I rossi e i neri, vol. 1 - 27
ad obbedire, non si mosse tanto presto che non gli giungesse ancora un
vigoroso calcio del ladro, a raddoppiargli la forza d'impulsione.
Al domani, la cronaca cittadina di un giornale recava, e gli altri
colleghi copiavano con poche varianti la narrazione seguente, che noi
riferiremo con tutti i suoi fioretti di lingua:
«Un'audace aggressione è stata perpetrata iersera, verso le dieci,
nella salita delle Battistine. L'egregio dottor cavaliere Ernesto
Collini, mentre si recava, per ragioni del suo ministero, in una casa
di quei pressi, venne fermato da un tale che gli domandò bruscamente
la borsa o la vita. Per nulla intimorito, il giovine dottore cavò una
pistola per difendersi, e certo avrebbe data una severa lezione al
malandrino, se altri compagni di quest'ultimo, sbucati non si sa
donde, non lo avessero sopraffatto, impedendogli l'uso delle braccia.
Per tal modo, egli fu alleggerito dell'orologio, del portamonete e
(quasi sarebbe inutile il dirlo) dell'arma che aveva impugnata per
propria difesa, e malmenato per giunta, con accompagnamento di
orribili imprecazioni. Egli non potè riconoscere i suoi aggressori,
che portavano il cappello tirato sugli occhi; però dall'accento, ebbe
a formarsi la persuasione che fossero gente estranea alla nostra
città. La qual cosa dimostra in quali deplorevoli condizioni sia
caduta la sicurezza già proverbiale di Genova, per l'affluenza di
tanti ceffi proibiti, ecc., ecc.»
Per alcuni giorni il Collini fu l'eroe delle conversazioni private,
dei capannelli di piazza, delle librerie, delle farmacie, delle
botteghe da caffè. Il caso suo del 28 giugno diede argomento di
chiacchiere, come i casi del 29 giugno, e quasi altrettanto, ad ogni
ragione di scioperati e di curiosi. Ci fu anzi chi volle scorgere una
certa colleganza tra l'aggressione delle Battistine e il tentativo
repubblicano occorso ventiquattr'ore dopo. Infatti, i malandrini non
parlavano genovese; erano dunque lombardi, romagnoli, emigrati,
insomma, di quelli che volevano mettere a sacco e in fiamme la
tranquillissima Genova; e l'audace aggressione patita dal Collini
altro non era che un prodromo, una pregustazione di quello che sarebbe
capitato a tutti gli abbienti, a tutti i ben pensanti della città, se
i rivoltosi fossero venuti a capo della loro scellerata congiura. Don
Basilio non avrebbe argomentato diverso.
Il prode ma sfortunato Collini, ricevette un subisso di cartelline da
visita, e condoglianze e strette di mano a centinaia. Questo, comunque
gratissimo, non era che fumo; ma ci fu anche l'arrosto, perchè il
cliente alla cui casa si avviava in quella malaugurata sera il
Collini, dolente che il brutto caso gli fosse avvenuto per cagion sua,
si recò a debito di mandargli uno stupendo orologio inglese, col suo
nome e colla data del 28 giugno incisa nella faccia interna del
coperchio, a testimonianza durevole della sua gratitudine. __Sic itur
ad astra__.
XXXIV.
Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio istruttivo.
Ora seguitiamo le pedate del Guercio, il quale, contento del fatto
bottino, non pensa davvero di aver dato argomento a tanto chiasso
futuro.
Il destro furfante, poi ch'ebbe veduto il suo uomo correre in su, come
se avesse l'ali alle calcagna, se ne discese con passo misurato al
crocicchio del Portello, donde si avviò per via Caffaro. La strada era
pressochè deserta, e oltrepassato il teatro Paganini era deserta del
tutto. I Genovesi sanno che nell'anno di grazia 1857 la via Caffaro
non giungeva ancora molto più in là dal teatro anzidetto, e la valle
non appariva anche allargata, come ora si vede, per dare ospitalità
convenevole a due file di casamenti e alle loro intercapedini
rispettive.
Si notavano in quelle vece le vigne sterpate, i camperelli distrutti,
le falde della collina sconvolte dalle mine, fondamenta a mala pena
gettate di case future, fossi di calce, monti di rena, sterramenti,
cataste di pietre da costruzione; insomma un caos, che aspettava
ancora il __fiat__ degli architetti e dei mastri muratori.
In mezzo a questo laberinto il Guercio si aggirò destramente, come se
fosse giorno chiaro, o come se avesse il filo d'Arianna tra le mani.
Per tal modo egli potè giungere in un luogo dove il suolo fangoso
mostrava una gran buca, una specie di voragine, e gli addentellati
ancora scoperti di un vôlto recente accennavano che là era il
cominciamento della chiavica maggiore sottoposta alla via.
Il Guercio diede un'occhiata in giro, e sinceratosi che non ci fosse
anima nata in quelle vicinanze, si curvò sulla buca, ne abbrancò gli
orli e si calò dentro colla fidanza di un uomo, che già aveva misurato
l'altezza del salto. E qui lettori umanissimi,
Qui ci convien lasciare ogni sospetto,
Ogni viltà convien che qui sia morta;
perchè, noi dietro al Guercio, e voi altri con noi, dobbiamo scendere
nella buca, e dare una corsa per Genova sotterranea.
Anzitutto, a raffidarvi contro il timore di dover camminare nel buio,
vi diremo che il furfante, dopo esser corso un cinquanta passi,
seguendo il muro a tentoni, si fermò, diè mano ai cerini e poco stante
il lucignolo acceso d'una lanterna cieca rischiarò dinanzi a lui uno
spazioso androne, alto forse tre metri, che correva tra due ruvide
pareti, su d'un piano inclinato di forma concava, seguendo sotterra
l'asse medesimo della via sovrapposta.
Genova sotterranea, che noi sappiamo, non è stata mai particolarmente
studiata nè descritta, e mi dicono che fino ad ora il Municipio non ne
abbia neppure la pianta. Noi che ci siamo avventurati là dentro una
volta, faremo di dirne qualcosa, aiutando i nostri ricordi con alcuni
particolari più esatti e minuti che la cortesia d'un vecchio
architetto ci ha posti in grado di aggiungere. Come li conosceva bene,
il nostro compianto Pedevilla, tutti quegli oscuri meandri! E che
Cicerone meraviglioso fu egli, per farne gli onori alla nostra curiosa
giovinezza!
I nostri benevoli hanno prima di tutto a notare che noi non li terremo
soverchiamente sotterra; che non seguiremo, verbigrazia, l'esempio di
tanti famosi romanzieri che hanno fatto vivere i loro lettori, per una
infilzata di capitoli, quattro o sei metri sotto la superficie del
suolo. Oltre che noi non abbiamo tanto ingegno, nè tanta dovizia di
partiti da tenerli a bada, va ricordato che le chiaviche di Genova non
possono entrare in paragone coi monumenti sotterranei di Parigi; nè
colle catacombe di Roma, nè colle immani cisterne di Bisanzio, nè
colle vie dischiuse sotto l'Eufrate dagli antichi re di Babilonia.
Genova, edificata a più riprese, secondo le crescenti necessità della
sua popolazione, su d'un terreno malagevole, altro non riuscì che un
lavoro di aggiunte e di rappezzamenti faticosi, così sopra come sotto,
e privo, ahimè, di un concetto ordinatore. Laonde i grandi canali,
invisibili seguaci delle grandi arterie cittadine, son pochi; tutti
segnati in anticipazione dai letti de' rigagnoli, che separano le une
dalle altre le colline digradanti dell'anfiteatro di Genova. Altri
canali minori a centinaia, pochissimi de' quali son praticabili,
inesplorati tutti, seguono i capricciosi meandri delle vie, viuzze e
vicoletti della Superba, e ognun d'essi mette, giusta la sua pendenza,
a taluno degli anzidetti canali maggiori.
