Il Professore Romualdo - 01

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ENRICO CASTELNUOVO

IL
PROFESSORE ROMUALDO
6º Migliaio.

ROMA
CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C.
1884.


PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. della Camera dei Deputati — Stab. del Fibreno.


I.

Il dottor Romualdo Grolli, assistente alla cattedra di matematica in
una Università del regno, e dilettante di chimica nel suo privato
laboratorio, sedeva una mattina del maggio 1861 davanti alla sua
scrivania, intento a copiare una Memoria da leggersi nell'Accademia
scientifica e letteraria della città. Il tema, enunciato in un breve
preambolo, era il seguente: _Determinare il volume della porzione di
cono circolare retto che resta compreso tra un segmento circolare, un
segmento iperbolico avente comune col circolare la corda e la parte
del manto conico che la chiude._ Svolgendo il simpatico argomento, il
dottor Romualdo era giunto a questo punto interessantissimo del suo
lavoro:
_dal triangolo A H G avremo H G = x (sen y)/(sen α)_
e si compiaceva assai dell'evidenza di questa dimostrazione, quando
intese bussar leggermente all'uscio.
— Chi è? — egli gridò infastidito, tenendo sospesa in aria la penna.
— La posta — rispose una voce femminile alquanto fessa; e in pari
tempo la signora Salsiccini, vedova di un impiegato alle ipoteche e
padrona di casa del professore, entrò nella stanza e consegnò al suo
pigionale una lettera appena giunta. Il dottore prese quella lettera
distrattamente fra le dita e la posò sul tavolino, poi scrisse in
continuazione della sua Memoria: _Ne viene che l'area del segmento
parabolico che si projetta in G H sarà 2/3 2 y x (sen y)/(sen α)._
Posto qui un punto fermo, egli si degnò di slanciare uno sguardo
sull'epistola recatagli dalla sua padrona.
Intanto la signora Dorotea Salsiccini, che era una donnetta matura,
corta, asciutta e linda della persona, era uscita senza far rumore,
dopo aver abbassato le tendine di una finestra e aver spolverato la
spalliera di una seggiola col rovescio del grembiale.
— Chi può scrivermi da Genova? — disse il professore (lo chiameremo
spesso con questo titolo) quand'ebbe esaminato per dritto e per
rovescio la sopraccarta. È inutile soggiungere che egli non manteneva
una corrispondenza molto attiva. Ma la meraviglia e il turbamento
dell'egregio uomo furono assai maggiori allorchè gli fu noto il
contenuto del foglio. Eccolo:
«Genova, 12 maggio 1861.
_«Stimatissimo Signore_,
«Quantunque io non abbia l'onore di conoscerla, nè di essere da Lei
conosciuto, La prego di voler recarsi immediatamente a Genova per
ragioni di estrema importanza. Sarei venuto io stesso costì se mi fosse
stato possibile di assentarmi per un paio di giorni, ma mi è forza
attendere allo scarico del mio bastimento. D'altra parte, non credo
opportuno di affidare alla posta le comunicazioni che debbo farle e
le cose che debbo consegnarle. Io mi tratterrò in Genova per tutta la
settimana; poi salperò per le Indie. A sua maggior guarentigia faccio
autenticare la mia firma da questo Capitanato del porto.
«Appena giunto a Genova voglia cercar di me presso i signori Radice e
Lupini, sensali di noleggio in piazza Banchi.
«Le ripeto che la faccenda per la quale Le dirigo questa lettera è tale
da interessarla grandemente e da non poter essere confidata a terze
persone.
«Mi creda
«_Suo obbl._
«ANTONIO RODOMITI
«_Capitano di lungo corso,
comandante la nave italiana
a tre alberi_, Lisa.»
Seguiva l'autenticazione indicata.
Il dottor Romualdo rimase di sasso. Chi era il capitano Rodomiti?
Che poteva voler da lui? Un pensiero gli balenò alla mente, ma non vi
si fermò più che tanto. Nondimeno tornò ad esaminare la lettera per
vedere se vi fosse una parola che accennasse al luogo donde veniva
la _Lisa_; ma non c'era nulla. Il capitano aveva stimato superfluo il
dirlo o lo aveva taciuto ad arte. Telegrafare o scrivere per domandare
schiarimenti era inutile. Su questo punto non c'era oscurità. Il signor
Rodomiti diceva schietto che non avrebbe fatto le comunicazioni,
nè consegnato le cose affidategli se non personalmente al professor
Grolli. C'era un altro partito. Non darsi nemmeno per inteso del foglio
ricevuto e continuare a svolgere l'elegante formula _x (sen y)/(sen
α)_.
