Il Professore Romualdo - 02

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raggio le punte delle antenne dei bastimenti, spiccavano i colori delle
allegre bandiere sventolanti da poppa, l'onda palpitante di voluttà
si colorava di sprazzi argentini; sgombre dal grigio vapore che le
avvolgeva si disegnavano con netti contorni le cupole delle chiese
e le guglie dei campanili, e le case, e le villette disseminate sui
colli, finchè i fasci luminosi invadevano anche le strade più anguste
portando dappertutto il movimento e la vita baldanzosa della giornata
che comincia.
Prima delle sette, il professore era già fuori dell'albergo e
passeggiava su e giù per la piazza Banchi aspettando che l'ufficio
dei signori Radice e Lupini si aprisse. Lo aspettava con impazienza, e
nondimeno, quando vide le imposte spalancate, e un signore dalla faccia
rubiconda (certo il signor Radice o il signor Lupini) dondolantesi
sulle punte dei piedi nel vano della porta, coi due pollici nelle
tasche del panciotto, col sigaro in bocca e col cappello in testa,
dovette fare altri tre o quattro giri prima di trovare il coraggio
necessario per presentarsi. Intanto alcuni individui, che al vestito
parevano gente di mare, vennero a scambiar poche parole col mediatore.
Poi si lasciarono con una stretta di mano, e il signor Radice, o
Lupini che fosse, gettò via il sigaro, aperse la bocca a un lungo
sbadiglio, stirò le braccia ed entrò nel suo banco. Il dottore
Romualdo, pensando che fra coloro i quali si allontanavano poteva
esservi anche il capitano Rodomiti e che con la sua esitanza egli aveva
forse perduto l'opportunità di veder subito il misterioso personaggio,
ruppe finalmente gli indugi, e affacciatosi all'uscio con la mano al
berretto: — Di grazia — chiese — c'è qui il capitano Antonio Rodomiti?
Il signor Radice (o Lupini), vista l'esotica figura del professore, ne
fu esilarato, e, da quell'uomo faceto ch'egli era, prima di rispondere,
guardò sotto alle sedie, sotto ai banchi e perfino dietro le imposte di
un piccolo armadio infisso nella parete; poi disse con una risatina; —
Non lo vedo.
Sconcertato un po' da questo strano accoglimento, il Grolli ripensò con
desiderio alla sua cattedra, al suo laboratorio chimico e alla graziosa
formola _x (sen y)/(sen α)_; tuttavia rinnovò la domanda con altre
parole: — Ma non viene qui il capitano Rodomiti?
— Sicuro che viene, ma adesso non c'è.
— E... scusi... a che ora posso...?
Il professor Grolli non aveva finito la frase quando il signor Radice
(o Lupini) scoppiò in una risata sonora. Gli è che l'ottimo sensale
di noleggi coglieva finalmente il frutto della sua facezia di pochi
minuti prima. Poichè sulla soglia dell'ufficio, dietro la personcina
esile e smilza del professore, era comparso un colosso alto quasi due
metri e grosso in proporzione, e questo colosso era precisamente il
capitano Rodomiti che il signor Radice (o Lupini) aveva fatto le viste
di cercare perfino negli scaffali d'un armadio.
— Con permesso — disse il capitano, il quale a cagione della sua mole
ciclopica non poteva entrare finchè il professore non gli cedesse il
posto.
Costui sentì a trenta centimetri sopra il suo capo la voce tonante
del nuovo arrivato, si voltò, guardò in su, e vide in mezzo a una
nuvola di fumo che usciva dal caminetto di una pipa, una bella testa
caratteristica con la carnagione abbronzita, la barba folta, gli occhi
azzurri e profondi e una cicatrice a sinistra della bocca.
— Con permesso — ripetè il capitano, e il dottor Romualdo si tirò da
parte più confuso che mai, mentre il signor Radice (o Lupini) rivoltosi
al colosso gli disse: — Capitano, quel signore domanda di voi.
