Il passaggio: Romanzo - 3

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paterna. Per esse forse con brivido tanto lucido descrivevo la bimba
ch'ero stata? Ad una selvaggia venivo paragonata, una selvaggia che
adoperasse con sicuro istinto i più delicati strumenti della civiltà.
Già al principio della nostra amicizia egli m'aveva riconosciuto uno
stile, di slancio e di dominio insieme. Ora chiedeva: «Che influenza
avrà su te la mia vicinanza? Non vorrei nè turbarti nè mutarti». E con
uno di quei moti contradittorî che non sapevo ancora tanto infrenabili
in qualsisia cervello virile, immediatamente soggiungeva: «Ma il tuo
libro avrà il mio suggello». Maschio amalgama, maschia tempra, scorza
cavernosa, e il mio fluido spirito a permearla in quell'estate dorata
come nella mia puerizia, o similmente alle nuvole che veleggiano sui
dorsi dei monti assumerne le forme via via ad istanti, proiezione in
cielo delle dure cime. «Tu non guardi gli aspetti del mondo, hai gli
occhi rivolti sempre al di dentro....» Rose, in verità io vi aveva
viste sin allora soltanto come parvenze che non fosse necessario
fissare, nominare, distinguere, rose, eravate inserte nella luce
della vita come le gradinate di pietra, come le correnti vetture
di metallo di legno di vetro, come i balenanti denti di bocche
giovanili, rose, biondi pallori d'aurora, ondulamenti d'acque, seni
di statue, remoti folti di astri.... Vi eran state notti in cui mio
padre m'additava talune costellazioni, ed io amavo smarrirle in quel
lassù forse tumultuoso del quale sapevo non mi sarebbe mai giunta
l'eco. C'è bisogno di guardare ciò che splende? La mia attenzione
andava unicamente, sì, alle cose invisibili: andava agli inafferrabili
accordi della mente, ai loro riflessi sulle fisionomie umane, brividi
di polsi, pause dense intense.... Non il creato mi stupiva, ma l'uomo,
il portatore nel creato d'una nascosta fiamma. Con prona passione
spiavo nella sua coscienza la volontà dell'universo, il secreto ordine
dinamico. Spiavo, sorprendevo. Oh solitudine! L'uomo mi s'erge dinanzi
come se veramente io facessi parte dell'inconsapevole: come fossi
fiore, nido, stella: e di tutto il suo interno travaglio, dell'assalto
ch'egli mena temerario alle ragioni e alle forme, d'ogni concetto e
d'ogni architettura neppur in minima guisa io son complice: donna,
sotto la specie dell'eterno, immota, contemplante lontana.
«Sorridi»!
Con il sapore del mio bacio ingenuo e del mio sorriso io gli
trasmettevo fede. Trepida attendevo un dono più grande del mio.
«Mia creatura» mi diceva, e pur talora si dissolveva come un bimbo
fra le braccia della madre al buio, oh quanto umano, col terrore e il
rancore del bimbo scampato all'incubo.... Povero, povero caro! A mia
volta lo chiamavo per nome, in spasimoso impeto aderendo a quella sua
realtà bisognosa. Fiori passavano dal mio sangue al suo, tutte le cose
festevoli che la sua infanzia non aveva avuto, la baldanza candida
della sanità e della ricchezza, quasi il bel color sulle guance. Si
persuadeva, vedeva giardini dov'eran state paludi, e la figura di sua
madre fra le aiuole smaltate m'assomigliava, le labbra aperte al canto.
Gioia, eri come un dipinto che sbocciato dalle mie dita io venerassi.
Lo intese Felice il giorno che ci rivedemmo, e fu l'ultima volta che
ci rivedemmo, il giorno ch'egli mi trovò accanto al letto di Andrea
ed il pomeriggio era mite; Andrea posava convalescente fra i bianchi
cuscini dopo settimane di malattia. La malattia s'era abbattuta
pesante nella stanza del mio secondo battesimo, m'aveva dato in balìa
totale la carne e i nervi del mio amico, forse non per altro era stata
mandata, perch'io mi sentissi necessaria dove mi credevo alto giuoco.