No, no, quest'era impossibile. Il professor Grolli, quantunque avesse
testa di matematico e abitudini di misantropo, non era poi un pezzo
di marmo; egli sentiva che il capitano non gli aveva scritto senza una
grave ragione, e che non era lecito di considerare la sua lettera come
il capriccio del primo venuto. Che fare adunque? Prender la ferrovia,
e quanto più presto tanto meglio. Il professore aperse un orario
ch'egli aveva sul suo tavolino, e vide che a voler partire in giornata
per Genova non ci era tempo da perdere. Pose sospirando un calcafogli
sopra il manoscritto, buttò giù in fretta due righe pel rettore
dell'Università, diede a traverso lo spiraglio dell'uscio un'occhiata
al suo piccolo laboratorio per vedere se i fornelli erano spenti, poi
aperse un tiretto del suo cassettone, ne tolse una camicia da notte che
collocò in una sacchetta da viaggio, infilò un soprabito color pepe e
sale, calcò sulla testa un berretto di panno nero con visiera di cuoio,
prese sotto il braccio l'ombrello, e in questo elegantissimo arnese si
presentò all'attonita signora Dorotea.
— Parte, professore? — disse la buona donna, ch'era occupata a lavorar
di calze.
— Sì... Faccia il piacere di mandare qualcheduno all'Università con
questo biglietto.
— E... tornerà presto?
— Domani, posdomani, di qui a due o tre giorni, non lo so di preciso.
— E... scusi — continuò la signora Salsiccini sempre più impensierita
— ha preso con sè l'occorrente, calze, polsini, colletti?
— Sì, sì, ho preso tutto... basta.
A vero dire, il professore non aveva preso altro che una camicia da
notte, ma rispose di sì per levarsi d'impiccio. Del resto, egli non
aveva mai brillato per una cura eccessiva della persona.
— Un momento — soggiunse la signora Dorotea, vedendo che egli si
avviava verso l'uscio. Si alzò dalla sedia, e staccata da un chiodo una
spazzola, se ne servì per ripulirgli il soprabito. — Via, stia cheto un
minuto... Come vuol andar così?... Non c'è altri al mondo per sciupar
la roba in questa maniera...
Mentre la padrona di casa si affaccendava intorno al recalcitrante
scienziato, i due gatti _Mao_ e _Meo_, inseparabili compagni di
lei, che dormivano rinvolti a spira ai due angoli di un canapè,
si rizzarono sulle quattro zampe, arcuarono la schiena a foggia di
cammelli, apersero la bocca ad un lungo sbadiglio, poi scesero dalla
loro posizione eminente e vennero a fregarsi intorno al vestito della
signora Dorotea.
Questo atto amorevole dei due quadrupedi fece perdere al professore la
poca pazienza che gli era rimasta.
— Sempre le bestie fra i piedi — egli disse con un grugnito, e,
svincolatosi dalla signora Salsiccini, lasciò la stanza e scese in
fretta le scale.
La signora Dorotea, rimasta sola, guardò prima _Mao_ e poi _Meo_, e
dopo aver lisciato il pelo ad entrambi: — C'è del torbido — brontolò
— c'è del torbido. — _Mao_ e _Meo_non seppero contraddire alle sue
previsioni e ripigliarono in silenzio il loro posto sul canapè.
Gli avvenimenti non tardarono a provare che la signora Dorotea si
apponeva al vero.
Erano scorsi due giorni dalla partenza del dottor Grolli, e l'ottima
signora, discesa al pianterreno nel camerino della portinaja,
comunicava a costei le sue inquietudini circa al proprio pigionale.
Ella aveva finito appena di tessere l'elogio del dottor Romualdo, il
quale, astraendo dalla sua misantropia, era un modello di puntualità
e di discretezza, quando un fattorino del telegrafo si presentò sulla
soglia e chiese — In che piano abita la signora Dorotea Salsiccini?
La signora Dorotea, a sentir così inaspettatamente pronunciato il suo
nome, divenne prima bianca e poi rossa, ed ebbe appena la forza di
balbettare: — Sono io... ma...