Il capitano Rodomiti squadrò d'alto in basso il signore piccino, si
tolse la pipa di bocca, mandò fuori un buffo di fumo e chiese: — È lei
il professore Romualdo Grolli?
— Appunto, sono io — rispose il professore, alzando gli occhi in su
come se guardasse un campanile.
— Lietissimo di far la sua conoscenza... Se non Le dispiace, potremo
andare in luogo tranquillo... a pochi passi di qui... A rivederci
allora — continuò il capitano, salutando con la mano il sensale di
noleggi senza pronunziarne il nome, e lasciando così sospesa la grave
questione se il personaggio faceto fosse il signor Radice o il signor
Lupini. — Eccomi con lei — egli riprese quindi, abbassando lo sguardo
sul Grolli.
E i due uomini uscirono insieme sulla strada. Il professore, che durava
non poca fatica a misurare il suo passo su quello del capitano, gli
veniva a fianco senza parlare nella speranza che l'altro iniziasse
il discorso. Dal canto suo il Rodomiti avrebbe preferito di essere
interrogato; onde tacevano tutti e due, e tacendo si esaminavano a
vicenda. Una grande disparità fisica non suol generare a prima vista
una grande simpatia reciproca fra due individui. E fra il Rodomiti e il
Grolli la disparità non poteva esser maggiore. Il primo, come si disse
or ora, era veramente un bell'uomo, dalla fisonomia aperta e leale, ma
il dottor Romualdo lo considerava dal punto di vista onde gli uomini
troppo piccoli considerano gli uomini troppo grandi, e non poteva
guardare senza una certa diffidenza quella figura torreggiante, quelle
membra atletiche, il cui solo contatto pareva doverlo schiacciare.
Ed egli velava questa diffidenza con la unzione, con la timidezza che
sono proprie dei deboli quando si trovano al cospetto dei forti, e che
spiacevano singolarmente al capitano Antonio, già poco favorevole al
_topo di libreria_.
Il Rodomiti si determinò a romper pel primo il silenzio. E lo fece alla
marinaresca, senza preamboli. — Io vengo da Montevideo, signore.
Quest'annunzio fu una rivelazione pel Grolli. Egli alzò gli occhi verso
il suo interlocutore, poi li chinò a terra e un vivo rossore si stese
su quella parte del suo volto che non era nascosta dalla barba o dai
capelli.
— Da Montevideo — egli soggiunse, come facendo eco alle parole del
capitano.
E cento memorie della fanciullezza si affacciarono alla sua mente, e
un nome scancellato quasi dal suo cuore gli tornò sulle labbra. Pur
sul punto di pronunziarlo si arrestò, come se pronunziandolo violasse
un voto, fallisse a un dovere. E si contentò di fare una domanda
indiretta:
— È partito da un pezzo di là?
— Da due mesi e mezzo.
— E la cosa per la quale mi ha chiamato a Genova ha relazione con
questo suo viaggio?
— Senza dubbio — rispose il capitano, stanco di tutto questo armeggìo.
— Ho un incarico della signora Elena Natali.
L'incanto era rotto. Il nome che da anni e anni il professor Grolli non
sentiva più menzionare d'intorno a sè tornava a ferirgli l'orecchio,
e la persona che portava quel nome stava forse per aver di nuovo una
parte nella sua vita.
— Elena! — balbettò il professore, più commosso ch'egli non volesse
parere. — Non le sarà già accaduta sventura?
— Povera signora! Se ella ebbe colpe verso la sua famiglia, le ha certo
espiate.
— Sarebbe... morta?
— Quando partii da Montevideo, ella viveva, ma pur troppo era ridotta
agli estremi... Basta, ora vedrà una sua lettera.
In quella, il capitano, invitando il dottor Romualdo a seguirlo, infilò
un portone spalancato, salì un paio di scale, spinse una porticina
ch'era solamente rabbattuta ed entrò insieme al suo compagno in un
andito stretto e buio.
