Il passaggio: Romanzo - 5

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considerate furentemente: «Aspetto vergineo, inganno, perchè?». Maggior
clemenza le verrà da sguardi di prostitute, in selve umane lontane,
che saluteranno taciturni in lei il sorriso di mestizia e di grazia di
sua madre giovine: dove sua madre non avrebbe mai osato penetrare: in
selve ipnotiche; tra danze e sgargiar di lampade e di specchi, tra fumo
e orli spumanti di tazze, la fisseranno occhi rossi di cocainomani:
«Aspetto vergineo, di là di tanta stanchezza: forma d'alba, quale
apparirà oltre i vetri fra poco: non le chiederemo che va cercando,
come non lo chiederemo al chiarore rosato, tra poco». Il pullular della
vita sarà ovunque un alfabeto segreto, dove persone e dove alberi, dove
anche arena soltanto con traccia di onde. E i bimbi in braccio alla
nutrice avranno sempre anche loro negli acini chiari tra le palpebre
parole indecifrabili, mansuete e gravi come la luce stessa. Sibilla?
Ella si sente senza nome nè terra. Nessuno sospetta, ma tutti son
turbati. L'uomo, gli uomini, vorrebbero da lei il disprezzo dopo che
le han parlato, dopo ch'ella ha saputo ascoltarli. La sua compassione
li esaspera, che li identifica e li amalgama, venuti così di lontano,
l'asceta come il guerriero, il giocatore come il costruttore. Fuggono,
quasi inseguendo frenetici il proprio individuo. A taluni avviene di
rifugiarsi in un bordello. Quando ti si dice, donna, di superare la
tua natura e tu brava rispondi sì, ti si chiede, tra infiniti assurdi,
anche questo, ammirare come i maschi sensi abbiano ordinato tali
disumanate case nel mondo. Tu repugni, creatura amante, senti come
un male sacro in tutte le membra, vorresti essere una cosa da nulla,
che ti si schiacciasse più presto, e il fiato della notte invece non
cessa di premerti, grande. Esseri da nulla, passivi oggetti, sono pur
stati tanti corpi più o meno simili al tuo, seni e fianchi, fra le mani
stesse che ti tengono. Ti sembra avvenga una trasmissione mostruosa,
nelle vene in febbre ti pesa tanto sangue non tuo. E ancora l'uomo
vorrebbe che tu lo disprezzassi ma non che soffrissi. Egli ti giura
che non ne è degno, e qui parla per tutta la specie, sommesso e torvo.
Allora — anche il tuo spirito è fatto drammaticamente per contraddirsi
— vedi riemergere i lineamenti particolari di colui che nell'istante
t'ama: e la sua povera storia, e la povera storia del vostro amore:
tutto ciò che in sua umiltà lo separerà pur sempre in te da ogni altro,
il colore, il tono dell'essenza sua accanto a te o di te vivendo: quale
lo scorgesti per sempre la prima volta, quale egli stesso si ignorava,
nato per ristante vostro....

Dicono i grandi viandanti di riconoscere paesi a guardarne il cielo.

E quando d'improvviso tu ritrovi per le strade della vita gli uomini
che il tuo tragico istinto un tempo elesse, le rimembranze son solo
d'alto, disegni di nubi o di cirri, velari turchini intensi o pallidi,
che s'impressero nella tua retina come in nessun'altra — e questa è la
tua gloria.

Donna di fede.

Più d'uno fu verso te — e verso sè? — spietato. Ti disse: «Va' con le
tue gambe, cammina, tu sai andar sola, va'». Più d'uno che aveva avuto
sorrisi incantati al tocco della tua voce, e la gioia era stata bella
nei vostri sguardi, la sola cosa che ancor esistesse di là dal nodo
unico di fuoco.
«Parti. Lavora».
Il viatico, sì. Quello che non si dà alle altre. Il saluto.
Vi fu chi ti coperse la fronte, su la fronte ti trasse le ciocche dei
capelli, mormorando: «È troppo vasta».
Ma tu stessa un inverno in una città di nebbia nera — il freddo
bussando metteva intorno ai tuoi occhi ombre mai ancor viste — non
ti sgomentasti dinanzi allo specchio? La vita che non avevi temuto
trasformava il tuo viso, ch'era stato di rosa, in pietra e vi lasciava
da grande artefice un brivido d'eternità.
Gridasti verso chi peccava di paura. Col petto che ti doleva gridasti
che non eri tu la tradita, ma che tradito era l'amore. Sapevi la
silenziosa ed impotente realtà di chi fuggiva quel tuo aspetto di
volontà e di luce e quel tuo insostenibile sguardo. L'uno tornava
alle femmine che con rosse labbra dicono motti turpi — non ti mostrò
scritte le parole di una, e ti parve d'assistere costretta? e pure vi
circondavano statue, crete abbozzate dal suo pollice, un'atmosfera di
travaglio, l'ansia della materia volta a vita. — Un altro si richiudeva
in un suo dileggio astioso.

