Il Cavaliere dello Spirito Santo: Storia d'una giornata - 8

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urla di bel nuovo con una convinzione che intenerisce: — L'Orso Teddy!
il Crotalo Rabda-kamaï! Entrino, signori, che subito si comincia!
E il Compare dice dal proscenio:
«Chi saranno e chi furono fra tutti costoro i più ciurmati? Le povere
fiere che vollero mordere e furon chiuse in una tana di ferro?...
I bestiarii che vollero vivere da zingari applauditi speculando su
quattro zanne logore, su qualche artiglio inoffensivo, e perciò son
ridotti a correre le fiere forensi, talvolta senza carne di carogna
per la fame dei leopardi e senza companatico per sè?... Il pubblico,
millantatore dei pericoli, che con sei soldi vuol vedere un uomo in
rischio della propria pelle, vuol pascere di ruggiti africani e di
serpenti attorcigliati ad ippopotami la sua casalinga fantasia, onde
va, e paga, e torna con un puzzo camaleontico di bestieria legato
alle narici, un'idea lacrimevole della ferocia e dell'intrepidezza una
compassionevole ironia?...
Dame Compiute, Nobili Uomini, vedo per l'appunto che un millantatore
scoverto ed una schiera di ciurmati confessi vengono per di qui a
narrarvi le loro immutevoli dolenze.
Ecco, e la mia Dama frattanto vuole che l'accompagni dalla sarta»).

=Il millantatore:=
Non sono affatto pericoloso, poichè racconto il più delle volte cose
immaginarie ma che si denunziano agli ascoltatori per la loro mancanza
di sobrietà. Veri millantatori son quelli che raccontano cose false in
maniera di farsi credere; essi hanno la vera eloquenza, mentr'io non
sono che facondo; e la pretesa che ho d'aver compiuto imprese illustri
è simile molto alla vanagloria d'un bambino che sferraglia per la
stanza con in testa un berretto da generale. I falsificatori narrano
al pari di me d'essere andati alla guerra: ma vi andarono da sergenti
e presero la medaglia di bronzo...
Io, generale d'esercito, faccio scappare i sorci; a loro, graduati di
bassa forza, il pubblico fa il saluto militare.

=Entra il Coro dei Pifferi di montagna:=
(_Nell'Orchestra un andar patetico di gente che torna, e — naturalmente
— pifferi._)
Con rispetto, e con dispetto,
vi cantiamo lo strambotto
di quell'asino perfetto
che, per farla a Fra Culagna,
ritornò dalla montagna
con le pive nel fagotto.
Già; noi siamo divenuti celebri per quella spedizione mal fortunata
che ci fece ritornare con lo scorno della pifferata su la montagna.
Prendersi gabbo del prossimo non è facile impresa quando gli
strumenti per concertare il pezzo d'opera si chiamino pive. Un
piffero di montagna è quel desso che volle fare agli altri ciò che
gli altri tentano senza tregua di poter fare a lui; solo ebbe il
torto immoralissimo di peccare nella riuscita. In questo bel mondo
caritatevole dove ognuno può leggere tanti onesti libri che lodano la
probità, spalancar la bocca davanti alle parabole dei declamatori che
flagellano il vizio, scolpirsi nella mente a lettere d'oro le insegne
apocalittiche di tutte le vetrine, il piffero di montagna è colui che
da uno spillo invisibile si lasciò bucare la sua turgida sampogna. Il
pubblico si beffa di noi chiamandoci scornati, laddove non fummo che
gente in rotta con la fortuna; il pubblico ride volentieri del nome che
fa ridere, mentre del fatto in sè men che niente si cura. Noi siamo
dunque le vittime del portare un nome grottesco, malanno che a molti
cápita per accrescere i lor guai.
Se i Pifferi di montagna potessero di punto in bianco mutare il loro
nome lacrimevole con quello non privo di somiglianze dei Trombettieri
di Waterloo, ecco i derisori abbrunarsi di lutto e salutare i Pifferi
come sciagurati eroi.
Nel nome che si porta è la metà dell'uomo... il resto, signori della
platea, è la fortuna o la disgrazia che fa.
Con le pive nel fagotto
ritornò dalla montagna
quei che volle a Fra Culagna
fare un piccolo dispetto...
Oh, se avesse il poveretto
prima letto il mio strambotto!