— Sei tu, Tonino? — disse una voce femminile. E in pari tempo una donna
di mezza età aperse un uscio laterale dando un po' di luce all'andito
tenebroso.
— Son io — rispose il capitano — È fatta la mia camera?
— Sì, Tonino... Bada al fuoco... Mi raccomando, con quella pipa.
Il capitano Antonio fece spallucce, e chiese: — La bimba?
— Dorme ancora... Devo svegliarla?... Poni il piede su quella
favilla... Abbi riguardo, Tonino.
— Lasciala dormire — replicò il capitano, senza curarsi delle strane
paure di sua sorella Teresa circa al fuoco. — Passi, passi.
Queste ultime parole erano rivolte al dottore Romualdo, che venne
introdotto in una camera modesta ma pulita, e fatto sedere davanti a un
tavolino.
Il Rodomiti offerse al suo ospite un sigaro che questi rifiutò, poi
tolse dal cassetto un grosso piego suggellato.
— Ebbi queste carte dalla signora Elena — egli soggiunse. — Si
compiaccia di leggerle. Io la lascio solo, ma tornerò di qui a
mezz'ora... Intanto son di là con mia sorella. Se le occorre qualche
cosa, tiri il campanello.
E uscì inchinandosi alquanto per non urtar col capo sull'architrave.
— Fumerà anche lui — brontolava la signora Teresa nell'andito — sicuro,
fumano tutti adesso, fumano perfino le donne.
E il capitano replicava infastidito: — Sempre questa fissazione del
fuoco.... Non fuma, non fuma.
Poi si fece silenzio, e il dottore Romualdo aperse con mano tremante il
piego misterioso che gli stava davanti. Insieme con altre carte ch'egli
si riserbò di esaminare più tardi, c'era una lunga lettera scritta di
mano femminile.


IV.

«Fratello mio, — diceva quell'epistola — sono quasi dodici anni dacchè,
figlia disobbediente e cattiva sorella, io lasciai il tetto domestico,
ove avrei dovuto confortare la vecchiezza del babbo ed essere per
te una seconda madre. Una passione infelice mi acciecò. Seguii oltre
l'Oceano l'uomo che mi aveva ammaliata, e dopo essere rimasta senza
risposta a due lettere scritte a nostro padre, non volli ritentare la
prova; considerai che tutta la mia famiglia avesse cessato di esistere
per me. Ero superba, Romualdo; mi pareva di esser trattata in modo
indegno, e il mio cuore s'indurì nel dispetto e nell'ostinazione. Per
altro, da un'amica mia io ricevevo di tratto in tratto nuove di casa,
e da lei seppi della morte di nostro padre. Piansi, mi strappai i
capelli, mi accusai di avere con la mia condotta abbreviato i giorni
di quegli a cui dovevo la vita, e scrissi a te, fratello mio, a te che
avevo cullato tante volte su' miei ginocchi, a te cui avevo insegnato
a balbettare le prime parole. Ma certo tu mi credevi una triste donna,
e la voce della tua sorella non ebbe un'eco nel tuo cuore. Aspettai
per mesi e mesi una tua lettera intenerendomi all'idea di riceverla,
sperando di poter iniziar teco attraverso l'Oceano uno scambio di
assidue corrispondenze. Io dicevo: egli mi racconterà i suoi studi, mi
racconterà i suoi primi successi; perchè io ti sapevo pieno d'ingegno,
e non dubitavo che saresti riuscito; mi racconterà i suoi primi amori,
e quando amerà anche lui, oh allora, ne son certa, mi perdonerà... Ma
la tua risposta non venne, e l'orgoglio mi vinse di nuovo, e mi chiusi
nel mio silenzio, che durò fino adesso. L'amica che mi teneva informata
delle cose della mia famiglia, o è morta anch'essa, o si stancò di
scrivermi. È proprio vero, sai, quel proverbio: _lontan dagli occhi,
lontan dal cuore_. Per anni ed anni non seppi nulla di te. A malgrado
che vi sia una continua emigrazione dall'Italia a queste contrade, dal
nostro paese non è mai capitato nessuno. Finalmente arrivò qui, or son
dieci mesi, certo Zirlo, della Spezia, che non ti conosceva di persona,
ma che ti aveva sentito nominare perchè un suo nipote aveva studiato in
codesta Università. Avevi dunque seguìto la tua vocazione, eri divenuto
