I rossi e i neri, vol. 1 - 22

--Hai ragione, Ginevra!--disse la signora Maddalena;--l'esperienza
dovrebbe portarci tutte a questa conclusione.
--Non correre tanto, Maddalena!--gridò la bella Ginevra, ridendo.--Non
credere che tutte queste belle cose me l'abbia insegnate l'esperienza.
Ho pensato molto, ho raffrontati molti casi, e molti ne ho indovinati.
Ma vedi dove ci ha condotto questo signor Aloise di Montalto! Certo
gli fischiano gli orecchi, per questo lungo discorso che s'è fatto di
lui.
--Poveraccio! Ed è proprio quello che a parer mio dovrebbe sbugiardare
la tua cattiva opinione sugli uomini.
--Coll'esempio di una eccezione? Tanto meglio per lui, se sarà una
eccezione. Ma via, abbiamo già troppo chiacchierato di lui, e gli
altri tutti, che non ci vedono da un pezzo, avranno ragione a
protestare.
--Andiamo!--disse malinconicamente la signora Maddalena, a cui pareva
che Aloise di Montalto meritasse un po' più di compassione.
Quando le due amiche tornarono nel salone di Flora, la prima parte
delle danze era finita, e Ginevra, prendendo il braccio del più
ragguardevole tra tutti i suoi convitati, diede il segno di entrare
nella credenza, dov'era imbandita la cena.
È un assai brutto momento, quel della cena, in una festa da ballo. E
sebbene molti non converranno in questa sentenza, a noi non mette
conto mutarla, poichè ella piacerà di sicuro a quanti non pensano col
ventre.
Brutta cosa, perbacco, il vedere tutte quelle dame graziose, che erano
pur dianzi così leggiere, e stiamo per dir così diafane nel vortice
della danza, sedute a mensa, che mangiano come uno sciame di
cavallette! I Greci di Omero, i quali pur brancicavano con le mani i
quarti di vitello arrostiti sullo schidione, immaginavano il nettare e
l'ambrosia, per non guastare colla grossolana copia del cibo il degno
concetto che avevano degli Dei d'Olimpo. Ora le nostre Giunoni non si
peritano di farsi scorgere con un'ala di fagiano ai denti; le Ciprigne
sbocconcellano alla lesta i pasticcini e li inaffiano col vin di
Bordò. E gli uomini? Appaiono forse meno sgraziati? Guardateli, que'
teneri Adoni, che testè saettavano le languide occhiate e si
struggevano in lunghi sospiri. Costoro si appigliano alle bottiglie,
fanno man bassa su d'ogni cosa, brodo ristretto, selvaggina, salse,
savori, tartufi, ostriche, canditi, e va dicendo; non la perdonano nè
a prime mense, nè a seconde, nè a tornagusti d'antipasto, nè ad
intramessi di pospasto; pregiano egualmente la bottiglia di Bordò
ritta sulla base e la bottiglia di Borgogna sdraiata sul tovagliuolo;
tuffano i baffi nella spuma dello Sciampagna e nei liquidi topazii del
vecchio Reno.
Non venga in mente ad alcuno di coglierci in contraddizione manifesta
con quello che abbiamo detto più su, che non rifuggiamo punto
dall'immagine della donna che mangia, e con quello che si può
sottintendere rispetto all'uomo. Ha da essere pioggia e non gragnuola;
ed anco a voler stare nella pioggia, c'è spruzzo ed acquazzone. Epperò
noi, se in una festa da ballo non riputiamo grave offesa al senso
poetico, all'aureola divina della bellezza, un sorso di tè o qualche
dolciume, non possiamo egualmente menar buono il mangiare e il bere,
nella loro più grossolana apparenza. Che la cena ci sia, sta bene; se
prelibata e suntuosa, prova la liberalità dell'Anfitrione. Ma una
bella dama seduta a tavola in atto di sgranocchiarsi un petto di
pollo, fosse pur coi tartufi, che orrore!
Quella che si poteva guardare senza tema di guastarci il sangue era la
marchesa Ginevra. Ella faceva mostra di mangiare, assaggiando, ed ogni
sua cura si rivolgeva al ragguardevole personaggio che le sedeva
daccanto. Costui del resto non aveva bisogno di esortazioni; macinava
a due palmenti, e trovava buona ogni cosa. Le altre dame, sedute
tutt'intorno alla tavola, oltre l'aiuto de' servi, accettavano i grati
uffici dei loro cavalieri, i quali s'inchinavano sulla spalliera delle
seggiole, pascendo loro gli orecchi di dolcissimi nonnulla, mentre
esse confortavano lo stomaco di cibi più sostanziosi. Di questa guisa,
altro non si udì per un pezzo che l'acciottolìo de' piatti, il cozzar
de' bicchieri, lo zampillare delle bottiglie, e il dimenar delle
mascelle.
