I rossi e i neri, vol. 2 - 27
condusse noi, venuti da tante parti diverse, tolti da così diversi
ordini di cose e di pensieri, a far manipolo, a chiamarci col santo
nome d'amici? La ragion della guerra. Il posto del soldato è là dove
romba il cannone. Noi tutti abbiamo udito l'appello, siamo accorsi, e
__viribus unitis, agmine facto__, anzi __testudine densa__, ci siamo
precipitati all'assalto. Abbiamo combattuta, non fo per dire, un'aspra
battaglia, contro un nemico ben munito e coperto. È lecito vantarsi un
tantino, la sera della vittoria. Perchè tale è stata la nostra, la Dio
mercè, mercè l'assistenza delle donne e mercè il gran capitano, il
duca di Feira, che oggi si accomiata da noi, portandoci via uno dei
più strenui, de' più cari ufficiali dello stato maggiore. __Ho detto,
ho detto, e adesso prendo fiato.__--
S'intende che per prender fiato il Giuliani vuotava il suo calice.
L'oratore ebbe il plauso universale; i cavalieri lo acclamarono
principe dell'eloquenza; le dame lo salutarono coi loro più amabili
sorrisi.
--Grazie, signor Giuliani,--disse di rimando il duca, a cui s'erano
rivolti gli occhi di tutti;--ma consentite che io propini in quella
vece a voi, alla vostra ricchezza di partiti, alla efficacia dei
vostri spedienti. Non siete voi che, insieme coi vostri amici, coi
Templarii, come usate chiamarli, avete ordinato ogni cosa? Io ero
giunto tardi per ingaggiare il combattimento; voi eravate già in
campo, e a tutto avevate provveduto. Io non ho fatto altro che seguire
il filo de' vostri disegni, mettendo a' vostri servigi la mia vecchia
esperienza.
--Ed altro ancora, signor duca, ed altro ancora!
--Sia pure, ma mi è grato di poter mettere in chiaro che senza di voi
non avrei fatto nulla, e non potremmo oggi trovarci raccolti in questa
sala, stretti, come avete detto voi così veramente, da un vincolo di
parentela morale.
--A questi patti, signor duca, noi dovremmo in quella vece fare un
brindisi al servo di casa Salvani. È il buon Michele che s'è messo a
sbaraglio per noi, che è penetrato sotto mentite spoglie nella piazza
nemica, ha inchiodati i cannoni che traevano a scaglia su noi, e
finalmente ci ha schiuse le porte. Modesto al pari dei veri eroi, egli
ha compiuta senza sussiego la più grave bisogna. Chi ha fatto entrare
una parola di conforto in monastero? Chi ha origliato i disegni dei
tristi, dando per tal guisa il bandolo a voi, e il modo di sgominarli?
Chi finalmente ha posto le mani... Ma che dirò io di più?--soggiunse,
con bella e soprattutto accorta reticenza, il Giuliani.--Questi è
Michele Garaventa, un povero servitore, che, fatta un'impresa degna
d'Ulisse, o d'altro eroe dell'antichità, se n'è tornato modestamente
nell'ombra, senza chiedere ricompensa delle sue prodezze, riportandone
anzi una punizione. Perdonate, bella signora,--diss'egli, volgendosi a
Maria Salvani,--io parlo sempre da scapolo impenitente.
--Ottimo Michele!--soggiunse Maria, poi che ebbe con un sorriso
mostrato al Giuliani che intendeva l'allusione a quel castigo di Dio
della signora Marianna.--Egli è stato, non già un servo, un fratello
per noi.
--Queste parole egli deve udirle,--notò il duca di Feira,--e saranno
la più bella ricompensa delle opere sue. Se voi lo permettete, gentili
signore, lo faremo chiamare. Questo è fuori delle consuetudini, in
verità; ma non ne siamo stati fuori un po' tutti, in questa guerra mal
nata? Ed egli, poi, il valentuomo, per amore de' suoi padroni, non
n'era uscito prima di noi, dalle sue? non s'era levato a tale altezza
di sacrifizi, che non si può richieder da tutti?--
In questa guisa era stato chiamato Michele Garaventa al cospetto della
gentile brigata. Il poveretto era confuso, fuori di sè; quando si vide
in mezzo a quei signori, sentì mancarsi qualcosa di sotto, che ben non
sapeva se fosse la terra, o le gambe. Accettò, senza profferire
parola, il bicchiere che gli porgeva Maria, e bevve mutamente,
istintivamente, come uomo che non avesse mai fatto altro in sua vita.
Del resto, come a tutti è noto, egli sapeva farlo per bene. Ma
allorquando egli udì che si beveva alla sua salute, che quella gran
dama della Priamar aveva cortesemente alzato il bicchiere ad onor suo,
che Sua Eccellenza si degnava di toccare con lui, che sguardi e parole
amorevoli lo sfrombolavano d'ogni parte, fu un altro paio di maniche.
Bisognava parlare, egli lo vedeva. Parlare! Ma che cosa avrebbe
egli--detto? Le gambe gli facevano giacomo giacomo; gli zufolavano le
orecchie; la lingua gli s'impacciava nella chiostra dei denti. Basta;
Michele non era stato soldato per nulla; s'appigliò ad uno stratagemma
di guerra; pensò che quando il generale Garibaldi passava dinanzi alle
file, egli, Michele, soleva guardarlo in faccia, e interrogato
rispondergli; che di fronte al nemico egli non aveva tremato mai, nè
chiuso gli occhi davanti ad un pericolo. Dopo tutto, non mi mangeranno
mica! diss'egli. E fatta questa filosofica considerazione, si sentì
tornare il sangue nelle vene; guardò tutti in giro i convitati, e
ripulitasi graziosamente la bocca col dosso della mano, uscì in questo
discorso:
--Le Signorie Loro mi compatiranno. Io non ho pratica di galateo. La
signorina.... cioè no, dico male, la signora Maria può far
testimonianza che io sono sempre stato meglio all'accampamento.... Ma
che diavolo dico? Ella non c'era mica a vedermi! Insomma, volevo dire
che ella mi conosce sa che io sono uno zotico, un ignorantaccio....
--Siete un ottimo cuore, Michele!--interruppe sorridendo Maria
Salvani.
--Ah, non dico di no; ma la testa val poco. Già la testa, con licenza
delle Signorie Loro, è sempre il peggio della bestia. In fondo, sono
un buon diavolo; amo il figlio del mio povero colonnello, e venero la
signorina Maria. Che diamine? La lingua non vuol mai piegarsi a dire
signora. Ma che vogliono? l'ho veduta così piccina! Si figurino che la
si metteva ritta sui miei piedi; ed io, tenendola per le mani, le
servivo d'altalena. E ciò le faceva piacere, e ne faceva anche a me,
malgrado i miei dolori __aromatici__, che ho buscati laggiù
nell'America, e che non m'hanno ancora voluto lasciare. Ma ora, se
piace a Dio, andrò in Acqui, a far la cura dei fanghi. I miei padroni
non hanno più bisogno di me; sono contenti.... E anch'io, perbacco,
sono contento come una vecchia granata messa a riposo, che ci ha il
gusto di veder pulita la casa e di starsene a dormire in un angolo Ma
chi me l'avesse mai detto, che tutti questi malanni sarebbero finiti
così presto e così bene!... No, per tutti i diavoli, non l'avrei mai
creduto. Il mondo è pieno di stranezze oggi in un mar di guai, domani
all'__adige__ della contentezza Ecco lì.... Mi scusino della libertà!
parlo come vien viene, alla dozzinale, da vecchio soldato che non sa
d'arte __aratoria__. Io vedo starsene lì come pane e cacio due bravi
signori che otto mesi fa li ho visti barattar stoccate da mettere i
brividi. Il signor Assereto e il signor Pietrasanta ne sanno la parte
loro, essi che erano della festa. Ci ha fatto caldo a San Nazaro, quel
giorno, sebbene non ci fosse il sole! Ma finita la zuffa, tutti amici
meglio di prima!