Doni ch'io non ebbi, sagacia, astuzia, abilità! Virtù sottili che
mi mancate! Talora giungo sino a desiderarvi, a scrutare se mai vi
veda inerti nella mia sostanza, se mai con la forza stessa delle mie
passioni che non voglion rassegnarsi io vi possa suscitare al loro
soccorso, per la loro vittoria. Ingenuità suprema, o mia anima esule
da non sai quali più ariosi lidi, anima che hai ali ma non armi, o
destinata a librarti sopra le tue sconfitte!

Nessuno ha mai sacrificato nulla per me.
Piccola che si chiamava Rina. Come se io avessi ancora il suo volto e
il suo puro presentimento d'adolescente, libera è la mia vita dal peso
d'un qualunque bene che sia costato ad altrui una rinuncia, vera o
fallace. Nè una sposa nè un'adultera amante, nè un vizio nè una teoria.
E nessuno s'è ucciso od ha ucciso per me, neanche se sentiva nel suo
cuore che un delitto così compiuto sarebbe stato forse santificato.

Forse. A chi mi chiedeva, acre e misero, se dunque volevo il suo
sangue, «forse» fu la risposta.
Selvaggia?
In lucido rapimento vivo, come scrivo.
E se la tua tempra, uomo, è affine alla mia per gentilezza o per
generosa follia, ma logora mentr'io sfido ogni usura, non vuoi che mi
avventi feroce contro quella tua lamentosa parola? Tu ripeti: «Troppo
tardi». Snodo le mie trecce e con esse sferzo la chimera perpetua.
Ti s'aprirono mai intere le vene, ti si rinnovarono veramente mai?
Tu ti sei sfinito in esperienze mediocri, con spiccioli d'anime,
rinunciando all'assoluto del fervore e della fede. Ti si uncinò nel
petto un torbido peso, la condanna che subisci e vorresti farmi subire.
Non t'attesto nulla, così stravolta e terribile? Vedo dèmoni, laddove
dovrebbe agire Iddio: e mi ribello, oh lampeggiante disperazione! poi
la mia voce ti grida: «muoio per amore». Puoi negare tu ch'io agonizzi,
anche se sai e livido dici ch'altre volte per altri già credetti
morire? Altre volte, è vero, è vero. Come ora mi davo tutta, fino al
respiro estremo. Forse per ciò solo ho potuto sempre rinascere. Offrivo
alla creatura in olocausto il mio bramoso dolorante intelletto, offrivo
il mio spasimo di creazione, questo che s'alza perennemente nuovo nel
tempo come il salmo del credente.

Io servo la vita con la mia agonia più di te che sogguardi
rabbrividendo.
Più cara d'ogni altra alla vita la parola che le solleva contro
implacato l'amore.

Implacato se anche ogni volta io risorga.
Con le mani giunte, stesa a terra, sempre mi trova l'ora, imprevedibile
improvvisa, che mi sento alleggerire di tutta la mia volontà e
anche di tutta la mia speranza, l'ora che le mie labbra in un
soffio pronunziano: «così sia». Con le mani giunte, o forze segrete
dell'universo, avendo fatto tutto quanto era in mio potere ed oltre.
Vengo soccorsa allora da cose che par rivaleggino con quel mio stato
di lievità, con quel mio respiro che appena s'ode: dalle più tenui,
petali, aromi, ombre di voli. Per mezzo talora di genti rozze ed
ignare; che m'hanno porta una tazza infusa di fior di tiglio in un
villaggio della Provenza; una brocca d'acqua per tuffarvi il viso,
nella quale macerarono la notte stellata di Pentecoste a Capo di
Sorrento foglie di rose; un rametto di violacciocche in riva ad un lago
lombardo; di gente che mi vede giungere romita e ripartire assorta, mi
fa intorno per istinto il silenzio, ed il gesto delle rudi mani piegate
a gentilezza opera inconsapevole il miracolo nell'istante esatto oltre
il quale più non reggerei.