*
* *
(Quivi dice il Compare:
«Con umiltà siamo alteri del buon esito che presso l'onorato pubblico
trovò lo strambotto dei Pifferi di Montagna, forse per l'intonazione
felice con la quale i nostri attori lo recitarono, forse per la
comicità irresistibile delle lor facce compunte. De' vostri applausi
una giusta parte vada a quell'invisibile orchestra in sordina che,
sommessa e varia, commenta lo svolgersi della Commedia, e quivi ricamò
felicemente sui pifferi l'infelicità burlesca dei Pifferi di Montagna.
Non siamo noi di quelli altezzosi che dicono «Vale nec parce!» innanzi
o dopo la parlata... «Valete super omniaque parcete!» — ecco il nostro
motto.
La Dama bellissima ch'io servo in questa per me piacevole Giornata,
vuol ora che l'accompagni dalla sarta, essendochè, dice, alcune lievi
compere le son di bisogno anch'oggi, sebbene le sue guardarobe armadii
e canterani sian così stipati e ricolmi che più non vi starebbe,
senz'arricciarsi, un velo.
Ordunque, levata la Nuvola che provvede alla disparizione del
serraglio, manifesto vi sarà un de' luoghi sacramentali e gloriosi
dove la vaghissima Dama Comare ch'io servo adorna con arte paziente il
prodigio della sua bellezza. E vedrete su le provatrici le innumeri
centinaia d'abiti ch'ella osserva con occhio esperto ma negligente
prima di scovrire una veste fatta in guisa che le piaccia, una stoffa
che paia tessuta per il colore della sua pelle, un nastro, un pizzo,
una cintura, un fronzolo che le paiano adorni d'una qualche insolita
fantasia. Queste belle ragazze provatrici, (tutte pronte, se pur già
non lo furono, a lasciarsi cogliere dai lor donneatori,) sgranano tanto
d'occhi e tremano di ammirazione quando la mia Dama Comare giunge nelle
lor sale; madama la direttrice non sa più da che parte voltarsi; la
maestra di prova corre per ogni verso perdendo spilli e tutta nevicosa
di fili; dagli usci occhieggiano le sartine del cucitorio, mentre il
tagliatore cattedratico sfoglia per lei con impazienza qualche grosso
fascicolo di figurini.
Dame Compiute, Nobili Uomini, osservate che appunto la Nuvola s'alza...
Ahimè!... Che avvenne? Le vetrine della sartoria son chiuse; dietro le
finestre dell'ammezzato, quali spente, quali già velate con lo schermo
delle tendine, si vedono affaccendarsi poche frettolose ombre; per
la strada sciama una garrula ed assediata falange di sartine, che in
fretta col passo elastico dei lor vent'anni tornano alla libertà... «È
tardi, o mia bella Dama, e per oggi non potrete isceglier nulla, cosa
tristissima in fede mia!»
La Comare dice:
«Il male non è poi così grande, quanto per cortesia volete che paia!
Mi rassegnerò senza piangere; andremo invece, amico mio, se non vi
disturba, dalla modista, per certe piume che ho date a far mettere
in opera, le quali devon esser compiute. Mentre voi fate segno
all'automobile che s'avanzi, affiderò una commissione per madama Yvette
alla piccola Stella, mia sartina preferita, che appunto mi saluta con
il suo bel sorriso. Un minuto, amico mio, e sono a voi.
— Sicuro, piccola Stella, sono arrivata un po' tardi stasera, ma non
importa; senza che le telefoni, dirai tu a madama Yvette domattina quel
che le volevo dire: cioè che sospenda la mia veste da ballo reseda e
nero, perchè ho mutato parere, non mi piace più».
La sartina si mette le mani tra i capelli, od almeno tra quei capelli
che le lascia scappar fuori la sua cuffietta di tulle capriccioso, e
dice: «Oh, povere noi! lavoriamo da cinque giorni a questo bell'abito
reseda! E bisogna disfar tutto?...
— Sì, tutto, ma non importa, ho un'altra idea. A domani, carina.
L'automobile se ne va scornettando; rimane sul marciapiedi la piccola
Stella, che alza le spalle poi si mette a ridere).

=La sartina:=
È un problema da risolvere.
Il commendatore m'invita a cena, mi promette un anello con brillanti,
un appartamentino mobiliato, una maestra di francese. — È calvo, ha una
pancia da bonzo, i suoi baffi pungono come uno spazzolino da denti.
