Il passaggio: Romanzo - 1

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SIBILLA ALERAMO

IL
PASSAGGIO
ROMANZO
_Tutto sarà trasformato_
_in qualcosa di ricco e di strano._
SHAKESPEARE.

FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO, EDITORI
MCMXXI


PROPRIETÀ LETTERARIA
DEGLI EDITORI R. BEMPORAD & FIGLIO
I diritti di riproduzione e traduzione son riservati
per tutti i paesi,
compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda
_Copyright 1920 by R. Bemporad & F.º_
427-920 — Firenze, Tipografia “L'Arte della Stampa” Succ. Landi


_IL SILENZIO._

Il silenzio attende. Il silenzio, la più fedele cosa che in vita
m'abbia allacciato. Più grande di me, via via ch'io crescevo anch'esso
cresceva, sempre pareva volesse ascoltarmi e tacevamo insieme, ed
ancora io mi ritrovavo uguale fra le sue braccia, senza statura,
senza età, creata dal silenzio stesso, forse, per un suo desiderio
immutabile, o forse non mai nata, larva ch'esso proteggeva.
Ancora una volta sono sola, sono lontana, e tutto intorno tace.
Lontano è chi mi ama, chi forse stanotte è pronto a sparire e mi
benedice avendo creduto in me. Lontani quelli che ho fatto soffrire e
quelli che m'hanno fatto soffrire, quelli che vorrebbero dimenticarmi
e non sanno di non avermi conosciuta. E ci sono sfondi dove non sono
attesa e dove altri viluppi di luce e d'ombra stanno e palpitano:
invano il silenzio li cinge.
Nelle acque ferme laggiù tra i giunchi le stelle riposano.
Perchè debbo cederti, o mio fedele?
Tu che delle inutili domande tanto ripetute fra i singhiozzi facevi
entro il mio petto improvvisi guizzi di melodia, tu, s'io guardavo sino
al torpore forme docili ed insensate, qualche tizzo che ardeva, qualche
rama squassata al vento, un poco di parete bianca o un'allegoria di
vele di ali sul mare.
Sono sola, nessun fiato fuor che il mio agita la fiamma di questa
piccola lucerna.
Fuori, nel buio, qualcosa dilegua, ad ogni istante muore.
Lontane ugualmente da me la morte e la vita, s'io alfine parli.
Ma come se quest'ora tuttavia fosse la mia ultima.
Come s'io non dovessi mai più ritrovarmi nuova sotto la carezza
dell'aria.
È l'ora nostra, o mio fedele, ferma come le acque là tra i giunchi dove
le stelle riposano.


_LE ALI._

Prendo la mia forza, e prendo la mia pena e la mia ansia.
Chi mi ha fatta così forte?
Per tanto tempo ho creduto fosse un miracolo: sapevo d'avere in me
elementi in guerra, la soavità di mia madre e la violenza di mio padre,
la timorosa melanconia dell'una e la ribelle baldanza dell'altro, il
desiderio di cantare a voce sommessa per me sola e quello d'agire
in mezzo al mondo, istinto di dedizione e istinto di conquista in
opposizione perpetua: in tutto ciò non vedevo che cespite di debolezza.
I miei genitori errarono unendosi, mi dicevo: è nella diversità delle
loro tempre la causa del male che porto dentro me senza riparo. E se
nonostante il male c'è in me anche tanto incredibile valore, mi dicevo,
si tratta d'un prodigio ch'è vano sondare.
Ma, or non è molto, una notte ch'io vegliavo dopo non so quante altre,
in una stanza dove saliva il ritmo ferrigno d'un fiume in piena, e
nella veglia, giacendo immobile, guardavo fissa al fantasma d'un lungo
supplizio da cui mi strappavo allora con un più grande impulso di vita,
d'improvviso un pensiero, ch'era insieme una certezza, mi sfolgorò
dinanzi nel buio. Pensiero od immaginazione non so. Io non so se i
nomi di cui mi servo per tutte le cose di cui parlo sono i veri. Sono
stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre. Ma quel che importa
non è nominare, è mostrare le cose. Quella notte, mentre io ascoltavo
la voce del fiume gorgogliar aspra sotto gli archi del ponte e guardavo
nel mio petto un dolore già indurito, già pronto a divenir pietra,
mi trovai a pensare come in sogno a ciò che aveva unito mia madre e
mio padre, al loro amore. Pensai le loro due giovinezze. Io ero stata
concepita in un'estasi e in un delirio da quelle due creature allora
nuove, belle, vittoriose d'ogni tristezza per me in quel mio primo
attimo. Bacio da cui son nata, eri un canto ch'esprimevano per me due
innamorati, eri canto pieno, ed io t'ho portato nelle vene, eco che
nulla mai ha potuto estinguere. Io la primogenita, frutto di gioia,
fusione di due fiamme. Si amavano perchè non si somigliavano, perchè
tutto dell'uno meravigliava l'altro. E le loro esistenze si gettavano
incontro per me, per formare una creatura unica, che vivesse la vita
intera, la vita così diversa in lor due, l'accettasse e l'amasse nella
sua totalità. Essi non lo sapevano. Se lo avessero saputo, forse, dopo
avermi veduto nascere si sarebbero staccati, forse non avrebbero voluto
creare insieme altri figli con diminuito impeto, per un destino meno
gagliardo. In me sola s'è trasmesso veramente ciò che li congiunse.
Forza d'amore che perennemente solve in me ogni malore. Per quante
volte nelle notti offersi il mio cuore ad una scure tralucente e
l'ascoltai rintoccare cupo nel gran vuoto, sempre, poi che ancora non
era l'ora della morte, potei rialzarmi e tendermi all'alba verso il
cielo bianco, tendere le braccia alla giornata nuova. E se quei due,
ora così lontani, null'altro m'avessero dato, questo basterebbe, questa
volontà chiara di essere.