--Le mani dei galantuomini,--disse il Giuliani,--son fatte per
stringersi, non già per farsi la guerra.
--Ben detto!--seguitò Michele.--E io, con licenza delle Signorie Loro,
bevo alla salute di tutti i veri amici.
--Cominciando da Oreste e Pilade;--entrò a dire il Mattei.
--No, quelli là!--fu pronto Michele a rispondere.--Piuttosto, vede
Ella? berrei alla salute di Erode e Pilato.
--Perchè?
--Perchè quei due nomi, Oreste e.... l'altro, mi fanno ricordare d'una
cattiva notte, che io mi son lasciato cavare i calcetti da un certo
mascalzone, e poi n'è venuto un subbisso di malanni. Ho presa la mia
rivincita, sta bene; per altro, non mi bastava ancora, e se quel
tristo mi capitava sotto le unghie!... Ma la giustizia di Dio ci ha
avuto più buone gambe di me. Il furfante è in gattabuia, e se non me
lo schiaffano in galera, certo me lo spediscono, franco di porto, a
rifare un po' meglio i suoi studi ad Oneglia.
--Parlate del Garasso?--chiese Lorenzo.
--Di lui per l'appunto. Lo cercavo da un pezzo, per cavarmi una certa
voglia dalle dita; ma sì, piglialo! Il mio uomo doveva fiutarmi da
lontano. Per sua disgrazia, mentre sfuggiva da me, inciampò nei birri,
che avevano un altro conticino da aggiustare con lui. Si figurino che
costui teneva il sacco ai ladri; i suoi compari, caduti nelle mani
della giustizia, hanno cantato, e l'amico ciliegia ha dovuto andarli a
raggiungere. Vedano un po' con che razza di gente io m'ero imbarcato!
Sono un asino, sì, un asino, sì, un asino calzato e vestito; e quando
penso a tanti guasti cagionati dalla mia balordaggine....
--Eh via, Michele, non vi buttate a' cani in questo modo!--interruppe
il Giuliani.--Io vi ho veduto alla prova, rimediare strenuamente al
mal fatto, e mi vien voglia di paragonarvi alla lancia d'Achille.
--Che, mi burla? Una lancia, io? Sdruscita, sì, forse; ma se il
personaggio ch'Ella dice ne aveva una simile, giuro che non s'è mosso
da riva.---
Questo era un bisticcio, e fu salutato da una risata universale. Ma il
buon Michele non l'aveva fatto a posta, chè non era forte di studi, e
ci aveva per giunta l'inimico in corpo, che, come i lettori già sanno,
gliele faceva dire più grosse del solito.
Poco stante, il nostro Michele ebbe licenza di tornarsene ai dolci
vincoli dell'Imeneo. Anche il Pietrasanta, l'Assereto, il Giuliani e
il Mattei, allegro quartetto di scapoli, pigliarono il largo, dopo
aver promesso ad Aloise che sarebbero andati il giorno seguente ad
accompagnarlo allo scalo della ferrovia. A sua volta, la marchesa di
Priamar, stretti al seno quei due, che ella poteva, innanzi al duca e
ad Aloise, chiamar liberamente suoi figli, uscì da quella casa in cui
aveva passato il primo giorno veramente lieto della sua vita. Il duca
di Feira, da quel compito cavaliere che era, volle accompagnarla fino
al suo palazzo; della qual cortesia non è a dire com'ella gli fosse
grata. La povera madre sentiva il bisogno di essere sola con lui, per
ringraziarlo, per aprire il suo cuore a quell'angiolo salvatore di sua
figlia e di lei, a quell'autore di tutte le sue contentezze.
--Ella è felice. Povera madre! Era tempo;--andava egli dicendo tra sè,
nel ricondursi a casa.--Felici tutti, per me. Ed io?...--
Il pensiero del mesto gentiluomo corse alla Montalda, presso quella
tomba solitaria in cui riposava la salma della donna adorata.
--Salvar tuo figlio, Eugenia, e poi ricongiungermi a te nella morte;
questa sarà la ricompensa di Cosimo.--
Intanto Aloise, rimasto solo con Lorenzo e Maria nel salotto del duca,
s'era lasciato cadere sfinito su d'una scranna.
--Ah, finalmente!--esclamò egli.--Non ne potevo
più.
--Voi siete triste, Aloise?--gli disse Lorenzo, avvicinandosi a lui, e
posandogli una mano sulla spalla.
--Perdonate, amici, fratelli miei, perdonate!--rispose il marchese di
Montalto, congiungendo la mano di Lorenzo e quella di Maria nelle
sue.--Io sono felice, come si può essere, quando si è stati testimoni
della gioia d'una madre che vi ama, e che nel contemplarvi, si
lasciava sfuggire con nobile audacia il suo segreto dagli occhi;
quando infine s'è stretta la destra ad amici schietti e operosi come
coloro che ci hanno lasciato poc'anzi. No, la virtù non è un nome
vano; no, tutto non è abbiettezza, codardia, bruttura nel mondo. Ma
perchè non sono io lieto? Perchè in mezzo a tutta questa gioia io mi
sento morire? Da due mesi, vedete, da due mesi io vivo come uno
smemorato. Ho come un vuoto qui dentro, e non ardisco addentrarmi
nella mia coscienza, considerare questa grande rovina di tutte le mie
speranze, di tutti i miei sogni, di tutto ciò che mi faceva cara la
vita.
--Voi amate, Aloise....--disse Maria con accento
compassionevole.
--Sì, e senza speranza. Non è il segreto di alcuno; è il mio segreto;
posso adunque trarlo fuori dal profondo, e flagellarmene il petto. Sì,
amo fieramente, e fieramente odio.... me stesso. Sì, vorrei strapparmi
il cuore, questo cuore malnato, che accoglie confidente un affetto, e
lo serba a mio malgrado, e lo difende contro la mia stessa ragione;
questo vil traditore che mi dà in balìa d'un beffardo nemico, e dopo
avermi offuscato l'intelletto, scemata ogni virtù di propositi,
congiura a togliermi perfino la dignità del soffrire. Ah Lorenzo,
amico, fratello mio! Se non avessimo di tali spine qui dentro, come
saremmo noi forti! Quale avversa possanza resisterebbe alla tenace
operosità dell'uomo, tutta rivolta ad un fine? Noi giovani, noi
animosi, noi senza macchia e senza paura, potremmo dar opera a grandi
cose, far manipolo contro il male che invade d'ogni banda, portar la
spada e la fiaccola, combattere e illuminare, essere esempio ai buoni
e flagello ai malvagi, ordinare l'aristocrazia dell'ingegno e della
onestà, la sola vera, la sola efficace, non già a salvare un vecchio
edifizio che minaccia d'ogni parte rovina, sibbene a rinnovare la
faccia del mondo infiacchito nel tiepido amore del bello, del vero e
del buono, fatto teatro ai contrasti ridicoli di vizi piccini e di
piccine virtù. Ma no; forti e non ignari della nostra forza,
rinunziamo alle nobili voluttà che ella può darci; abbiamo qui dentro
il tarlo roditore delle nostre passioni; disperdiamo in vani
scintillamenti una luce preziosa; consapevoli dissennati, sprechiamo
tutta la possanza nostra a' piedi d'un idolo di creta.--
Così parlava esacerbato Aloise. Lorenzo volse lo sguardo a Maria, che
avvicinatasi chetamente già era per reclinare la bruna testa
sull'omero dell'amato, ma si trattenne, e parve dirgli col gesto:
rispettiamo il suo dolore.
Aloise, o si avvedesse del gesto, o indovinasse il pensiero, levò la
fronte verso i due pietosi, e soggiunse:
--Voi, Lorenzo vi siete imbattuto in un angelo. Io, in quella vece, ho
fallita la strada, e debbo portarne la pena. Che volete, fratelli
miei? Nessuno può sottrarsi al suo fato.--
XXXV.