Riprendo stupita il mio passo, d'ogni mio tempo, rapido agile saldo.
Qualcuno per via mi dice: «cent'anni cent'anni di vita felice!».
Perchè questa mia grazia che si fa più e più sicura, questa trasparenza
dell'anima appena io l'alzo sopra la crudezza della sorte? Un vecchio
contadino m'ha fermata un giorno nel mezzo d'una strada alberata: «Non
avete figli? Vuol dire che il seme era cattivo» e ha scosso il capo,
grave, con rammarico religioso.
Sì, forse avrei potuto divenire la donna forte dell'antico Testamento.
Invece cammino nel mondo cercando l'espressione d'un fantasma o
ripetendo sommessa a me stessa il motivo felice di qualche mia pagina
d'angoscia.
Se m'incontrassi, piangerei, forse.

Lontana è la pietra coperta di musco e di polline di pino, nella
foresta dall'ombra bionda dove, stendendomi una volta, sentii comandare
repentinamente da me a me: «Fermati, ferma un minuto, un minuto basta
per attestar che hai vissuto». Lontani i tanti rifugi che mi cercai. Li
credevo rifugi, isole, vigne del Signore in mezzo al mare, e la vita
con me vi penetrava. Con me la mia necessità, con me la mia legge.
Umili, come umiltà è negli orizzonti che sconfinano tacitamente,
umili ma inalienabili. Vi penetravano idee ed imaginazioni, e realtà
da ingrandire o da scrollare. Ovunque era un poco d'argilla per le
mie prensili dita. E ogni spazio si riempiva del mio ansito. «Tutta
l'aria intorno a noi — mi si disse — la respira la tua bocca».
Provavano a crearsi, certo si creavano, in quelle volontarie distanze
da ogni popolata spiaggia, cerchi d'intendimento, gorghi d'armonia. Ma
l'animazione della mia volontà non bastava a perpetuarli. Lontani sono
quei luoghi che a chi mi mirava parvero fuor del mondo, folti di lumi
sotto larghi di stelle....

Deserte roseoazzurre le sere scendono su la mia libertà.
Passano vele, allegorie, passano canzoni. Le rupi dentate lambono il
cielo e lo fanno più chiaro.

«Sera, sera dolce e mia!».
Quegli che lontano sospirò di me così dopo avermi respinta, stava
dinanzi al suo mare come uno squallido verso dell'Ecclesiaste, stava
con occhi che or non vedono più, i più febbrili e cupi che m'abbiano
fissata, occhi per il getto totale della vita mia....
Per lui, che il giorno primo che ci parlammo m'afferrò, mi singhiozzò
l'anima sua, si torse sotto il cielo come una fiamma supplicandomi
di strapparlo alla donna che da tanto l'inviliva, io diedi ben addio
a qualcosa che sarebbe stata quasi la felicità, la ridiedi a Dio. Un
fanciullo m'amava, migrante arcangelo, in vertigine di luce spada
bella, e lo vidi colpito piegarsi, accettar la sorte, accettar di
sparire. Per l'uomo malato e legato, per l'incanto di quel suo sguardo
avido d'illudersi, d'affiorare a rive verdi, nulla con più tremanti
adoranti mani potevo svellere ad olocausto, nulla di più mio e puro.
I baci del fanciullo avevano inseguito brividi: vento, sole, notturni
silenzi: avevan fatto convergere gioia e canto nel mio petto. Intorno
erano mirti fra dure lave. Pronta scontai la superbia di tanta
rinuncia. Un'unica ora il mondo parve trasfigurarsi per la tetra anima
virile, poi che gli dissi ch'ero sua: sconfinati al pensiero s'apersero
i mari e dorati; fummo una sola certezza, una sola prodigiosa attesa.
E qualcuno bussò. (Ecco, mentre rievoco guardo sur un'acqua ferma lo
svolìo d'uno stormo di rondini, è perlaceo, ma mutando d'un colpo la
rotta si confonde con la ferrigna superficie). Qualcuno nella notte
rivoleva il proprio bottino. Nella perduta stanza di locanda dove fui
lasciata sola, convulse grida giunsero di creatura, di donna: sorella
mia? A grado a grado s'acquietarono.