La lampada della vita — le mie mani l'hanno afferrata.
Creatura mattutina, agito dolce l'aria quando il giorno sorge limpido
e sulla fronte benedice e rapisce, veramente fatto di cielo.
Mattini di primavera in cui adolescente scopersi che le rame degli
ulivi eran d'argento e fremevano e fervevano nel sole. Mattini
dell'ultimo settembre nell'isola di rupi e di rovi così aspra come
bella. E altri par che mi aspettino, su rive che ancor non conosco o
fors'anche dove già passai in sere grige. Ritorni perfetti di melodie,
attimi d'identità luminosa. La terra ed io siamo una sola cosa intensa
che solleva l'azzurro.
Ma un altro ritmo anche torna senza mai affievolirsi. Sopra una distesa
enorme di mare in tempesta, sul fragore di bianche onde, bianche
ali di gabbiani danzano. Sembra che danzino, in accordo con le cime
fluttuanti, accompagnano con il volo e con lo svariar dei riflessi
candidi la sommossa acqua e la spuma e le nuvole folte a l'orizzonte.
Cercano la vita tra il furore, vivono così librandosi con fiera armonia
nello spazio iroso. Quando le grandi acque ridiventano color turchese
e soltanto più un brivido sottile le sfiora, i gabbiani dileguano.
Ansia, ala inquieta dell'anima mia!
«Signore, fammi diventare grande e brava» pregavo da bimba accanto
alla mamma. Unico tempo in cui ho pregato, unica mia preghiera, ed era
piuttosto una promessa, quasi un patto.
Ansia di tutto comprendere, di tutto rispettare e sormontare.
Attenzione trepida ed instancabile, religiosa vigilanza della mia
umanità. Come se io fossi, invece d'una persona, un'idea, un'idea da
estrarre, da manifestare, da imporre, da portare in salvo. Respira in
me occultamente una vita sacra?
Pur sono quella stessa che sorride nelle fresche aurore, simile ad una
corolla sbocciata per quel dì soltanto.
Con mani amorose ho alzata la face trasmessami. Ho contemplato
l'agitato mistero del mio spirito, e il lucido aspetto dell'universo,
e tanti che ho pensato vivi come me, uomini e donne, ed il pulsar delle
vene sulla loro fronte.
Uomini e donne sono sul mio cammino perch'io li ami.
Li amo, li sento vivere, la loro vita si aggiunge alla mia.
Che cosa io sarei senza questi incontri, senza le strade che ho
percorso?
Tutto m'attendeva, e nell'ora esatta.
Tutti m'hanno dato. Tutti pareva fossero stati creati per me, per far
che divenissi, sì, più grande per ognuno che avvicinavo, e più brava.
Li guardavo perdutamente, e così adorando credevo di darmi ed invece
prendevo. Grazia di volti e di corpi, bagliori d'anime, gloria di
godimenti e di patimenti, messaggio senza fine. Mi son venute parole
anche dalle vite deformi e dalle informi. E dove passo ignota, quasi
furtiva, ivi pure imagino talvolta di toccare col mio spirito coloro
che non mi scorgono, di rapirli un attimo a loro stessi, in un caldo
gorgo. Alte vallate, casolari fra i prati, l'erba smorza il fruscìo
del mio piede. Che importa mostrarsi e parlare? Un'onda soave corre
d'improvviso il cuore di chi là dentro umilmente attende la fine.