professore. Lo dicevano sempre in casa, a vederti immerso nei libri,
alieno dai divertimenti, dai chiassi. Ma io volevo notizie più precise,
e ottenni che il signor Zirlo scrivesse al nipote a questo scopo,
raccomandandogli però (vedi come il mio orgoglio fa sempre capolino)
di non farti saper nulla dell'incarico ch'egli aveva avuto. Il giovane
rispose diffusamente, parlando della stima di cui godi, della certezza
che hai di succedere in un termine non troppo lungo al professore
titolare, dalle tue abitudini ritiratissime, della gravità del tuo
carattere. Benedetto ragazzo! Sempre misantropo, fin da fanciullo!
Dal giorno in cui ebbi queste informazioni fui più tranquilla. Non ti
scrissi però; mi bastava saperti vivo, sano, onorato. Pensavo bensì che
ti avrei scritto se si avverava un mio presentimento.
«Questo mio presentimento sta per avverarsi. Io avrò presto fornito
il mio cammino nel mondo, o fratello, e oggi stesso il medico, ch'io
supplicai di dirmi la verità, mi confessò che non ho più che otto
o dieci giorni da vivere. Grazie al cielo, la mia energia non mi
abbandona nemmeno in quest'ultima prova. Bensì mi abbandona il mio
orgoglio, e ti mando un tenero addio e ti chiedo perdono di esserti
stata una cattiva sorella come fui una cattiva figlia ai nostri
genitori, e ti prego di cosa che confido non mi sarà negata da te.
«Ascoltami. Non t'intratterrò sulle vicende di quest'ultimi anni. Ho
profuso tesori d'affetto su chi forse non n'era degno, ma che importa
quando si ama? Saprai a ogni modo ch'_egli_ mi aveva sposata pochi
mesi dopo il nostro arrivo qui, nel momento in cui ci nacque il primo
figliuolo. No, egli non era senza cuore; egli non voleva, dopo aver
disonorata una donna, abbandonarla; ma le avversità esacerbarono il
suo carattere naturalmente sospettoso, iracondo, e resero ben dura,
ben difficile la vita al suo fianco. Peggio poi quando vennero a
travagliarlo le sofferenze fisiche, e il suo corpo che pareva di
granito andò via via dissolvendosi come la cera al fuoco. Rimasi
vedova, povera, senz'appoggi, con tre bambini a cui provvedere. Non
mi perdetti d'animo, lottai contro tutti gli ostacoli, non isdegnai
nessuna onesta fatica, apersi un piccolo albergo ch'ebbe prospere
sorti, e riuscii, io donna debole e già cagionevole di salute, a
ricondurre un po' d'agiatezza nella mia casa. Ma la sventura aveva
preso a perseguitarmi. La febbre gialla mi portò via due de' miei
figli; non mi rimase che la mia Gilda, la mia ultima nata. Lo vedi,
ha il nome di nostra madre. E intanto il male che mi rodeva da gran
tempo le viscere fece progressi rapidi, spaventevoli; invecchiai
in pochi mesi più che non avessi invecchiato in dieci anni. Vedendo
nello specchio le mie guance smunte, il mio colorito terreo, i miei
occhi appannati, io non mi feci illusioni sul mio stato; pur lavorai
ugualmente, finchè potei reggermi in piedi. Da un mese non esco dalla
mia camera, da due settimane non lascio il letto. Oggi, te lo dissi
già, so che vivrò ancora pochi giorni. Oh non è triste morire, ma
è triste non poter più rivedere i cari volti delle persone amate, è
triste non poter risalutare una volta la patria. E, per una madre,
è triste sovra ogni altra cosa il dover lasciare una bimba di non
ancora quattr'anni, senza sapere chi veglierà sulla sua infanzia, chi
formerà il suo cuore e la sua mente. Qui ci sono molti italiani, e
non sarebbe impossibile di trovar fra essi qualche anima generosa, ma
siamo in paesi ove gli uomini vengono e passano; dall'oggi al domani la
fortuna può balzarli in qualche fattoria lontana centinaia e centinaia
di miglia, sul margine d'una foresta vergine, a poche ore dagli
accampamenti di popolazioni selvagge che anelano di vendicarsi di ciò
che noi europei facciamo loro soffrire. Poi la sete del guadagno sciupa
i migliori caratteri; non si parla d'altro, non si pensa ad altro.