L'infermo guariva alle mie cure. Indicibile metamorfosi dell'amore in
tenerezza, passaggio incalcolato dalla libertà alla schiavitù, volere
in ombra, ticchettìo dell'orologio, ticchettìo uguale dell'orologio.
E Felice, che dopo l'accettazione frenetica del sacrificio m'aveva
scritto e riscritto delirando di rimpianto, come un bendato che fosse
stato condotto attraverso regioni in sole, protestando che non voleva
rassegnarsi, giurando di riprendermi, Felice venuto acre e tremante
per coglier agli angoli della mia bocca un fremito irrefragabile,
stette fra noi due un'ora, un'ora che neppur alla sua anima certo
egli mai potè raccontare, fra la zona azzurra della mia grave soavità
e la zona rosso-bruna dell'uomo sicuro, sostò, viandante com'egli
amava chiamarsi; forse non parlammo che d'ali migranti, poi ch'era
settembre....
Vespero di settembre, in cui non vissi il mio dolore! Quegli che
s'allontanava disperato e persuaso non fu seguito neppure dal mio
pensiero silenzioso. M'afferrò il gorgo d'un'altra sofferenza, lo
stupore per l'improvviso tormento fosco di colui che fra i guanciali
pareva voler inabissarsi, nascondeva la fronte, mi mostrava soltanto
le spalle e le mani contratte. Morbo fin allora sconosciuto, che
respirai, atroce gelosia del passato, fame di spettri! E rantolava:
«Egli è bello, devi averlo amato più di me....». Ah uomo, uomo! Venivo
da un limbo dove i moti irriflessi dell'istinto m'avevan per tanta
parte della mia giovinezza colmata di disgusto; ora credendomi balzata
nella sfera dei viventi, nel dominio d'un dei pochi che sanno o cercan
di sapere perchè son nati, volevo giustificare anche ciò che più
ingenerosamente mi colpiva. Lasciatemi dire, aiutatemi a dire. C'è una
creatura fresca come l'istante che sboccia sul prato o sul greto, che
non ha nulla dietro a sè, non appoggi, non esempi, e sporge la fronte
rotonda. Che le dovrebbe importare l'istante di prima e quello di poi?
È fatta per darsi, e per cantar la gioia che dal suo donarsi viene
a splendere sul volto del mondo. In che la possono toccare storia e
religione, poichè è l'innocenza? Ali violette di ciclami, ali rosate
di conchiglie l'appagano. Ma quegli che il seno nudo di lei trova più
dolce di qualunque riviera carezzata dal tramonto in un paese felice,
non si contenta tuttavia. Forse ha torto, ma la potenza che lo trascina
a tormentarsi, la terribile manìa dagli infiniti aspetti gli soverchia
l'anima, e la fresca creatura dalla fronte rotonda comprende questo,
ella è intelligenza ed amore, soffre ma comprende, giglio della valle
vestito di luce, allodola salva da ogni uragano, fatta per cantare
è costretta a meditare, a coltivare in sè facoltà senza grazia, oh
polverosa memoria, oh asmatica logica!, è costretta ad analizzare
e a notare, a trovar senso nei nomi astratti, senso nella categoria
dei valori, nell'asceta come nel guerriero.... Asceta e guerriero,
per voi! Voi affermate che siete spirito e ch'io sono natura, e forse
non v'ingannate. Se io, immolandomi, con la tenacità d'uno sforzo che
non saprete mai quanto tremendo, vi provo che posso riconoscer tutto
di voi, con le stesse parole che vi foggiaste, catene di piombo per
me, se vi do la testimonianza lucida di come la mia vita di donna
fu attenta ai vostri modi e ai vostri fini, non riaccosterete voi
nella vostra lealtà i due termini che con frusto orgoglio dichiaraste
inconciliabili? Poi venga, forse un'alba forse una sera, come
l'improvviso fior bianco di Espero contro cieli di viola e di fiamma,
qualcuno con squillante riso, una giovine meraviglia, una divinità
duplice, e ci annienti nel suo abbraccio, oh sapore di vita conclusa!