— C'è un dispaccio per Lei. Favorisca farmi la ricevuta.
— Un dispaccio!... Ma io...
— Dorotea Salsiccini, casa Negrelli, è Lei, o non è Lei?
— Ih! un po' di pazienza — disse la portinaja, accorrendo in aiuto
della pacifica pigionale del quarto piano. — Dacchè s'è fatta quella
maledetta invenzione delle lettere che corrono lungo i fili di ferro,
non c'è più pace per nessuno a questo mondo... e pei portinai meno che
per gli altri... Di giorno, di notte, _drlin_, _drlin_, chi è?... Il
telegrafo...
— Insomma, non ho tempo da perdere — interruppe il fattorino. — Se non
vogliono il dispaccio, lo riporto in ufficio e me ne lavo le mani.
La signora Dorotea consultò con lo sguardo la signora Gertrude, e,
incoraggiata da questa, prese il piego misterioso e consentì a fare
col lapis, a piedi della ricevuta, uno sgorbio che doveva essere la sua
firma.
Il fattorino corse via rapido come una saetta, e la signora Salsiccini
col dispaccio chiuso in mano si abbandonò sopra una sedia, e pregò la
portinaja di darle subito un bicchier d'acqua.
— Cara signora Gertrude... mi perdoni... ma non so proprio quello
ch'io m'abbia... Sarà una sciocchezza, ma mi fa un certo senso... Io di
questa roba non ne ho mai ricevuta.
— Si faccia animo, non sarà nulla...
— Domando io chi può telegrafare a me!... A me, che non m'impiccio
degli affari degli altri, a me che non faccio male a nessuno?
E intanto la signora Dorotea girava e rigirava il dispaccio nelle mani
senza osare di aprirlo.
La portinaja ebbe un'idea giudiziosa. — Se lo aprisse, vedrebbe...
— Dopo, quando sarò risalita... Non ho meco nemmeno gli occhiali...
— Per questo, cara signora Dorotea, non si confonda... Forse potrà
accomodarsi coi miei... In ogni modo, se crede... io m'ingegno a
leggere... e potrei... Dico così... non certo per curiosità... ma, in
questi momenti... è forse meglio che ci sia una amica... Di me si fida,
non è vero?
— Le pare?
— Sa ch'io non sono donna da far chiacchiere...
Quest'affermazione non era esattissima; tuttavia la signora Dorotea
consentì di buon grado a lasciar aprire il dispaccio alla portinaja.
Costei ruppe audacemente la sopraccarta, e guardando la firma lesse:
_Grolli._
— Il professore!
— Sicuro...
— Che gli sia accaduta una disgrazia?
— Or ora vedremo — continuò la signora Gertrude, e con qualche
difficoltà decifrò l'intero tenore del telegramma:
«Dorotea Salsiccini, casa Negrelli. — Arrivo stasera corsa otto e
mezzo. Pregola preparare minestrina in brodo e letto nel camerino
attiguo alla mia stanza per bimba di quattro anni.»
— Bimba di quattro anni! — sclamò esterrefatta la signora Dorotea —
Dice bimba?
— Già... bimba.
— Ah, signora Gertrude... io ritengo prossimo il finimondo...
Esposta questa opinione radicale, la signora Salsiccini volle esaminare
il dispaccio coi propri occhi aiutati dagli occhiali della portinaja.
Non c'era dubbio. Il professore arrivava con una fanciulla! Egli che
aveva un sacro orrore delle donne e dei bambini! E chi era costei? E
per quanto tempo veniva in casa?
— Il professore ha fratelli, sorelle? — domandò la signora Gertrude.
— Ma no, ma no... nessuno... ch'io sappia... In tanti anni dacchè è
qui, non ho visto nelle sue camere che qualche studente... E poi... è
vero che parla poco, ma pure, diamine, se avesse parenti stretti, una
volta o l'altra li avrebbe nominati... Creda, signora Gertrude, sarebbe
da dar la testa nei muri....
Se un così disperato proposito fosse stato espresso sul serio, il
sospetto che la signora Gertrude era sul punto di manifestare non
avrebbe potuto a meno di affrettarne l'adempimento.
— E se fosse una figlia tenuta finora nascosta?