Sì, forse nelle tiepide sere, sotto l'imponente padiglione azzurro di
questo cielo, stanchi dalle fatiche del giorno, si pensa talvolta al
luogo che ci ha visti nascere, all'orizzonte che i nostri occhi hanno
contemplato schiudendosi alla luce, alle voci che ci sono prime suonate
all'orecchio. E queste memorie tristi e soavi sono ancora la maggior
ricchezza morale che ci rimanga. Ma chi è nato qui di genitori europei
è un esule che non può ricordarsi la patria. Poichè qui si è esuli
sempre, anche quando ci si nasce... E tale sarebbe la condizione della
mia Gilda, se ella restasse in America... O Romualdo, questo pensiero
è più acerbo di tutti i miei dolori fisici! Aggiungi poi che il poco
denaro ch'io posso lasciare a mia figlia, sufficiente per mantenerla
alcuni anni in Europa, sarebbe qui esaurito in brevissimo tempo.
«Presi un partito decisivo, confortatavi anche dal consiglio e dalle
offerte di un amico onesto e leale, il capitano Antonio Rodomiti, il
quale, dacchè io mi trovo a Montevideo, fu qui più volte col suo legno,
e nel suo penultimo viaggio tenne a battesimo la Gilda. Vistami ora in
tante angustie e già spacciata dai medici, egli ebbe compassione di me.
Ecco ciò che risolsi. Rimandare in Europa la fanciulla, approfittando
della partenza per Genova del suo padrino, il quale se ne incarica
come d'una sua creatura e non vuole un centesimo di compenso, vendere
tutto il poco che ho e formare un peculio che accompagni la mia Gilda
e le permetta di non essere a carico di nessuno durante il tempo della
sua educazione; finalmente nominar te, fratello mio, tutore di questa
orfanella, e raccomandartela, e scongiurarti, quando tu non possa
(nè io certo lo pretendo) tenerla in casa tua, di metterla a pensione
presso gente fidata, e di invigilare sopra di lei sino al giorno in cui
ella sarà in grado di provvedere a sè stessa. No, tu non mi negherai
questa grazia. La mia Gilda non deve turbare la quiete dei tuoi studi,
ella non deve essere per te un peso o un ostacolo se tu hai già una
famiglia, o se stai per averla. Ma io morrò più tranquilla pensando
che uno di casa mia la sovverrà di consiglio ov'ella ne abbia bisogno,
accorrerà al suo letto ov'ella sia malata... e le parlerà qualche volta
di nostra madre. Oh sì, di me non importa che tu le parli, Romualdo; io
non le lascio esempi da imitare, ma conviene ch'ella onori la memoria
di nostra madre, di quell'angiolo che ci abbandonò mentre tu eri
fanciullo ed io entravo appena nell'adolescenza, di quell'angelo, che,
se fosse vissuto, mi avrebbe forse guarita delle mie pazzie...
«In questa lettera troverai alcuni documenti che potrebbero esserti
necessari: il mio atto di matrimonio, l'atto di morte di mio marito, la
fede di nascita della Gilda.