Aloise non c'era; neanche il Pietrasanta; neanche il Cigàla. Il primo
aveva altri pensieri in capo; il secondo voleva tener compagnia
all'amico, ed aveva perfino lasciato che un altro gli rapisse la
marchesa Giulia. Non si creda tuttavia che fosse un grave sacrifizio
sull'ara dell'amicizia, il suo; poichè il rapitore era il vecchio De'
Salvi.
In quanto al Cigàla, egli avrebbe potuto andare a cena come tutti gli
altri; ma quell'arguto chiacchierone era schiavo di una sua arguzia,
s'era messo in trappola con le sue mani. La signora Enrichetta Corani
gli aveva chiesto se non andava a cena; ed egli, vedendo che la ci
aveva già un altro cavaliere ai fianchi, anzi due addirittura, s'era
lasciato andare a risponderle:
--No, signora Enrichetta. Un Cigàla ha da tener fede alla cara
bestiuola di cui porta il ricordo nel nome e l'effigie nello stemma.
--E non si pascerà d'altro che di rugiada!--aveva soggiunto la signora
Enrichetta.
--Certo; così ha sentenziato Anacreonte.--
Ed ecco per che modo il Cigàla era rimasto insieme col Pietrasanta e
con Aloise. Ma se non era andato a dimenare i denti, si ricattava
esercitando la lingua.
Mollemente adagiato su d'un canapè accanto ad Aloise, ragionava di
cento cose col Pietrasanta, che s'era sdraiato su d'una poltrona, e a
voler ripetere tutto quello che dissero tra due (poichè Aloise stava
silenzioso ad udirli, ora sorridendo, ora accennando del capo, e non
andando mai più oltre del monosillabo), ci sarebbe da fare un altro
capitolo, laddove noi non pensiamo ad altro che a finir questo, il
quale è ormai troppo lungo.
Basti sapere che il Cigàla ne disse di tutti i colori, e tra l'altre
cose, passando in rassegna alcune delle dame, si fe' lecita una glossa
lunga anzi che no sui nuovi amori della bionda Cisneri, e sulla
nobiltà del conte Alerami, che era a cena accanto a lei, e che gli era
parso molto turbato.
--Non avrà forse ricevuto le sue rimesse dalle Indie;--diceva egli.
--Ma dimmi, e il Salvani?...--chiedeva il Pietrasanta.
--Il Salvani ha durato poco. È la storia delle belle cose.
--È davvero un ottimo giovane!--interruppe Aloise.--Mi duole di non
averlo veduto quasi più, e soprattutto che non mi abbia creduto così
degno della sua intimità da confidarmi le cose sue. Io gli avrei
aperto gli occhi in tempo.
--Baie! E che male c'è? Ha amato; è stato piantato in asso; ma alla
fin fine non è egli che ci ha avuto da perdere.
--È facile a te, Cigàla, il parlare così; poichè tu prendi.... come
diamine è il tuo proverbio?
--Vuoi forse dire che prendo gli uomini come sono, le donne come
vengono, e gli scudi a cinque lire? Sì certo, e me ne vanto contro
ogni maniera di disinganni.--
Questi erano i ragionamenti della triade, e durarono fino a tanto che
durò la cena. Ma quando al Pietrasanta parve udire che i convitati si
alzavano da tavola, si mosse per andare in traccia della marchesa
Ginevra.
--Marchesa,--diss'egli, appena ebbe modo di rimaner solo con
lei,--chiedo una grazia.
--Parlate, di che si tratta?
--Una grazia.... cioè, dovrei dire una disgrazia.
--Una disgrazia, Pietrasanta? E la chiedete a me?
--Sì, pur troppo! Ma che non si farebbe egli mai per
l'amicizia?--soggiunse Enrico sospirando.
--Per l'amicizia? Non vi capisco. Suvvia, parlate chiaro.
--Ecco qua.... Aloise di Montalto voleva offrirsi per vostro cavaliere
nel __cotillon__....
