Il Cavaliere dello Spirito Santo: Storia d'una giornata - 1

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GUIDO DA VERONA

Il Cavaliere
dello Spirito Santo
STORIA D'UNA GIORNATA

MILANO
CASA EDITRICE BALDINI & CASTOLDI
_Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80_
1915


PROPRIETÀ LETTERARIA


Entra il Prologo.

Una dolce sera mediterranea cadeva su la focense capitale dei
Massalioti, or divenuta Marsiglia di Notre-Dame-de-la-Garde, sotto
lo scettro imperatorio di Raimondo I. La città incurvata sul duplice
suo porto, come sul gemino seno la madre che allatta il suo pargolo,
riboccava per le babeliche strade, per le piazze alessandrine di tutte
le ciurme, di tutte le pestilenze, di tutte le prostituzioni del mare
di levante.
Era in un mese d'estate, verso quell'ora che le stelle irrompono come
sprazzi di fuochi artificiali tra le nuvole d'un cielo ancor rosso di
tramonto. Grandi mantelli d'azzurrità quasi buia s'avvolgevano intorno
ai dirupi medievali dell'isola di Château-d'If; l'antico forte St-Jean
dei Cavalieri di Malta, con i suoi terribili occhi semispenti, ancor
frugava per l'ombre del mar latino in cerca di galere barbaresche. Un
odore drogato e contagioso di cuoio, di spezie, d'olii, di cereali e
di bestiame vampava dagli stracarichi magazzini de la Joliette fra i
profumi della sera d'estate.
Non più ricordo con esattezza quale fosse il titolo della «revue d'été»
che si rappresentava al Variétés-Casino; so che lo sfarzo dei lampioni
quasi violetti e gli occhi neri d'una marsigliese giovine, così forte
m'attrassero che dietro i suoi passi v'entrai. Aveva la pelle morbida
come un guanto di antilope bianca, la sua capigliatura fosca luccicava
come argento brunito. Ma era in compagnia d'un vecchio avvenente, le
stava presso un giovincello scrupoloso: per me non v'era posto e me ne
racconsolai.
Come si chiamava, diamine! quella rivista d'estate? Forse: — «Tout
nu... mam'zelle?» — «Soyons Cannebière!...» — «C'est ça qu'est chic!»
— «Je m'en f... du progrès, zut!...»
Mi pare che il titolo fosse quest'ultimo, o qualcosa di molto
rassomigliante; in ogni modo il Compare, tipo alla Mayol, minacciava di
pinguedine; la Comare, ossigenata e custodita in un busto che pareva
scenderle sino ai ginocchi, aveva uno sguardo fortemente lesbico; ma
c'era una indiavolata e struggente ballerinetta, che faceva la «Gibson
girl» con un piedino da stare in tasca, la quale mi piaceva più che
tutta Marsiglia; e si dicevano cose un po' forti, un po' estive, un po'
sudate, cose piene di Montmartre marsigliese.
Nella poltrona presso la mia v'era un uomo di mezza età, personaggio
che m'incuriosiva quanto mai con il suo tipo d'inglese coloniale o di
pastore anglicano dalla faccia d'esteta: un Lord Byron da strapazzo che
si vesta in sartorie d'abiti fatti e frequenti la ellenica scuola di
danza del fratello d'Isadora Duncan. Quella familiarità che dal riso
presto nasce fra nomadi, quando come anime dannate si va in cerca di
svago per le notturne città forestiere, fece sì che in poco avessimo
legato discorso. Durante l'intermezzo gli diedi il mio biglietto da
visita, ch'egli lesse con attenzione, poi mi presentò il suo che recava
questa dicitura:
=le chevalier Aristophane=
auteur de revues classiques
ATHÈNES.
Incontrare Aristofane in persona al Variétés-Casino di Marsiglia, non è
cosa che cápiti ogni giorno, e fui lietissimo della buona occorrenza.