«Il capitano Rodomiti ha tutta la somma ch'io ricavai dalla vendita di
ciò che possedevo. Egli ne sa la cifra precisa, ed ha l'incarico di
convertirla in moneta italiana e di consegnartela. Credo si tratterà
di una decina di mila lire. Puoi fidarti ciecamente del capitano. Per
me ho serbato solo quel tanto che può bastare pei pochi giorni che mi
restano da vivere. Lo stesso Rodomiti portò seco anche una cassa con
alcuni vestiti per la Gilda e quanta più biancheria ho potuto radunare.
Ti mando infine un medaglione d'oro, che la mamma, morendo, mi pose al
collo e che non mi ha mai abbandonata. È inutile ch'io lo porti meco
sotterra. Tienlo per memoria della tua sorella? Te ne ricordi della tua
sorella? Di quando amavi arrampicarti sulle mie spalle, e gettandomi
le braccia intorno al collo, insistevi perchè ti portassi in giro per
le stanze? O di quando, più tardi, già in via di diventare un dottore,
sebbene così piccino, mi sgridavi perchè con le mie chiacchiere
disturbavo le tue lezioni?... Chi l'avrebbe detto allora che, poco
tempo dopo, l'Oceano ci avrebbe divisi per sempre?... Capricci dei
destino!... Ah se potessi, prima di chiudere gli occhi, vederti in
mezzo ai tuoi scolari!... Ma è inutile far castelli in aria.
«Lascerò l'ordine che ti mandino una copia del mio atto di morte.
Voglio che tu abbia tutte le carte in regola, che nessuno possa
sollevare dubbi sulle tue facoltà di tutore.
«Basta ormai, fratello mio, sono stanca, e le poche forze che mi
rimangono ho bisogno di serbarle pel momento terribile del mio distacco
dalla Gilda. Pochi giorni prima o pochi giorni dopo, tanto e tanto io
debbo presto lasciarla, e per lei è certo meglio separarsi dalla sua
mamma oggi, che assistere a una dolorosa agonia; ma non si ragiona
sempre, e allorchè saremo all'ultimo bacio, ho paura che il cuore mi
scoppi. Povera Gilda! La vedrai. È bella come un angioletto; è un po'
viva, ma giudiziosa, buona, e mi vuol tanto bene. Oh ne vorrà anche a
te, ne sono sicura... Le dissi che deve andar via per qualche giorno
col capitano Rodomiti, e quantunque ella adesso strepiti e pianga,
spero che finirà col rassegnarsi perchè il capitano ha saputo trovar la
strada del suo cuoricino. E poi ella si affeziona ben presto a quelli
che sono gentili con lei.
«Addio, Romualdo. Sono in procinto di comparire davanti al Signore, e
ho fede ch'egli mi perdonerà le mie colpe perchè ho molto sofferto.
E tu pure mostra di perdonarmi accogliendo il tesoro che ti affido.
Quando questo foglio giungerà nelle tue mani, io non sarò più tra i
vivi, ma chi sa, forse in quell'istante la tua sorella ti sarà più
vicina che non ti sia mai stata da undici anni a questa parte, forse,
passandoti accanto, spirito leggero e fuggitivo, ella deporrà un bacio
sulla tua fronte. Ancora una volta addio, Romualdo.
«_La tua_ ELENA.»


V.