E la chimera è qui sempre.
Se scrivo, se scavo nel mio pensiero o nella mia passione, e le parole
sono stillanti sangue, credo di darmi ed invece prendo. M'illudo perchè
nutro di me la mia preda. Ma colui che m'ascolta è com'era mio figlio
quando beveva alla mia mammella ed io lo teneva nelle braccia, cosa mia
che faceva preziosa la vita mia.
Affermo me a me stessa: null'altro, null'altro!
Oh, ma affermo tutto ciò di cui mi compongo, tutto che mi sta attorno
e ch'io assorbo! Nulla va perduto. E quando anelo ad essere amata è
ancora il mio amore per tutte le cose che chiede di venir riconosciuto,
è il mondo che vuol esser abbracciato e cantato.
E forse nessuno ha colto su le mie labbra questo sospiro in cui io son
tutto e nulla.
Avevo le guance di rosa e lunghi e tanti capelli, avevo dolce la voce
e apparivo pietosa, per questo mi hanno sorriso e per le ore d'incanto
m'han benedetta. Ma quando son venute le ore tremende, pochi han saputo
non odiarmi.
Sempre, quando la vita si fa tremenda e crudele, sento gli uomini
bestemmiarla e ricusarla. Li sento chiamarla maligna, imaginarla con un
volto che ghigna nelle oscurità misteriose.
Perchè la mia infanzia non conobbe il terrore non ho mai accolto
quest'idea d'un insidioso male originario? La notte era per me fin
d'allora una immensa pupilla bruna, era la vita che si addensava perchè
i figli e le figlie della terra la fissassero senza paura, infinite
costellazioni di occhi. E se la malvagità non è nelle tenebre, non
può essere neppure nei cuori degli uomini. La bimba ch'io era vedeva
talvolta intorno a sè soffrire, vedeva le cause semplici o strane di
tali sofferenze, col respiro sospeso scrutava le inesplicabili, ma
nulla attribuiva mai ad una volontà cattiva, ad una cosciente volontà.
Rina, piccola che ti chiamavi Rina, non bisogna dimenticare ch'eri
sana, ch'eri bella, che fiorivi senza stento nel tuo piccolo giardino,
arboscello diritto e svelto. Ma dunque in un pantano o nello spacco
d'una dura roccia la mia anima sarebbe cresciuta diversa? Queste
certezze che io ho creduto di afferrare via via che la mia esistenza si
svolgeva, rivelazioni della divinità, potevano restarmi ignote per un
piccolo scarto? C'è un destino individuale anche per le idee, anche per
la fecondazione della verità? Ed io valgo in quanto sono il prodotto di
questo destino, per l'insieme delle mie persuasioni, o per ciò ch'ero
prima ancora che incominciassi a pensare, per le virtù con cui sono
nata, d'intelligenza, d'ardore, di sincerità, di coraggio, di tenacia?
Mio padre mi parlava. S'egli fosse stato un altro, se anch'egli fosse
diversamente cresciuto? Poteva possedere quella stessa forma di mente
e non riuscire ad impormela se non avesse ragionato con quella sua
gagliarda passione, se non ci fosse stata tanta fresca spontaneità
in tutte le sue impressioni, e, nel suo carattere, quell'ardimento
sorridente in fondo al quale intuivo qualcosa che posso ora chiamare
stoico. Io ammiravo la sua tempra, come ammiravo la sua alta statura.
Avrebbe potuto, così qual era, significarmi tutto un opposto mondo di
teorie, esaltarmi Iddio o il mistero invece che la volontà o la potenza
dell'uomo, ed io l'avrei ascoltato ugualmente tesa tutta per capire,
per penetrarmi della sua facoltà di fede, e convinta già al timbro e
all'accento della voce, come allo stormir d'un grande albero, come allo
scorrere d'una pura acqua.
Ma s'io non avessi mai conosciuto mio padre?
O se lo spavento m'avesse agguantata, una sera di quella mia puerizia,
per sempre alterandomi nelle chiare orbite le pupille stellanti?