Ali di ciclami, ali di conchiglie. Foreste dall'ombra bionda, dune
lunari. In un giorno di tempesta, senza traccia in cielo di colore,
scorsi d'improvviso il più vago iride in un breve lembo di schiuma
lasciato da un'onda sulla rena. Specchio istantaneo del celato sole,
evanescente imagine dell'invisibile.
Brage infuocate all'estremo orizzonte, in tramonti d'ogni stagione, per
le mie mani, amore!
E il fondo della stanza s'irradia, la stanza coi muri bianchi lassù
presso la pineta, coi muri bianchi qui dove a quel tempo penso. Fra i
due schermi in attesa tutto ciò che s'è proiettato mi sfida. Immensità,
ti si vive, ma non ti si rende.
Un ponte.
«Per te» dicevo all'effigie di mio figlio. Ma non era per lui soltanto
e già mormoravo: «Se egli non m'intenderà, questo che faccio non sarà
tuttavia vano».
Vedo quel tempo, di là dal ponte. Tutto ciò che non scrivevo: l'alito
autunnale, l'affiorar dei colchici, il deserto a losanghe staccionate,
le agnella che nascevano fra le greggi nomadi. Certe ore sospese,
quasi riverse nello spazio, la terra invadendo il cielo. Il ritmo
che sovrasta, me inconsapevole, tutte le mie energie: che, certo,
prometteva di palesarmisi, fosse pur fra dieci anni, prometteva di non
smarrirsi se anche non gli avessi porto orecchio: ch'era, di già, nel
mio passo e nel mio sguardo, in quelle ultime camminate per la strada
dominante Roma. La città dove il mio destino pareva inciso in pochi
rudi tratti: devozione all'opera, devozione all'amico: poi, forse,
intorno al capo stanco le braccia del figlio. Rudezza, oscurità,
coraggio. Bruni scendevano taluni pomeriggi ad avvolgere la casa
solitaria, la pioggia mutava in nubi i campi, il freddo m'interrompeva
la fatica.... Brividi, fors'anche di febbre. Se qualcuno m'avesse detto
«Che cosa hai?» non avrei udito. «Perchè ti batte così forte il cuore?
Che vedi? Sembra che tu non abbia mai conosciuto nè dolore nè gioia o
che tu abbia tutto dimenticato, sembra che la tua vita non sia che una
spoglia, qualcosa che non t'appartenga, e il tuo respiro ha la violenza
dell'acqua e del vento....»