La signora Dorotea scattò come una molla. — Sua figlia! Figlia del
professore! Di un uomo che in fatto di femmine è un San Luigi...!
Signora Gertrude, che cosa dice?
— Eh, cara signora Salsiccini — replicò la portinaja battendole sulla
spalla — _fidarsi è bene e non fidarsi è meglio_. In tempi nei quali in
una sola estrazione del lotto si levano quattro numeri in fila, 66, 67,
68, 69, non c'è da stupirsi di nulla.
— Questo è vero — osservò la signora Dorotea, colpita da una così
profonda riflessione. Però ella non poteva acconciarsi all'ipotesi
della sua interlocutrice e riprese: — No, no... è impossibile...
Quando? Come? Con chi?
La portinaja aveva in serbo un'altra considerazione non meno profonda
della prima. — Signora Dorotea, non si può credere come presto facciano
gli uomini ad avere una figlia.
Era evidente che la fede della signora Salsiccini era scossa. La
signora Gertrude ne approfittò per continuare. — Non c'è timor di
Dio, e anche il professore con le sue storte e i suoi fornelli è più
del diavolo che di Cristo... Questa è la causa di tutto, cara signora
Dorotea, non c'è religione... _Libera nos, Domine, a morte aeterna_ —
ella concluse, facendosi il segno della croce.
— _Amen!_ — disse la signora Dorotea. Poi soggiunse: — Figlia o no, col
signor professore ce la intenderemo... Io ho appigionato le stanze a
lui, e non voglio marmocchi... Ci mancherebbe altro.
— Troppo giusto — assentì la portinaja.
— Dunque la cosa resta fra noi — ripetè la signora Dorotea, quando, un
po' rinfrancata, s'indusse a risalire le scale.
— S'immagini... Io non parlo sicuro.
Se la signora Gertrude parlasse, non si sa; fatto si è che la notizia
della fanciulla d'ignota provenienza, la quale doveva arrivare la sera
stessa col professor Grolli, si diffuse prestissimo fra gli inquilini
della casa.


II.

Quantunque non siasi finora accennato nemmeno di lontano all'età del
dottor Romualdo, scommetterei che il lettore rimarrà di sasso sentendo
che il nostro matematico e chimico non aveva, nel momento in cui
comincia questa storia, che ventitrè anni. Eppure era tanto vero che
egli aveva solo ventitrè anni, quanto era vero che ne mostrava poco
meno di quaranta. Nulla di giovanile nel suo aspetto. Rughe precoci
solcavano la sua fronte alta e spaziosa; l'incolta capigliatura e
l'ispida barba erano già punteggiate di bianco; agli occhi profondi,
ch'erano forse l'unica sua bellezza, mancava la fiamma; a ogni modo,
essi erano quasi sempre mezzo nascosti dagli occhiali. Sorrideva di
rado; di statura appena mezzana, camminava un po' curvo con le mani
intrecciate dietro la schiena sotto le falde del soprabito; vestiva
negletto, schivava la società e divideva la giornata fra la scuola, i
suoi libri di matematica e il suo laboratorio chimico. Nessuno l'aveva
mai visto a un teatro, a un pubblico ritrovo, a fianco d'una signora.
Tenersi lontano dalle donne era norma immutabile della sua condotta;
nè in ciò metteva affettazione, nè ostentava la sua ripugnanza come
sogliono quelli che furono vittime di qualche gran disinganno. Se era
proprio costretto a parlarne, diceva che, a parer suo, la donna era
un imbarazzo nella vita dello studioso, e soggiungeva ingenuamente
che quanto a lui non ne aveva mai sentito il bisogno. Forse era la
consapevolezza della sua inferiorità fisica, della sua goffaggine,
che lo rendeva così avverso al bel sesso. Noi non amiamo le cose nelle
quali siamo convinti di non poter riuscire.
Del resto, al dottore Romualdo bastava la scienza. Nel 1859, quando
tutta la gioventù era corsa alle armi, egli era rimasto nel suo
gabinetto a studiare; il rimbombo del cannone non lo aveva commosso.
Il giorno dell'ingresso delle truppe liberatrici, s'era mescolato alla
folla, aveva istintivamente agitato il cappello e gridato _viva_ anche
lui; ma, al più presto possibile, s'era ridotto nelle sue stanze, e
per esilararsi un poco aveva fatto alcune esperienze col gas idrogeno.