--Ah, capisco finalmente!--esclamò ridendo la bella Ginevra.--E voi
venite a rassegnarmi la vostra rinunzia.
--No, mi guardi il cielo dal perdere il capo a questo modo. Se avessi
per caso da impazzire, vorrei andar diritto allo spedale, che nessuno
mi vedesse farne di così gravi, come questa che voi pensate di me.
--Ma che volete voi dunque? Qual altra.... disgrazia chiedete?
--Di poter tagliare l'errore a mezzo; di contentare il mio migliore
amico, senza scontentar me; di essere in due, dove avrei voluto esser
solo.--
In quella che Enrico Pietrasanta faceva questo allegro sproloquio per
aiutare il suo Oreste, la marchesa Ginevra pensava:
--Ma che cos'hanno in mente tutti costoro? La Maddalena, Montalto; il
Pietrasanta, Montalto; perfino quel pazzo di Cigàla, Montalto, non sa
parlarmi d'altro che di Montalto!.... Che siano tutti pazzi, o che
costui li abbia tutti stregati?...
--Orbene, marchesa,--disse Enrico,--pronunziate la dolorosa sentenza?
--Sì, se pur la volete tale.
--Se la voglio!... Ve la chiedo con rammarico profondo, ma l'aspetto
da voi.
--Ed io,--rispose la Ginevra, imitando la comica mestizia del
Pietrasanta,--con profondo rammarico vi condanno.... ad avere un
compagno di catena.--
Una doppia risata, ma di cuore, pose fine ai dialogo della Ginevra col
suo cavaliere.
Il marchese Tartaglia si avvicinò, chiedendo di che cosa ridessero; ma
innanzi ch'egli avesse articolata e sputata la sua dimanda, il
Pietrasanta era già fuori del tiro; tanto gli premeva di recare ad
Aloise la buona novella.


XXIX.
Nel quale si comincia a conoscere che uomo fosse il marchese
Antoniotto.

Uno dei personaggi più importanti della nostra storia, sebbene altro
non abbia fatto ancora che una breve comparsa in queste pagine, è
senza dubbio il marchese Antoniotto Torre-Vivaldi.
Intanto che i suoi convitati ballano, cenano, passeggiano e dicono che
le sue feste sono le più belle e le più suntuose di Genova, intanto
che i forestieri, ammessi in grazia dei loro titoli in casa Vivaldi,
si fanno un ottimo concetto, se non al tutto vero, dell'umor socievole
delle grandi famiglie genovesi, teniamo un po' d'occhio il padrone.
Quando egli ebbe fatto tutto quello sfoggio di cortesie, che i lettori
sanno, con Aloise di Montalto, e ricambiate alcune parole colle
persone più ragguardevoli dei due sessi, il marchese Antoniotto
chetamente disparve. Ma noi che abbiamo in mano il filo di quel
labirinto, gli terremo dietro, e se il lettore vorrà lasciare in pace
per un tratto la bella Ginevra, la bianca Maddalena, Aloise, e tutti i
suoi simpatici personaggi, non avrà a pentirsi d'essere venuto con
noi.
Il marchese Antoniotto, coll'aria sbadata di chi va a zonzo, ora
conversando con questi ed ora con quelli, giunse fino al pensatoio
della sua signora, che era in quel momento deserto. L'uscio che
metteva nella stanze di Ginevra era chiuso: ma il marchese Antoniotto
non se ne diede pensiero.
Andando ad un'altra parete, premè col pollice un nascosto congegno, e
una porticina che era dissimulata dai fregi continuati della
tappezzeria, si aperse per dargli il passo nello spogliatoio della
marchesa, e di là fino al suo quartierino particolare. Colà giunto,
salì il piano di sopra, dov'erano le camere dei servi.
Ma lassù non era anche finito il viaggio del marchese Antoniotto, il
quale, infilata un'altra scala più stretta della prima, salì fino ad
un pianerottolo cieco, dov'era agevole immaginare che un tramezzo
vietasse di andare più oltre. Egli, nondimeno, a cui l'oscurità non
faceva impedimento, trovò il catenaccio di una porta ferrata, e lo
fece scorrere sugli anelli; quindi bussò due o tre volte con le nocche
delle dita.
Un rumore di passi si udì poco dopo dall'altro lato dell'uscio; un
altro catenaccio scorse sugli anelli, e l'uscio si aperse. Era il
padre Bonaventura in persona, che si faceva ad accogliere il suo
ospite.