Questi gran dignitarii della dea Mefite son cinque, i quali scendono,
come dicemmo, a piano inclinato dalle alture; ma giunti al centro
della città si stendono in linea orizzontale, e qui i topi medesimi,
loro abitatori naturali, non ci vanno altrimenti che a guazzo. Se vi
pigliasse il desiderio di visitarli, accettate il nostro consiglio di
farvi portare in collo dai serventi addetti a que' sotterranei lavori,
ed anche d'indossar vestimenta le quali non abbiano più da servirvi
sulla faccia della terra.
Il primo di tutti (non già per ordine gerarchico, ma per ordine
topografico) ha origine dal fossato di Sant'Ugo, là dalle parti
dell'Arsenale di terra, e correndo sotto la piazza dell'Acquaverde e
la Commenda di San Giovanni di Prè, attraversa la via Carlo Alberto,
per metter foce in mare nel seno di Santa Limbania, di quella santa
che ha comune coll'ottimo San Torpete la cittadinanza genovese, e la
vergogna di non trovare anima nata che voglia portare il suo nome.
Qual è, nella città dei __Baciccia__ e delle __Marinin__, la donna che
si chiami Limbania, e l'uomo che si chiami Torpete? I due poveri santi
non hanno divoti; ma in forma di compenso, e diremmo quasi di
elemosina, San Torpete ebbe una chiesuola e Santa Limbania un seno;
seno di mare, s'intende, sulla sponda occidentale del porto.
Il secondo canale nasce alle spalle dell'albergo dei Poveri in
Carbonara, e passandogli tra le fondamenta, scende sotto la piazza
dell'Annunziata, sotto quella delle Fontane, sotto la porta dei Vacca
e va a scaricarsi in mare sotto il magazzino dei Salumi.
Il terzo, nel quale siamo ora avventurati noi, sulle orme del Guercio,
dall'alto di via Gambaro, all'ingresso di via Nuova; di là per le
viscere di piazza del Ferro, dei Macelli, di Soziglia, di via degli
Orefici, di piazza de' Banchi (tutti luoghi ne' quali non raccoglie
oro per fermo) va a sgabellare la sua mercanzia sotto il palazzo della
Dogana.
Il quarto e il quinto, a dir vero, non la durano a lungo divisi.
Scendono da via Assarotti e da via Palestro; si vedono, s'amano e si
maritano clandestinamente sotto gli archi dell'Acquasola. Di qui,
rasentando le case di via San Giuseppe (più conosciuta sotto il
vernacolo nome di __Crosa del Diavolo__) la felicissima coppia scorre
sotto il braccio sporgente dell'ospedale di Pammatone, e difilata per
Portoria, Rivo torbido, i Lanaiuoli, i Servi e la piazza della Marina,
va a nutrire con paterna cura i suoi figli adottivi, che sono (il
lettor genovese l'ha già indovinato) i mùggini punto schifiltosi del
cosiddetto Seno di Giano: un seno accecato, pur troppo, dal bisogno di
una strada a mare, che ha pur sottratto all'amore dei Genovesi
l'indimenticabile scoglio Campana.
Genova sotterranea possiede anche la sua storia, se non chiara per
avventura come quella della sua sovrastante sorella, certo meno oscura
di quello che si potrebbe argomentare dai suoi foschi rigiri. Negli
annali di questa storia tenebrosa un'impresa che andava tentando il
Guercio con parecchi suoi degnissimi aiuti, non era nuova nè strana, e
gli scrittori delle cose nostre ricordano le scoverte fatte, nei
secoli scorsi, di audaci furfanti, i quali per lavorare più
sicuramente avevano messo dimora nelle chiaviche, e taluni, allogati
per l'appunto sotto la piazza della Nunziata, dormivano alla guisa dei
marinai su ranci sospesi alla vôlta. Inoltre i contrabbandieri, i
frodatori delle gabelle, ebbero sempre per le chiaviche una tenerezza
particolare. Parecchi dei loro anditi furono chiusi ai tempi dei
nostri vecchi; quello, ad esempio, che di sotto alla piazza di Sarzano
metteva al monastero di San Silvestro. E non è molto che un altro (e
non certamente l'ultimo) ne fu scoperto ed asserragliato, il quale da
un certo luogo della città andava a far capo nel Portofranco.
Se poi da questa geldra c'innalziamo allo stuolo degli illustri
orditori di congiure, troviamo più nobili ragioni di celebrità per
queste vie nascoste di Genova. Per una di esse il Raggi intese a
penetrare dalle sue case nel palazzo Ducale, volendo mutar con ardito
tentativo il reggimento della cosa pubblica. Per un'altra, ancora in
parte conservata, il conte di Lavagna introdusse il nerbo dei suoi
partigiani in città, ai danni del fortunato Andrea Doria. Infine, che
diremo di più? Genova sotterranea aspetta tuttavia un cronista
volenteroso; la mèsse è abbondante ed intatta.
E intatta e abbondante era quella che il Guercio si riprometteva da
certi suoi scavi sotto la via degli Orefici. La sua pensata era
questa: sforacchiare il terreno sotto una delle case che fiancheggiano
la via, e, la mercè di un buco verticale nel pavimento, penetrare in
una ricca bottega d'orefice: quindi in una notte, senza tema dei
vigili, al coperto dalle sentinelle (__excubiarum securus__), far
repulisti nella custodia e nelle bacheche del mercatante.
I suoi manovali erano da parecchi giorni all'opera, sotto la vigilanza
dell'Architetto; che così era chiamato per celia il compare che aveva
misurate le distanze e disegnato il luogo dove occorreva aprire la
breccia. E quel luogo era appunto al confluente di un cunicolo
laterale colla chiavica maggiore. Il cunicolo, che era stretto e quasi
impraticabile, rispondeva ad un vicolo sovrastante, e rasentava le
fondamenta della insidiata bottega. Ci si lavorava a disagio, e
bisognava darsi il cambio; ma il lavoro andava innanzi pur sempre, e
in capo a cinque o sei giorni l'impresa poteva essere condotta a buon
fine.
Il Guercio, che abbiamo lasciato sul primo tratto del sotterraneo,
giunse facilmente sotto la latitudine dei Macelli di Soziglia. Qui,
occorrendo la parte piana della città, egli incominciò a diguazzare
nel pantano; ma vuolsi notare che, pratico dei luoghi, egli aveva
avuta la precauzione di cavarsi le scarpe e i calzoni, per guadare lo
Stige. Qua e là per le ruvide pareti scorrazzavano topi dalle lunghe
basette e dalle lunghissime code, parecchi dei quali, mal potendo
aggrapparsi alle scabrezze dei muri, davano tonfi romorosi nella
poltiglia, facendogli schizzare larghe e frequenti pillacchere sul
viso. Buio aveva dinanzi a sè, e buio alle spalle; la luce della sua
lanterna rischiarava un breve tratto dintorno, e le ragnatele,
pendenti dalla bassa volta in larghi festoni, non davano comodità dì
riverbero. Egli pareva un punto luminoso, un fuoco fatuo, che errasse
frammezzo alle tenebre.
Come fu giunto sotto Soziglia, dove il canale si piega leggermente
verso gli Orefici, si fermò, trasse fuori uno zufolo e mise un fischio
sottile, ripetuto tre volte. Tre fischi gli risposero tosto; uditi i
quali, il Guercio si rimise la via tra le gambe. Due minuti dopo, egli
era dinanzi, alla luce d'un falò, la cui fiamma lambiva ed affumicava
la volta umidiccia, e intorno a cui stavano accoccolati i suoi cinque
compagni, veri ceffi da galera che non istaremo a descrivervi.