Le sere scendono su la mia libertà.

Io violava con il mio amore il dolore dell'uomo. Io aggiungeva al suo
dio il mio.

Quando, attraverso gli evi, l'uomo ha detto d'agognare all'eterno
femminino, auto-inganno è stato. Il maggiore ed il più bello di quanti
gli si sian formati nella coscienza. Che può far egli d'una integrante
forza creativa, egli già così gravato e tormentato? Noli me tangere. Un
solo si volse realmente per ascoltare e per conoscere, e Diotima gli
rispose. Era giovine allora Socrate? V'ha un punto, il momento della
esistenza intatta, che unico rende il maschio capace d'accogliermi come
spirito. L'iniziato adora tutta la sofferenza che m'ha fatta ricca, può
adorarla così tessuta nella dolcezza della mia carne e nella dignità
della mia mente, io gli esalto la pienezza della vita, la sapienza
ultima della vita ed egli sente che m'appartengo, il mio dono e il suo
forse ci trascendono....
Spazi ineffabili!
Addietro restano tutte le cose che si riprodurranno, le dure cose, le
appassionate, le urlanti.
Tornerò ad esse, irresistibilmente tornerò, e ad esse moverà incontro
con dolente fierezza il vergine fino a ieri, dalla voce di cristallo,
che non mi tratterrà.
Disgiunti, spiriti reduci per sempre entrambi.
Più che mai i tristi uomini compiuti diranno alla mia apparizione:
«Troppo tardi». Diranno: «T'abbiamo troppo attesa. Or ci vendicheremo
su te per tutto ciò che non ricevemmo dalle altre». Anche
soggiungeranno, come stanca elemosina: «Dovevi nascer maschio, saresti
stata o un santo o un castigo d'Iddio....».

Ed ecco dorsi di monti brulli, ampie linee semplici, valichi e
valichi, stagioni che indugiano e stagioni precoci. Ecco pianeggianti
giardini, fontane, magnolie in fiore, e anche grigi sogni di pietra,
castelli grigi tra rami spogli stillanti di pioggia contro il sole come
portentose ragnatele. Ecco fiumi su cui navigano insensibilmente grandi
ninfee di ghiaccio. E strade, strade, strade.
Fatiche e tedio nelle rughe del mondo, e immensa grottesca stoltizia.
Poter sanarle, suscitarvi espressioni gagliarde, generosità e pensiero!
È tale l'impetuosa fantasia ch'io sospetto quasi sian suoi frutti quei
beni che vedo di quando in quando alzarsi come vapori o stendersi
come campi di lino azzurro, suoi frutti, invenzioni del desiderio,
quegli atti e quegli affetti che inattesi e delicati mi si palesano,
sorridenti di fresca arguzia o soffusi d'alta intuizione, amicizie,
austere fraternità, rapporti pieni di timidezza e d'abbandono e altri
in cui son regina, in cui impongo sensi di grandezza, oh semplicemente
perchè sono umana, e raccolgo meraviglie di devozione, pianti d'anime
veraci, baci sulla mia mano taciti veloci, parole brevi di accordo,
beni, beni!
Come fossero discesi dal genio, dall'antico coro tragico o da un canto
leopardiano. Come fossero dolci arcate di chiostri tra i massicci
delle città. Quella marea urbana che talora mi parve affiorare colla
mia spoglia sola e col vaneggiante mio ansito di morte si dissolve.
L'onda è in me, nella sensibilità che tutto attinge, ch'io quasi una
millenaria ho affinata per ogni verità della creazione, per i doni come
per le offese. Signore.
«Signore, fammi diventare grande e brava» pregavo da bimba.
Vengono i profondi compensi, le stellate ghirlande, a me fuggitiva, a
me per le selvagge vie.
In primeve forme, nitide, per me sola suscitate.
Gioie per sempre.
Vengono come le rinascenze dopo i più sparuti e bruti cicli.
Assolta, riconsacrata, la semplicità eroica dell'essere femineo, senza
nome nè età, va libera ardita ridente.
Squillanti incontri di bei volti maschi, ferma bellezza di fisionomie
imprevedute, sussulto segreto all'istantaneo avvertimento del desiderio
virile, sussulto così simile al brivido mortale della voluttà, istinto
di fuga, ansito d'esser rincorsa, stupita violenza di magìa, uomo e
donna, piante di foresta a un sol vento sorprese e squassate.
Torsi d'atleti armoniosi, vive forme sante come immortali bronzi.
Intende taluno che accarezzo — per un'ora, per mille, per un innumerato
tempo quale nei sogni — intende ch'io reco in quell'atto lo stesso
illuminato cuore delle mie più solitarie contemplazioni? Vi sono
spiagge dove nessuno prima di me s'è soffermato ad alzare un suo
inno: e c'è questo corpo perfetto d'Adamo il cui valore me soltanto
veramente conquide, con la sua sicura rispondenza all'anima che vi
abita, nell'opera nel sonno nell'attesa, questo ricco corpo così forte
così fervido così caldo, fascio d'erba odorosa, architettura di nobiltà
essenziale, Adamo, Adamo, bacio solare.
Tutta io mi sento fiore immersa nella lussuriante natura. Per un'ora,
per mille, in un innumerato tempo....
Potenza divina di gaudio sotto il cielo, divino splendore dei motivi di
gaudio!
Portentosa bilancia se la memoria è onesta!
Ch'io superbamente lo affermi.
Per tutte le cose orrende che ho veduto e saputo, io che ho pagato per
tante donne, io su cui l'uomo s'è vendicato di tante. Per le lividure
finanche che il mentecatto lasciò su le mie membra bianche, ch'io
guardava bruciante attonita, ed egli sghignazzava stridulo sinistro ed
aggiungeva vituperi e sputi. Per le rose che furono calpestate presso
l'orlo della mia veste. Io ch'ero la vita e che ho veduto dove l'uomo
giunga quando odia la vita.
Portentosa bilancia se la memoria è onesta!