Il bellissimo avvocatino, ch'è stato l'amante di tutte le mie amiche,
mi fa gli occhi dolci e mi manda qualche scatola di «marrons glacés».
Perchè mi piacciono molto i «marrons glacés» e mi piace anche
l'avvocatino, ma sono troppo mal vestita per lasciarmi svestire da lui.
Quest'uomo trova naturale ch'io passi per le sue mani... è una bella
pretesa!
Uno studente del politecnico m'insegue fin su le scale di casa mia;
un impiegato viene a prendermi quasi tutte le sere quand'esco dalla
sartoria. La domenica mi conduce a ballare, mi paga un vermouth, e dopo
il ballo, un caffè. Guadagna centoventi franchi al mese, ride poco,
sospira molto, ed è pronto a sposarmi.
Io, siccome sono vergine, guadagno al giorno due franchi e cinquanta...
È un problema da risolvere.
Sul nostro pianerottolo, abita con sua madre uno chauffeur molto
elegante che chiamano Toby. Quand'esce col suo pelliccione è bello da
morire! Mi ha detto: «Signorina Stella, vorrei proporle una cosa...
ma gliela dirò il primo giorno che avremo tempo. Intanto mi permetta
d'offrirle questo mazzolino di violette.»
E parla come un signore.
Toh... by... se dovessi cominciare, comincerei di lì.
È un problema da risolvere.
*
* *
(E quivi d'improvviso, per un gioco di scena quasi fulmineo, l'angolo
di strada ove sciamano le allegre sartine coi loro inseguitori si
muta in una magnifica sala di modisteria con grandi specchiere per
intorno, dritte, inclini, ferme, portatili, ad una luce, a due luci,
a tre. Dappertutto svariano cappelli piume penne fiori fiocchi nastri
velette veli, ed è così grande la profusione di tutte queste leggere
cose volanti, che a prima vista pare d'esser avvolti fra un turbine di
maravigliose farfalle.
«Ma queste farfalle, — dice il Cavalier Compare, — sono vecchi struzzi
che hanno mandato le lor piume a farsi doppie o triple nonchè a
prendere il riccio nei laboratorii di Parigi; sono invisibili colibrì
e splendidi paradisi, che stanchi per r inosservanza delle signore
selvagge, hanno mandato alle signore d'Europa, con un plebiscito di
piume, una prova delicatissima di quei servigi e di quell'amore che
gli uccellini di tutto il mondo hanno sempre saputo rendere alle belle
signore; sono farfalle che suggono il nettare da un giardino di fiori
artificiali e qualchevolta bevono per rugiada l'henné, saturandosi con
il polline d'oro che nasce dall'acqua ossigenata.
Nobili Uomini dell'uditorio, per una volta mi sia concesso di parlar
solo con voi; lasciamo che le Dame nostre Compiute si dilettino a
guardare quella scelta che fa la bellissima etèra Meridiana e come lei
fanno altre vaghe bellezze nella sala di modisteria. Non è luogo per
noi tra questo piumare, tra questo infiorellare minutissimo, e poichè
vedo un altro giovine signore di mia conoscenza, il quale, com'io la
mia Dama, così del paro la transatlantica sua consorte aspetta, forse
preferibil cosa per voi sarà che noi conversiamo un poco insieme,
liberi da quella soggezione castigata nella quale il gentil sesso ci
tiene.
Questo giovine di casato principesco navigava in perfide acque
monetarie, allorchè intese dire che di là dall'atlantico mare vivessero
alcune prodigiose fidanzate per i principi e duchi latini, le quali
avevano tant'oro di recente coniato, che si poteva con quest'oro
giovine risollevare tutta una stirpe.
Vinse la nequizia del mal di mare, che tanto più affligge i popoli
quanto più marinareschi sono, e trasmigrato alle rive leggendarie
ove le nuove amazzoni auratamente accolgono i molto nobili cavalieri,
s'avventurò sì bene in quella terra democratica e libera, che ne tornò
con una sposa di suo genio e senza più conoscere le doloranze del mal
di mare.
Questo vi confido, Messeri, prima che l'avvicini e lo saluti»).

=La modista:=
Per fare un cappello occorrono tre cose: una «Maison» che lo mandi, una
signora che lo compri, un uomo che lo paghi.