Egli parlava il francese con un lieve accento levantino, ma le sue
frasi eran sparse d'un sale attico di piacevolissimo sapore, anzi mi
avvenne di riflettere quanta rassomiglianza vi fosse tra la spigliata
galloria di linguaggio dei «boulevards» parigini e il greco antico
degli anfiteatri d'Atene, che m'aveva, ohimè, fatto sudare i miei
buoni anni di liceo. Scendemmo al bar sotterraneo dove mi permisi di
offrirgli un ottimo cock-tail Martini; egli fece qualche complimento,
ma io lo persuasi a non cambiare le sue dracme, visto che avevo nel
taschino molta moneta spicciola.
Durante la rivista, — «Soyons Cannebière!...» «Je m'en f... du progrès,
zut!» — si parlò del più e del meno; dopo, nell'uscire, si venne alle
confidenze. Volle conoscere la mia patria, il mio mestiere, l'età,
l'albergo, l'itinerario, mi domandò cosa facessi a Marsiglia, e così
via. Gli narrai con qualche rammarico di essere un pressochè ignoto
poeta e romanziere della terza Italia, non già che i miei scritti la
cedessero a quelli della celebre Carolina Invernizio, ma insomma perchè
il mondo è così fatto e l'Accademia non li vuole. «Servono, caro amico
Aristofane, a dilettare gli ozî di qualche impiegato del telegrafo,
o ad eccitare l'insonnia delle belle signore afflitte da un marito
sonnacchioso e da un amante troppo metodico... Vi sono molti classici
nel mio paese, che scrivono divertentissimi romanzi, e la gente seria
legge questi. Ma io, caro amico Aristofane, «je m'en f... du progrès,
zut!»
«Le chevalier Aristophane» mi prese allora sottobraccio ed ebbe la
cortesia di dirmi che mi trovava simpatico.
— In Italia, — mi spiegò, — vengo assai di rado, perchè vi ho molti
rappresentanti che tutelano i miei affari e la Società degli Autori
mi manda ogni tanto un vaglia, che naturalmente è sempre ben accolto.
Non certo per offendervi, ma questa Italia è rimasta un gran paese
di zucconi, come al tempo dei Romani, vecchi tangheri. Scusate la
franchezza, mio delizioso amico, ma io son nato in Grecia e non so dire
che la verità...
— Che mai! avete mille ragioni: laggiù si cammina a passi di lumaca,
e solo quando una cosa ha ormai fatto il giro della terra, eccola da
noi che tira fuori le corna. Siamo un popolo che impiega cent'anni
per acquistare una convinzione, un'ammirazione, un'idea, ma quando la
è penetrata nel sangue, nè l'evidenza nè la dinamite non la possono
distruggere più.
«Le chevalier Aristophane» mi strinse il braccio, ed ebbe la cortesia
di dirmi per la seconda volta che mi trovava simpatico.
— Avete moglie? domandò.
— Neanche per sogno! Faccio l'amore all'ellenica, fuori dalla legge,
con molta varietà.
Non so davvero quale significato egli desse a questa parola «varietà»,
ma mi strinse il braccio con più forza e tre volte mi ripetè: ...
simpatico!
La Cannebière infuriava di tanti lumi, di tanta baraonda e strepito e
vivacità, che pareva l'immenso viale d'una fiera di zingari scendente
verso il mare.
— Torniamo in su, — gli dissi, — torniamo verso la porticciola per
dov'escono le attrici del Varietés-Casino; avrei voglia d'invitare a
cena la «Gibson girl» col piedino da mettere in tasca.
Il buon greco ebbe un sorriso affabile ma ironico per questa mia
concezione tutta latina dell'amore, e mi parve che in quel sorriso ci
fosse anche una leggera ombra di gelosia. Nondimeno accondiscese.