I lettori non avranno certamente dimenticato che, per essere più
vicino al padre Bonaventura, il marchese Antoniotto lo aveva allogato
in un comodo quartierino, all'ultimo piano del suo palazzo; e vedono
ora che per maggior comodità di ambedue, era stato rispettato l'uscio
di comunicazione, sebbene raffermato da una parte e dall'altra con due
catenacci. Di questa guisa, ognuno se ne stava tranquillo in casa sua,
mentre riusciva agevole ai due amici il vedersi e lo stare a
colloquio, senz'altra molestia che quella di rimuovere que' due
impedimenti.
I sullodati lettori vorranno adesso sapere il perchè di tanta
intrinsichezza, e noi vediamo giunta l'occasione di dirlo. Era
un'intrinsichezza fondata sulla comunanza dei propositi, e sul
profitto che ognuno dei due cavava dall'autorità e dall'aiuto
dell'altro.
È noto per che modo il marchese Antoniotto Della Torre fosse venuto a
nozze con la bella marchesa Vivaldi. La giovinetta, rimasta orfana in
piccola età, sotto la tutela di un suo parente materno, era uscita dal
monastero del Sacro Cuore di Parigi, per diventar moglie del marchese
Antoniotto. La Ginevra, unico avanzo dei Vivaldi del ramo di Valcalda,
portava, insieme con un bel nome ed una stupenda bellezza, dieci
milioni di patrimonio, e l'accorto tutore, tra le molte famiglie che
lo chiedevano di quel parentado, aveva prescelto i Della Torre.
Antoniotto era uno dei più operosi e dei più benemeriti caporioni del
partito clericale; era ricco egli pure, e per giunta uomo da non star
sul tirato nella faccenda dei conti, uomo da contentarsi del capitale,
senza lesinare troppo sui frutti; epperò, detto fatto, si stabilirono
le nozze. Non c'era altro che una piccola difficoltà per mandarle ad
effetto; che l'Antoniotto era un po' consanguineo della Ginevra; ma
quella provvidenza della Curia di Roma non istette molto a venire in
aiuto con una brava dispensa, e il Della Torre diventò facilmente il
Torre-Vivaldi, a maggior gloria di Dio, o, per dire più esattamente,
della setta gesuitica.
Era egli mai stato giovane, il marchese Antoniotto? Quei generosi
concetti, que' baldi rapimenti, che provano il bollore del sangue e il
rigoglio della gioventù, non avevano mai persuasa la mente di
quell'asciutto gentiluomo? Certo, a voler stare sui generali appare
difficile e quasi impossibile che un uomo, poniamo anche il più freddo
del mondo, non abbia percorso le sue fasi di ardore e di tiepidezza.
Il medesimo Napoleone, che fu tipo straordinario della moderna
tirannide, e a cui non mancò altro che il sangue regio per essere
salutato gran mastro della reazione europea, ne' suoi primi anni era
stato un poeta, un sognatore, un rivoluzionario; insomma, era stato
giovine.
Non così il marchese Antoniotto. Egli era nato vecchio, e tutti i suoi
coetanei rammentavano di averlo sempre veduto lo stesso, fin da quando
proseguiva lo studio delle leggi nella Università genovese. Già da
quel tempo appariva contegnoso e severo, chiuso dell'animo, e nimico
d'ogni cosa che sapesse di novità; di guisa che, tra per l'autorità
del nome, e per l'inflessibilità de' propositi, facilmente capitanava
quella generazione di vecchi bimbi, detti allora i giovani sodi, che
facevano contrapposto a quella coorte di giovani ingegni, forse
soverchiamente innamorati delle teoriche forestiere, ma vogliosi di
cose nuove, devoti al culto della patria e della libertà, i quali
prendevano indirizzo dal loro condiscepolo Giuseppe Mazzini.
Il marchese Della Torre si vantava d'essere classico in letteratura, e
condannava con Vincenzo Monti __l'audace scuola boreale__; ma nel
fatto non poteva patire i poeti di nessuna scuola. Il suo classicismo
non era altro che un arnese di guerra, nel campo della politica; e ciò
trapelava anche dalla compiacenza con cui il giovine sodo si faceva a
notare come i signori liberali, gli scapigliati, offendessero la
purezza della lingua e delle tradizioni letterarie, non meno che della
filosofia italiana.