Vedere il mondo con altro sguardo....
Vederlo con gli occhi di quegli a cui da fanciullo precipitò allato il
fulmine. Grandi occhi verdi come l'Arno che gli ha dato il nome: e s'io
gli dicevo anche solo d'un volo di rondini sul suo fiume a primavera,
egli li stravolgeva tremando come ad un richiamo disperato.
E quegli che da bimbo patì tanto freddo, che da bimbo non giocò mai....
L'ho incontrato che aveva già il volto ombrato di fini rughe, e più non
sperava un bene per sè sulla terra. Durante anni l'ho sentito felice.
Posava la notte la sua mano sul mio cuore. Una volta che in sogno gli
parve che quel cuore più non battesse, si destò urlando: «Non è giusto,
non è giusto!».
Oh, m'intenda se la mia voce gli giunge! Intenda ch'io sono la piccola
Rina che guarda lui ragazzo, che son le nostre anime fanciulle a
mirarsi stupite, venute da tanto lontano l'una dall'altra.... Si son
strette, con tanto tremore, ma non potevano mutare. E anche adesso,
anche in questo attimo, s'io gli dico che non mai soffrendo per il
suo dolore, l'ho incolpato d'essermi diverso e se penso che non così
è stato di lui, se penso ch'egli ha potuto provar pietà di sè soltanto
invece che d'ambedue, io chino il capo, chino il capo.

Ugualmente lontana dalla vita e dalla morte?
Ho in bocca sapore di terra.
Non conto più le sere, guardo la legna che arde, i guizzi fanno
biancheggiare le pieghe della mia veste e muovere l'ombra, sulla
parete, d'un ramo, fiorito dove è già primavera, ramo comprato quasi
con livore, come l'uomo compra un'ora d'ebbrezza, portato quassù tra
le braccia arrossendo, oh fragranza dolce, petali lievi che non voglio
baciare! Ho in bocca sapore di terra.
Su l'altra parete so che oscilla il mio profilo. Così lo vide, forse
così soltanto mi ricorda, chi mi disse una notte che quell'immagine
ombrata resterebbe pur sempre la più incantevole mirata dai suoi occhi
nella sua folle vita.
Cosa di grazia inserta, cosa riflessa, oscuro contorno, murata anima.
Così mi amava.
Lui a cui avevo susurrato: «gioia dagli occhi ridi» quando la prima
volta gli piacqui nella deserta luce.
Fuggente il suo riso e pur come questi guizzi aveva vigore d'elemento,
sembianza d'eternità.
Come il raso delle acque se il sole tramonta fra nubi mai eguali.

Soffoco. Simili a nere onde compatte che si gonfiano e ricadono e
risalgono, le visioni della mia mente attorniandomi mi fanno spasimare
di vertigine. Che cos'è questo rullìo, questo rombante respiro d'un
cuore che non è il mio cuore, questo mostruoso ed invisibile stantuffo
che fa andare la nave mentr'io imploro che s'arresti?
Sazietà di questa distesa tempestosa, di queste infinite creste di
schiuma uniformi, bavose, abissali!

Quante altre volte mi rigirai così, come in una gabbia, fra quattro
pareti?
Nel mondo, e dove sole e dove nebbia. Nessuna casa è la mia, sebbene
ogni stanza dov'io passi s'impregni per sempre di me.
E le fermate di notte sotto le tettoie di ferro, nomi diversi, nord o
sud, uno stesso lontanar di fumi rossastri, uno stesso sgancìo netto di
catene.
Le prode dei campi — quant'altri inverni? Umide, sotto uno svariar di
nuvole, con querce gialle su un filo d'orizzonte o presso ombrie folte
d'agrumeti. La terra è dappertutto nera, di novembre.

Accosto i miei polsi alle mie tempie.
Mia ragione, sei qui ancora? Sì, domini ancora ogni battito e ogni
rombo, meravigliosa!
Questo gesto ch'io fo ogni tanto, d'accostarmi i polsi alle tempie
per assicurarmi che non sono pazza, verrà mai il tempo in cui lo
dimenticherò? Il giorno in cui lo sfacelo avvenisse dietro la mia
fronte io non avrei più questi vorticosi istanti di dubbio. Ma forse
ripeterei ancora senza più saperne il senso questo segno che fin
dall'adolescenza m'appartiene, fin da quando ho veduto la follia
distruggere mia madre.
Di là, di là dalla mia ragione, di questa pertinace mia ragione,
mi aspetta forse il mio fantasma. Su una spiaggia abbagliante starà
forse un giorno una che ricorderà agli altri quella ch'io fui, e non
saprà più il suo nome, sognerà e non si sentirà mai sola, sognerà
la testina bionda di suo figlio sotto la sua carezza, sognerà bionde
luci innamorate e bionde ombre di boschi, e forse sorriderà dolce, e
le palme delle mani e le dita si moveranno sopra il suo capo come ali
d'oro.