Dal campo dell'Iliade alla patria di Omero.
Ha ragione il signor di Montalto con la sua triste sentenza? Sì, e no;
è questione d'intenderci. Che cosa è il fato? Se davvero una forza
prepotente, fuori e sopra di noi, conseguenza logica di atti
sconsiderati, frutto amaro d'incaute passioni, potremmo dire di no;
perchè agli atti nostri c'è qualche volta rimedio, e alle nostre
passioni può sempre comandare lo spirito. Ma, d'altra parte, come fare
a sceverar noi medesimi dalle cose, che premono d'ogni lato,
confondendosi troppo spesso con noi? Come esser padroni di mutar
l'indirizzo del vivere, quando il verso è preso, ed altre forze,
soverchiando la volontà, ci travolgono? L'istesso Cosimo Donati, il
nobilissimo duca di Feira, che ebbe la rara virtù di sopravvivere al
suo dolore, facendosi della propria sventura una religione, una norma
di vita, poteva dirsi libero in tutto dagli eventi? Diciamo dunque,
temperando l'orgoglio della nostra filosofia, che in un certo punto, i
casi nostri prendono un corso violento, su cui non ha più potere la
nostra ragione; e il fato riacquista allora quei diritti, che il
nostro libero arbitrio non ha fatto in tempo a contendergli.
Contro il fato di Aloise combatteva ad ogni modo il duca di Feira. A
quanti atti, che parevano irrevocabili, non aveva gli rimediato? Ed
anche al resto si sarebbe provveduto, che era certamente il meno, come
quello che dipendeva soltanto da uno sforzo di volontà. Partire, a
buon conto; levarsi di lì; condurre Aloise per tutte le vicende, per
tutte le distrazioni forzate di un lungo viaggio! In quel muoversi
irrequieto, variando sensazioni, soggiacendo a nuove necessità,
portate lì per lì dalla diversità dei luoghi e dei costumi, non aveva
egli, il povero Cosimo, ingannata la sua pena, trovate le ragioni del
vivere? Perchè non le avrebbe trovate il suo Aloise, che finalmente
non doveva serbarsi fedele a nessuna immagine celeste, a nessun sacro
ricordo? Così fu impreso il viaggio, così fu continuato;
capricciosamente, in apparenza, ma con accorta progressione di
varietà, per tutte le capitali d'Europa, non isfuggendo neppur quelle
dove Aloise era già stato, e dove anche aveva sofferto.
Muovere incontro ai dolorosi ricordi, col proposito di lasciarsi
soverchiare da essi, è atto di poca prudenza, certamente; passarci
accanto, irritandoli un poco, quasi mostrando di non temerli, è buona
arte di guerra, specie di ricognizione offensiva in cui si provano le
nostre forze, e si addestrano a più grosse giornate. Erano perciò
andati a Parigi, ma proseguendo assai presto per Madrid, per Lisbona,
per Londra; erano stati a Brusselle, a Monaco, a Vienna, a Berlino, ma
spingendosi tosto a Stoccolma, a Pietroburgo, a Mosca. La Grecia,
divina nelle sue memorie, vero balsamo a tutti i mali dell'anima,
aveva poi la miglior parte del tempo loro. Così meglio disposti, erano
passati da Atene per Costantinopoli; sempre in moto i corpi, sempre in
agitazione gli spiriti, qualche vantaggio doveva pure venire.
Già più e più volte in Grecia il duca di Feira aveva veduto Aloise
infiammarsi; triste a Misitra, ma per la scomparsa delle istesse
rovine di Sparta; accigliato in Maratona e al passo delle Termopili,
ma per la troppo lunga carestia di Milziadi e di Leonida ai tempi
moderni; accigliato ancora e triste in Atene, ma più spesso esaltato
per ciò che rimaneva dell'antica grandezza, dell'antica bellezza,
dell'antica idealità degli Elleni.--Chi può pensare,--aveva egli detto
un giorno,--chi può pensare ai propri dolori, salendo all'Acropoli?
Quanta storia, quant'arte, e quanto pensiero, tra l'Erettèo e il
Partenone! E il mondo ne vive ancora!--
Da Costantinopoli, ultimo lembo d'Europa, il salto alla costa d'Asia
era naturale, come a dire indicato. Aloise gradì molto l'occasione di
visitare la Troade. Laggiù, da occidente e da settentrione, s'era
mostrato sollecito di vedere molte cose, pensando di far cosa grata al
duca di Feira; ma in quelle terre orientali diventava particolarmente
sollecito, singolarmente curioso per sè. Da un libraio della via di
Ermete, in Atene, aveva comprati parecchi volumi, e tra questi
l'Iliade; poteva dunque viaggiare la Troade con Omero alla
mano.--Questo è un Baedeker!--diceva egli sorridendo al duca di
Feira.--È certamente il primo della serie!--
La celia e il sorriso dicevano molto al suo Mèntore, che si lodava in
cuor suo di aver condotto in quella forma il viaggio.
A quel tempo il signor Enrico Schliemann, gran milionario e gran
pellegrino d'amore per la storia e per l'arte, non era anche disceso
laggiù con la sua bella fede e con le sue buone squadre di manovali,
per ritrovare e disseppellire i sacri avanzi di Troia. Intorno alla
situazione dell'antichissimo Ilio, «raso due volte, e due risorto», si
era tuttavia fra i dubbi, le incertezze e le tenebre, aggravate sempre
più dalle dispute degli eruditi tedeschi. Hissarlic, o Burnabachi?
Aloise si dichiarò volentieri per l'eminenza meno distante dal mare. I
campi delle quotidiane battaglie tra Greci e Troiani erano lì,
ragionevole distesa di terreno, su cui dall'alto delle mura potesse
spaziare lo sguardo trepidante di Priamo; erano lì i sacri fiumi,
Simoenta e Scamandro, anche ammettendo che essi, da quegli irrequieti
vagabondi che sono sempre stati i fiumi, avessero cangiato più volte
di letto.
Al nostro giovine amico, che con tanta divozione classica percorreva
quei luoghi, facendo sostare ad ogni tratto la scorta, parve di
riconoscere un po' sopra a certe fontane il luogo delle porte Scee,
donde Ettore aveva preso dalla sua Andromaca e dal figliuoletto
Astianatte i patetici congedi cantati divinamente da Omero; e lì
presso, il luogo del muro alto, dalla cui sommità la bellissima Elena
aveva additati al suo buon suocero provvisorio i più famosi e i più
temibili condottieri di Grecia. Elena, la cagione dell'eccidio d'un
regno! Elena, la grande bellezza fatale! Che fascino era in lei?
Aloise non si fermò neanche a pensare se ella avesse gli occhi verdi,
o turchini; che tanta serenità di spirito non si poteva pretendere
ancora da lui. Ma intanto egli filosofò la parte sua sulle rovine
cagionate da Elena, e sui pericoli che una soverchia bellezza può far
correre agli uomini, povera materia infiammabile, come la stipa e il
capecchio.
Filosofava, adunque. Ora, quando l'uomo può filosofare, è segno che
può ragionare. Quando può ragionare, è segno che ha la testa sgombra e
libero il cuore. Così pensava il duca di Feira, ascoltando il suo
compagno di viaggio. Egli aveva già potuto osservare come il suo
Aloise si ritrovasse più franco e più ilare in quelle terre orientali,
che non laggiù, da occidente e da settentrione, in quelle sontuose
capitali europee. Non ferrovia, non cavalli di posta, non alberghi,
non comodità della vita; strade malagevoli, sentieri da capre,
rompicolli, guadi da raccomandarcisi l'anima, rovine, desolazioni; che
importa? Tra quelle desolazioni non si è solamente lontani nello
spazio; si è lontani ancora nel tempo. Anche laggiù nella Troade era
già una distanza enorme da Genova, e da Quinto, il ritrovarsi a tu per
tu con Elena Argiva.