Egli poi s'era chiuso nello studio delle cose economiche e di tutti i
rami dell'arte di governo; si andava armando di tutto punto per
comandare altrui, quando l'occasione gli si fosse offerta. Càrdini
della sua politica erano i libri __Du Pape e Les soirées de
Saint-Petersbourg__, che Giuseppe De Maistre, il gran propugnatore
della teocrazia e della autocrazia, il panegirista del carnefice,
aveva gettati come una protesta e una minaccia del passato moribondo,
contro la rivoluzione rinnovatrice. L'umor severo, la ricchezza e la
nobiltà dei natali avevano posto in rilievo questo discepolo dei
Gesuiti, che avrebbe potuto giunger davvero al governo della cosa
pubblica, se l'apostolato continuo e gagliardo del suo avversario
coetaneo, conducendo dal martirio al trionfo il concetto dell'unità
italiana, non avesse spinto il Piemonte ad afferrar la bandiera
tricolore, e guasti i disegni, sgominate le fila della reazione.
In que' tempi che tutti gli animi cominciavano a risvegliarsi e si
preparavano alle prime battaglie, il marchese Antoniotto si era posto
deliberatamente a capo dei nemici d'ogni novità. Però era stato dei
primi a biasimare i grilli liberaleschi di Pio IX, e ora struggendosi
per le vittorie dei rivoluzionari, ora rallegrandosi delle loro
sconfitte, era giunto finalmente a vedere il trionfo della sua causa.
Allora corse giubilante ad ossequiare al Vaticano quel pontefice che
dapprima lo aveva fatto tanto tremare; allora accettò d'essere
nominato senatore da quel governo a cui aveva augurate le busse
austriache per farlo rinsavire.
Certo, restava ancor molto a fare, innanzi di mettere a segno i
rompicolli; nella cenere covavano ancora di molte faville; il governo
non faceva prova di bastevole energia contro i ribelli, e peggio
ancora, ne' suoi diportamenti verso i degni ministri della chiesa, non
si mostrava troppo tenero della santa causa. Ma a questo avrebbe
portato rimedio il tempo; le ire sarebbero sbollite; uomini di buona
tempera andando man mano in alto, avrebbero rimutato l'indirizzo della
cosa pubblica. Intanto le file del partito si ristringessero, non
perdonando a fatiche, non dispregiando nessun argomento, anco il più
modesto e lontano dallo intento comune, che desse modo di operare. Si
facessero vivi, insomma, e sapessero usare di una certa larghezza
d'animo, per raccattare que' fuorviati della parte loro, capi scarichi
i quali s'erano un bel giorno scaldati per le riforme e per la
indipendenza italiana, e dopo aver scritto inni a Carlo Alberto,
arringato il popolo plaudente e messo un tratto il berretto frigio
sulla parrucca incipriata, s'erano spauriti del loro ardimento, doluti
delle loro pazzie, a guisa di chi si svegli in quaresima, e si
vergogni della baldoria fatta in carnevale. Queste pecore matte erano
in buon numero, e ogni giorno facevano un passo verso l'ovile.
Bisognava non disprezzarle, accoglierle anzi a braccia aperte, non
tanto per il pregio delle persone, ch'era nulla, quanto per la
opportunità dell'esempio.
Erano questi i consigli del marchese Antoniotto, e ognuno intende di
leggieri che fossero ascoltati, sebbene taluni più irosi e più
ostinati tra' suoi colleghi non avessero voluto dapprima acconciarsi
alle sue ragioni sottili. Nè questo era il solo lato per cui il Della
Torre si mostrava accortamente più largo degli altri suoi pari.
Figlio ad uno di que' parrucconi della oligarchia del Consiglietto,
egli aveva dovuto da principio partecipare un tal poco a quella
dispettosa opposizione, non già d'opere, ma di parole, che il
patriziato di Genova faceva al governo piemontese, al quale la sua
città, il teatro delle sue pompe senatorie, era stata regalata dal
Congresso di Vienna. Ma il marchese Antoniotto non era uomo da inutili
rancori. Ricco di ambizione e di volontà, sentiva che i suoi milioni e
la sua corona di marchese erano due armi potentissime a farlo giungere
in alto, e che dovevano restarsi inoperose, pel magro diletto di fare
il broncio al re di Sardegna, il quale po' poi era in quella parte
della penisola il rappresentante della teocrazia di Roma e della
autocrazia di Germania, il gran vassallo del papa e dell'imperatore,
que' due càrdini della società, quelle due dighe opposte dalla
Provvidenza ai malvagi disegni della rivoluzione.