L'alloggio da lui scelto si confaceva alla sua misantropia. Era
una casa di quattro piani, fuori d'una porta della città, guardante
da un lato la strada maestra, dagli altri tre lati la campagna. La
chiamavano, dal nome del proprietario, casa Negrelli, ed era tutta
abitata da gente tranquilla. Solo sul davanti c'era un po' di rumore
per effetto della strada, della vicinanza della porta, e del negozio di
granaglie e coloniali che occupava due locali terreni del fabbricato.
Questo negozio, appartenente al signor Gedeone Albani, andava lieto di
una numerosa clientela, così rustica come cittadina. Infatti parecchie
buone massaje mandavano a comprar le derrate dal signor Gedeone, il
quale, trovandosi col suo deposito fuori della cinta daziaria, poteva
usare notevoli agevolezze nei prezzi. La prosperità degli affari del
signor Albani si vedeva riflessa nella sua faccia piena e rubiconda e
nel suo umore scherzevole. Le guardie del dazio consumo venivano spesso
a bere un bicchierino da lui, e, grate alla sua cortesia, non badavano
tanto pel sottile se la sera, nel rientrare in città dopo aver chiuso
il negozio, egli portava seco qualche pane di zucchero o qualche pacco
di candele steariche.
In quanto al nostro valentuomo, egli conosceva appena l'esistenza del
signor Albani. Le finestre delle sue stanze davano sulla parte opposta
alla strada; non gli giungeva all'orecchio altro suono che la voce
dei bifolchi conducenti l'aratro, la canzone malinconica di qualche
villana intenta alle cure dell'orto, il muggito dei bovi sparsi per la
campagna; e, di notte, quand'egli vegliava sui libri, il gracidar delle
rane e il latrar dei cani da pagliaio.
Il quartierino della signora Dorotea era composto di un andito, una
cucina, quattro stanze grandi e tre gabinetti. L'andito rettangolare
aveva un uscio di fronte alla porta d'ingresso, e altri due usci, uno
per parte. A destra di chi entrava c'era la cucina, e dopo la cucina
un bugigattolo per la donna di servizio; a sinistra una stanza detta
pomposamente salotto da ricevere, e sulla stessa linea un camerino di
sbarazzo. Tutti questi locali avevano le loro finestre sul ballatojo
che girava intorno al cortile. L'andito solo riceveva luce dalla
portiera a vetri del salotto da pranzo, il quale metteva, a destra,
alla camera da letto della signora Dorotea, a sinistra, a quella
del dottore Romualdo. Un gabinetto annesso a quest'ultima camera
e comunicante, mercè una porticina, col luogo di sbarazzo, avrebbe
dovuto servire di studio, ma in realtà il Grolli studiava nella camera
da letto. Lo stanzino egli lo aveva ridotto a sue spese a uso di
laboratorio chimico. Le camere della signora Dorotea e del professore,
il salotto da pranzo e il laboratorio guardavano sulla campagna e
avevano aria e luce in quantità.
Il professore Romualdo alloggiava in casa della vedova Salsiccini
fin da quando aveva ottenuto il posto di assistente, vale a dire da
circa tre anni. Nè vi alloggiava soltanto, ma aveva indotto la vedova
ad assumersi anche la cura del suo mantenimento verso un modesto
correspettivo. Un caffè e latte la mattina, un parco desinare al tocco,
un pezzo di formaggio e un dito di vino la sera; il professore non
esigeva di più. In tutto, fra alloggio e vitto, egli non ispendeva
che centoventi lire al mese, una vera miseria. Così, a malgrado di
quello ch'egli doveva aggiungere per vestirsi, per comperar qualche
libro, per rifornir di storte e di lambicchi il suo laboratorio, gli
riusciva ancora di far piccoli risparmi sul non lauto stipendio di
assistente, e di avere un migliaio e mezzo di franchi raccolti presso
una Banca del paese. Lo dicevano avaro, ma in realtà non era; la sua
economia dipendeva dalla mancanza assoluta di bisogni. All'occorrenza
sapeva fare perfino le sue spese di lusso, e non era altro che un
lusso il suo laboratorio, poichè egli avrebbe potuto benissimo levarsi
all'Università il capriccio delle esperienze chimiche.