Le mie clienti si dividono in tre categorie: quelle che credono
di abbellirsi con un cappello; quelle che credono di abbellire un
cappello; quelle che trovano a ridire su qualsiasi cappello.
I miei cappelli sono di tre generi: serii, stravaganti, serii e
stravaganti insieme. Alla donna seria sta bene il cappello un poco
stravagante; alla stravagante il serio; per la donna indefinita ci
vuole un cappello indefinito.
Molte sono le mie disgrazie, ma ne citerò sol una: gli uomini che
accompagnan le mie clienti in sala per mettere il loro becco nelle cose
di modisteria.

=Il nobile povero che ha sposato l'americana:=
L'araldica è la soluzione della vita; il dollaro vale cinque lire;
il nobile italiano, anche quando è decaduto, vale per lo meno qualche
dozzina di «yankees».
Negli Stati Uniti d'America si trova ancora, ma ogni anno con maggiori
difficoltà, la fidanzata ideale, mentre in Italia cresce di continuo
la frequenza dei nobili decaduti. Si chiama fidanzata ideale quella
ragazza che, potendo scegliere fra mille pretendenti, s'incapriccia
proprio di voi.
Questo è il vade-mecum del nobile povero in caccia d'un'americana:
1.º Quattro quarti, lucidi, rinfrescati, assoluti.
2.º Aria vaporosa, misteriosa, dell'uomo ch'ebbe un passato.
3.º Tipo di famiglia. — Biografia degli antenati. Citazioni storiche.
— Possibilmente, battaglie.
4.º Sapere tanto inglese che basti per dire: — my dear, good bye, I
love You, etc.
5.º Conoscere l'Ambasciatore.
6.º Avere un proprio poeta, musicista, pittore, filosofo, etc, tra
quelli che l'America non capisce.
7.º Strimpellare un po' di musica o per lo meno la chitarra. Tener bene
in mano la racchetta e non far troppo ridicole figure al gioco del polo
e del foot-ball.
8.º Essere fortissimi al bridge.
9.º Compatire con molta finezza l'America, pur chiamandola grande
paese. Le americane han voglia dell'Europa come d'uno scandalo che le
diverta. Inoltre ci temono, sebbene con ironia, mentre non hanno de'
lor uomini rispetto alcuno. Questi uomini sono anche robusti, ma «non
sanno guardarle». È lo sguardo nostro che temono,
10.º Avere, se possibile, un castello, anche spossato d'ipoteche o
singhiozzante di screpolature.
11.º Divertirle. Scandalizzarle. Essere o troppo allegri o troppo
tristi. L'eccesso impensierisce tutte le creature primitive.
L'americana è una creatura primitiva.
12.º Cercare i loro sensi dietro la loro apparente insensibilità.
Quando si sono trovati, essere virili ma non bruschi, voluttuosi ma non
irritanti. La poesia della loro gioventù ascolta volentieri la poesia
della nostra vecchiezza. Son donne, ossia femmine, come le nostre, ma
non sempre non dappertutto non per l'intera giornata. Talora lo sono
troppo a lungo di notte, poi la loro femminilità subisce una pausa, o
pare che s'interrompa.
13.º Rimanete oscuri e cauti per non darle il tempo che vi disprezzi,
almeno fin dopo il matrimonio. Poichè, vi ho detto, l'americana è una
creatura primitiva; la sua morale è tagliata bizzarramente a colpi di
scure: mentr'è curiosa di tutto quello che non sa, in morale disprezza
le anime che non capisce.
14.º Sono per noi ad un tempo le sorelle più timide, le amanti più
fresche, le mogli più «nuove».
*
* *
(Il Compare, Cavaliere della Films, chiama la Nuvola.
«O Nuvola che tutto nascondi, fuorchè la mia persona da poco e la
persona paradisiaca della Dama che servo, ancora una volta discendi
e rannuvola i grandi specchi a molte luci che guardano sul giardino
artificiale!