--Finalmente!--gridò uno di costoro.--Noi ti facevamo già in catorbia.
--E perchè mo'?--chiese il Guercio, in quella che spegneva la lanterna
e se la riponeva in tasca.--In catorbia ci vanno i ladri, e non la
brava gente come noi.
--Capisco;--soggiunse l'altro,--ma quei del pennacchio fanno errore
così spesso!
--La prima causa dell'errore sono quei tali che hanno fatta la
legge;--sentenziò il Guercio, sedendosi accanto ai compagni e levando
la pipa di bocca al più vicino per mettersela tra i denti egli
stesso.--Quando comanderò io, farò un codice nuovo che dica: sono
ladri tutti quelli che hanno quattrini. Infatti, io ragiono così: se
hanno denari, in qualche luogo li hanno presi: ora chi prende ruba;
dunque....
--Benone!--interruppe un altro.--Tu parli come il mio avvocato, che,
se gli davano retta i signori del berrettone, non andavo a passar tre
anni nel collegio di Oneglia. Ma già, quei signori non badano mai a
quello che dice un galantuomo, e legano sempre l'asino dove vuole il
Fisco.
--O non lo sai, imbecille, che lupo non mangia lupo? Ma basta!
tornando al discorso che non avevo ancora incominciato, domani a sera
si fa il colpo.
--Impossibile!--gridò l'Architetto, o, per dir meglio, quel che i
compagni chiamavano con quel nome.--In quella maledetta buca non ci si
può lavorare più di due per volta, i vorranno almeno sei giorni....
--E chi ti parla della buca?--ripigliò il Guercio.--Parlo dell'altro
colpo, di quello che v'ho detto una settimana fa, pel quale, da ladri
che sembriamo, diventeremo carabinieri.
--Ah sì, ottimamente!--esclamò uno dei cinque.--E in cambio di
lasciarci ammanettare, ammanetteremo.
--No, Bellavista, non ci saranno manette da mettere.
--E che diamine ci sarà dunque da fare?--dimandò il Bellavista.--Io
non so che facciano altro, quei del pennacchio.
--Perchè tu li conosci soltanto da quello che hanno fatto a
te;--rispose il Guercio tra le risa della brigata;--ma essi, te lo so
dir io, fanno altro ed altro, che ti bisognerà imparare, prima di
metterti all'opera.
--Sentiamo dunque!--disse il Bellavista.
--Incomincio. Domani a sera, verso le nove, si va (alla spicciolata,
s'intende) in casa Ceretti, qui presso a via Luccoli. Il Ceretti tu
devi conoscerlo, tu Architetto, che sei stato muratore.
--Se lo conosco! È mastro Nicola, di Molassana, quegli che ha trovato
due pentole di genovine in un ripostiglio di muro che stava rompendo,
e non ne ha detto nulla al principale....
--Sì, lui, per l'appunto.
--Ci ha da esser denari a palate, in casa sua!--proseguì il
Bellavista.
--Certo;--disse il Guercio,--ma per questa volta bisognerà sputarne la
voglia. In casa del Ceretti ci si va per la mascherata, e nient'altro.
--O come?--dimandò l'Architetto.--Mastro Nicola ci tiene il sacco!
--Non egli, che è in villa, ma il suo figliuolo. Io non so nulla e non
ho cercato di saper nulla; ma mi sembra di avere indovinato che questo
giovanotto l'abbia a morte con un suo pigionale, certo Salvini,
Salvetti o che so io, e lo voglia colle nostre mani, __vestire da
angelo__.... mi capite? fargliene una da coltellate. Domani a sera
scoppia la rivoluzione....
--Parli sul serio?--interruppe il Bellavista, mentre gli altri
inarcavano le ciglia.
--Sicuro; ma questo non risguarda noi altri. In questi pasticci non
c'è nulla da guadagnare. Ora questo Salvetti, Salvini, od altro che
sia, è un uomo che pesca nel torbido, e domani a sera sta fuori di
casa. Noi, col pennacchio in testa e la divisa a coda di rondine,
andiamo in casa, dove c'è una ragazza sola con un servitore, ci
spacciamo per carabinieri mandati a fare una perquisizione, rovistiamo
nella camera del nostro uomo, e portiamo via certi documenti che
devono trovarsi in una cassettina d'ebano; la qual cassettina è in un
cassettone a destra entrando, nella seconda cassetta, in un angolo a
sinistra. Vedete che conosco il fatto mio. La Giustizia è bene
ragguagliata, non fo per dire. Ci becchiamo la cassettina: salutiamo
la signora chiedendole scusa del disturbo, scendiamo al primo piano,
ci vestiamo da capo dei nostri panni, e ce ne andiamo pe' fatti
nostri. Il colpo non è male architettato. Che ne dici tu, Architetto?
--Io dico,--rispose l'Architetto,--che a questa fabbrica mancano le
chiavi.
--O come?
--Mancano, ti dico, e te lo provo. Noi, stando a quel che ci hai posto
in chiaro, lavoriamo per la gloria.
--Ah, capisco!--disse il Guercio ridendo.--Io avevo dimenticato
l'essenziale. Accanto alla gloria c'è una lasagna bianca, di quelle
che si fabbricano in via San Lorenzo.
--Mille lire?
--Sì, certo, mille lire; e notate,--soggiunse il Guercio, volgendosi
alla brigata,--che le guadagniamo senza risico, a mo' di passatempo,
in mezz'ora di mascherata.
--Sta bene, sta bene;--ripigliò l'Architetto.--Ma quando la si vede,
questa lasagna bianca?
--Nell'atto di consegnare la cassettina; non sei contento?
--Ah, meno male, questo si chiama ragionare. E adesso facciamo un
pochino di divisione. Tu, come capo....
--Mi contenterò di cinquecento lire;--disse il Guercio. L'esorbitanza
delle sue pretensioni gli fece buon servizio, perchè gli altri diedero
tutti nella pania.
--Ah, Guercio!--gridarono in coro.--Tu non sei ragionevole!
--Orbene, quattrocento, e crepi l'avarizia! Io sono un buon diavolo, e
voglio farvi vedere che non tengo al danaro.
--No, no!--ripigliarono parecchi.--È troppo.
--Sta bene,--soggiunse il Bellavista,--che tu sia il manipolatore del
negozio; ma quattrocento lire....
--No, no;--incalzarono gli altri,--tu vuoi troppo per la tua porzione.
Perchè non dire recisamente: voglio tenermi la somma intiera?
--Ma io....--si provò a dire candidamente il Guercio. Non sono il
capo, io?
--Zitto, là!--gridò l'Architetto, dando sulla voce a lui e agli altri
che volevano rimbeccarlo.--Lasciate che io pure metta fuori la mia. Se
parlate tutti in una volta non riusciremo mai ad intenderci.
--Sì, parla tu! parli l'Architetto!
--Benone!--ripigliò questi, contento del trionfo ottenuto. Ditemi ora,
non par giusto a voi che il Guercio, come capo e come manipolatore del
negozio, abbia qualcosa di più?
--Certamente!--entrò a dire il Bellavista.--E mi pare che
centocinquanta lire....
--No; facciamo la somma rotonda; mettiamo dugento.
--E vada anche per dugento!--disse il Guercio, coll'aria di un uomo
che fa un grande sacrifizio.--Io non voglio romper l'amicizia per
questa miseria. Dugento lire a me, e centocinquanta al maresciallo!
--Che maresciallo? chi è questo maresciallo?--chiesero i compagni
stupefatti.
--Oh bella! non capite che un drappello di carabinieri ha da averci il
suo comandante? O come andremmo noi a fare una perquisizione, senza
maresciallo?