--Se fosse qui il Giuliani!--aveva esclamato Aloise.--Quanto latino
metterebbe fuori, vedendo il tumulo di Achille, __et solum quo Troia
fuit__. Hai notato, babbo,--(da qualche tempo Aloise dava del tu al
duca di Feira, chiamandolo ancora col dolce nome di padre)--hai notato
come il dottor Giuliani parli spesso e volentieri in latino? Può forse
annoiare tanti altri, non me. Mi pare, sentendolo infiorare i suoi
discorsi di tante citazioni, buttate anche là con un tono di celia,
che le cose della vita moderna, della vita comune, prendano colore e
sapore d'antico, quasi di eroico, e insieme di universale. Quel po' di
celia che v'aggiunge, come un pizzico di sale, tempera tutto; e di ciò
che potrebbe parere un difetto a qualcuno, te ne fa una qualità; che
so io? una cosa gradevole. Io gli invidio quest'arte. Perchè, infine,
ci è data la parola? Per dire soltanto delle volgarità e delle
sciocchezze, lasciando che un po' di dottrina si spenda soltanto nelle
conversazioni noiose dei pedanti? Ah, vorrei qui il Giuliani; e che ci
parlasse di Elena! Ne sentiremmo di belle!
--M'immagino che la difenderebbe;--disse il duca di Feira.--È tanto
cavaliere quanto è originale.
--Eh, credo bene che avremmo un panegirico;--ripigliò Aloise,
fermandosi volentieri su quel tema.--Una buona ragione per farlo, la
troverebbe di certo. La cagione di tanti guai non fa più nessun male
ad anima viva, mentre l'immagine sua può ancora alimentare molte
fantasie di poeti e di artisti. Le morte bellezze non fan più soffrire
nessuno; possono consolare, artisticamente evocate, in un poema, in
una statua, in un quadro. Che follìa, del resto, il soffrire per
quelle nobili matte! Non val meglio ammirarle, per ciò che in esse è
stato, ed è tuttavia, di veramente divino? Per restar tra le antiche,
Frine era un mostro di corruttela, senza dubbio; il suo nome istesso,
che era poi un soprannome, datole quasi per marchio d'infamia dai suoi
contemporanei, lo dice. Frine, rospo! Ma che importa ciò? Frine è un
miracolo di bellezza; e Prassitele copia appuntino quella perfezione
di forme; e quei di Gnido la mettono sull'altare, per rappresentarvi
Afrodite. La bellezza, quando è sovrana, va trattata così; adorata,
come usarono i Greci, ma facendone un marmo. Sapienti, i Greci; e noi
sciocchi, non ti pare?--
Il duca di Feira assentiva, sorridendo.
--Ed anche cattivi;--soggiunse Aloise,--perchè troppo spesso
consideriamo le belle col criterio della nostra passione, del nostro
egoismo, che è così spesso un insulto alla legge morale.
--Ah, qui ti sento anche più volentieri;--disse il duca, esultante.
--Ma sì;--proseguiva infervorato Aloise.--Vediamo una stupenda
creatura, per caso; il nostro cuore s'infiamma; la nostra ragione, che
dovrebbe trattenerci, non protesta, acconsente, si associa, come si
farebbe in parlamento, per disciplina di partito. La donna per cui ci
siamo infiammati, vedendola a caso, ha da corrispondere ai nostri
ardori, sotto pena di esser dichiarata senza cuore e senz'anima. Ma se
non è libera? Se ha data già la sua fede ad un altro? Oh, non
dubitare; ho meditato anche su ciò, e lungamente, correndo il mondo
con te. Ma come va che nell'ardore delle nostre passioni, quando sono
ancora sul nascere e permettono di ragionare, non pensiamo noi a
queste cose? Ci ha guastati, io credo, il veder tante e tante graziose
creature, che il nostro costume ha ridotte così male, condannandole a
non veder altro nel matrimonio, fuorchè il principio della loro
libertà, e il passaporto della loro galanteria. Ma infine, anche sotto
certe apparenze che gli usi della conversazione hanno giustificate, le
graziose creature non sono tutte così sciolte d'ogni vincolo e d'ogni
legge. Ci sono poi gli alti caratteri, che vanno rispettati; in ognuna
quel carattere ci può essere, e noi non essercene in tempo avveduti; e
se una di queste ci mette sdegnosamente fuori dell'uscio, o, con più
grazia, fuor di speranze, fa bene.--
Il duca era fuori di sè dalla gioia.
--Ma bravo, il mio Aloise!--gridò, accostandosi a lui e con atto
amorevole battendogli della palma sul braccio.--Tu mi maravigli,
quest'oggi. Ci voleva proprio il ricordo di Elena Argiva, per farti
render giustizia.... ad Andromaca!
--Oh, le donne antiche non c'entrano affatto,--rispose il giovane,
crollando la testa, e quasi porgendola alle carezze della mano
patema.--Non sento queste cose da oggi, sotto le porte Scee. Il corso
delle mie meditazioni è più antico, ed è opera tua. Prima di tutto,
non mi hai tu fatto leggere quel brutto libro, lassù, alla Montalda,
dove lo avevi portato per me? Amaro libro;--soggiunse Aloise,
rabbrividendo un pochino;--amaro come quello che fu dato dall'angelo
per cibo al veggente dell'Apocalisse, ma che lasciò succhi vitali
nell'anima mia. Tra molte parole un po' dure pel mio amor proprio, ce
n'erano alcune, in una lettera di donna, che mi son parse giuste, e
che mi stanno sempre davanti agli occhi: «Avrei dovuto io dimenticare
me stessa, e ciò che debbo al mio buon nome?» Aveva ragione, la bella
orgogliosa; e su questo punto poteva dire assai più, che sarebbe stato
per mio bene, e fino da quella triste sera della Montalda m'avrebbe
guarito, facendomi vergognare della mia tracotanza colpevole. Se me ne
sono vergognato poi, se oggi mi sento guarito, non ti maravigliare, te
ne prego. In tua compagnia son diventato un altr'uomo. Il tuo esempio
era buono. Hai amato, e più fortemente di me. Non ti era possibile non
amare, dov'erano bellezza e virtù. Anche per questo hai amato più
nobilmente; e dei tuoi dolori puoi darti gloria. Non io, pur troppo,
dei miei!
--Se ti sei vinto, puoi darti gloria di questo;--disse il duca di
Feira.--Saper vincere sè stesso è il sommo della forza morale.
--Ma io non potrò farmene un merito!--esclamò Aloise, sorridendo.--Non
son io che ho vinto; sei tu che m'hai fatto riconoscere come io fossi
un dappoco. Che stoltezza la mia! e di tanti miei pari! Crediamo le
donne angeli, così alla rinfusa, senza far distinzione. Angeli! E come
finalmente potrebbero esser tali, in mezzo a tanta moltitudine di
sciocchi e di scioperati che le circondano?--
La burrasca girava, verso un altro quadrante. Tra sciocchi e
scioperati c'era da scegliere; ed Aloise ne passò molti in rassegna,
tutti della società elegante in cui era vissuto. Di questi uno ebbe
più lunga sentenza; e fu per caso il Cigàla.
--M'hai detto che è una testa quadra e un cuor libero;--notò il duca
di Feira;--una specie di filosofo in guanti.