Àlzati, e vedansi di lontano come in una visione pantagruelica tutti
i lumi e tutti i fumi dei banchetti che verso quest'ora simposica
ristorano i millantamila stomaci della sconfinata Città! Vedansi tra
fasci di ghirlande elettriche le vetrate gloriose dei ristoranti
babelici, con la rossa orchestra che suona a correre d'archetto e
l'orda salsifera de' camerieri che sollevano, su le teste chine dei
desinatori, la calda ricchezza dell'agape ne' vassoi fumiganti! Vedasi
brillar da lungi quella finestra illuminata che nella casa dell'uomo
è fra tutte la più gaia, la finestra dietro la quale si mangia, — soli
o poveri, ma si mangia, — ricchi o nel cuore d'una famiglia prospera,
ma si mangia, — tristi o pensando all'innamorata, ma si mangia... la
finestra più gaia e più universale di tutte l'altre dietro le quali
nella vita cotidiana l'uomo, animale versatile, medita opera discute
balla dorme o fa l'amore!
Àlzati, o Nuvola, e giudicate!»)

=Entra il coro dei Gastronomi.=
(_Nell'Orchestra un tinnire gaio, come di porcellane che si urtano, di
posaterie che squillano, di coppe toccate nei brindisi. Un bollire, uno
sfriggere, un gorgogliare continuo di tutti gli strumenti._)
Ave Primissimo, Pantagruele!
Noi siamo i coltivatori dello stomaco, i golosi della rara e fertile
vivanda che si trasmuta in sangue più rosso. Nulla conta la trachea,
l'uomo vive con l'esofago!
I maialini d'India ben ripieni, le trifole del Périgord, gli asparagi
d'Argenteuil, il fegato d'oca di Strasburgo, i capponi del Mans, le
ostriche di Colchester, e tutte l'altre leccornie che la terra pingue
o l'industria paziente produce, sono per noi le cose più sublimi che
accadono sotto l'emisfero. Un genio rivelatore non è niente appresso un
sopraccuoco prelibato.
Ave Primissimo, Pantagruele!
I vini delle giaciture più polverose, i liquori decrepiti custoditi
con tutta la lor forza entro gelidi cristalli o tepide porcellane, sono
per noi veramente il lirismo della vita! Noi adoperiamo lo stomaco per
custodire in noi la Bellezza. Non siamo atei: crediamo profondamente
nel piacere di quel che si mangia, nell'ambrosia di ciò che si beve.
In questo crediamo imperterriti come il fanatico in Dio. Siamo anche
filosofi, poichè possiamo dirvi che la digestione è l'unica felicità
delle razze. Siamo anche sociologhi e fisiologi perchè v'insegniamo con
la sapienza dei secoli che creerete un popolo grande facendolo mangiar
bene.
La delizia di filtrare attraverso la nostra carne intellettiva una
vivanda complicata e squisita, equivale alla delizia di comprendere un
difficile pensiero.
Noi siamo quelli che nel mondo abbiamo conservato l'appetito
intelligente e quella benefica giovialità dello stomaco pagano che
il Buon Pastore volle, come un gran vizio, bandita. Nel Cristianesimo
non v'è di orrido che il digiuno scellerato e la nefanda eresia degli
astemii.
Noi dubitiamo in verità che il Nazzareno abbia fatta questa
predicazione; dev'essere un'aggiunta postuma di alcuni evangelisti
biliosi e mal digerenti. Per chi non fosse del nostro parere, noi
faremo notare che i preti la tennero come non detta, e per tutta l'era
cristiana, in barba degli uomini e di Dio, con uno splendido appetito
mangiarono a quattro ganasce.
Il peccato della gola è invero la più nobile azione che l'uomo possa
commettere. Lucullo, per vostra norma, era ben lungi dall'essere un
maiale come voi lo chiamate. Lucullo è stato un Illuminatore della
vita assai più grande che Platone. Non dimenticate questa verità: quasi
tutte le tristezze dell'uomo consiston nelle cose che mangia.
Noi vorremmo creare un'Accademia di Quaranta Cuochi Immortali!
Ave Primissimo, Pantagruele!
*
* *
(Il Compare, Cavaliere della Films, dice:
«Questi buoni e panciuti uomini han saputo commuovere la vostra
indulgenza, o Nobile Uditorio! Non li avete zittiti come si
meriterebbero per aver osato proclamare in vostra presenza cose tanto
grossolane o babbuinamente facete; buon per loro che foste clementi!
Ma dalle fisionomie vostre mi avvedo che pur nell'ascoltare quei
grassi e lucidi babbuini già una forte curiosità vi pungeva, che or si
rinnovella: — Dov'è sparita la Dama Comare, bellissima etèra Meridiana?