Uscii un giorno da un carcere, dove tra le sbarre un viso sciagurato
m'invocava, sovrano viso che mi chiedeva perdono, caro ahi caro viso
ritrovato e per sempre riperduto. Più tremenda la mia solitudine mi
parve di quella stessa prigione dove si gemeva e dove almeno qualche
carceriere assisteva. L'aria lucida, il bel settembre, la gloria
candida d'una montagna all'orizzonte, ed io sullo spiazzo, tra il
frusciare dei platani, al limitare della cittaduzza ignota, io con
nessuno, libera di morire, libera di vivere, nel vento, il vento
buono su le ciglia ancora umide. Era l'acquisto di tutta la mia
esistenza o il sigillo improvviso? Non in mio potere il rifiutarlo.
Dall'invisibile, in un tempo remoto, m'aveva ben detto una voce:
«Ricordati d'aver ascoltato la tua legge». Sì. Tremenda intorno
al capo la vastità ariosa popolata di parole ch'io sola sento.
Pure, così sbalzata fuori d'ogni strada dopo tanta strada percorsa,
sbalzata dall'umanità se umanità è legame e soccorso tangibile, il mio
sconfinamento ebbe lo sfolgorante aspetto della pace. Ho visto una sola
volta, nella piega profonda attorno alla bocca d'una grande morta,
qualcosa d'altrettanto ricco e strano. La montagna all'orizzonte fu
inondata di rosa, poi ch'era il tramonto; sospeso il vento, il giorno
senza avvenire oscillò, solo, per non so quale lunga ora ancora. Alle
mie spalle stava la mole della fortezza, il segno di quanto si tenta
quaggiù in malvagità e mai realmente si compie. Il fratello condannato
si raccoglieva certo in un'irreale soavità, come ancora baciandomi le
mani traverso le sbarre. La notte sarebbe scesa su lui racconsolato,
s'anche fosse l'ultima della sua espiazione. Ed io seppi quel che non
sa il suicida. Il queto annegare delle stelle nelle notti estive può
solo darne imagine. Rigano il firmamento, s'avventa dalla terra sulla
loro molle scìa il desiderio d'infinite costellazioni di occhi, il
desiderio, il voto.... Nulla di più vivente.