Il dottore lesse questa lettera tutta d'un fiato. Quando l'ebbe
finita, egli si trovò in una condizione d'animo nuova per lui. Avvezzo
a disciplinare i suoi sentimenti sotto l'impero della ragione, egli
s'accorse che oggi essi si ribellavano al solito freno. Egli aveva un
bel dirsi, che i legami di parentela, per intimi che siano, valgono
ben poco senza i legami dell'anima creati dalla convivenza, dagli
affetti, dai gusti comuni, aveva un bel dirsi che questa donna, di
cui egli appena rammentava la fisonomia e con la quale per undici
lunghi anni non s'era scambiato una riga, era per esso meno assai
dell'ultimo fra i suoi studenti. Aveva un bel dirsi che, dimenticando
i suoi doveri, Elena aveva perduto i suoi diritti e ch'ella non poteva
turbare la vita raccolta e studiosa di lui gettandogli sulle spalle
un cumulo di pensieri e d'inquietudini... Nonostante tutte queste
savie considerazioni, egli si sentiva commosso come non era stato da
un pezzo, si sentiva men fermo nel convincimento in cui era cresciuto
circa ai torti di sua sorella, e per la prima volta nella sua vita
dubitava di quella virtù arcigna che consiste nel soffocar le passioni
e che nulla perdona agli altri perchè nulla comprende. Certo l'idea
della povera Elena era stata ben singolare. Senza nemmeno sapere quali
fossero le abitudini di suo fratello, senz'avere alcun dato preciso
sul suo carattere, ella affidava a lui, morendo, la sua figliuola.
E spediva questa bambina oltre all'Oceano, esponendola ai rischi e
ai disagi di un lungo viaggio di mare, non preoccupandosi di ciò che
sarebbe avvenuto s'egli non avesse accettato l'ufficio onde a lei
piaceva di incaricarlo... Eppure, nella dolorosa situazione in cui ella
si trovava, che altro avrebbe potuto fare? A chi altri rivolgersi? Non
era egli il suo più stretto congiunto?
Il professore Romualdo girava su e giù per la stanza, ora con le mani
intrecciate dietro la schiena, ora gestendo, animatamente e cacciandosi
su pel naso qualche presa abbondante di tabacco. Positivista come gran
parte degli scienziati, egli non credeva ai viaggi fantastici d'oltre
tomba; tuttavia le ultime parole della lettera gli ronzavano agli
orecchi: _Forse in quell'istante tua sorella ti sarà più vicina che non
ti sia stata da undici anni a questa parte, forse passandoti accanto,
spirito leggero e fuggitivo, ella deporrà un bacio sulla tua fronte._
— È permesso? — chiese dal di fuori una voce piena e sonora, ch'era
impossibile prendere in isbaglio.
Il Grolli trasalì. — Chi è?
— Sono io, sono il capitano Rodomiti.
E la poderosa persona del marinaio si affacciò alla soglia. Egli aveva
sempre la sua pipa in bocca e la sua testa era circonfusa da una nuvola
di fumo.
— Se desidera ancora rimaner solo... se non ha letto tutte le carte che
le ho lasciate — continuò il capitano, mostrandosi pronto a ritirarsi
di nuovo.
— No, no — disse il Grolli, e, vincendo la sua innata timidezza, fece
qualche passo verso il suo interlocutore; quindi soggiunse senz'alzare
gli occhi: — Ho letto, e innanzi tutto mi lasci dirle che Lei è un cuor
generoso.
— Basta — interruppe il colosso — non perdiamoci in complimenti. Noi
uomini di mare, quando facciamo una cosa, crediamo di far ciò che
c'impone il nostro dovere. La prego invece di accostarsi di nuovo al
tavolino... Qui... s'accomodi.
Così dicendo, depose la pipa in un angolo della stanza e si tolse di
tasca un piccolo astuccio.
La signora Teresa sospinse adagino l'uscio e cacciò la testa per lo
spiraglio.
— Che c'è? — gridò il capitano.
— Niente... mi pareva di sentire odor di bruciato.
Il capitano Rodomiti non potè a meno di lasciarsi sfuggire una vivace
esclamazione marinaresca che pose in fuga la signora Teresa; poi chiuse
l'uscio per di dentro e tornò dal professore Romualdo.
— Questo — egli ripigliò, consegnandogli l'astuccio — è il medaglione
che la signora Elena m'incaricò di portarle.