Le piccole attrici uscivano con le loro arruffate madri, coi loro
protettori dal pugno solido, coi loro moscardini dai cappellucci
su le ventitrè; alcuna se n'andava sola, in fretta, onesta; molte
occhieggiavano; le più eleganti eran attese da giovini o vecchi
nottambuli; altre, in compagnia di comici, s'avviavano loquacemente a
mangiare in qualche taverna del porto la drogata «bouillabaisse» o la
buona fumosa «choucroute». Ed io non vidi affatto l'indiavolata «Gibson
girl» con il piedino da mettere in tasca. Marsiglia quella sera mi
rifiutava con ostinatezza il suo color locale.
Proposi ad Aristofane che andassimo a cenare in una leggiadra
sciampagneria, là dove rosseggia l'orchestra boema e le tersicori
ospitali siedono alla vostra tavola per pesare con tutta la lor sete,
con tutta la loro voracità sul conto elegante che poi vi porge un
impassibile maggiordomo.
— Delizioso amico, — disse Aristofane, — accetto volentieri tutto
quello che vi piacerà d'offrirmi e tutti gli spassi che vorrete
proporre per lo svago di questa notte che rubo a Morfeo. Domattina
di buon'ora m'imbarco per la Grecia e in forza d'una vecchia usanza
preferisco non coricarmi affatto che interrompere un sonno ben avviato
verso il mattino.
— Che mai? lascerete così presto Marsiglia, quand'io mi ripromettevo di
godere lungamente la buona sorte ch'ebbi d'incontrarvi?
— Benchè immortale, nulla mi scampa dalle traversìe della fierissima
vita! Gli Dei non mi consentono più lunga dimora in questa lieta
Francia che ha risolta con tanta grazia la seccatura di dover vivere!
Anch'io debbo tornarmene a quel mio paese classico, dove ormai cápita
su per giù tutto quello che del vostro dicevate, con l'aggravante che
voialtri avete il buon senso d'andare lenti ma di sapere che siete
lumache, mentre noi, sin dal tempo di Salamina e delle Termopili,
chiamiamo epopea una rissa fra due villaggi, scriviamo dieci poemi
per eternare la storia d'una burlesca infedeltà, e creiamo un Olimpo
immortale con qualche vinattiere ubbriaco nonchè un paio di nude
veneri da lupanare!... Quando Platone venne fuori con la panzana
dell'anima, nessuno si aspettava che l'idea facesse tanta strada;
quando si condannò alla cicuta quello scostumato blaterone di Socrate,
nessuno s'immaginava che la nostra Atene, piccola e pettegola città di
provincia, ne avesse a patire tutta l'infamia che ne patì; Anacreonte,
nel creare il suo repertorio alla Fragson, manco dubitava d'essere
ancora in voga verso i tempi vostri; Saffo, nel fare come la marchesa
di B....... in letto e come la Comtesse de Noailles al tavolino,
sperava per un delitto e per l'altro un poco più di discrezione
storica; le trecento guardie civiche massacrate alle Termopili
meritavano, è ben vero, tutte le punizioni più feroci, tranne quella
d'essere cantate in rima undecima dal vostro bardo Felice Cavallotti,
e il borgomastro Pericle non si sognava mai che la sua mantenuta gli
rimarrebbe sul dosso per tutta l'immortalità... Vi annoio forse?
— Tutt'altro, caro amico! Sono anzi del vostro parere in un modo che
oltrepassa ogni dire.
— Allora non vi farò mistero di niente... Io stesso, io stesso, quando
scrivevo, per esempio, quelle due piccole riviste che si chiaman le
Rane e le Nuvole, certo non spingevo la mia più vanagloriosa fede oltre
la speranza che mi tenessero il cartello per un paio di stagioni su
gli anfiteatri d'Atene. Vi potrei dire la stessa cosa di Sofocle, che
si dava al genere serio, come degli altri, a voi noti quanto a me,
che racimolavano alla meglio da tutto il teatro ellenico e forestiero
quel guazzabuglio di cose che basta per trarne fuori un dramma, una
commedia, un «vaudeville», una «pochade», un «lever-de-rideau» e così
via. L'immortalità ci è venuta addosso come l'acqua a ciel sereno, e vi
giuro per la barba di Giove che se oggi mi provassi con la stessa penna
a scrivere qualcosa di duraturo, certo non vi riuscirei!