--E in fondo, m'annoiano, i filosofi in guanti;--rispose
Aloise.--Hanno il cuor libero, e sta bene; ma ancora amano far pompa
della loro libertà, come le case vuote del loro «appigionasi». Non
promettono niente, non s'impegnano a niente; sorridono e passano. A
questi, poi, si fa volentieri la parte del leone. Ricordi la lettera,
di cui parlavamo poc'anzi? Il Cigàla (vi si leggeva) il Cigàla è
quello che vale un tantino più degli altri; cortese, senza aspettar
ordini di cose e di pensieri, a far manipolo, a chiamarci col santo
nome d'amici? La ragion della guerra. Il posto del soldato è là dove
romba il cannone. Noi tutti abbiamo udito l'appello, siamo accorsi, e
__viribus unitis, agmine facto__, anzi __testudine densa__, ci siamo
precipitati all'assalto. Abbiamo combattuta, non fo per dire, un'aspra
battaglia, contro un nemico ben munito e coperto. È lecito vantarsi un
tantino, la sera della vittoria. Perchè tale è stata la nostra, la Dio
mercè, mercè l'assistenza delle donne e mercè il gran capitano, il
duca di Feira, che oggi si accomiata da noi, portandoci via uno dei
più strenui, de' più cari ufficiali dello stato maggiore. __Ho detto,
ho detto, e adesso prendo fiato.__--
S'intende che per prender fiato il Giuliani vuotava il suo calice.
L'oratore ebbe il plauso universale; i cavalieri lo acclamarono
principe dell'eloquenza; le dame lo salutarono coi loro più amabili
sorrisi.
--Grazie, signor Giuliani,--disse di rimando il duca, a cui s'erano
rivolti gli occhi di tutti;--ma consentite che io propini in quella
vece a voi, alla vostra ricchezza di partiti, alla efficacia dei
vostri spedienti. Non siete voi che, insieme coi vostri amici, coi
Templarii, come usate chiamarli, avete ordinato ogni cosa? Io ero
giunto tardi per ingaggiare il combattimento; voi eravate già in
campo, e a tutto avevate provveduto. Io non ho fatto altro che seguire
il filo de' vostri disegni, mettendo a' vostri servigi la mia vecchia
esperienza.
--Ed altro ancora, signor duca, ed altro ancora!
--Sia pure, ma mi è grato di poter mettere in chiaro che senza di voi
non avrei fatto nulla, e non potremmo oggi trovarci raccolti in questa
sala, stretti, come avete detto voi così veramente, da un vincolo di
parentela morale.
--A questi patti, signor duca, noi dovremmo in quella vece fare un
brindisi al servo di casa Salvani. È il buon Michele che s'è messo a
sbaraglio per noi, che è penetrato sotto mentite spoglie nella piazza
nemica, ha inchiodati i cannoni che traevano a scaglia su noi, e
finalmente ci ha schiuse le porte. Modesto al pari dei veri eroi, egli
ha compiuta senza sussiego la più grave bisogna. Chi ha fatto entrare
una parola di conforto in monastero? Chi ha origliato i disegni dei
tristi, dando per tal guisa il bandolo a voi, e il modo di sgominarli?
Chi finalmente ha posto le mani... Ma che dirò io di più?--soggiunse,
con bella e soprattutto accorta reticenza, il Giuliani.--Questi è
Michele Garaventa, un povero servitore, che, fatta un'impresa degna
d'Ulisse, o d'altro eroe dell'antichità, se n'è tornato modestamente
nell'ombra, senza chiedere ricompensa delle sue prodezze, riportandone
anzi una punizione. Perdonate, bella signora,--diss'egli, volgendosi a
Maria Salvani,--io parlo sempre da scapolo impenitente.
--Ottimo Michele!--soggiunse Maria, poi che ebbe con un sorriso
mostrato al Giuliani che intendeva l'allusione a quel castigo di Dio
della signora Marianna.--Egli è stato, non già un servo, un fratello
per noi.
--Queste parole egli deve udirle,--notò il duca di Feira,--e saranno
la più bella ricompensa delle opere sue. Se voi lo permettete, gentili
signore, lo faremo chiamare. Questo è fuori delle consuetudini, in
verità; ma non ne siamo stati fuori un po' tutti, in questa guerra mal
nata? Ed egli, poi, il valentuomo, per amore de' suoi padroni, non
n'era uscito prima di noi, dalle sue? non s'era levato a tale altezza
di sacrifizi, che non si può richieder da tutti?--
In questa guisa era stato chiamato Michele Garaventa al cospetto della
gentile brigata. Il poveretto era confuso, fuori di sè; quando si vide
in mezzo a quei signori, sentì mancarsi qualcosa di sotto, che ben non
sapeva se fosse la terra, o le gambe. Accettò, senza profferire
parola, il bicchiere che gli porgeva Maria, e bevve mutamente,
istintivamente, come uomo che non avesse mai fatto altro in sua vita.
Del resto, come a tutti è noto, egli sapeva farlo per bene. Ma
allorquando egli udì che si beveva alla sua salute, che quella gran
dama della Priamar aveva cortesemente alzato il bicchiere ad onor suo,
che Sua Eccellenza si degnava di toccare con lui, che sguardi e parole
amorevoli lo sfrombolavano d'ogni parte, fu un altro paio di maniche.
Bisognava parlare, egli lo vedeva. Parlare! Ma che cosa avrebbe
egli--detto? Le gambe gli facevano giacomo giacomo; gli zufolavano le
orecchie; la lingua gli s'impacciava nella chiostra dei denti. Basta;
Michele non era stato soldato per nulla; s'appigliò ad uno stratagemma
di guerra; pensò che quando il generale Garibaldi passava dinanzi alle
file, egli, Michele, soleva guardarlo in faccia, e interrogato
rispondergli; che di fronte al nemico egli non aveva tremato mai, nè
chiuso gli occhi davanti ad un pericolo. Dopo tutto, non mi mangeranno
mica! diss'egli. E fatta questa filosofica considerazione, si sentì
tornare il sangue nelle vene; guardò tutti in giro i convitati, e
ripulitasi graziosamente la bocca col dosso della mano, uscì in questo
discorso:
--Le Signorie Loro mi compatiranno. Io non ho pratica di galateo. La
signorina.... cioè no, dico male, la signora Maria può far
testimonianza che io sono sempre stato meglio all'accampamento.... Ma
che diavolo dico? Ella non c'era mica a vedermi! Insomma, volevo dire
che ella mi conosce sa che io sono uno zotico, un ignorantaccio....
--Siete un ottimo cuore, Michele!--interruppe sorridendo Maria
Salvani.
--Ah, non dico di no; ma la testa val poco. Già la testa, con licenza
delle Signorie Loro, è sempre il peggio della bestia. In fondo, sono
un buon diavolo; amo il figlio del mio povero colonnello, e venero la
signorina Maria. Che diamine? La lingua non vuol mai piegarsi a dire
signora. Ma che vogliono? l'ho veduta così piccina! Si figurino che la
si metteva ritta sui miei piedi; ed io, tenendola per le mani, le
servivo d'altalena. E ciò le faceva piacere, e ne faceva anche a me,
malgrado i miei dolori __aromatici__, che ho buscati laggiù
nell'America, e che non m'hanno ancora voluto lasciare. Ma ora, se
piace a Dio, andrò in Acqui, a far la cura dei fanghi. I miei padroni
non hanno più bisogno di me; sono contenti.... E anch'io, perbacco,
sono contento come una vecchia granata messa a riposo, che ci ha il
gusto di veder pulita la casa e di starsene a dormire in un angolo Ma
chi me l'avesse mai detto, che tutti questi malanni sarebbero finiti
così presto e così bene!... No, per tutti i diavoli, non l'avrei mai
creduto. Il mondo è pieno di stranezze oggi in un mar di guai, domani
all'__adige__ della contentezza Ecco lì.... Mi scusino della libertà!
parlo come vien viene, alla dozzinale, da vecchio soldato che non sa
d'arte __aratoria__. Io vedo starsene lì come pane e cacio due bravi
signori che otto mesi fa li ho visti barattar stoccate da mettere i
brividi. Il signor Assereto e il signor Pietrasanta ne sanno la parte
loro, essi che erano della festa. Ci ha fatto caldo a San Nazaro, quel
giorno, sebbene non ci fosse il sole! Ma finita la zuffa, tutti amici
meglio di prima!