_LA POESIA._

Cielo nella prima ora del giorno e nella prima ora della sera uguale,
candore lucente in cui m'incido e a cui m'affido, perlacea lievità
intorno alla mia fronte.
È sera o alba?
In questa trasparenza, in questa incandescenza di cielo, la mia forma
di donna ha un trasalimento, oh che non turba la soave immobilità
dell'ora....
Un prodigio si è compiuto nel lungo spazio che forse fu notte e forse
meriggio.
Compiuto insensibilmente, quand'io stavo in passione e in meditazione,
animata natura, e di contro a me lo spirito maschio agiva, fondatore
e distruttore, m'offriva armi, leale, perchè lo combattessi, e le
confessioni s'incrociavano, ci laceravano.
Mormoravo nelle tregue:
«Se v'assomiglio, fratelli, soffro!»
«Se v'assomiglio, voi non m'amate!»
«Se v'assomiglio, a che son nata?»
Caratteri d'eternità erano nella vicenda.
Peritura la mia forza, gli occhi avrebbero potuto appannarsi, qualche
morbo penetrarmi; ma no, io non ero Filottete — e mai dunque sarebbe
paga la nascosta giustizia, quella che mi generò in sogno?
Conche sonore di venti fremevano, alte conche d'allegrezza o d'angoscia.
Mi aggiungevo con le mie parole immolatrici alle cose della terra, alle
opere, alla storia del dolore e dell'amore. Quella imagine ch'io creavo
pareva via via cancellarmi dalla vita.
Lungo, ah lungo passaggio dalla larva al mito!
E la realtà del mio essere, e la libertà creduta e perseguita, e questa
mia turgida età?
Trasalgono le fibre materne.
Chiaro è il mondo, con volto riconoscente. Imprevedibile un segno si
palesa, un timbro, una movenza, un irriproducibile accento.
Io!
Mentre rispondevo alla temeraria attesa del silenzio, e credevo tutta
così consumare nel sacrilego racconto, prodigiosamente accanto alle
parole violatrici, altre, fruscianti, si modulavano in me, trepidando
s'elevavano, brevi, danzanti, quasi figlie d'una mia scarca anima....
Danzando mi scoprivano esse la grazia di ciò che m'è più alieno o
feroce, e il valore dell'attimo più lieve e più nudo, e la santità
degli incolmabili abissi.
Danzando gettavano ponti, oh sguardi di lontano, oh bracieri di rose in
cielo!

Ritmo,
ritrovata adolescenza,
gioia del colore,
occhi verdi di sole sul greto,
scheggiato turchese immenso dell'onde,
biondezza di cirri e di rupi,
rosea gioia di tetti,
colore, ritmo,
come una bianconera rondine
l'anima ti solca.
Rorida potenza sorta in me, per sovrapporsi a me, per sopravvivermi!
Occhi stellati aperti su la divinità candida dell'aria!
Poesia, più cara d'ogni benedetta lagrima se anche in tuo prisma appaia
il mio andare rasente la morte!
Cosa di perla anche la morte, compenetrata di luce.
Con sommesso respiro mi riavvicino a tutto che in purità tace, mi
riconfondo con l'arcano sorriso della bontà.

_Isola di Corsica, 1912._
_Isola di Capri, 1918._


INDICE

Il silenzio Pag. 5
Le ali 9
La lettera 29
La fede 55
Il nome 75
Il peccato 93
Le carovane 109
La favola 125
Gli occhi eroici 137
Le notti 147
La poesia 181


OPERE DI SIBILLA ALERAMO
=Una donna=, Romanzo. Terza edizione.
=Il passaggio=, Romanzo. Seconda edizione.
=Andando e stando.= Scritti varii.
=Momenti.= Liriche.