Volli adulare la sua bizzarra modestia.
— No, caro amico, — m'interruppe, — non insistete! Ve lo assicura
Aristofane, che se n'intende! Le cose immortali sono quegli
uovi di gallina che per avventura vengono depositati su la china
dell'immortalità: rotolano giù con un andare sempre più veloce, e
non trovano il sasso che li scocci. Ma io vi assicuro che nell'Atene
Palladia vivevano per lo meno dieci uomini di vero genio, che nessuno
allora nè dopo immortalò; mentre ai tempi nostri quel buon Sofocle era
l'autore delle madri nobili ed Euripide spassava tutt'al più i borghesi
arricchiti e qualche isterica vaporosa «bas-bleu». Io me la son cavata
un poco meglio in grazia d'averne dette di cotte e di crude, senza
peli su la lingua e con un certo brio, sul conto di quelli che andavano
per la maggiore; — ma scrivevo un greco che ai tempi nostri era tenuto
per mezzo dialetto e i critici serii non degnavano parlare delle mie
commedie. Io me n'infischiavo altamente, visto che il mio scopo era
la cassetta, e gl'impresarii, con le riviste d'Aristofane facevano
quattrini, mentre col teatro classico d'allora gli anfiteatri andavano
diserti più che oggi, nell'Atene di Francia, la ben affrescata sala
dell'Odéon! Perchè, vedete, l'arte, come la religione, come la moda,
come il codice, come le usanze, come tutto insomma, non ha ragione
d'essere fuori dal suo tempo, ed è infinitamente bestiale chiamar oggi
capolavoro la commedia o la poesia d'un greco, quando non potete più
collocarla se non in mezzo ad un mondo artificiale e non avete più
se non i vostri pregiudizî storici per estimarne in modo grottesco
le bellezze apparenti. L'arte è un'essenza viva che finisce con il
suo tempo, e voi, quando mettete le mani fra cose di migliaia d'anni
fa, rimovete solo dei cadaveri o per lo meno delle mummie assai ben
conservate.
— Saprete nondimeno, — gli osservai, — che c'è nell'uomo il gusto
dell'esumazione.
— Senza dubbio, e v'è un altro vizio nell'uomo più condannevole ancora:
quello di non voler ammettere a nessun patto che lui stesso e tutte le
sue cose debbano essere transitorie. Perciò va in cerca dell'assoluto,
nell'arte come nella metafisica, e piglia certi gamberi che chiamerò,
per dirla con gli ottimi berlinesi, gamberi colossali! — Ma è lontana,
mi sembra, la vostra sciampagneria!
— Nient'affatto; ci siamo passati dinanzi tre o quattro volte
nel passeggiare, ma ho preferito non avvedermene perchè la vostra
conversazione mi distrae.
«Le chevalier Aristophane» mi riprese il braccio che m'aveva
abbandonato, e per la quarta volta ebbe la cortesia di trovarmi
simpatico.
— Dunque, a parer vostro, — feci, — i soli buoni giudici dell'opera
d'arte sono i contemporanei.
— I contemporanei no, perchè tutti i contemporanei, di tutte l'epoche
e di tutti i luoghi della terra, sono un branco di assolute bestie;
buoni giudici sono quelle minoranze d'intelletti geniali che vivono
nello stesso tempo dei creatori d'opere d'arte o in epoche appena
successive; ma non sono quasi mai costoro quelli che riescono a far
prevalere la lor opinione, perchè nel mondo, checchè si dica, prevale
sempre l'opinione delle maggioranze, ossia dei mediocri. E forse, al di
sopra di questi giudici eletti, v'è per l'opera d'arte la consacrazione
della sensibilità popolare, la quale non comprende ma sente. Questa
sensibilità è passeggera e delebile come la folla passionale che
la genera, ed a vero dire quando svanisce l'anima sua, svanisce la
bellezza intrinseca dell'opera d'arte. Il resto è un'eco; il resto sono
quelle piante fiorite, quelle vivande sontuose che gli Egizî mettevan
negl'ipogei per profumare e per dar da mangiare ai morti. Sicuro... e
se le pappavano i sacerdoti!