Se è vero che quella spiaggia m'attende in fondo al mio destino, potrò
avvertire il momento che vi verrò sbalzata?
Sono ancora, ecco, la bambina che restava la sera tante volte sveglia
tardi nell'ombra, per voler accorgersi dell'istante in cui sarebbe
entrata nel sonno....


_LA LETTERA._

C'è una strada, fra tante che ho percorse, aperte al mio coraggio,
ch'io non ho cercate, che ho visto d'improvviso, una strada fra tutte
tracciata perch'io imparassi che cosa vuol dire camminare. Camminare,
andare innanzi avendo lasciato tutto dietro a sè, quanto di più
amaro ma anche quanto di più caro — e nessuno vi attende e nessuno
vi difende. La strada sale, ha svolte, intorno è deserto ondulato, in
basso una città grande appare e scompare. Io avevo venticinque anni.
Staccata da tutta la mia esistenza anteriore, il destino nuovo m'era
ignoto. Il mondo stava forse sciogliendosi da polverulente tele di
ragno, ricreato intero perch'io l'intendessi. Primavera intorno. E il
senso inesprimibile che tutto quanto era stato realtà si trasmutava,
oh lentissimamente, in ricordo, mentre le mie vene pulsavan veloci e
veloce e leggero era il mio passo. Il senso che anche il ricordo si
sarebbe un giorno fatto lieve, sommesso. Come se tutto fosse stato
soltanto incubo, cupa fantasia. Ed io l'avrei, con la stessa fatale
volontà del vento che feconda il fiore, riassunto in un libro, appunto
come una fremente imaginazione, avrei compiuto il tremendo sforzo
d'interpretare a guisa di sogno il lungo male e il lungo pianto....
Oh figlio, ma da quel sogno oscuro tu eri pur uscito, viva cosa di
carne, figlio, passione profonda del mio sangue....
Perchè ti hanno tolto a me?
Eri mio, eri insieme con l'anima mia la sola cosa viva di quella mia
tetra giovinezza; t'avevo cresciuto come crescevo me stessa, non per
quei giorni, ma per altri che dovevan venire.... Figlio, e ho potuto
portare in salvo fuor dell'incubo l'anima mia e non te, non te! Non
hanno voluto, per quanto ti chiedessi urlando.... Sei rimasto lontano.
Lontano. Rimasto per sempre il bimbo che aveva già quasi sette anni.
Ho provato, creatura, ho provato a sentirti diverso, a pensare come
potevano essere i tuoi occhi quando avevi otto anni, quando avevi dieci
e dodici anni.... Cercavo d'imaginare la tua statura mese per mese,
e il tuo sorriso e i tuoi capelli.... Ma la tua voce, figlio, non la
potevo sapere. Venivi nel mio sonno, sogno d'un sogno. E nient'altro,
mai più.

Un secondo destino.

Strada in salita percorsa infinite volte quella primavera, bianca nel
sole, senza una voce sotto le stelle, ed io camminavo sola, scendevo
alla città, risalivo alla casa presso alla pineta, e con me stessa
parlavo per tutta la lunga ora.
Io sola a rispondermi.
Sola con qualcosa di saldo e di erto, ch'io però non sapevo, che
restava senza figurazione, senza alcun pensato rapporto con l'immensità
e la maestà intorno. Andavo. Ardendo di certezza, ardendo di volontà.
Talora sul volto infocato sentivo scorrere lagrime: ma non rallentavo
il passo. Talora la proda verde pareva invitarmi perchè mi gettassi
bocconi singhiozzando: e non cedevo.
Primavera remota e santa. La rivivo a tratti nel mio cuore con uno
stupore sempre più profondo, ma non posso prender per mano la giovane
assorta ch'io ero allora, e mostrarla nel suo miracolo.
Qual'era la mia nuova vera sorte? Che cosa aspettavo dalla mia
resistenza?
Ma non questo mi chiedevo. M'ero sottratta ad un'esistenza vile, m'ero
liberata sanguinante, dopo un combattimento durato per anni dentro di
me. Per me, sì. Per portar salva nel tempo la mia coscienza, sì. Ma già
mi pareva di andar nel mondo come un'innominata: una donna, fra tante
donne: una persona umana nel gran flutto dell'umanità. Avevo voluto
esser io, non per distinguermi ma per sentirmi degna di confondermi nel
tutto: non per credere in me ma per poter credere nella vita.
E quel ch'io ora voglio qui scrivere si divincola torvamente, tenta
sfuggirmi....
Anima, sii forte. Ci sono cime di ghiaccio lucenti nel sole che i miei
occhi potranno rivedere quando ti sarai purificata.