--Ha ragione, perdiana!--dissero gli altri, guardandosi in faccia.
--Ha ragione, sicuro!--aggiunse il Bellavista.--Ma chi sarà il
maresciallo?
--Non io certamente, col mio occhio traditore; nè tu Bellavista, che
sei mingherlino come una lucertola.
--Mettiamo dunque l'Architetto!--gridò uno della brigata.--Mettiamolo
lui, che sembra il figliuolo della Madonna del Gazzo.
--Sì, sì, l'Architetto!--risposero tutti, ridendo a crepapelle.
--Sarò io, chetatevi, sarò io!--disse gravemente l'eletto.
--Ma badate! il maresciallo vuol doppia razione. Datemi dunque dugento
lire; se no, cedo l'onore ad altri. Io sono stanco di gloria, e se non
viene la paga doppia, mi contento del grado di semplice carabiniere.
--Il diavolo si porti l'Architetto! Vuol quello che vuole.
--Ma.... io non vi cerco! Siete voi altri che volete innalzarmi, non
io. Mi volete grande e grosso? Pagatemi. Non vi par che io ragioni a
modo?
--Come un libro stracciato;--soggiunse il Bellavista.
--Abbiti dunque le dugento lire; seicento che rimangono salve dalle
vostre unghie, le spartiremo tra noi quattro.
--E lagnati ancora, manigoldo! Vi buscate centocinquanta lire a testa,
e non siete contenti? Che cosa vorreste ancora? Se io le avessi ogni
giorno, e lavorando un'ora sola, mi parrebbe d'esser più ricco dei
Parodi, e vorrei che passando da' Banchi tutti mi facessero largo e si
cavassero il cappello, come quando passa qualche ladro dei grossi....
--Hai ragione! hai ragione! finiscila dunque!--interruppero i
colleghi.
--E adesso che ci siamo intesi,--soggiunse il Bellavista,--beviamone
un bicchiere alla salute del maresciallo.--
La proposta fu accolta all'unanimità. Uno della brigata diè di piglio
alla damigiana che stava lì presso, e versò il vino nei bicchieri, che
corsero in giro parecchie volte, tra gli evviva più sperticati e più
strani al collega Architetto.
Il Guercio se la rideva sotto i baffi, perchè, non mettendo in conto
l'orologio e la catenella del suo tenore col tremolo, quella sera
guadagnava milleduecento lire senza molta fatica.
L'Architetto, dal canto suo, se si faceva pagare per due, sapeva bere
all'occorrenza per quattro. E così fece quella sera; se pure non è più
giusto il dire che bevve per sei. Tanto per quella sera il lavoro era
interrotto, e non si doveva ripigliare se non la mattina, allorquando
il frastuono della via soprastante avrebbe soffocato il rumore
monotono e traditore dei loro picconi. E il nostro Architetto, reso
eloquente dal vino, raccontò candidamente ai colleghi che il sogno
della sua vita era stato mai sempre di essere carabiniere, anzi
carabiniere a cavallo. E d'essere carabiniere e di trottare in
__corrispondenza__ da una stazione all'altra, sognò veramente un'ora
dopo, quando il vino, facendo il suo effetto, lo ebbe dato per morto
in braccio a Morfeo.
Forse in quell'ora medesima, un vero carabiniere, disteso nel suo
letticciuolo, sognava di aver vinto una quaderna al lotto, e di non
portar più il pennacchio rosso e cilestro.
Ahimè! Nessuno è contento del suo stato, in questa valle di lagrime!
XXXV.
Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima pugna.
Memori sempre di tutti i personaggi della nostra storia, non abbiamo
dimenticato Lorenzo Salvani, il povero giovine che abbiamo lasciato in
via Nuova, sotto le finestre dei Torre Vivaldi, a guardare un'ultima
volta Matilde che saliva alla festa, leggiera e felice come persona
che si sia liberata di un grave peso, ed abbia fatto un'opera buona.
Fu l'ultimo sguardo che egli volse a costei, ma non ardiremmo dire che
fosse l'ultimo pensiero.
Chi penetra negli ultimi recessi di un cuore trafitto? Chi sa dire
quante volte, anche inconsciamente, un'anima aspreggiata dalle
ineffabili angosce di un morto affetto, accolga nel suo segreto una
perfida immagine, e la vagheggi e la maledica, e frema a quella
vicinanza come la carne al contatto di un ferro rovente, innanzi di
affogarla nel suo immenso disprezzo e di poterla contemplare
impunemente e sorridere?
Il forte animo di Lorenzo s'era chiuso in quella medesima notte; ma la
tempesta ruggiva dentro, nè potremmo dirvi quando e per che modo si
chetasse. Forse le avvenne di consumarsi da sè; forse ardeva tuttavia,
ma il cuore, divenuto insensibile per soverchio di pena, non tradiva
il suo signore nei moti del volto o negli atti. Laonde, mutato
apparve, non turbato, alla gente; e se lo spirito afflitto maturava un
feroce proposito, niente lasciava trasparire agli occhi del volgo
profano.
Ferito da una donna amata in ogni cosa più cara, nella sua adorazione
per lei, nel suo divino inganno di poeta, nella sua dignità d'uomo,
egli, dopo quel giorno, non la cercò, nè la fuggì; non la vide. Gli
era ella passata daccanto per via? Non lo sapeva neppure. Ella era e
non era per lui. Questo non significava ancora il disprezzo, ma più
non significava l'amore; sibbene, e assiduamente, l'angoscia, il
disdegno, lo scontento di sè.
Aveva la morte nel cuore, e lo stato suo era tanto più grave in quanto
che egli non aveva potuto ottener sollievo da un'ora di vendetta. Quel
conte palatino, ma così poco paladino, dell'Alerami, egli non aveva
potuto trovarselo a faccia a faccia sul terreno. Ciò ch'egli aveva
detto nel suo ultimo colloquio con Matilde, intorno a quel vile
spavaldo, era pure avvenuto.
I lettori rammentano che innanzi di uscire dalla casa della Cisneri,
Lorenzo aveva detto all'avventuriero, conchiudendo il suo sarcastico
discorso sul giuoco: «Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar
grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre a' suoi riveriti
comandi». Alle quali parole avea risposto l'Alerami, facendosi bianco
in viso come un cencio lavato: «Eh! chi sa che non me ne venga la
voglia?» E Lorenzo aveva soggiunto: «S'accomodi!».
Ora questa voglia non era venuta al conte palatino, che s'era
accomodato assai meglio non rispondendo all'invito. Non già che ne'
suoi colloqui colla contessa egli non avesse simulato di voler tenere
la giostra; che anzi aveva strepitato, e di molto. Ma egli aveva fatto
come que' tali rodomonti da quadrivio, i quali sogliono finire i loro
alterchi colla frase proverbiale, «tenetemi, se no l'ammazzo!». E la
contessa, sgomentita, lo aveva tenuto; ed egli s'era chetato, per non
mettere (diceva lui) a repentaglio l'onore di una dama, in una contesa
con tal uomo (soggiungeva lei) che non ne francava la spesa, che non
era della civil compagnia e che non c'era nè gusto ne gloria a
sforacchiargli la pelle.
Così erano sbollite le ire d'Achille; così l'Alerami ebbe al cospetto
della bionda contessa un pregio di più. Ma così va il mondo; si passa
a buon mercato per valorosi e per gentiluomini. E il vero gentiluomo,
il valoroso, passava, agli occhi di certo volgo eccellentissimo, per
un dappoco, per uno screanzato, che non francava la spesa d'un colpo
di pistola, o di spada.