— Caro Cavaliere, non posso dirvi altro che una cosa: le vostre parole
mi sembrano pronunziate in modo chiaro da una persona oscura che ábiti
entro di me. Vi ringrazio del buon ammaestramento, il quale m'insegnerà
d'oggi in avanti a guardare con occhio più limpido sui valori delle
cose.
— E sopratutto a riderne, amico mio!... perchè il valore delle cose
non è che un immenso riso contenuto, un'immensa ironia repressa, tanto
più grande quanto più il valore è grande. I valori?... oh, che fiabe!
L'uomo ha sempre lasciato passare senza porvi mente le cose più belle
che gli furon dette; ma invece, anche per la bellezza come per la
ragione, ha costruito un sistema metrico decimale, con che si diverte a
far somme, sottrazioni, radici cubiche, logaritmi, e si sollazza quanto
mai vedendo che queste operazioni riescono, cioè che i risultati sono
immutabilmente uguali... Avrei bisogno, se non vi disturba, d'entrare
un momento in questo piccolo chiosco.
L'attesi. E passavano tre vispe Marsigliesi dall'accento e dal passo di
tamburine, le quali parlavano coi loro tre amici di belle cose vedute
al Casino de la Plage. Un odore aspro di pescheria, di conchiglieria
marina, feriva terribilmente l'aria dalle prossime botteghe di
pescivendoli chiuse; un dragone, quasi nuotante nelle due fisarmoniche
de' suoi stivali, trascinava la sciabola sferragliante, che tosto o
tardi vedrà il sangue degli Usseri della Morte; intanto angustiava una
grossa baldracca, la quale non voleva cedere sul prezzo.
— Ebbene, Cavaliere, alla buon'ora!... Non mi avete ancor detto cosa vi
richiama sì presto in Grecia.
— Bisognerebbe vi confidassi apertamente il mestiere che faccio in
questo ventesimo secolo cristiano, ed avrei un certo ritegno a dirvelo
se non mi foste tanto simpatico... Ecco qui: siccome v'è su la terra
una cosa che non muta mai, si chiami dracma o «vingt sous», bisogna per
forza riuscire a guadagnarsene, vi pare?
— A chi lo dite, Cavaliere!
— Dunque se dessi oggi commedie sotto il mio nome certo mi
fischierebbero, poichè l'immortalità, per sua propria natura, è cosa
che appartiene solamente ai morti. Sicchè scrivo per gli altri, mi
faccio ben pagare, ma non firmo. Voi saprete forse che a Parigi, ed
anche altrove, quasi tutti fanno così. Ma io lavoro per Parigi. Ho una
mezza dozzina d'autori molto in voga i quali hanno la bontà di servirsi
alla mia ditta. Vado a Parigi regolarmente una volta ogni sei mesi,
faccio il giro della clientela e sento cosa desiderano. De Flers et
Caillavet, poniamo, vogliono una «pochade»... («il Re», vi avverto,
l'ho scritto io;) ma tralasciamo i nomi ch'è meglio! Dunque X, poniamo,
vuole una rivista per l'Alhambra, Y un'altra per la Cigale, Z una
«revuette» per il Théâtre Michel, e così via... Si chiacchiera un poco
insieme, ci si accorda sul genere, sui denari che posso far spendere
per la messa in scena, sul prezzo che mi si pagherà, e quand'ho la
cartella piena di commissioni prendo il piroscafo a Marsiglia e faccio
per così dire vela verso il Pireo. Laggiù, poco fuori d'Atene, ho
quattro palmi di terra, una bella casetta di campagna, un giardino
rustico, una vigna che matura sotto il clima dolce, ho qualcos'altro
che non vi dico... e là tranquillamente lavoro. Vi avverto, caso mai
v'occorresse, che scrivo anche drammi, tragedie, commedie sentimentali
e borghesi.