Perchè il riso e la luce de' suoi occhi non più risplendono verso di
noi?
Ecco, vi rispondo: — È l'ora dei teatri; ella s'andò a vestire
dell'undecima sua veste. Non siate impazienti, fra poco tornerà in
diamanti e strascico, pronta per guardare da un palco verso la scena
del teatro che sceglieremo.
Così è: quando le città pingui e dilettevoli han saturata la fame che
le tormenta, curiose guardano verso i teatri, dove nel canto e nella
declamazione l'imperitura famiglia istrionica tesse con artifizio
la simulazione di quella commedia sincera e forte che si chiama la
vita. Le città sono a quest'ora bambine facili al riso, facili al
pianto, che un nulla può commuovere, un nulla divertire. A quest'ora
la musica, profumo della vita, diventa necessaria come un afrodisiaco
lene, che tutti, anche le fanciulle, si possano impunemente concedere;
a quest'ora il dramma la tragedia la commedia, che sono parodie della
vita come gli acrobatismi del funambolo e dell'atleta, incurvano le
città attente sovra una piccola scena tappezzata di carta pesta, e
dove la luna il sole i tramonti sono il giuoco semplice d'una buona
lanterna magica. E le città si ascoltano dire da quella scena larga
pochi metri, in un linguaggio approssimativo, tutte le parole selvagge
o brutali, che là fuori, a cielo aperto batton nel lor cuore veemente,
pulsano libere inafferrabili nella loro poderosa immensità. È un gioco
il teatro, un gioco simile molto al libro, ma più puerile ancora,
più divertente ancora, per la ragione che il dolce, il poetico, il
riposante nella vita delle città, si è d'essere appunto come bambine,
cioè di possedere un'anima che veda non il terribile del mondo, non la
forza e la strage della necessaria vita, non quel riso micidiale che
soffia dagli oceani del pensiero, ma il piccolo dramma di fantocci che
intenerisce con spontaneità, la piccola burla di parole che allarga la
bocca e facilita la digestione...
Sicuro, io vi parlo non per altro che per dar tempo alla mia bella Dama
di vestire l'undecima sua veste, e faccio un po' di teatro in questo
momento anch'io, un po' di libro, se volete, un poco di parole insomma,
per farvi passare senza che ve n'accorgiate un quarto d'ora di tempo,
attesochè lo scopo della parola non è mai di «creare» bensì di «far
passare» un pensiero.
La vita ineluttabile cammina da sè contro quel maraviglioso edificio
di parole, (certo il più bell'edificio che l'uomo costrusse), e che
appunto si chiama teatro, libro, metafisica, religione, filosofia...
l'urta e non lo rovescia, anzi vi passa traverso, per la buona ragione
che questo edificio miracoloso, al di fuori è fatto d'aria, e dentro è
vuoto...
Sono un po' scettico, voi dite?... Sì, me ne accorgo infatti, e
fischiatemi!... quantunque io non faccia che ripetere con fedeltà le
parole che mal mi presceglie questo enigmatico Suggeritore.
Senonchè la Nuvola s'alza, e rivedrete Colei che fa comprendere la
bellezza del teatro, la musica delle parole!»
Infatti la scena rappresenta un teatro; si vede una fila di palchi, e
per iscorcio, la ribalta. Vagamente laggiù cresce un giardino, piovono
foglie rosse tra l'autunno degli alberi trasparenti, una reggia guarda
con finestre balenanti la sua fontana polverosa: due voci cantano
l'Amore, favola di tutte le musiche, musica di tutte l'età.
Nella fila dei palchi, uno splende così forte che sembran convergere
ne' suoi specchi tutti i lampadarii del teatro; vi siede in piena
gloria la Dama di Luce, bellissima etèra Meridiana; il profumo del
suo ventaglio bianco muove delizia intorno a quelli che sono con lei.
V'entra pure il Cavalier Damo, poichè il palco illusorio è posto in
modo che sia quasi a confino con la ribalta vera.
Da tutto il teatro illusorio si appuntano i canocchiali verso di lei;
grandissima è l'inquietudine di quella sala, dove lo spettacolo assai
poco si ascolta perchè il guardarla è più bello che udir cantare,
come l'essere da lei guardati è maggiore dolcezza che perdersi nella
sinfonia.