--Le mani dei galantuomini,--disse il Giuliani,--son fatte per
stringersi, non già per farsi la guerra.
--Ben detto!--seguitò Michele.--E io, con licenza delle Signorie Loro,
bevo alla salute di tutti i veri amici.
--Cominciando da Oreste e Pilade;--entrò a dire il Mattei.
--No, quelli là!--fu pronto Michele a rispondere.--Piuttosto, vede
Ella? berrei alla salute di Erode e Pilato.
--Perchè?
--Perchè quei due nomi, Oreste e.... l'altro, mi fanno ricordare d'una
cattiva notte, che io mi son lasciato cavare i calcetti da un certo
mascalzone, e poi n'è venuto un subbisso di malanni. Ho presa la mia
rivincita, sta bene; per altro, non mi bastava ancora, e se quel
tristo mi capitava sotto le unghie!... Ma la giustizia di Dio ci ha
avuto più buone gambe di me. Il furfante è in gattabuia, e se non me
lo schiaffano in galera, certo me lo spediscono, franco di porto, a
rifare un po' meglio i suoi studi ad Oneglia.
--Parlate del Garasso?--chiese Lorenzo.
--Di lui per l'appunto. Lo cercavo da un pezzo, per cavarmi una certa
voglia dalle dita; ma sì, piglialo! Il mio uomo doveva fiutarmi da
lontano. Per sua disgrazia, mentre sfuggiva da me, inciampò nei birri,
che avevano un altro conticino da aggiustare con lui. Si figurino che
costui teneva il sacco ai ladri; i suoi compari, caduti nelle mani
della giustizia, hanno cantato, e l'amico ciliegia ha dovuto andarli a
raggiungere. Vedano un po' con che razza di gente io m'ero imbarcato!
Sono un asino, sì, un asino, sì, un asino calzato e vestito; e quando
penso a tanti guasti cagionati dalla mia balordaggine....
--Eh via, Michele, non vi buttate a' cani in questo modo!--interruppe
il Giuliani.--Io vi ho veduto alla prova, rimediare strenuamente al
mal fatto, e mi vien voglia di paragonarvi alla lancia d'Achille.
--Che, mi burla? Una lancia, io? Sdruscita, sì, forse; ma se il
personaggio ch'Ella dice ne aveva una simile, giuro che non s'è mosso
da riva.---
Questo era un bisticcio, e fu salutato da una risata universale. Ma il
buon Michele non l'aveva fatto a posta, chè non era forte di studi, e
ci aveva per giunta l'inimico in corpo, che, come i lettori già sanno,
gliele faceva dire più grosse del solito.
Poco stante, il nostro Michele ebbe licenza di tornarsene ai dolci
vincoli dell'Imeneo. Anche il Pietrasanta, l'Assereto, il Giuliani e
il Mattei, allegro quartetto di scapoli, pigliarono il largo, dopo
aver promesso ad Aloise che sarebbero andati il giorno seguente ad
accompagnarlo allo scalo della ferrovia. A sua volta, la marchesa di
Priamar, stretti al seno quei due, che ella poteva, innanzi al duca e
ad Aloise, chiamar liberamente suoi figli, uscì da quella casa in cui
aveva passato il primo giorno veramente lieto della sua vita. Il duca
di Feira, da quel compito cavaliere che era, volle accompagnarla fino
al suo palazzo; della qual cortesia non è a dire com'ella gli fosse
grata. La povera madre sentiva il bisogno di essere sola con lui, per
ringraziarlo, per aprire il suo cuore a quell'angiolo salvatore di sua
figlia e di lei, a quell'autore di tutte le sue contentezze.
--Ella è felice. Povera madre! Era tempo;--andava egli dicendo tra sè,
nel ricondursi a casa.--Felici tutti, per me. Ed io?...--
Il pensiero del mesto gentiluomo corse alla Montalda, presso quella
tomba solitaria in cui riposava la salma della donna adorata.
--Salvar tuo figlio, Eugenia, e poi ricongiungermi a te nella morte;
questa sarà la ricompensa di Cosimo.--
Intanto Aloise, rimasto solo con Lorenzo e Maria nel salotto del duca,
s'era lasciato cadere sfinito su d'una scranna.
--Ah, finalmente!--esclamò egli.--Non ne potevo
più.
--Voi siete triste, Aloise?--gli disse Lorenzo, avvicinandosi a lui, e
posandogli una mano sulla spalla.
--Perdonate, amici, fratelli miei, perdonate!--rispose il marchese di
Montalto, congiungendo la mano di Lorenzo e quella di Maria nelle
sue.--Io sono felice, come si può essere, quando si è stati testimoni
della gioia d'una madre che vi ama, e che nel contemplarvi, si
lasciava sfuggire con nobile audacia il suo segreto dagli occhi;
quando infine s'è stretta la destra ad amici schietti e operosi come
coloro che ci hanno lasciato poc'anzi. No, la virtù non è un nome
vano; no, tutto non è abbiettezza, codardia, bruttura nel mondo. Ma
perchè non sono io lieto? Perchè in mezzo a tutta questa gioia io mi
sento morire? Da due mesi, vedete, da due mesi io vivo come uno
smemorato. Ho come un vuoto qui dentro, e non ardisco addentrarmi
nella mia coscienza, considerare questa grande rovina di tutte le mie
speranze, di tutti i miei sogni, di tutto ciò che mi faceva cara la
vita.
--Voi amate, Aloise....--disse Maria con accento
compassionevole.
--Sì, e senza speranza. Non è il segreto di alcuno; è il mio segreto;
posso adunque trarlo fuori dal profondo, e flagellarmene il petto. Sì,
amo fieramente, e fieramente odio.... me stesso. Sì, vorrei strapparmi
il cuore, questo cuore malnato, che accoglie confidente un affetto, e
lo serba a mio malgrado, e lo difende contro la mia stessa ragione;
questo vil traditore che mi dà in balìa d'un beffardo nemico, e dopo
avermi offuscato l'intelletto, scemata ogni virtù di propositi,
congiura a togliermi perfino la dignità del soffrire. Ah Lorenzo,
amico, fratello mio! Se non avessimo di tali spine qui dentro, come
saremmo noi forti! Quale avversa possanza resisterebbe alla tenace
operosità dell'uomo, tutta rivolta ad un fine? Noi giovani, noi
animosi, noi senza macchia e senza paura, potremmo dar opera a grandi
cose, far manipolo contro il male che invade d'ogni banda, portar la
spada e la fiaccola, combattere e illuminare, essere esempio ai buoni
e flagello ai malvagi, ordinare l'aristocrazia dell'ingegno e della
onestà, la sola vera, la sola efficace, non già a salvare un vecchio
edifizio che minaccia d'ogni parte rovina, sibbene a rinnovare la
faccia del mondo infiacchito nel tiepido amore del bello, del vero e
del buono, fatto teatro ai contrasti ridicoli di vizi piccini e di
piccine virtù. Ma no; forti e non ignari della nostra forza,
rinunziamo alle nobili voluttà che ella può darci; abbiamo qui dentro
il tarlo roditore delle nostre passioni; disperdiamo in vani
scintillamenti una luce preziosa; consapevoli dissennati, sprechiamo
tutta la possanza nostra a' piedi d'un idolo di creta.--
Così parlava esacerbato Aloise. Lorenzo volse lo sguardo a Maria, che
avvicinatasi chetamente già era per reclinare la bruna testa
sull'omero dell'amato, ma si trattenne, e parve dirgli col gesto:
rispettiamo il suo dolore.
Aloise, o si avvedesse del gesto, o indovinasse il pensiero, levò la
fronte verso i due pietosi, e soggiunse:
--Voi, Lorenzo vi siete imbattuto in un angelo. Io, in quella vece, ho
fallita la strada, e debbo portarne la pena. Che volete, fratelli
miei? Nessuno può sottrarsi al suo fato.--
XXXV.