_IL PECCATO._

Sette anni. Un albero di folto fogliame.
Le foglie, giorni, ore, attimi, han bevuta la luce, tutta, si son
lasciate, tutte, penetrar dall'aria. Nulla che non sia stato in
pienezza sentito e consumato.
Che cos'è la nostalgia? Richiamo desolato di emozioni interrotte,
stroncate, di cose intravedute e non possedute, di luoghi e di età a
cui non potemmo darci interi. Io non ho nostalgia della mia perfetta
infanzia, l'ho della mia adolescenza trafugatami. I mesi in cui allevai
il mio bimbo, se in mente li rivivo, appassionati e radiosi, stolto
sacrilegio sarebbe rimpiangerli. Così non soffro, ora che è chiuso e
lontano, pensando al tempo in cui Andrea ebbe per me la sua vita paga
e colma. Quando lo sentivo felice, e n'ero ebbra. Quand'ero giunta, oh
istinto della donna, istinto abnegante, per lui liberare dai mostri
del dubbio, da ogni paura del passato, ad avvelenarne le vene mie
create sane. Che per lo spettacolo del mio tormento egli si sentisse
più certo della propria gioia, poi che tale era la legge dell'anima
sua! Un rantolo sfuggitogli una volta, quanti doveva generarne nel mio
petto: E gli dicevo: «Se qualcuna delle donne che hai desiderato, se
l'ultima, ecco, apprendesse da me ad amarti e ti si offrisse, oh mia
vita, non farei un moto per trattenerti....». Gli dicevo: «Come posso
illudermi di bastarti, e che tu abbia dimenticato tutte le altre,
quelle che non ti si son date e pur affermavano di volerti bene, quella
ch'era vergine e aveva le guance di pesca, l'altra ch'era fastosa
dominatrice, e questa, questa ch'è qua vicino, che ha l'arma ch'io non
avrò mai, l'ironia su labbra sottili?». Le compiangevo di non averlo
saputo adorare. Vissero nelle mie allucinazioni, esse che m'ignoravano,
vissero esaltate e beate or l'una or l'altra, ringraziandomi e
schernendomi. Io che non avevo mai assolta in cuor mio mia madre d'aver
perduto per gelosia la potestà su sè stessa, infinite volte mi sentii
a mezzo il sonno svegliar in tortura, chiamata da un'acqua profonda per
sottrarmi alle fiamme, com'ella certo il mattino in cui si gettò dalla
finestra sul selciato.... «Bisognava resistere, mamma!» ferocemente io
le avevo gridato quand'ella fu salva nel corpo ma per sempre colpita
dentro la fronte. Ah tutto che senza pietà, inesorabile come la luce,
pretese in me lo spirito dalla forza umana, tutto venne a me stessa via
via dal destino proposto, tutto dovetti con me stessa col mio sangue
dimostrar possibile!
Non scagliar pietre, giovinezza senza peccato!
Libero, non più tremante, egli conosceva per la prima volta in vita
il calmo senso del possesso. Una donna era sua, gli apparteneva, si
consumava per essergli ancor più in balìa. Una volta mi spiegò: «Ti
amo, vedi, come da noi si ama il proprio pezzo di terra».
Vi son migliaia di foglietti che io non voglio rileggere, d'allora,
inchiostri impalliditi, matite svanienti, vi sono, in pacchi alla
rinfusa nel mio fardello d'errabonda, migliaia di note ch'io prendevo
null'altro che per necessità di riconoscermi, di là da tutto quanto
avevo raggiunto, di là dallo stesso libro che scrivevo che pubblicavo
che difendevo, note di stupore il più sovente, note di spasimo,
analisi, indagini, divinazioni e puerilità, getti, smarrimenti, tutti
i miei sensi che cedevano al verbo, che del verbo si sostentavano,
la malinconia che gli uomini han raffigurata in Narciso, un pudore
selvaggio, una selvaggia nudità, recondita ogni legge ogni armonia,
migliaia di pagine senza data, fronde accartocciate per guanciale alla