Vi fu un momento di silenzio. Il dottor Grolli aveva aperto l'astuccio
e stava contemplando quel gingillo che aveva attraversato due volte
l'Oceano e che gli ricordava sua madre.
— Ed ora — proseguì di lì a poco il capitano — non Le spiaccia
esaminare questa nota. È scritta tutta di pugno della signora Natali,
e contiene l'elenco delle monete da lei versate nelle mie mani il
giorno della mia partenza. In tutto 2100 piastre d'argento, che io
convertii qui in franchi 10,674 56, com'Ella vedrà su questo polizzino
del cambiavalute. La somma è presso i signori Radice e Lupini, ove
andremo a ritirarla più tardi. Lei è il tutore naturale e legittimo di
sua nipote; dunque il danaro va pagato a Lei, ed Ella lo impiegherà
nel modo che reputerà più sicuro e proficuo per la sua pupilla... Io
non debbo e non voglio ingerirmene... Ma adesso, due parole schiette
e leali fra noi... A giorni io parto per un lunghissimo viaggio...
Vorrei lasciar Genova con la coscienza tranquilla circa all'avvenire
della bambina... Anche noi lupi di mare siamo atti ad affezionarci a
qualcheduno, e io ho preso a voler bene a questa figlioccia. Accampar
diritti non posso: non ne ho; avevo degli obblighi e sto per esserne
liberato... Ma con la franchezza del galantuomo che parla ad un altro
galantuomo Le dico: l'ufficio che la signora Natali le assegna è grave,
assai grave... Colto alla sprovveduta come fu, Ella non può averne
ancora misurata tutta l'importanza... Se non si sentisse in grado
d'incaricarsi della piccina, vedremmo insieme che cosa si potrà fare...
Povera Gilda!... Ci pensi, ci pensi, signor professore.
Il capitano era visibilmente commosso; egli si chinò a raccogliere la
sua pipa, l'accese e risollevò intorno a sè una nuvola di fumo.
— Capitano — esclamò il professore, che aveva ripreso i suoi giri per
la stanza e che mal dissimulava la sua inquietudine, — prima di tutto,
siamo ben sicuri che mia sorella sia morta?
— Non c'è dubbio, signore. Ella era già all'ultimo stadio della
consunzione... Questione di giorni, di ore forse... Il corpo era
sfatto, signor professore, ma l'anima era sempre d'acciaio... Ho
visto pochi uomini andare incontro alla morte come ci andava lei... Ha
sorriso persino nel separarsi dalla Gilda.
Il dottor Grolli abbassò il capo e stette muto alcuni secondi; poi
disse: — Con la franchezza con cui mi ha interrogato, voglia pure
rispondermi... Mia sorella manifestò mai il pensiero ch'io potessi
sottrarmi al delicato incarico ch'ella mi affidava con la sua lettera?
— No — rispose il Rodomiti, dopo aver riflettuto un istante. — Una sola
volta, io medesimo, lo confesso, le feci intravedere la possibilità
d'un suo rifiuto. Ella, che giaceva supina sul suo letto, si alzò
faticosamente a sedere, e mi guardò sbigottita, ma la sua fisonomia non
tardò a riprendere la sua espressione naturale. Mi tese la mano scarna,
con queste parole che non dimenticherò mai: — In ogni caso, capitano,
io mi fido di voi... la mia Gilda non sarà gettata sulla strada. — Può
fidarsene, signora Natali — io risposi. — Lo sapevo — ella bisbigliò
con un sorriso. E tutta racconsolata lasciò ricadere il capo sul
guanciale.
— Ebbene, capitano Rodomiti — proruppe il dottore, animandosi a un
tratto — prima che su ogni altro, mia sorella aveva fatto assegnamento
su me. Io non permetterò ch'ella vi abbia fatto assegnamento invano.
Il capitano si levò la pipa di bocca e la tenne fra le dita sospesa
all'altezza della spalla, poi fissò i suoi occhi in quelli del
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