— Ah, per bacco! datemi il vostro indirizzo, caro Cavaliere, perchè non
si sa mai!
— Indirizzate pure ad Atene dove tengo un «pied-à-terre»; il portinaio
mi manda la corrispondenza in campagna. Per voi sono disposto a prezzi
di favore, data la grande simpatia che m'ispirate.
E mi riprese il braccio.
— Non sono alieno, — dissi, dopo averci fatto su un pensiero, — non
sono alieno dal tentare il teatro a mia volta, oggi sopratutto che
non v'è persona ben educata la quale non si creda in obbligo di far
qualcosa per le scene. Conosco perfino un ex-analfabeta il quale vi
si esercita, sicchè mi potrei forse concedere questo lusso anch'io,
dal momento che con la roba scritta son, oserei dire, in una certa
familiarità...
— Non avrete che comandare per trovarmi sempre ai vostri ordini.
Vediamo un po', cosa piace a casa vostra?
— Ah... tutto! piace tutto! Purchè ci sia pensiero, molto pensiero,
un'esagerazione di pensiero... Negli altri paesi il teatro è teatro, da
noi è pensiero. Infatti «la Presidentessa» ebbe un esito enorme.
— Non faccio per vantarmi, caro amico, ma anche «la Presidentessa» è
roba mia!
— Felicitazioni! e vi prego di crederle sincere, perchè io considero
«la Presidentessa» come un esponente necessario del teatro moderno.
— Oh, questi son nonnulla che fabbrico per Parigi. Ne ho venduti a
bizzeffe. Proseguite, vi prego, sul teatro italiano.
— Ebbene, vi ho già risposto: in Italia si traversa un'epoca di
pensiero, il teatro è riproduzione della vita, quindi le platee sono
addirittura sitibonde di pensiero... Figuratevi, per darvi un esempio,
che da noi si rappresenta Ibsen, specchio di semplicità, come si
metterebbero in scena gli oracoli della Sibilla cumana! È delizioso...
e poi si rabbrividisce! Dunque, se ci possiamo intendere sul prezzo,
io v'affido subito la commissione: vi prego solo di non seminarvi un
ingegno che sia di troppo superiore alle mie forze, altrimenti ognuno
potrebbe comprendere che non è cosa mia.
— Sentite, il prezzo per voi sarà questo: un terzo dei vostri diritti
d'autore. Vi conviene?
— A meraviglia. Dunque mi fido a voi; scrivetemi quel che vi pare e
piace, con l'avvertenza che amerei fare qualcosa di nuovo. Mandatemi,
per esempio, un... cinquecento grammi di roba scritta, io vedrò poi
secondo il momento se mi convenga di chiamarla dramma, tragedia,
commedia, farsa...
— E perchè non rivista? Da voi, ch'io sappia, se ne fanno meno che
altrove: sopratutto non si fa il mio tipo «articolo di Parigi». E con
quel tanto d'aristofanesco che vi potrei cacciar dentro io, si rischia
d'avere un bel successo.
— Buona l'idea! mi piace! Vada per la rivista, ma per l'amor del
cielo trovate il mezzo di riattaccarla in un modo o nell'altro alla
inevitabile tradizione... Che so io? per esempio alla tradizione della
nostra Commedia dell'Arte, perchè in Italia, come vi ho detto, senza la
tradizione, è tempo perso, non si conclude nulla.
— E siamo intesi! adesso lasciate fare a me. Caso mai non vi piacesse,
me la rimandate, io la smercio altrove e per voi ne scrivo un'altra.