mia stanchezza se mai una volta la stanchezza mi vinca.
Per il riposo che mai conobbi durante una notte intera, durante un'ora
diurna intera.
Ventilavano senza pietà per me tutte le mie energie a ristorar la
fronte dell'uomo che volevo benedicesse così sempre la vita. Fresco
balsamo io gli ero in virtù delle orge di pianto cui m'abbandonavo
quand'egli non mi vedeva, in virtù del tormento inacquetabile che dava
alle mie pupille uno scintillìo di più serena notte. Lo interrogavo
nel sonno pregando che l'incanto su lui durasse, ch'egli non si
svegliasse. Come era così rapidamente passato dalla sua cupa negazione
umana a tanta ferma fede! Non per la bellezza dell'anima mia ch'egli
non la sentiva come sentiva invece ogni sera ed ogni mattina il mio
corpo; chè gli era questo, davvero sì, simile al pezzo di terra che
ci sostenta. Era bastata al miracolo la mia forma lucente, il calor
del mio petto, non m'illudessi! E la verità gli sarebbe riapparsa
menzogna s'io ammalassi, s'io morissi, questo mondo in ansito perpetuo
non l'avrebbe più esaltato? Come saperlo, se mi faceva sobbalzar di
terrore la vista solamente d'un corrugar delle sua ciglia nel sogno!
Ero la schiava della mia forza: della mia creatrice immaginazione
ormai: del ritmo impresso al mio cuore. Il mio potere era questo: far
trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tal potere anche
se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perchè. Senza
soggetto, quasi. Occhi miei che non avevan feste e non si dolevano.
M'avrebbe amata senza la mia bellezza? Volto ch'egli m'insegnava ad
incorniciare, snello mio corpo austeramente sdegnoso fin allora di
qualsiasi specchio! Tanti credettero, vedendoci accanto, ad un mio
sacrifizio fisico! No. Altro gli gettavo ai piedi, ed egli non lo seppe
veramente mai, egli che pure m'aveva detto: «devi aver confidenza in
me». Confidare. Non vuol dire certezza d'essere indovinati? E l'avevo
subito perduta. Quei miei fogli d'appunti io li nascondevo, sola cosa
mia che non gli permettevo di conoscere, unica mia gelosa proprietà.
«Non hai bisogno della mia anima — gli dicevo guardandolo dormire —
e perchè dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare,
da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu centro
del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda
della tua mente. Ti mancava soltanto questo, povero bimbo grande,
l'equilibrio organico e con me l'hai ottenuto. Riposi così tutte le
notti con la mano sul mio cuore: e ti basta il suo bel respiro. Tale
è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di
sconfinamento. Non sai la vertigine di me che son pronta a sparire
se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esiga la tua missione, il tuo
maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere. Ti porto ogni
sera una ricchezza più grande, e la brucio in silenzio fra le tue
braccia, che tu veda null'altro che un bagliore caldo su la mia pelle.
M'accresco, m'accresco, della folla bruta che rasento, dei bimbi che mi
trattengo dal carezzare, del boccone miserabile che trangugio freddo,
d'ogni luce che svaria, d'ogni domanda che mi rivolgo sempre più
spietata. Non un mio minuto che non sia tensione, sforzo. Confondermi
volevo con il tutto e son da tutto così staccata! Anche dal mio
libro, povero umile attestato di resistenza umana; cosa rigida, senza
benedizione, senza sorridente divinità.... Dio. Mi si manifesterà nella
tua poesia? Tu, se hai il genio, fa' di me quel che vuoi. Io non posso
che ardere, intera, quale sono, quale divengo di sera in sera....».