Nonostante la sua misantropia, il Grolli non era mal visto dalla
gioventù. In primo luogo si doveva stimarlo pel suo valore scientifico.
Il professore di cui egli era assistente godeva una fama europea, ma,
attempato e malaticcio come era, non veniva mai alla scuola. Ebbene;
la riputazione della Facoltà matematica dell'Università non aveva
punto sofferto dacchè il Grolli saliva ogni giorno la cattedra resa
già illustre dal titolare. Altro pregio universalmente riconosciuto
del dottor Romualdo era la sua scrupolosa equità; onde gli studenti
dicevano: — Meglio la ruvidezza del professor Grolli che la melliflua
condiscendenza di tanti altri. Almeno il professor Grolli non ha
predilezioni.
Inoltre tutti sapevano che la sua adolescenza era stata piena di
amarezze, che, rimasto a quindici anni orfano e senz'appoggio, aveva
bastato a sè stesso dando ripetizione ai suoi condiscepoli, e che
s'egli era riuscito a conseguir giovanissimo un posto onorevole
nonostante la sua indole poco flessibile e la mancanza di tutte le doti
esteriori, egli non lo dovea a nessun patrocinio illustre, ma soltanto
al suo merito e alla sua perseveranza. Com'egli aveva studiato,
come studiava sempre! Studiava al tavolino, studiava camminando,
certo studiava anche dormendo. Le allegre brigate degli scolari lo
incontravano talvolta sui bastioni, ed egli appena si accorgeva di
loro, tanto era assorto nei suoi pensieri. — Zitto! — bisbigliava un
bello spirito all'orecchio dei compagni — il professore Grolli è con
la sua amante. — La sua amante! — esclamava un ingenuo matricolino,
aprendo tanto d'orecchi. — Già, la sua amante, la matematica. — E tutti
a ridere e a dirsi — In fatto d'amanti, valgon meglio le nostre. — No,
no — ripigliava misteriosamente qualche cattivo soggetto. — La vera
amante del professore la conosco io. — Un'amante in carne ed ossa?
— Sicuro. Finirà collo sposarla. La sua padrona di casa. — E nuovi
scrosci di risa sgangherate tenevano dietro alla insulsa facezia.
La signora Dorotea, come si vede, era conosciuta dalla scolaresca. Chi
si recava dal professor Grolli la trovava spesso in salotto seduta
davanti al tavolino con la calza in mano e gli occhiali sul naso, e
doveva assoggettarsi da parte di lei ad un succoso interrogatorio,
modellato sempre sul medesimo stampo.
— Di chi domanda?
— Del professor Grolli.
— È uno studente?
— Sissignore.
— Vada pure avanti.
Non passava poi giorno che la signora Salsiccini non comparisse a
due o tre riprese nelle strade della città; la mattina per la spesa,
il dopopranzo per le visite, senza contar le volte ch'ella andava a
desinare da qualche famiglia amica. A malgrado de' suoi cinquantacinque
anni, ella camminava svelta e spedita, dimenando alquanto i fianchi
e rassettandosi di tratto in tratto la mantellina che le scivolava
giù ora da una spalla, ora dall'altra. Portava per solito un vestito
bigio di lana e un cappello di paglia scura con tese sporgenti, con
due barbine di fioretti artificiali, e con un velo celeste sul davanti,
sotto al quale la buona vedova passava frequentemente il fazzoletto per
soffiarsi il naso con gran romore.
— Ecco la trombetta dei bersaglieri — esclamò una mattina uno studente
di prim'anno, sentendo quel suono e vedendo quel passo marziale.
— Questi studenti — disse la signora Dorotea — si prendono libertà
anche con le femmine più contegnose.
Del resto, la signora Salsiccini, quantunque fosse un po' pettegola,
quantunque avesse la passione del lotto, era una eccellente pasta
di donna. Pel professore aveva cure materne, ed ella lo avrebbe
giudicato un uomo perfetto se fosse stato più espansivo con lei e le
avesse concesso di metter lingua nelle sue faccende. Nondimeno ella lo
aveva sempre difeso e aveva sempre levato a cielo l'illibatezza de'
suoi costumi. Guai a lui s'egli le faceva far cattiva figura, guai a
lui se tanto apparato di virtù veniva a risolversi in una figliuola
clandestina!


III.

