai a capo. In complesso una società un po' mista,
mirabilmente concorde però nel far buon viso agli abbondanti rinfreschi
preparati dal signor Gedeone.
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