Dio.
No, non lo nominavo.
Ma — una catena di cuspidi è la vita.
In monti s'elevano i costruttivi giorni che il dolore sfidarono, il
dolore laggiù nel piano, il dolore, mare, oceano, acqua stagnante o
tempestosa.
Cime bianche, vertici di lunghi anni, ridenti vertici nel sole!
Non nominavo in quel tempo Iddio.
Ma — rinuncia ad ogni tangibile giustizia: al mio figlio stesso;
aspirazione ad uscir da me, da quella mia così atrocemente conquistata
coscienza dalla forma di vita quasi santa che ancor mi pareva
troppo facile, vile; l'avvenire, in millenni, che in certi attimi
ineffabilmente credevo d'aver già sorvolato: moltiplicazione, ideale
estensione di brividi nel tempo; chi, chi musicava di note tanto
verginee le linee virili della mia fronte?
Religioso culmine — ma non sapevo di toccarlo.

Pur commisi allora il peccato di cui mi sono confessata, il solo forse
concreto peccato della mia vita. Andrea m'indusse e non m'opposi.
Asportò egli dal mio libro le pagine dove io diceva il mio amore per
Felice. Ed io lasciai amputare così quella che voleva, che gridava
esser opera di verità. Come un altro qualunque dei tagli operati sul
manoscritto, come su un qualunque lavoro letterario. Uncinò i margini
con parole sue. Dov'era la piccola gagliarda che si chiamava Rina, che
da sola dopo tanta tribolata umiliazione aveva un giorno intrepidamente
agito e s'era assolta? Ribattezzata, ripiantata. L'uomo ha un così
ingenuo istinto di coltivatore!

E l'altra persona offesa? Che cosa avrebbe detto Felice alla comparsa
del libro?

Lagrime che più non piango, creature perdute, selve oscure immobili nel
tempo....
Parole da dire, anima mia. Parole che dici, quando il minuto ti coglie,
fra miriadi, e poi senti che la morte non avrebbe potuto chiuderti la
bocca senza che tu le avessi dette.
Fra la morte e la sorte, misterioso patto! T'amano le due sorelle in
ugual misura.
Ali intorno alla mia fronte, meditabondo respiro, forza, elemento.
Campi lavorati dalla mia passione, e acque, e rupi, certezze, sgomenti,
inni.
Visioni che diventan parole.
Accostamenti, come nella vita, impresentibili. E silenzi, gorghi,
distrazioni, indi ritorni, al minuto esatto, o sorte sicura come la
morte!

Non lesse il mio libro Felice.
Morì chiamandomi ancora Rina.
Non s'uccise, morì, in due giorni, dopo due anni dal nostro distacco,
per non so qual male fulmineo, senza nessuno accanto, forse senza
credere di morire.
M'ha chiamata? Non l'ho sentito, non l'ho riveduto. M'ha detto la cosa
un mattino Andrea, adagio. E adagio ho rantolato no, no, che non doveva
esser vero.
No al destino, Rina?
Ma io avevo differito, differito.... Per non dar dolore a
quest'altr'uomo non avevo mai più scritto all'abbandonato, m'era
mancata la forza di andar in fondo alla mia speranza, di creare,
di alitare una fraternità umorosa dopo l'amore, dopo l'ultima notte
vegliata sull'amore.... Miseria mia! Lasciami stare, tu Andrea. Va'
via, se ti fa male. Lascia. M'era caro! Non potrò mai più fargli sapere
quanto m'era caro. Il tempo s'era fermato, c'era qualcosa di fisso;
anche dopo dieci anni rivedendolo gli avrei preso fra le mani quella
sua testa dove i capelli erano fiamma, tenerezza, spasimo....

E non sono io qui, e tanto tempo è, Felice, che sei bianca polvere nel
tuo cimitero di montagna, non sono io qui, brivido ancora, pensiero di
te ancora?
Altri ho amato, dopo quegli stesso per cui t'ho sacrificato, altri più
saldamente, con più fiera disperazione. Ma per nessuno forse avrò mai
quest'accento che forse era tuo, cuore elegiaco, cuore che prima degli
altri tremasti ti smarristi ascoltandomi. Quel mattino che ti seppi
morto mi parve finita la mia giovinezza. E no, finisce invece oggi che
termino d'evocarti, Felice, per chi? Da oggi non m'appartieni più, e
tutto quello che di te non ha saputo fissare svanisce per sempre, e
questo ch'è qui chiuso non sarà più mai che una cosa sognata e donata
via, donata via, o nostra giovinezza, alla vita!

Lontananze verdi azzurre corse d'ombre d'argento, vi furono occhi che
non vi vedranno più.
Oro levante dal mare, cornici di ghiaccio verso sera incandescenti,
solchi di voli: in quello sguardo mai più.
Si sarebbero stancate le sue pupille? Adolescenti eterne son le
apparenze.
O la beltà della terra mai si corrompe per ciò soltanto, che non tutti
gli umani specchi si appannano, che taluno si frange quand'è più terso?
Còlte nel sonno, còlte in battaglia, ignare o ribelli o pronte, di
giovinezze tronche son soffusi gli orizzonti, di giovinezze che non
maturarono, non si sfecero, senza figli senza opere, e i tramonti per
ciò solo forse nei cieli han tutti sempre magie d'aurore.