Fra persone di mondo, il mezzo per intendersi c'è sempre! Solo abbiate
la cortesia di ripetermi bene il vostro nome, perchè nel leggere il
biglietto da visita ho avuta quasi la reminiscenza d'un casato che non
mi tornasse nuovo.
Poi ebbe un lampo:
— Ma voi, — disse, — fate proprio il romanziere, non è vero?
— Sì.
— E scrivete anche romanzi?
— Sì.
— Ossia delle storie per lo più d'amore, che posson anche trattare di
qualsiasi altro argomento, purchè si chiamino romanzi?
— Sì.
— È quello che volevo dire!... Io vi conosco, io vi ho letto, io vi
trovo molto molto simpatico!
— Toh!...
— E dico: molto!
— Mi pare impossibile che abbiate letto i miei romanzi condannati
all'ostracismo da tutta la critica più erudita e meglio pensante!
— Eppure così è! Uno almeno l'ho letto; ora vi spiego. Non conoscete
voi per caso un certo signor... un certo signor...
Sebbene la strada fosse per intorno deserta e non si vedesse in qua dai
cento metri che la goffa ombra d'una guardia municipale, Aristofane
s'avvolse tuttavia di misteriosa cautela e mi soffiò quel nome
nell'orecchio, a voce sì piana che quasi non l'udii.
Rispetto quindi gli scrupoli dell'ateniese.
— Questo amabile vostro poeta, — illustrò l'immortale, — ha scritto e
scrive molte bellissime tragedie greche. Lo conoscete voi?
— Certamente lo conosco, mio caro cavaliere!
— Bene, tanto per illuminarvi, sappiate che tutte le sue tragedie le ho
scritte io!
— Oh, guarda che bel caso!
— Proprio; ma statemi a sentire. Qualche tempo fa, mi arriva un
suo telegramma: «_Urge dramma greco terribile poco prezzo entro
venti giorni._» Per la barba di Saturno! avevo proprio su le spalle
tutta la nuova stagione parigina, e rispondo: «_Impossibile. Tempo
insufficiente. Tragedie greche esaurite. Complimenti._»
Il giorno dopo ricevo altro telegramma: «_Provvedete indefettibilmente_
( — questo avverbio lo avrà pagato come due parole), _ovvero perdete
cliente._»
Daimon! daimon! in commercio non si scherza! Mi misi le mani tra
i capelli e telegrafai «_Avretela._ Scrissi al mio libraio d'Atene
che mi mandasse tutta la più recente produzione libraria dei cinque
continenti, in special modo quella dove si parlasse d'adulterio
sotto tutte le forme più peregrine, e di delitto in ogni maniera più
efferata, ossia quegl'ingredienti che sono ancor oggi, come al tempo
degli Atridi, lo specifico infallibile dell'arte.
Dopo aver scartati cinque o sei libercoli per signorine, cinque o
sei Tempietti di Venere per Aspasie morfinomani, la mano mi cadde
sul vostro romanzo, che m'impensierì per il suo titolo. Pensai: — Un
romanzo che si chiama «_La vita comincia domani_» deve trattar di cose
decrepite come la terra! Mi misi a sfogliarlo... e, per Ercole, ero
a cavallo! Ecco la tragedia greca bell'e fatta, e fatta in modo che,
con tre o quattro tagli della mia forbice classica, una spolveratura
di quelle sapienti spezierie che sono il mio segreto di fabbrica, la
tragedia riesca magari a cavarsela meglio che le altre. Detto fatto,
in quindici giorni la tragedia era pronta e navigava su Francia.