Dissi in quel tempo che soltanto ad un interiore comando avevo ubbidito
lasciando la casa dov'ero moglie e madre. Come si va ad un martirio. Ed
era vero. Dissi che nessuno m'incitava all'atto terribile, e che non
per amore d'un altr'uomo m'esponevo così a perdere per sempre la mia
creatura: anche ciò era vero.
Ma una cosa fu taciuta, allora e più tardi nel mio libro.
Non era per amore d'un altr'uomo ch'io mi liberavo: ma io amavo un
altr'uomo.
L'avevo scelto di lontano, in quell'ultimo mio anno della vita
laggiù, a testimonio di ciò che stava sorgendo in me, lucida brama di
un'esistenza libera e sincera, fremente senso di infinite possibilità
per il mio spirito e per il mio sangue, e strazio e strazio e strazio
per ciò che non avevo il coraggio di spezzare. Scelto di lontano,
per lettera, ricordandolo appena quale l'avevo intraveduto in due
o tre incontri, col sorriso costante dei timidi, una grazia un poco
feminea nell'alta figura, e chiari occhi. Poeta, nostalgico di sensi
e di ritmi. M'aveva detto la sua malinconia randagia, l'oscillazione
fra il mondo della sua cultura e quello del suo sentimento, e il già
stanco ripiegarsi dei suoi sogni di gloria. Sapevo d'esser rimasta
per lui un'imagine di gentilezza, un volto di sorella grave soave
nell'indeterminata rimembranza, e avevo vagamente l'idea che attorno
alla mia fronte egli vedesse una corona degli stellanti ed argentati
fiori della sua alpe. Qualcosa di mia madre si commoveva in me
pensandolo, di mia madre romantica e mite nella sua bellezza bianca
al tempo della giovinezza. Ma una sera mi sorpresi ad evocarlo con
un'intensità maggiore: anelante, dalla mia fosca solitudine, vidi
lui esule in riva ad un mare infiammato, esule e solo pur egli, e da
lungi, gli occhi abbacinati, gli tesi le braccia. Ah, non era mia madre
quella sera che parlava nella mia gola! Gli gridai che lo volevo, che
lo volevo mio, che lo volevo amare, lo investii con tutto il multanime
mio desiderio, violenta gridai con lo sguardo abbagliato, ebbra di
me, di quella mia voce che alfine uno avrebbe udita distesa e fonda.
Mi ascoltasse, mi guardasse! Mi toglievo dalla fronte le stelle delle
sue nevi, lo raggiungevo correndo scalza sul rosso lido, in quell'ora
del tramonto, e così volevo mi amasse, nella realtà mia rimasta fino a
quella sera a me stessa celata, così volevo ch'egli mi prendesse....
E da lungi era venuta la sua risposta, un sospiro accorato, uno
smarrito stupore per quei mai prima intesi accenti vivi. «Parla ancora,
parla ancora....» ed era come se arrovesciasse il bel viso pallido,
socchiusi gli occhi, spossato come dopo un di quei baci che sembra
debbano rombare eterni nelle vene.
C'è un ramo di mandorlo in fiore sul mio tavolino: e il suo profumo di
miele, la più inesprimibile dolcezza che i miei sensi attraverso le
primavere abbiano attinta, e la sua grazia miracolosa dànno forse in
questo momento alla mia memoria luci che nella realtà di quel tempo io
non percepivo.
Mi vedo, qual'ero, penetrata di sole, e dimentico che non lo sapevo....
Dopo quel primo grido io avevo fatto di quel giovine lontano e quasi
ignoto il mio amante. Un amante qual era necessario in quell'ora
al mio spirito. Sentivo bene ch'egli in realtà era rimasto soltanto
sorpreso, poi che non mi moveva incontro neppur dopo l'appello, intuivo
confusamente ch'egli viveva e piangeva per un'altra donna, per una
che da poco l'aveva lasciato. Eppure, nello stesso modo ch'egli non si
sottraeva alla seduzione della mia voce, e assisteva a quella creazione
di me stessa quasi fantasmagorica nella travolgente sua spontaneità,
io continuavo a parlargli come s'egli fosse mio, come a quegli cui il
destino mi donava....
Amore, speranza di miracolo! Potenza in te dormiente, perpetua attesa
del suo risveglio!
Amore, a te m'ispiravo, e non alla piccola creatura: all'idea di te,
misteriosamente sorta dal fondo della mia sostanza: amore, guardavo
a te che non conoscevo, e che pur crescevi nell'anima mia come altra
volta mio figlio nel mio grembo: tu mi volevi per servirti, attiva e
pur estatica per servirti e adorarti....
Amore, e t'imparai.
Imparai a tendere le mani alla brace infocata all'estremo orizzonte.
Imparai a desiderare, a rinunziare, a prodigarmi, senza chieder
compenso mai, senza mai ricever dono che valesse il mio.
Amore, ma tu mi trovavi bella, io lo sapevo.
Tu mi facevi persuasa che ti meritavo.