Un filo di canto, un filo di canto che mi dica di essenze senza nome,
di essenze solamente, senza spiegazione!


_LE CAROVANE._

Le stagioni si seguono, ritornano identiche, c'è qualcosa che cresce,
qualcosa con leggi che paion diverse, oscure — e quanto vivrà se
intorno ebbe, mentre si formava, tanta mutabilità di cieli?
Fibre di donna sanno la lentezza solitaria del tempo che inturgida un
grembo, ma agli innumerevoli attimi ritmati dal duplice cuore c'è un
termine fisso. Chi invece potrà dirmi se quest'opera mia sarà compiuta
fra un anno o fra altri dieci, essa che dovrà poi intangibile restare,
opera mia, polvere stellare?
E la traversa il vento, odor di pane caldo, odor di muricciuoli
muscosi, odor di trucioli sotto la pialla. L'investe, essa sospesa come
veramente disgregati atomi, il vento di volontà strane.
Incominciata credendo ugualmente lontane quelle che invece rombano
rombano, che folgorando lacerano l'aria. Creazione incominciata come si
prega, attimo brividente della concezione, come per il figlio, e tutto
il resto è più soltanto travaglio, travagliata sorte.
Morte e vita folgorano.
Tocco del sole al rintocco di mezzogiorno sui muri sulle altane sugli
orti delle case tante che a mezzo il giorno m'ebbero. Vento di sera
su le palpebre, sulle ciglia degli occhi che han pianto dianzi, vento
dolce.
Travaglio, tormento, e fresche solitarie perle. Case ferme, nuvole
fluenti.

Una pagina di bravura: scritta come fu vissuta: con dura volontà, e
così poco per me! Ch'io ho in cuore tutt'altro, che par trabocchi e non
posso ancora assolvere.
Compatta, stagliata bravura.
Bimba, mi separavo nettamente dal gioco per il còmpito, come un corpo
stillante dall'onda s'avvolge nella rena. Poi fra gli operai di mio
padre, centinaia, nell'ansito enorme dei forni — è rimasto nel mio
sguardo un poco della vampa e dell'incandescenza della materia fusa?
— mi sentivo innestata pulsante in quell'attività, a gara quasi con il
cervello di chi la dirigeva e con i muscoli degli altri. Ho allineato
cifre, diritta ho sorvegliato le opere manuali, ho portato per ischerzo
dei pesi sulle braccia che qualche anno dopo reggevano il mio piccino.
Figlia di padroni. Tanta forza da spendere, tanta per giungere,
esangue, ad intendere la libertà lieve d'una linea di montagne azzurre,
là giù....
Compattezza, assai tempo più tardi, di povere necessità, quasi
inavvertite aggiunte esterne al dolore fedele: la misura del soldo, il
cibo preparato con le mie mani, la vana tentazione d'un frutto o d'un
poco di profumo: il lavoro per quel soldo, fatica greve di spogliar
giornali di sfogliar riviste, occhi su bozze d'estranei, pennino che
traduce volumi e volumi, stolidità, mesi, anni....
Le cime delle mie dita son come petali tuttavia.

Apologia di Socrate, scoperta una sera, compenso d'infinite biografie
cenciose!

Vidi passare carovane. Continuano il loro andare, certo.

Donne in sale d'ospedale mi porsero i loro piccoli, migliaia di donne,
poveri lineamenti duri, aride labbra. In ore mattutine ch'erano talune
terse e fragranti miseramente migliaia di piccole membra nude mi si
mostrarono, e le loro condanne.