Ma così non la pensavano tutti; chè per buona sorte il volgo
eccellentissimo, se spesso promulga, non sempre fa accettar le sue
vigoroso calcio del ladro, a raddoppiargli la forza d'impulsione.
Al domani, la cronaca cittadina di un giornale recava, e gli altri
colleghi copiavano con poche varianti la narrazione seguente, che noi
riferiremo con tutti i suoi fioretti di lingua:
«Un'audace aggressione è stata perpetrata iersera, verso le dieci,
nella salita delle Battistine. L'egregio dottor cavaliere Ernesto
Collini, mentre si recava, per ragioni del suo ministero, in una casa
di quei pressi, venne fermato da un tale che gli domandò bruscamente
la borsa o la vita. Per nulla intimorito, il giovine dottore cavò una
pistola per difendersi, e certo avrebbe data una severa lezione al
malandrino, se altri compagni di quest'ultimo, sbucati non si sa
donde, non lo avessero sopraffatto, impedendogli l'uso delle braccia.
Per tal modo, egli fu alleggerito dell'orologio, del portamonete e
(quasi sarebbe inutile il dirlo) dell'arma che aveva impugnata per
propria difesa, e malmenato per giunta, con accompagnamento di
orribili imprecazioni. Egli non potè riconoscere i suoi aggressori,
che portavano il cappello tirato sugli occhi; però dall'accento, ebbe
a formarsi la persuasione che fossero gente estranea alla nostra
città. La qual cosa dimostra in quali deplorevoli condizioni sia
caduta la sicurezza già proverbiale di Genova, per l'affluenza di
tanti ceffi proibiti, ecc., ecc.»
Per alcuni giorni il Collini fu l'eroe delle conversazioni private,
dei capannelli di piazza, delle librerie, delle farmacie, delle
botteghe da caffè. Il caso suo del 28 giugno diede argomento di
chiacchiere, come i casi del 29 giugno, e quasi altrettanto, ad ogni
ragione di scioperati e di curiosi. Ci fu anzi chi volle scorgere una
certa colleganza tra l'aggressione delle Battistine e il tentativo
repubblicano occorso ventiquattr'ore dopo. Infatti, i malandrini non
parlavano genovese; erano dunque lombardi, romagnoli, emigrati,
insomma, di quelli che volevano mettere a sacco e in fiamme la
tranquillissima Genova; e l'audace aggressione patita dal Collini
altro non era che un prodromo, una pregustazione di quello che sarebbe
capitato a tutti gli abbienti, a tutti i ben pensanti della città, se
i rivoltosi fossero venuti a capo della loro scellerata congiura. Don
Basilio non avrebbe argomentato diverso.
Il prode ma sfortunato Collini, ricevette un subisso di cartelline da
visita, e condoglianze e strette di mano a centinaia. Questo, comunque
gratissimo, non era che fumo; ma ci fu anche l'arrosto, perchè il
cliente alla cui casa si avviava in quella malaugurata sera il
Collini, dolente che il brutto caso gli fosse avvenuto per cagion sua,
si recò a debito di mandargli uno stupendo orologio inglese, col suo
nome e colla data del 28 giugno incisa nella faccia interna del
coperchio, a testimonianza durevole della sua gratitudine. __Sic itur
ad astra__.
XXXIV.
Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio istruttivo.
Ora seguitiamo le pedate del Guercio, il quale, contento del fatto
bottino, non pensa davvero di aver dato argomento a tanto chiasso
futuro.
Il destro furfante, poi ch'ebbe veduto il suo uomo correre in su, come
se avesse l'ali alle calcagna, se ne discese con passo misurato al
crocicchio del Portello, donde si avviò per via Caffaro. La strada era
pressochè deserta, e oltrepassato il teatro Paganini era deserta del
tutto. I Genovesi sanno che nell'anno di grazia 1857 la via Caffaro
non giungeva ancora molto più in là dal teatro anzidetto, e la valle
non appariva anche allargata, come ora si vede, per dare ospitalità
convenevole a due file di casamenti e alle loro intercapedini
rispettive.
Si notavano in quelle vece le vigne sterpate, i camperelli distrutti,
le falde della collina sconvolte dalle mine, fondamenta a mala pena
gettate di case future, fossi di calce, monti di rena, sterramenti,
cataste di pietre da costruzione; insomma un caos, che aspettava
ancora il __fiat__ degli architetti e dei mastri muratori.
In mezzo a questo laberinto il Guercio si aggirò destramente, come se
fosse giorno chiaro, o come se avesse il filo d'Arianna tra le mani.
Per tal modo egli potè giungere in un luogo dove il suolo fangoso
mostrava una gran buca, una specie di voragine, e gli addentellati
ancora scoperti di un vôlto recente accennavano che là era il
cominciamento della chiavica maggiore sottoposta alla via.
Il Guercio diede un'occhiata in giro, e sinceratosi che non ci fosse
anima nata in quelle vicinanze, si curvò sulla buca, ne abbrancò gli
orli e si calò dentro colla fidanza di un uomo, che già aveva misurato
l'altezza del salto. E qui lettori umanissimi,
Qui ci convien lasciare ogni sospetto,
Ogni viltà convien che qui sia morta;
perchè, noi dietro al Guercio, e voi altri con noi, dobbiamo scendere
nella buca, e dare una corsa per Genova sotterranea.
Anzitutto, a raffidarvi contro il timore di dover camminare nel buio,
vi diremo che il furfante, dopo esser corso un cinquanta passi,
seguendo il muro a tentoni, si fermò, diè mano ai cerini e poco stante
il lucignolo acceso d'una lanterna cieca rischiarò dinanzi a lui uno
spazioso androne, alto forse tre metri, che correva tra due ruvide
pareti, su d'un piano inclinato di forma concava, seguendo sotterra
l'asse medesimo della via sovrapposta.
Genova sotterranea, che noi sappiamo, non è stata mai particolarmente
studiata nè descritta, e mi dicono che fino ad ora il Municipio non ne
abbia neppure la pianta. Noi che ci siamo avventurati là dentro una
volta, faremo di dirne qualcosa, aiutando i nostri ricordi con alcuni
particolari più esatti e minuti che la cortesia d'un vecchio
architetto ci ha posti in grado di aggiungere. Come li conosceva bene,
il nostro compianto Pedevilla, tutti quegli oscuri meandri! E che
Cicerone meraviglioso fu egli, per farne gli onori alla nostra curiosa
giovinezza!
I nostri benevoli hanno prima di tutto a notare che noi non li terremo
soverchiamente sotterra; che non seguiremo, verbigrazia, l'esempio di
tanti famosi romanzieri che hanno fatto vivere i loro lettori, per una
infilzata di capitoli, quattro o sei metri sotto la superficie del
suolo. Oltre che noi non abbiamo tanto ingegno, nè tanta dovizia di
partiti da tenerli a bada, va ricordato che le chiaviche di Genova non
possono entrare in paragone coi monumenti sotterranei di Parigi; nè
colle catacombe di Roma, nè colle immani cisterne di Bisanzio, nè
colle vie dischiuse sotto l'Eufrate dagli antichi re di Babilonia.
Genova, edificata a più riprese, secondo le crescenti necessità della
sua popolazione, su d'un terreno malagevole, altro non riuscì che un
lavoro di aggiunte e di rappezzamenti faticosi, così sopra come sotto,
e privo, ahimè, di un concetto ordinatore. Laonde i grandi canali,
invisibili seguaci delle grandi arterie cittadine, son pochi; tutti
segnati in anticipazione dai letti de' rigagnoli, che separano le une
dalle altre le colline digradanti dell'anfiteatro di Genova. Altri
canali minori a centinaia, pochissimi de' quali son praticabili,
inesplorati tutti, seguono i capricciosi meandri delle vie, viuzze e
vicoletti della Superba, e ognun d'essi mette, giusta la sua pendenza,
a taluno degli anzidetti canali maggiori.