Ero mai stata donna, fino allora? No, neppure partorendo, neppure
nutrendo con il mio latte mio figlio ero pervenuta a sentir in me la
ragione della mia esistenza e quella del mondo. Il mio bambino l'avevo
adorato, ma come una parte di me, più arcana, che m'attaccava, sì,
viepiù alla terra, ma ancora interrogando, senza il mio consenso, senza
l'accordo della mia volontà con la volontà della vita: mio figlio non
era frutto d'amore, non era neanche, povero piccolo palpitante cuore
del mio cuore, non era figlio di tutta me, era nato da me prima che
fossi io stessa tutta nata, prima ch'io fossi veramente fiorita.
Come una grande rosa al sole la donna s'apriva ora, e il profumo
n'andava lontano.
Mettevo nella lettera la mia giornata, ogni sera nella bianca busta
l'essenza mia.
La riceveva l'uomo lontano, la respirava.
S'io guardo e carezzo un volto amato, la vita si sospende in noi e
intorno a noi. S'io prendo fra le mie braccia colui che amo, e con lui
mi fondo, la vita che clama nel nostro sangue non è già più dell'una
nè dell'altro. Ma s'io parlo, sola a solo, s'io scrivo su un foglio che
soltanto due occhi oltre ai miei leggeranno, veramente io mi trasmetto,
qualcosa di me per sempre passa in te, ch'io non riavrò più mai, che tu
porterai con te nella morte....
Amato, sei lontano, tutte le tue ore io non posso che figurarmele,
per la mia sete. Guarda, è il mattino, ed io sono nell'orto, con la
treccia su le spalle, e sembro la sorella di mio figlio, ma negli
occhi la notte non m'ha lasciato che orrore. Pur rido al bambino,
rientro con lui in casa le braccia colme di fiori e di verde, e
nell'ombra silenziosa ci stringiamo, poi io lo faccio leggere sillaba
per sillaba, gli guido le dita a scrivere. Le ore passano, il piccolo
è stanco, va a giocare, io resto sola. La posta non mi porta nulla
di tuo, neppur oggi. Da tanti giorni! Perchè ti amo? Rammento appena
il timbro della tua voce, come l'intesi dietro a me una sera che mi
scorgesti nell'atrio d'un teatro in città e mi salutasti lieto....
Perchè ti amo? Non so il tuo bacio, non ho mai visto in fondo al tuo
sguardo. Nè m'hai detta mai nessuna parola che mi sia penetrata nello
spirito rivelatrice, fecondatrice. Ma, vedi, sei libero, sei giovine,
hai tremato al mio accento: e io ho sentito, appena ho cominciato a
parlarti, ecco, che potevo farti la vita più forte e più grande, e
forse farti felice: ho sentito che c'era in me la potenza di far felice
un uomo. Prima non sapevo questo. Non sapevo che il mio istinto era
di dar felicità, e di amarmi in un essere felice anche per mia virtù.
Quanto gelo, nonostante i miei venti anni e il mio bimbo e la passione
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