Sono venuti a visitarla signori d'alto lignaggio e tutte le più
cospicue persone che per ricchezza o per ingegno godano rinomanza
nella Città; vengono ed escono per dar luogo ai sopravvenuti. Ma uno vi
rimane assiduo, non di parapetto ma presso lei, quasi nascostamente,
per sottrarsi alla curiosità importuna che il solo mormorio del suo
nome fa nascere per il teatro. È uno scrittore magnifico e nominato
per l'orbe, uno di quegli uomini che morendo invidieranno solo sè
stessi. Ed egli ammira la veste gloriosa della etèra Meridiana, poi la
corteggia mansuetamente.
Or questa veste brucia come fosse un rogo di luce bianca od avesse
nelle trame del suo tessuto quel brillare che fa la polvere d'una
fontana traverso un raggio di sole. Volerne descrivere il disegno
sarebbe troppo difficil cosa, poichè la veste non è che lei stessa ed
ella medesima è tutt'una con lo splendore dell'abito che porta. Ella
non fece che vestire il suo corpo d'un involucro bianco e fu bella di
tutto quell'artificio che può radunare la semplicità; il vestito le
si accompagnò alle membra come una musica va insieme con la parola
cantata. Ella non deve ora più niente all'artefice della sua veste,
perchè l'immagine d'una simil veste nacque all'artefice da lei; questi
vi mise dentro la sua bellezza in pensiero, ma nessuno avrebbe mai
conosciuto il sogno dell'artefice se la involontaria bellezza di lei
non fosse nata nel colore di quel bianco, nel drappeggio di quella seta
morta come una viva necessità.
Dice il Compare:
«Guardatela, poichè la Nuvola è per discendere... fra poco non la
vedrete più. La bellezza, voi sapete, si guasta e si logora di chi
la guarda; perciò conviene che tra gli uomini passi rapida, lontana.
Essa più che tutto ha paura dell'abitudine, vero ed unico vizio dei
sensi, malattia che sciupa l'universo. E per tal modo comprenderete
come il pudore le sia necessario meglio che alla virtù. Quando avrete
per lunghissimo tempo respirato nel profumo e tra un contorno di rose,
— cioè in quel respiro e in quella vista ch'io credo la migliore del
mondo, — sarete vicini ad aver spenta la divinità delle rose e propensi
forse a gustare con ebbrezza l'odore noioso d'un cavolaio.
Guardatela dunque con intensità, finch'ella è un giardino di bianche
rose!»)

=Lo scrittore celebre:=
Ho tanti lauri che ne sono stanco.
Io possedetti la Bellezza e la Gloria come veneri nude, gridai nel
mondo la parola incorruttibile, brillantata come diamante, materiata
quasi d'arcobaleno e di fiamma, che forse potrà separarsi dalla
perpetua geminazione delle sue nascite per vivere di bianca solitudine,
alta e lontana da quel colore di scordamento che sul fuoco dei più
tersi cristalli raduna il tempo dimentichevole.
Io sono stato un vandalo, rapace ma grande, che per vestire la mia
Statua della Bellezza cento imperatrici e mille schiave impunemente
spogliai! Ora la Statua Perfetta è fastosa e luccicante come la
gioielleria d'un satrapo orientale, come il tesoro inaccessibile d'una
chiesa bizantina.
Ho tanti lauri nei mio giardino, Banchieri!... che ne sono stanco.
Banchieri!... adesso faccio come voi: speculo con le ricchezze degli
altri; è più semplice, molto... più comodo, assai... e talvolta cápita
perfino di pescar tra i cocomeri una melagrana più rossa, che quelle,
dal riso dionisiaco, melagrane apollinee dell'Albero mio!
Ho tanti lauri che ne sono stanco...

=L'uomo che fabbrica gli epigrammi:=
È giusto: voi siete con magnificenza «il Cavaliere de li Spiriti
altrui...»
*
* *
(Dice il Compare:
«Sventura vuole che il patto da noi concluso con l'estraneo Cavaliere,
libertà gli accordi o licenza di molestarvi tante volte quante a lui
piaccia. So che pure nella seconda sua parlata Egli vi fu discaro,
sebbene cercasse di trattar cose che più vicine stanno all'anima di
chicchessia. Ma il suo torto fu di scegliere una forma nebulosa e di
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