Egli fu assai lieto, mi pagò profumatamente, accompagnando il vaglia
con una lunga e bella sua lettera, nella quale mi felicitava d'aver
improvvisato con sì grande prestezza una irta e sonora tragedia
greco-moderna, che andrebbe ad illustrarsi del suo nome verso i teatri
di due popoli. E il poverello non sapeva, com'io non seppi fino ad
oggi, di dovere a voi, proprio a voi, simpatico italioto, l'ultima
e la più sciagurata fra tutte le tragedie greche! Sì, perchè io non
vi adulo, caro amico: il vostro romanzo è una cosa disinvolta... ma
fetida.
— Séguito ad essere sempre più della vostra opinione.
— Tanto fetida e tanto disinvolta, che può darsi un giorno o l'altro mi
scriviate un bel libro.
— Ne sono certo anch'io.
— Un bel libro, con il quale forse non andrete alla gloria, a meno che
non troviate la china dell'uovo di gallina, ma che insomma vi darà la
soddisfazione intima dell'uomo fortemente allegro, il quale, con tutta
licenza, abbia fatta una risata madornale e villana e libera su la
faccia al mondo intero! Perchè questo, e nient'altro, è la vera arte:
una risata.
— Per l'appunto, Cavaliere; una volta non pensavo così, ma ora sono
di questo parere anch'io. Dunque, per concludere: posso contare su la
rivista? e per quando?
— Verso il mezzo inverno, ma non prima, caro amico, perchè ho
commissioni fin sopra i capelli.
— Non ho premura, purchè venga bene.
— Ci penserò per mare; su l'acqua infinita le idee s'allargano. E
ditemi, visto che avete l'uso di scriver romanzi i quali si prestano
mirabilmente a foggiarsi da tragedie greche o magari da tele per
melodrammi, poichè la ricetta è la stessa, non ne avreste qualche altro
da mandarmi, caso mai mi trovassi a corto di materia per qualcuno della
mia clientela?
— Per bacco, altrochè! Ne ho un paio d'altri, dai quali si potrebbe
cavare a maraviglia una cosetta, per esempio, mistica, ovvero un paio
di scene terrificanti per il teatro del Grand Guignol... Insomma io ve
li mando, voi vedrete con la vostra esperienza se c'è qualcosa da fare,
e cosa c'è.
— Non vi dispiace mica, è vero, che vi adoperi le vostre coserelle?
— A me? che diamine! anzi ve ne sono gratissimo! Purchè le diate,
beninteso, a un autore di grido, essendochè voi capirete bene che «à
tout seigneur tout honneur!» e che quando per esempio si ha un'amante,
la quale ad ogni prezzo debba renderci cornuti, nel rammarico
inevitabile della scornatura fa sempre un certo piacere che almeno se
ne vada in letto con una persona pulita. Vi pare?
— Sarà benissimo, poichè lo dite. Per conto mio, la donna vada in letto
con chi vuole, non mi fa nè caldo nè freddo... Io sono rimasto greco
in amore, greco d'ambo i lati, greco in ogni senso... e la donna, vi
assicuro, la donna per l'amore non è che un palliativo!
— Oh, Cavaliere garbato e faceto, quali cose andate mai dicendo!
— Le cose d'Aristofane, delizioso amico mio, ch'eran vere al tempo
d'Aristofane, e sembrami talvolta che vogliano tornar vere anche
oggidì! Non vi pare lunga e dolce questa notte d'estate?... Non
vorreste narrarmi da presso, imprimere nella mia memoria, insinuarmi
nell'anima un vostro romanzo vissuto?... E non è questa la fiera
colonia focense, la primitiva e robusta Massalia che portò ai barbari,
dall'ellenico mare, il nostro costume gentile?...
— Cavaliere anacreontico e scherzevole, sono doluto assai di non
potervi compiacere! Io sono rimasto profondamente barbaro, barbaro
d'ambo i lati, barbaro in ogni senso... e la donna, vi assicuro, la
donna per l'amore sarà un palliativo, sta bene... ma è ancora l'unico!
— Oh, divina babbuaggine di questi moderni, che hanno portato la
retorica persin nell'amore!... Vedo pur troppo che c'è fra di noi tale
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