Questi gran dignitarii della dea Mefite son cinque, i quali scendono,
come dicemmo, a piano inclinato dalle alture; ma giunti al centro
della città si stendono in linea orizzontale, e qui i topi medesimi,
loro abitatori naturali, non ci vanno altrimenti che a guazzo. Se vi
pigliasse il desiderio di visitarli, accettate il nostro consiglio di
farvi portare in collo dai serventi addetti a que' sotterranei lavori,
ed anche d'indossar vestimenta le quali non abbiano più da servirvi
sulla faccia della terra.
Il primo di tutti (non già per ordine gerarchico, ma per ordine
topografico) ha origine dal fossato di Sant'Ugo, là dalle parti
dell'Arsenale di terra, e correndo sotto la piazza dell'Acquaverde e
la Commenda di San Giovanni di Prè, attraversa la via Carlo Alberto,
per metter foce in mare nel seno di Santa Limbania, di quella santa
che ha comune coll'ottimo San Torpete la cittadinanza genovese, e la
vergogna di non trovare anima nata che voglia portare il suo nome.
Qual è, nella città dei __Baciccia__ e delle __Marinin__, la donna che
si chiami Limbania, e l'uomo che si chiami Torpete? I due poveri santi
non hanno divoti; ma in forma di compenso, e diremmo quasi di
elemosina, San Torpete ebbe una chiesuola e Santa Limbania un seno;
seno di mare, s'intende, sulla sponda occidentale del porto.
Il secondo canale nasce alle spalle dell'albergo dei Poveri in
Carbonara, e passandogli tra le fondamenta, scende sotto la piazza
dell'Annunziata, sotto quella delle Fontane, sotto la porta dei Vacca
e va a scaricarsi in mare sotto il magazzino dei Salumi.
Il terzo, nel quale siamo ora avventurati noi, sulle orme del Guercio,
dall'alto di via Gambaro, all'ingresso di via Nuova; di là per le
viscere di piazza del Ferro, dei Macelli, di Soziglia, di via degli
Orefici, di piazza de' Banchi (tutti luoghi ne' quali non raccoglie
oro per fermo) va a sgabellare la sua mercanzia sotto il palazzo della
Dogana.
Il quarto e il quinto, a dir vero, non la durano a lungo divisi.
Scendono da via Assarotti e da via Palestro; si vedono, s'amano e si
maritano clandestinamente sotto gli archi dell'Acquasola. Di qui,
rasentando le case di via San Giuseppe (più conosciuta sotto il
vernacolo nome di __Crosa del Diavolo__) la felicissima coppia scorre
sotto il braccio sporgente dell'ospedale di Pammatone, e difilata per
Portoria, Rivo torbido, i Lanaiuoli, i Servi e la piazza della Marina,
va a nutrire con paterna cura i suoi figli adottivi, che sono (il
lettor genovese l'ha già indovinato) i mùggini punto schifiltosi del
cosiddetto Seno di Giano: un seno accecato, pur troppo, dal bisogno di
una strada a mare, che ha pur sottratto all'amore dei Genovesi
l'indimenticabile scoglio Campana.
Genova sotterranea possiede anche la sua storia, se non chiara per
avventura come quella della sua sovrastante sorella, certo meno oscura
di quello che si potrebbe argomentare dai suoi foschi rigiri. Negli
annali di questa storia tenebrosa un'impresa che andava tentando il
Guercio con parecchi suoi degnissimi aiuti, non era nuova nè strana, e
gli scrittori delle cose nostre ricordano le scoverte fatte, nei
secoli scorsi, di audaci furfanti, i quali per lavorare più
sicuramente avevano messo dimora nelle chiaviche, e taluni, allogati
per l'appunto sotto la piazza della Nunziata, dormivano alla guisa dei
marinai su ranci sospesi alla vôlta. Inoltre i contrabbandieri, i
frodatori delle gabelle, ebbero sempre per le chiaviche una tenerezza
particolare. Parecchi dei loro anditi furono chiusi ai tempi dei
nostri vecchi; quello, ad esempio, che di sotto alla piazza di Sarzano
metteva al monastero di San Silvestro. E non è molto che un altro (e
non certamente l'ultimo) ne fu scoperto ed asserragliato, il quale da
un certo luogo della città andava a far capo nel Portofranco.
Se poi da questa geldra c'innalziamo allo stuolo degli illustri
orditori di congiure, troviamo più nobili ragioni di celebrità per
queste vie nascoste di Genova. Per una di esse il Raggi intese a
penetrare dalle sue case nel palazzo Ducale, volendo mutar con ardito
tentativo il reggimento della cosa pubblica. Per un'altra, ancora in
parte conservata, il conte di Lavagna introdusse il nerbo dei suoi
partigiani in città, ai danni del fortunato Andrea Doria. Infine, che
diremo di più? Genova sotterranea aspetta tuttavia un cronista
volenteroso; la mèsse è abbondante ed intatta.
E intatta e abbondante era quella che il Guercio si riprometteva da
certi suoi scavi sotto la via degli Orefici. La sua pensata era
questa: sforacchiare il terreno sotto una delle case che fiancheggiano
la via, e, la mercè di un buco verticale nel pavimento, penetrare in
una ricca bottega d'orefice: quindi in una notte, senza tema dei
vigili, al coperto dalle sentinelle (__excubiarum securus__), far
repulisti nella custodia e nelle bacheche del mercatante.
I suoi manovali erano da parecchi giorni all'opera, sotto la vigilanza
dell'Architetto; che così era chiamato per celia il compare che aveva
misurate le distanze e disegnato il luogo dove occorreva aprire la
breccia. E quel luogo era appunto al confluente di un cunicolo
laterale colla chiavica maggiore. Il cunicolo, che era stretto e quasi
impraticabile, rispondeva ad un vicolo sovrastante, e rasentava le
fondamenta della insidiata bottega. Ci si lavorava a disagio, e
bisognava darsi il cambio; ma il lavoro andava innanzi pur sempre, e
in capo a cinque o sei giorni l'impresa poteva essere condotta a buon
fine.
Il Guercio, che abbiamo lasciato sul primo tratto del sotterraneo,
giunse facilmente sotto la latitudine dei Macelli di Soziglia. Qui,
occorrendo la parte piana della città, egli incominciò a diguazzare
nel pantano; ma vuolsi notare che, pratico dei luoghi, egli aveva
avuta la precauzione di cavarsi le scarpe e i calzoni, per guadare lo
Stige. Qua e là per le ruvide pareti scorrazzavano topi dalle lunghe
basette e dalle lunghissime code, parecchi dei quali, mal potendo
aggrapparsi alle scabrezze dei muri, davano tonfi romorosi nella
poltiglia, facendogli schizzare larghe e frequenti pillacchere sul
viso. Buio aveva dinanzi a sè, e buio alle spalle; la luce della sua
lanterna rischiarava un breve tratto dintorno, e le ragnatele,
pendenti dalla bassa volta in larghi festoni, non davano comodità dì
riverbero. Egli pareva un punto luminoso, un fuoco fatuo, che errasse
frammezzo alle tenebre.
Come fu giunto sotto Soziglia, dove il canale si piega leggermente
verso gli Orefici, si fermò, trasse fuori uno zufolo e mise un fischio
sottile, ripetuto tre volte. Tre fischi gli risposero tosto; uditi i
quali, il Guercio si rimise la via tra le gambe. Due minuti dopo, egli
era dinanzi, alla luce d'un falò, la cui fiamma lambiva ed affumicava
la volta umidiccia, e intorno a cui stavano accoccolati i suoi cinque
compagni, veri ceffi da galera che non istaremo a descrivervi.