Dal campo dell'Iliade alla patria di Omero.
Ha ragione il signor di Montalto con la sua triste sentenza? Sì, e no;
è questione d'intenderci. Che cosa è il fato? Se davvero una forza
prepotente, fuori e sopra di noi, conseguenza logica di atti
sconsiderati, frutto amaro d'incaute passioni, potremmo dire di no;
perchè agli atti nostri c'è qualche volta rimedio, e alle nostre
passioni può sempre comandare lo spirito. Ma, d'altra parte, come fare
a sceverar noi medesimi dalle cose, che premono d'ogni lato,
confondendosi troppo spesso con noi? Come esser padroni di mutar
l'indirizzo del vivere, quando il verso è preso, ed altre forze,
soverchiando la volontà, ci travolgono? L'istesso Cosimo Donati, il
nobilissimo duca di Feira, che ebbe la rara virtù di sopravvivere al
suo dolore, facendosi della propria sventura una religione, una norma
di vita, poteva dirsi libero in tutto dagli eventi? Diciamo dunque,
temperando l'orgoglio della nostra filosofia, che in un certo punto, i
casi nostri prendono un corso violento, su cui non ha più potere la
nostra ragione; e il fato riacquista allora quei diritti, che il
nostro libero arbitrio non ha fatto in tempo a contendergli.
Contro il fato di Aloise combatteva ad ogni modo il duca di Feira. A
quanti atti, che parevano irrevocabili, non aveva gli rimediato? Ed
anche al resto si sarebbe provveduto, che era certamente il meno, come
quello che dipendeva soltanto da uno sforzo di volontà. Partire, a
buon conto; levarsi di lì; condurre Aloise per tutte le vicende, per
tutte le distrazioni forzate di un lungo viaggio! In quel muoversi
irrequieto, variando sensazioni, soggiacendo a nuove necessità,
portate lì per lì dalla diversità dei luoghi e dei costumi, non aveva
egli, il povero Cosimo, ingannata la sua pena, trovate le ragioni del
vivere? Perchè non le avrebbe trovate il suo Aloise, che finalmente
non doveva serbarsi fedele a nessuna immagine celeste, a nessun sacro
ricordo? Così fu impreso il viaggio, così fu continuato;
capricciosamente, in apparenza, ma con accorta progressione di
varietà, per tutte le capitali d'Europa, non isfuggendo neppur quelle
dove Aloise era già stato, e dove anche aveva sofferto.
Muovere incontro ai dolorosi ricordi, col proposito di lasciarsi
soverchiare da essi, è atto di poca prudenza, certamente; passarci
accanto, irritandoli un poco, quasi mostrando di non temerli, è buona
arte di guerra, specie di ricognizione offensiva in cui si provano le
nostre forze, e si addestrano a più grosse giornate. Erano perciò
andati a Parigi, ma proseguendo assai presto per Madrid, per Lisbona,
per Londra; erano stati a Brusselle, a Monaco, a Vienna, a Berlino, ma
spingendosi tosto a Stoccolma, a Pietroburgo, a Mosca. La Grecia,
divina nelle sue memorie, vero balsamo a tutti i mali dell'anima,
aveva poi la miglior parte del tempo loro. Così meglio disposti, erano
passati da Atene per Costantinopoli; sempre in moto i corpi, sempre in
agitazione gli spiriti, qualche vantaggio doveva pure venire.
Già più e più volte in Grecia il duca di Feira aveva veduto Aloise
infiammarsi; triste a Misitra, ma per la scomparsa delle istesse
rovine di Sparta; accigliato in Maratona e al passo delle Termopili,
ma per la troppo lunga carestia di Milziadi e di Leonida ai tempi
moderni; accigliato ancora e triste in Atene, ma più spesso esaltato
per ciò che rimaneva dell'antica grandezza, dell'antica bellezza,
dell'antica idealità degli Elleni.--Chi può pensare,--aveva egli detto
un giorno,--chi può pensare ai propri dolori, salendo all'Acropoli?
Quanta storia, quant'arte, e quanto pensiero, tra l'Erettèo e il
Partenone! E il mondo ne vive ancora!--
Da Costantinopoli, ultimo lembo d'Europa, il salto alla costa d'Asia
era naturale, come a dire indicato. Aloise gradì molto l'occasione di
visitare la Troade. Laggiù, da occidente e da settentrione, s'era
mostrato sollecito di vedere molte cose, pensando di far cosa grata al
duca di Feira; ma in quelle terre orientali diventava particolarmente
sollecito, singolarmente curioso per sè. Da un libraio della via di
Ermete, in Atene, aveva comprati parecchi volumi, e tra questi
l'Iliade; poteva dunque viaggiare la Troade con Omero alla
mano.--Questo è un Baedeker!--diceva egli sorridendo al duca di
Feira.--È certamente il primo della serie!--
La celia e il sorriso dicevano molto al suo Mèntore, che si lodava in
cuor suo di aver condotto in quella forma il viaggio.
A quel tempo il signor Enrico Schliemann, gran milionario e gran
pellegrino d'amore per la storia e per l'arte, non era anche disceso
laggiù con la sua bella fede e con le sue buone squadre di manovali,
per ritrovare e disseppellire i sacri avanzi di Troia. Intorno alla
situazione dell'antichissimo Ilio, «raso due volte, e due risorto», si
era tuttavia fra i dubbi, le incertezze e le tenebre, aggravate sempre
più dalle dispute degli eruditi tedeschi. Hissarlic, o Burnabachi?
Aloise si dichiarò volentieri per l'eminenza meno distante dal mare. I
campi delle quotidiane battaglie tra Greci e Troiani erano lì,
ragionevole distesa di terreno, su cui dall'alto delle mura potesse
spaziare lo sguardo trepidante di Priamo; erano lì i sacri fiumi,
Simoenta e Scamandro, anche ammettendo che essi, da quegli irrequieti
vagabondi che sono sempre stati i fiumi, avessero cangiato più volte
di letto.
Al nostro giovine amico, che con tanta divozione classica percorreva
quei luoghi, facendo sostare ad ogni tratto la scorta, parve di
riconoscere un po' sopra a certe fontane il luogo delle porte Scee,
donde Ettore aveva preso dalla sua Andromaca e dal figliuoletto
Astianatte i patetici congedi cantati divinamente da Omero; e lì
presso, il luogo del muro alto, dalla cui sommità la bellissima Elena
aveva additati al suo buon suocero provvisorio i più famosi e i più
temibili condottieri di Grecia. Elena, la cagione dell'eccidio d'un
regno! Elena, la grande bellezza fatale! Che fascino era in lei?
Aloise non si fermò neanche a pensare se ella avesse gli occhi verdi,
o turchini; che tanta serenità di spirito non si poteva pretendere
ancora da lui. Ma intanto egli filosofò la parte sua sulle rovine
cagionate da Elena, e sui pericoli che una soverchia bellezza può far
correre agli uomini, povera materia infiammabile, come la stipa e il
capecchio.
Filosofava, adunque. Ora, quando l'uomo può filosofare, è segno che
può ragionare. Quando può ragionare, è segno che ha la testa sgombra e
libero il cuore. Così pensava il duca di Feira, ascoltando il suo
compagno di viaggio. Egli aveva già potuto osservare come il suo
Aloise si ritrovasse più franco e più ilare in quelle terre orientali,
che non laggiù, da occidente e da settentrione, in quelle sontuose
capitali europee. Non ferrovia, non cavalli di posta, non alberghi,
non comodità della vita; strade malagevoli, sentieri da capre,
rompicolli, guadi da raccomandarcisi l'anima, rovine, desolazioni; che
importa? Tra quelle desolazioni non si è solamente lontani nello
spazio; si è lontani ancora nel tempo. Anche laggiù nella Troade era
già una distanza enorme da Genova, e da Quinto, il ritrovarsi a tu per
tu con Elena Argiva.