Era già tramontato il sole quando il treno che conduceva il dottor
Romualdo giunse alla stazione di Genova. Il nostro amico, la cui
inquietudine era andata crescendo di mano in mano ch'egli si avvicinava
al termine del suo viaggio, salì nel primo _omnibus_ che gli si parò
dinnanzi, e si lasciò condurre ad un albergo di aspetto signorile, ove
ebbe la soddisfazione di esser preso pel servitore di una famiglia
inglese arrivata insieme con lui. Tolto l'equivoco, egli venne
affidato alle cure di un cameriere d'infima categoria, il quale, dopo
avere acceso una candela, lo accompagnò in una stanzuccia del quinto
piano. Lo scarso bagaglio e il vestito dimesso del viaggiatore non
meritavano maggiori riguardi. Era già molto ch'egli pagasse il conto.
Il cameriere, tanto per iscarico di coscienza, gli chiese s'egli avesse
bisogno di nulla, e senz'aspettar risposta, lasciò la stanza tirando
sgarbatamente l'uscio dietro a sè. Ma il professore non se n'accorse
nemmeno, assorto com'era in un solo pensiero: cercar subito del
capitano Rodomiti.
Onde, risciacquatosi alquanto per liberarsi dal caldo e dalla polvere,
scese le scale, e domandò subito la via per giungere in piazza Banchi.
Non gli fu difficile arrivarci, ma dovette convincersi che per quella
sera bisognava rinunciare all'abboccamento col capitano. Perchè
l'ufficio dei signori Radice e Lupini, _shipbrokers_, era chiuso, e non
si sarebbe riaperto fino alla mattina successiva. Il professore girò
un poco a caso; poi, facendo di necessità virtù, ritornò all'albergo,
ove si risovvenne che non aveva ancora desinato e mangiò un boccone
in fretta e senza appetito. Quando si ridusse nella sua cameruccia
al quinto piano, erano circa le dieci. Il dottor Romualdo spalancò la
finestra e s'accorse che la sua soffitta aveva il pregio inestimabile
di dominare il magnifico porto di Genova. Qua e là lungo la costa
brillavano, mutando di tratto in tratto colore, i fanali dei fari
lontani; più presso, la colossale lanterna disegnava sull'orizzonte
la sua mole maestosa, come un bruno fantasma cinto il capo di luce
spettrale; dalle oscure masse dei bruni navigli si levava al cielo una
selva d'alberi; il silenzio dell'ora era rotto dal gemito del vento che
investiva le sartie e dal suono dell'onda che veniva a frangersi sulle
carene. Dai mari del tropico e dai mari del polo, ora cullati sulle
acque tranquille, ora sbattuti dal flutto minaccioso, ora protetti
dal più bel padiglione d'azzurro, ora avviluppati fra nuvole dense di
pioggia e gravi di fulmini, attraverso bonacce, attraverso tempeste,
lottando, soffrendo, quei mille e mille navigli erano convenuti allo
stesso punto, e ora riposavano uno a fianco dell'altro dalle lunghe
fatiche, salvo a dividersi presto per non incontrarsi forse mai più. Ma
fra tanti legni quale era la _Lisa_? Gli occhi del professore cercavano
invano d'indovinarlo, mentre il cuore con battito affrettato gli diceva
che l'arrivo di quel bastimento, di cui ventiquattro ore prima egli
ignorava perfino il nome, non doveva rimanere senza influenza sui suoi
destini.
Il nostro Romualdo dormì poche ore di un sonno interrotto. Al primo
albeggiare calò impaziente dal letto, e si appoggiò di nuovo al
davanzale della finestra. Una nebbietta sottile si stendeva sul mare
e cingeva d'un tenue velo i legni ancorati nel porto; sotto, nella
via buia, principiavano a muoversi delle ombre, a levarsi dei suoni;
la città più operosa d'Italia si svegliava rapidamente. A poco a poco
cresceva il moto e lo strepito; il fischio acuto della locomotiva
fendeva l'aria; sui ciottoli della via si sentiva il rumore sussultorio
dei carri pesanti e lo scalpitar delle zampe ferrate dei cavalli e
dei muli; i ragli e i nitriti si mescevano al vociar dei facchini.
Indi il sole, alzandosi sull'orizzonte, pennelleggiava d'una bella
tinta di arancio le nuvolette sparse pel cielo; s'indoravano al caldo
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