--Finalmente!--gridò uno di costoro.--Noi ti facevamo già in catorbia.
--E perchè mo'?--chiese il Guercio, in quella che spegneva la lanterna
e se la riponeva in tasca.--In catorbia ci vanno i ladri, e non la
brava gente come noi.
--Capisco;--soggiunse l'altro,--ma quei del pennacchio fanno errore
così spesso!
--La prima causa dell'errore sono quei tali che hanno fatta la
legge;--sentenziò il Guercio, sedendosi accanto ai compagni e levando
la pipa di bocca al più vicino per mettersela tra i denti egli
stesso.--Quando comanderò io, farò un codice nuovo che dica: sono
ladri tutti quelli che hanno quattrini. Infatti, io ragiono così: se
hanno denari, in qualche luogo li hanno presi: ora chi prende ruba;
dunque....
--Benone!--interruppe un altro.--Tu parli come il mio avvocato, che,
se gli davano retta i signori del berrettone, non andavo a passar tre
anni nel collegio di Oneglia. Ma già, quei signori non badano mai a
quello che dice un galantuomo, e legano sempre l'asino dove vuole il
Fisco.
--O non lo sai, imbecille, che lupo non mangia lupo? Ma basta!
tornando al discorso che non avevo ancora incominciato, domani a sera
si fa il colpo.
--Impossibile!--gridò l'Architetto, o, per dir meglio, quel che i
compagni chiamavano con quel nome.--In quella maledetta buca non ci si
può lavorare più di due per volta, i vorranno almeno sei giorni....
--E chi ti parla della buca?--ripigliò il Guercio.--Parlo dell'altro
colpo, di quello che v'ho detto una settimana fa, pel quale, da ladri
che sembriamo, diventeremo carabinieri.
--Ah sì, ottimamente!--esclamò uno dei cinque.--E in cambio di
lasciarci ammanettare, ammanetteremo.
--No, Bellavista, non ci saranno manette da mettere.
--E che diamine ci sarà dunque da fare?--dimandò il Bellavista.--Io
non so che facciano altro, quei del pennacchio.
--Perchè tu li conosci soltanto da quello che hanno fatto a
te;--rispose il Guercio tra le risa della brigata;--ma essi, te lo so
dir io, fanno altro ed altro, che ti bisognerà imparare, prima di
metterti all'opera.
--Sentiamo dunque!--disse il Bellavista.
--Incomincio. Domani a sera, verso le nove, si va (alla spicciolata,
s'intende) in casa Ceretti, qui presso a via Luccoli. Il Ceretti tu
devi conoscerlo, tu Architetto, che sei stato muratore.
--Se lo conosco! È mastro Nicola, di Molassana, quegli che ha trovato
due pentole di genovine in un ripostiglio di muro che stava rompendo,
e non ne ha detto nulla al principale....
--Sì, lui, per l'appunto.
--Ci ha da esser denari a palate, in casa sua!--proseguì il
Bellavista.
--Certo;--disse il Guercio,--ma per questa volta bisognerà sputarne la
voglia. In casa del Ceretti ci si va per la mascherata, e nient'altro.
--O come?--dimandò l'Architetto.--Mastro Nicola ci tiene il sacco!
--Non egli, che è in villa, ma il suo figliuolo. Io non so nulla e non
ho cercato di saper nulla; ma mi sembra di avere indovinato che questo
giovanotto l'abbia a morte con un suo pigionale, certo Salvini,
Salvetti o che so io, e lo voglia colle nostre mani, __vestire da
angelo__.... mi capite? fargliene una da coltellate. Domani a sera
scoppia la rivoluzione....
--Parli sul serio?--interruppe il Bellavista, mentre gli altri
inarcavano le ciglia.
--Sicuro; ma questo non risguarda noi altri. In questi pasticci non
c'è nulla da guadagnare. Ora questo Salvetti, Salvini, od altro che
sia, è un uomo che pesca nel torbido, e domani a sera sta fuori di
casa. Noi, col pennacchio in testa e la divisa a coda di rondine,
andiamo in casa, dove c'è una ragazza sola con un servitore, ci
spacciamo per carabinieri mandati a fare una perquisizione, rovistiamo
nella camera del nostro uomo, e portiamo via certi documenti che
devono trovarsi in una cassettina d'ebano; la qual cassettina è in un
cassettone a destra entrando, nella seconda cassetta, in un angolo a
sinistra. Vedete che conosco il fatto mio. La Giustizia è bene
ragguagliata, non fo per dire. Ci becchiamo la cassettina: salutiamo
la signora chiedendole scusa del disturbo, scendiamo al primo piano,
ci vestiamo da capo dei nostri panni, e ce ne andiamo pe' fatti
nostri. Il colpo non è male architettato. Che ne dici tu, Architetto?
--Io dico,--rispose l'Architetto,--che a questa fabbrica mancano le
chiavi.
--O come?
--Mancano, ti dico, e te lo provo. Noi, stando a quel che ci hai posto
in chiaro, lavoriamo per la gloria.
--Ah, capisco!--disse il Guercio ridendo.--Io avevo dimenticato
l'essenziale. Accanto alla gloria c'è una lasagna bianca, di quelle
che si fabbricano in via San Lorenzo.
--Mille lire?
--Sì, certo, mille lire; e notate,--soggiunse il Guercio, volgendosi
alla brigata,--che le guadagniamo senza risico, a mo' di passatempo,
in mezz'ora di mascherata.
--Sta bene, sta bene;--ripigliò l'Architetto.--Ma quando la si vede,
questa lasagna bianca?
--Nell'atto di consegnare la cassettina; non sei contento?
--Ah, meno male, questo si chiama ragionare. E adesso facciamo un
pochino di divisione. Tu, come capo....
--Mi contenterò di cinquecento lire;--disse il Guercio. L'esorbitanza
delle sue pretensioni gli fece buon servizio, perchè gli altri diedero
tutti nella pania.
--Ah, Guercio!--gridarono in coro.--Tu non sei ragionevole!
--Orbene, quattrocento, e crepi l'avarizia! Io sono un buon diavolo, e
voglio farvi vedere che non tengo al danaro.
--No, no!--ripigliarono parecchi.--È troppo.
--Sta bene,--soggiunse il Bellavista,--che tu sia il manipolatore del
negozio; ma quattrocento lire....
--No, no;--incalzarono gli altri,--tu vuoi troppo per la tua porzione.
Perchè non dire recisamente: voglio tenermi la somma intiera?
--Ma io....--si provò a dire candidamente il Guercio. Non sono il
capo, io?
--Zitto, là!--gridò l'Architetto, dando sulla voce a lui e agli altri
che volevano rimbeccarlo.--Lasciate che io pure metta fuori la mia. Se
parlate tutti in una volta non riusciremo mai ad intenderci.
--Sì, parla tu! parli l'Architetto!
--Benone!--ripigliò questi, contento del trionfo ottenuto. Ditemi ora,
non par giusto a voi che il Guercio, come capo e come manipolatore del
negozio, abbia qualcosa di più?
--Certamente!--entrò a dire il Bellavista.--E mi pare che
centocinquanta lire....
--No; facciamo la somma rotonda; mettiamo dugento.
--E vada anche per dugento!--disse il Guercio, coll'aria di un uomo
che fa un grande sacrifizio.--Io non voglio romper l'amicizia per
questa miseria. Dugento lire a me, e centocinquanta al maresciallo!
--Che maresciallo? chi è questo maresciallo?--chiesero i compagni
stupefatti.
--Oh bella! non capite che un drappello di carabinieri ha da averci il
suo comandante? O come andremmo noi a fare una perquisizione, senza
maresciallo?