LA SCRITTRICE PIÙ DISCUSSA DELL'ULTIMO VENTENNIO

La ristampa delle opere di Sibilla Aleramo merita un cenno
retrospettivo. Il successo del primo romanzo, edito nel 1906 e
tradotto rapidamente in sette lingue assunse carattere di grande
avvenimento letterario. Il gran numero dei giornali che ne parlarono
immediatamente, i critici che lo esaminarono, gli intellettuali dei
due sessi che lo discussero, provarono che il nuovo libro rivelava una
personalità artistica d'eccezione.
Lo pseudonimo oscuro divenne celebre in un breve volger di mesi.
Illustri giornalisti italiani e stranieri si recarono alla casa
dell'autrice di _Una Donna_ per intervistarla e la stampa dei due mondi
pubblicò avidamente notizie e illustrazioni della vita della novella
scrittrice. Una voce femminile, mai prima intesa, s'imponeva così, alla
coscienza dei lettori, commovendo profondamente con la sua eloquenza
tragica, la sua sincerità totale, la sua umanità potente.
Il romanzo successivo, apparso dopo parecchi anni, _Il Passaggio_,
non fu un successo minore, quantunque non potesse più avere il fragore
della rivelazione.
Il merito peculiare di questa opera è quello di perorare verità che
appassionano, senza mai mancare alle esigenze di un'arte pura. C'è
in essa una nobiltà rara di espressione, una audacia generosa di
confessione straziante dettata dalla più fremente delle sensibilità,
e che pure non vacilla mai e tende diritta ad una sua mèta d'interesse
umano, sprezzante qualsiasi interesse personale.
Dalle centinaia di articoli apparsi su quest'opera in tutti i grandi
paesi intellettuali stralciamo alcuni brani di singolare importanza.
=ARTURO GRAF= _per una lunga e profonda critica nella_ =Nuova
Antologia= _si può dire il più ampio illustratore del romanzo «Una
donna»:_
_Romanzo_, s'intitola il libro; ma, più che di romanzo, ha
carattere di giornale intimo, di un giornale a cui sia stata
data posteriormente la continuità e la pienezza che da prima
non ebbe, e come rifuso in un racconto, il quale procede
per una sua intima forza e cui non possono detrarre gran che
alcune incertezze e alcune deficienze. Noi sentiamo che esso
scaturisce dal profondo di un'anima. Di qui il suo principale
interesse: La donna che narra è tutta intesa in sè stessa,
tutta assorta nella meditazione del terribile problema di cui
cerca con ansia febbrile la soluzione. È per lei questione di
vita o di morte. La condizione è, per più rispetti, simile a
quella dell'asceta cristiano, febbricitante ed ansante nello
sforzo ostinato di salvarsi l'anima. Che sarà poi non sappiamo;
ma, per ora, il mondo esterno si direbbe che non esiste per
questa donna, se non quanto serve a darle più piena coscienza,
a fornirle termini di confronto e punti di appoggio. Ben poco
di ozioso si può notare in questo libro. I personaggi che si
muovono intorno alla protagonista sono vivi generalmente, e
ben distinti, ma delineati con brevi tocchi, come da chi voglia
ricordarsi per uso suo piuttosto che per rappresentare altrui.
Dialogo quasi non c'è. La scena dell'azione si vede appena. Le
descrizioni sono rapide brevi e in piccolissimo numero. Dice la
donna tutta intesa in sè stessa: «Tutto ciò che è succedersi
di impressioni, vita pulsante per eccitazioni esteriori,
scintillio di immagini, eco di suoni, non può venire da me
risuscitato. Pure appaiono allo sguardo una marina, un ciel di
tramonto, un paesaggio alpino. E appare Roma, cuore del mondo».
«Pel cielo glorioso le nuvole andavano, tutte avvolte dal sole,
mutevoli e continue: le piazze, le fontane, le case di pietra
e le cupole e il fiume e le pinete incise sull'orizzonte, e il
deserto della campagna e i monti lontani, tutto pareva seguire
il lento viaggio delle nubi, e com'esse appariva fluido ed
eterno». «Lo sfavillio della massa compatta di case, di torri,
di alberi che mi si stendeva sotto gli occhi era intenso,
quasi insostenibile. In fondo, i monti si staccavano turchini
sul cielo, e lungo i declivi le macchie candide dei castelli
mandavano anch'esse barbagli. Fra i monti e Roma la campagna,
l'immensità». Chi ha potuto dir questo, potrà dire molt'altro,
volendo. Lo strumento non le manca di sicuro.
_Ed ecco, a distanza di dodici anni, alla pubblicazione del «Passaggio»
la fervida lode di_ =RENATO SIMONI= _nei_ =Libri del Giorno= _di
Milano:_
Pagine non facili: nè a scrivere nè a leggere. Bisogna
scoprirne il filo delicato; e allora dopo avere gustata quella
energia verbale che fa lucide e ferme le parole, dopo aver
sentito che quella energia tiene salda la bella prosa, come una
pietra augustamente incisa di vaste epigrafi, sopra un impeto
tumultuoso che vuole rovesciarla, scopriamo l'originalità del
libro, ch'è riassunta da queste parole: «Siamo nati.... per
l'intimo accordo con il mistero». Il dramma di questa Rina che
è la protagonista di _Il Passaggio_, è in questo bisogno di
trovare le radici e le norme dei fatti in leggi occulte, in
comandamenti che vengono da mondi profondi.
. . . . . . .
Libro di palpito, di angoscia, di ombra, di luce, ma
soprattutto libro di poesia: la storia di questa Rina è
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