Vidi luridi sacchi d'indigenza, nei fondi e nei sobborghi, ch'erano
stati figli di popolo, avevano indifferentemente lavorato e rubato, ora
fuorusciti di galera impassibili s'ammucchiavano.

Intorno alla città lo spazio s'apriva interminabile per la fuga. Grandi
ombre al suolo. Suolo dell'Agro Romano, erano gli intenti cirri nel
cielo d'oro. Tutte le forme apparivano per stamparsi così brune a
terra, nomadi bassorilievi. E il bruno e l'oro, la rasa pianura e il
cavo velario del tempo cantavano.
Fu un'estate, od un inverno, non so. Vidi quella maestà deserta
avvallarsi come certi sguardi: e insospettate, nei campi d'ombra dove
l'umano pareva remoto, bruire vite. Cose di creta, ancora o di già?
M'interrogavano: «Donde vieni? Come sei bianca!».
(Dolore, dolore d'oggi e di sempre, non ti vinco, sei presente. Le
imagini che richiamo nulla tolgono nè aggiungono al sapore di terra che
ho in bocca. Ma, nata signora, e guerriera, scrivo, con la stessa mano
che leggera ha portato ieri un tralcio di rose al giovine ferito che
m'ignora. L'ha baciata egli con senso strano, e bello era il tralcio
fra quel sommesso stupore e il mio sorriso di lontano).
«Donde vieni?»
Indicai Roma, come un giardino di cristallo che stesse appena sorgendo
sullo sfondo di quell'immensità.
Una singhiozzante letizia, un attimo, può creare una rude legge di anni.
Mio divenne tutto il terreno di chi una volta aveva colonizzato il
mondo: più mio che se a cavallo a galoppo lo percorressi sconfinato
dall'adolescenza: dominio aureolato; e accanto a me videro giungere
quanti con Andrea trascinai; dai villaggi di paglia e di mota e dalle
imprevedute caverne, dubbiosi s'affacciarono all'arrivo della nuova
gente, dei maestri, dei libri: il suolo più e più s'avvallava, verso
mare, verso monte, o tutto polvere o tutto acquitrino, luccicava
febbrile, mi risollevava in viso grandi occhi di rugiada, certe albe
che un'improvvisa melodia chiomata di pini s'accordava al volo alto
d'un'allodola.
Risero e piansero i più vecchi imparando a compitare — questo è il
ricordo più sicuro di quella mia lunga opera: esso vale ch'io non
lamenti la forza e la passione che le diede.
Terree dita tremanti che apprendevano una ormai vana per loro scienza,
come una musica soltanto ormai.
E quivi era la giustizia: nella realtà e nella tenuità di quella gioia,
loro e mia.

Parvi arruolata per sempre fra coloro ch'han l'esistenza riempiuta
così, fondano scuole ed ospizi, si scambiano patetiche visite, fidano
in un ordinato avvenire sociale.

Un fantasma sopraggiunge, ha il passo scalzo, ha un caro gesto.
Francesco, santo della mia valle.
Se ancora questa mente lo riceve, vadano ancora sempre trascurate le
bige ironie.
Come se posta io alla sua sinistra avesse egli, quando chi sa,
cancellato le braccia in modo di croce, messo la mano diritta sul
mio capo, e dettomi con dolce riso, come al suo Bernardo: «andando e
stando».

Andando e stando, amore.
Gioia di dare, gioia di ricevere, senza saper nulla del domani, senza
nulla attendere.
Dov'era sostanza grigia di roccia, uguale e tutta bruciante, ecco
freschi rivoli, colorati giochi.
Con Francesco si son rese sensibili le primavere d'Italia. Le mura si
son dipinte. Per le lande s'è cantato. Oh Siena, oh Ravenna!
Mistica libertà, sapienza spaziale della mia terra, realtà insolvibile
ed universa.
Andando e stando.

Fu in quel tempo che il mio povero libro ramingò per il mondo.
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