--Ha ragione, perdiana!--dissero gli altri, guardandosi in faccia.
--Ha ragione, sicuro!--aggiunse il Bellavista.--Ma chi sarà il
maresciallo?
--Non io certamente, col mio occhio traditore; nè tu Bellavista, che
sei mingherlino come una lucertola.
--Mettiamo dunque l'Architetto!--gridò uno della brigata.--Mettiamolo
lui, che sembra il figliuolo della Madonna del Gazzo.
--Sì, sì, l'Architetto!--risposero tutti, ridendo a crepapelle.
--Sarò io, chetatevi, sarò io!--disse gravemente l'eletto.
--Ma badate! il maresciallo vuol doppia razione. Datemi dunque dugento
lire; se no, cedo l'onore ad altri. Io sono stanco di gloria, e se non
viene la paga doppia, mi contento del grado di semplice carabiniere.
--Il diavolo si porti l'Architetto! Vuol quello che vuole.
--Ma.... io non vi cerco! Siete voi altri che volete innalzarmi, non
io. Mi volete grande e grosso? Pagatemi. Non vi par che io ragioni a
modo?
--Come un libro stracciato;--soggiunse il Bellavista.
--Abbiti dunque le dugento lire; seicento che rimangono salve dalle
vostre unghie, le spartiremo tra noi quattro.
--E lagnati ancora, manigoldo! Vi buscate centocinquanta lire a testa,
e non siete contenti? Che cosa vorreste ancora? Se io le avessi ogni
giorno, e lavorando un'ora sola, mi parrebbe d'esser più ricco dei
Parodi, e vorrei che passando da' Banchi tutti mi facessero largo e si
cavassero il cappello, come quando passa qualche ladro dei grossi....
--Hai ragione! hai ragione! finiscila dunque!--interruppero i
colleghi.
--E adesso che ci siamo intesi,--soggiunse il Bellavista,--beviamone
un bicchiere alla salute del maresciallo.--
La proposta fu accolta all'unanimità. Uno della brigata diè di piglio
alla damigiana che stava lì presso, e versò il vino nei bicchieri, che
corsero in giro parecchie volte, tra gli evviva più sperticati e più
strani al collega Architetto.
Il Guercio se la rideva sotto i baffi, perchè, non mettendo in conto
l'orologio e la catenella del suo tenore col tremolo, quella sera
guadagnava milleduecento lire senza molta fatica.
L'Architetto, dal canto suo, se si faceva pagare per due, sapeva bere
all'occorrenza per quattro. E così fece quella sera; se pure non è più
giusto il dire che bevve per sei. Tanto per quella sera il lavoro era
interrotto, e non si doveva ripigliare se non la mattina, allorquando
il frastuono della via soprastante avrebbe soffocato il rumore
monotono e traditore dei loro picconi. E il nostro Architetto, reso
eloquente dal vino, raccontò candidamente ai colleghi che il sogno
della sua vita era stato mai sempre di essere carabiniere, anzi
carabiniere a cavallo. E d'essere carabiniere e di trottare in
__corrispondenza__ da una stazione all'altra, sognò veramente un'ora
dopo, quando il vino, facendo il suo effetto, lo ebbe dato per morto
in braccio a Morfeo.
Forse in quell'ora medesima, un vero carabiniere, disteso nel suo
letticciuolo, sognava di aver vinto una quaderna al lotto, e di non
portar più il pennacchio rosso e cilestro.
Ahimè! Nessuno è contento del suo stato, in questa valle di lagrime!
XXXV.
Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima pugna.
Memori sempre di tutti i personaggi della nostra storia, non abbiamo
dimenticato Lorenzo Salvani, il povero giovine che abbiamo lasciato in
via Nuova, sotto le finestre dei Torre Vivaldi, a guardare un'ultima
volta Matilde che saliva alla festa, leggiera e felice come persona
che si sia liberata di un grave peso, ed abbia fatto un'opera buona.
Fu l'ultimo sguardo che egli volse a costei, ma non ardiremmo dire che
fosse l'ultimo pensiero.
Chi penetra negli ultimi recessi di un cuore trafitto? Chi sa dire
quante volte, anche inconsciamente, un'anima aspreggiata dalle
ineffabili angosce di un morto affetto, accolga nel suo segreto una
perfida immagine, e la vagheggi e la maledica, e frema a quella
vicinanza come la carne al contatto di un ferro rovente, innanzi di
affogarla nel suo immenso disprezzo e di poterla contemplare
impunemente e sorridere?
Il forte animo di Lorenzo s'era chiuso in quella medesima notte; ma la
tempesta ruggiva dentro, nè potremmo dirvi quando e per che modo si
chetasse. Forse le avvenne di consumarsi da sè; forse ardeva tuttavia,
ma il cuore, divenuto insensibile per soverchio di pena, non tradiva
il suo signore nei moti del volto o negli atti. Laonde, mutato
apparve, non turbato, alla gente; e se lo spirito afflitto maturava un
feroce proposito, niente lasciava trasparire agli occhi del volgo
profano.
Ferito da una donna amata in ogni cosa più cara, nella sua adorazione
per lei, nel suo divino inganno di poeta, nella sua dignità d'uomo,
egli, dopo quel giorno, non la cercò, nè la fuggì; non la vide. Gli
era ella passata daccanto per via? Non lo sapeva neppure. Ella era e
non era per lui. Questo non significava ancora il disprezzo, ma più
non significava l'amore; sibbene, e assiduamente, l'angoscia, il
disdegno, lo scontento di sè.
Aveva la morte nel cuore, e lo stato suo era tanto più grave in quanto
che egli non aveva potuto ottener sollievo da un'ora di vendetta. Quel
conte palatino, ma così poco paladino, dell'Alerami, egli non aveva
potuto trovarselo a faccia a faccia sul terreno. Ciò ch'egli aveva
detto nel suo ultimo colloquio con Matilde, intorno a quel vile
spavaldo, era pure avvenuto.
I lettori rammentano che innanzi di uscire dalla casa della Cisneri,
Lorenzo aveva detto all'avventuriero, conchiudendo il suo sarcastico
discorso sul giuoco: «Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar
grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre a' suoi riveriti
comandi». Alle quali parole avea risposto l'Alerami, facendosi bianco
in viso come un cencio lavato: «Eh! chi sa che non me ne venga la
voglia?» E Lorenzo aveva soggiunto: «S'accomodi!».
Ora questa voglia non era venuta al conte palatino, che s'era
accomodato assai meglio non rispondendo all'invito. Non già che ne'
suoi colloqui colla contessa egli non avesse simulato di voler tenere
la giostra; che anzi aveva strepitato, e di molto. Ma egli aveva fatto
come que' tali rodomonti da quadrivio, i quali sogliono finire i loro
alterchi colla frase proverbiale, «tenetemi, se no l'ammazzo!». E la
contessa, sgomentita, lo aveva tenuto; ed egli s'era chetato, per non
mettere (diceva lui) a repentaglio l'onore di una dama, in una contesa
con tal uomo (soggiungeva lei) che non ne francava la spesa, che non
era della civil compagnia e che non c'era nè gusto ne gloria a
sforacchiargli la pelle.
Così erano sbollite le ire d'Achille; così l'Alerami ebbe al cospetto
della bionda contessa un pregio di più. Ma così va il mondo; si passa
a buon mercato per valorosi e per gentiluomini. E il vero gentiluomo,
il valoroso, passava, agli occhi di certo volgo eccellentissimo, per
un dappoco, per uno screanzato, che non francava la spesa d'un colpo
di pistola, o di spada.
Ma così non la pensavano tutti; chè per buona sorte il volgo
eccellentissimo, se spesso promulga, non sempre fa accettar le sue
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