--Se fosse qui il Giuliani!--aveva esclamato Aloise.--Quanto latino
metterebbe fuori, vedendo il tumulo di Achille, __et solum quo Troia
fuit__. Hai notato, babbo,--(da qualche tempo Aloise dava del tu al
duca di Feira, chiamandolo ancora col dolce nome di padre)--hai notato
come il dottor Giuliani parli spesso e volentieri in latino? Può forse
annoiare tanti altri, non me. Mi pare, sentendolo infiorare i suoi
discorsi di tante citazioni, buttate anche là con un tono di celia,
che le cose della vita moderna, della vita comune, prendano colore e
sapore d'antico, quasi di eroico, e insieme di universale. Quel po' di
celia che v'aggiunge, come un pizzico di sale, tempera tutto; e di ciò
che potrebbe parere un difetto a qualcuno, te ne fa una qualità; che
so io? una cosa gradevole. Io gli invidio quest'arte. Perchè, infine,
ci è data la parola? Per dire soltanto delle volgarità e delle
sciocchezze, lasciando che un po' di dottrina si spenda soltanto nelle
conversazioni noiose dei pedanti? Ah, vorrei qui il Giuliani; e che ci
parlasse di Elena! Ne sentiremmo di belle!
--M'immagino che la difenderebbe;--disse il duca di Feira.--È tanto
cavaliere quanto è originale.
--Eh, credo bene che avremmo un panegirico;--ripigliò Aloise,
fermandosi volentieri su quel tema.--Una buona ragione per farlo, la
troverebbe di certo. La cagione di tanti guai non fa più nessun male
ad anima viva, mentre l'immagine sua può ancora alimentare molte
fantasie di poeti e di artisti. Le morte bellezze non fan più soffrire
nessuno; possono consolare, artisticamente evocate, in un poema, in
una statua, in un quadro. Che follìa, del resto, il soffrire per
quelle nobili matte! Non val meglio ammirarle, per ciò che in esse è
stato, ed è tuttavia, di veramente divino? Per restar tra le antiche,
Frine era un mostro di corruttela, senza dubbio; il suo nome istesso,
che era poi un soprannome, datole quasi per marchio d'infamia dai suoi
contemporanei, lo dice. Frine, rospo! Ma che importa ciò? Frine è un
miracolo di bellezza; e Prassitele copia appuntino quella perfezione
di forme; e quei di Gnido la mettono sull'altare, per rappresentarvi
Afrodite. La bellezza, quando è sovrana, va trattata così; adorata,
come usarono i Greci, ma facendone un marmo. Sapienti, i Greci; e noi
sciocchi, non ti pare?--
Il duca di Feira assentiva, sorridendo.
--Ed anche cattivi;--soggiunse Aloise,--perchè troppo spesso
consideriamo le belle col criterio della nostra passione, del nostro
egoismo, che è così spesso un insulto alla legge morale.
--Ah, qui ti sento anche più volentieri;--disse il duca, esultante.
--Ma sì;--proseguiva infervorato Aloise.--Vediamo una stupenda
creatura, per caso; il nostro cuore s'infiamma; la nostra ragione, che
dovrebbe trattenerci, non protesta, acconsente, si associa, come si
farebbe in parlamento, per disciplina di partito. La donna per cui ci
siamo infiammati, vedendola a caso, ha da corrispondere ai nostri
ardori, sotto pena di esser dichiarata senza cuore e senz'anima. Ma se
non è libera? Se ha data già la sua fede ad un altro? Oh, non
dubitare; ho meditato anche su ciò, e lungamente, correndo il mondo
con te. Ma come va che nell'ardore delle nostre passioni, quando sono
ancora sul nascere e permettono di ragionare, non pensiamo noi a
queste cose? Ci ha guastati, io credo, il veder tante e tante graziose
creature, che il nostro costume ha ridotte così male, condannandole a
non veder altro nel matrimonio, fuorchè il principio della loro
libertà, e il passaporto della loro galanteria. Ma infine, anche sotto
certe apparenze che gli usi della conversazione hanno giustificate, le
graziose creature non sono tutte così sciolte d'ogni vincolo e d'ogni
legge. Ci sono poi gli alti caratteri, che vanno rispettati; in ognuna
quel carattere ci può essere, e noi non essercene in tempo avveduti; e
se una di queste ci mette sdegnosamente fuori dell'uscio, o, con più
grazia, fuor di speranze, fa bene.--
Il duca era fuori di sè dalla gioia.
--Ma bravo, il mio Aloise!--gridò, accostandosi a lui e con atto
amorevole battendogli della palma sul braccio.--Tu mi maravigli,
quest'oggi. Ci voleva proprio il ricordo di Elena Argiva, per farti
render giustizia.... ad Andromaca!
--Oh, le donne antiche non c'entrano affatto,--rispose il giovane,
crollando la testa, e quasi porgendola alle carezze della mano
patema.--Non sento queste cose da oggi, sotto le porte Scee. Il corso
delle mie meditazioni è più antico, ed è opera tua. Prima di tutto,
non mi hai tu fatto leggere quel brutto libro, lassù, alla Montalda,
dove lo avevi portato per me? Amaro libro;--soggiunse Aloise,
rabbrividendo un pochino;--amaro come quello che fu dato dall'angelo
per cibo al veggente dell'Apocalisse, ma che lasciò succhi vitali
nell'anima mia. Tra molte parole un po' dure pel mio amor proprio, ce
n'erano alcune, in una lettera di donna, che mi son parse giuste, e
che mi stanno sempre davanti agli occhi: «Avrei dovuto io dimenticare
me stessa, e ciò che debbo al mio buon nome?» Aveva ragione, la bella
orgogliosa; e su questo punto poteva dire assai più, che sarebbe stato
per mio bene, e fino da quella triste sera della Montalda m'avrebbe
guarito, facendomi vergognare della mia tracotanza colpevole. Se me ne
sono vergognato poi, se oggi mi sento guarito, non ti maravigliare, te
ne prego. In tua compagnia son diventato un altr'uomo. Il tuo esempio
era buono. Hai amato, e più fortemente di me. Non ti era possibile non
amare, dov'erano bellezza e virtù. Anche per questo hai amato più
nobilmente; e dei tuoi dolori puoi darti gloria. Non io, pur troppo,
dei miei!
--Se ti sei vinto, puoi darti gloria di questo;--disse il duca di
Feira.--Saper vincere sè stesso è il sommo della forza morale.
--Ma io non potrò farmene un merito!--esclamò Aloise, sorridendo.--Non
son io che ho vinto; sei tu che m'hai fatto riconoscere come io fossi
un dappoco. Che stoltezza la mia! e di tanti miei pari! Crediamo le
donne angeli, così alla rinfusa, senza far distinzione. Angeli! E come
finalmente potrebbero esser tali, in mezzo a tanta moltitudine di
sciocchi e di scioperati che le circondano?--
La burrasca girava, verso un altro quadrante. Tra sciocchi e
scioperati c'era da scegliere; ed Aloise ne passò molti in rassegna,
tutti della società elegante in cui era vissuto. Di questi uno ebbe
più lunga sentenza; e fu per caso il Cigàla.
--M'hai detto che è una testa quadra e un cuor libero;--notò il duca
di Feira;--una specie di filosofo in guanti.
--E in fondo, m'annoiano, i filosofi in guanti;--rispose
Aloise.--Hanno il cuor libero, e sta bene; ma ancora amano far pompa
della loro libertà, come le case vuote del loro «appigionasi». Non
promettono niente, non s'impegnano a niente; sorridono e passano. A
questi, poi, si fa volentieri la parte del leone. Ricordi la lettera,
di cui parlavamo poc'anzi? Il Cigàla (vi si leggeva) il Cigàla è
quello che vale un tantino più degli altri; cortese, senza aspettar
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