In cotesto adunque egli era già più innanzi di molti altri; ma saldo
com'era ne' suoi propositi, non correva neppure alla cieca, non si
lasciava accalappiare dalle lusinghe del governo, i cui atti, diceva
egli, non davano ancora quella sicurtà che potesse persuadere un
gentiluomo a prestargli l'opera sua. Voleva insomma che il suo partito
soverchiasse; e in quella stessa guisa che nel suo partito gli pareva
di non dover essere secondo a nessuno, così non poteva immaginar
possibile un governo apertamente reazionario, senza esserne a capo
egli stesso.
Ed era proprio un uomo fatto per comandare altrui, il marchese Della
Torre. Il nome, le ricchezze, le aderenze, l'ingegno, erano un nulla
al raffronto del carattere, di solito asciutto e severo, ma che sapeva
convenevolmente piegarsi, assumere quella grazia di modi che venuta
dall'alto è sempre una lusinga pericolosa per chi sta in basso, e
signoreggia di sovente gli animi più generosi.
Larghe testimonianze del suo ingegno sempre volto al comando, offriva
il vasto podere di Quinto, dove egli passava i sei mesi caldi
dell'anno, e dove ogni cosa procedeva ordinatamente giusta il suo
concetto. Colà il marchese Antoniotto aveva tentato con frutto
parecchi esperimenti di riforme agrarie, nella quale materia era
versatissimo, di guisa che, alla più trista, egli avrebbe potuto
riuscire al governo della cosa pubblica per la scorciatoia di un
portafoglio di agricoltura e commercio. Ognuno ricorda che parecchi
degli odierni uomini di Stato entrarono per questa viottola nei
consigli della Corona.
Nelle letterarie discipline era valente del pari, sebbene dispettasse
i poeti. Conosceva il latino e lo scriveva con quella eleganza che
potevano ai suoi tempi insegnare i Gesuiti o gli Scolopii. Un suo
volgarizzamento di Sallustio aveva fatto andare in brodo di succiole
Tommaso Vallauri, e il teologo Margotti non aveva potuto beccarvi per
entro nessun farfallone; della qual cosa aveva fatto un gran parlare
sull'__Armonia__. Un suo trattatello __Degli elementi dell'arte di
governo__ lo aveva fatto salir in gran rinomanza presso i parrucconi
di tutta Italia, e i legittimisti di Francia citavano «le marquis
Torre Vivaldi» come uno «des hommes politiques les plus éminents de
son temps, qui réunissait un esprit éclairé à un sentiment profond des
droits du pouvoir légitime, en dehors duquel il n'y a point de
garantie pour la vraie liberté et pour la civilisation du monde».
Tutti costoro, poi, quando per alcun loro negozio avessero a passar da
Genova, erano gli ospiti del marchese Antoniotto, il quale, nelle
lusinghe di una splendida accoglienza diventava due volte più
ragguardevole al cospetto dei forestieri, e, non si muovendo da
Genova, otteneva facilmente una fama europea.
Ma torniamo alla villa di Quinto. Colà Ginevra dagli occhi verdi
accoglieva il fiore della civil compagnia, e colle grazie della sua
persona e del suo conversare aiutava inconsapevolmente e mirabilmente
ai disegni ambiziosi del marito. Intorno alla vezzosa gentildonna
spirava come un'aura di medio evo, nella sua parte più bella, che
allettava i più schivi. Si radunavano colà i discendenti di quelle
grandi famiglie che avevano operato tante cose cinquecento anni
innanzi; e all'udir conversare di belle imprese, o recitar versi, al
veder corti d'amore, giostre di schermidori, corse di bei palafreni,
gite sul mare ed altri simili passatempi, al sentirsi ad ogni tratto
ferir l'orecchio da que' nomi che avevano risuonato in Soria, alla
Meloria, a Curzola, chi non avrebbe creduto ad un miracolo, il quale,
sconvolgendo gli ordini del tempo, l'avesse ricondotto parecchi secoli
indietro?
Gli uomini, veramente, apparivano vestiti secondo le brutte fogge dei
nostri tempi. Non si potevano notare nè le calze divisate, nè il
farsetto, nè la cappa, nè il lucco, nè la berretta di velluto; ma chi
avrebbe badato più che tanto al vestimento degli uomini, pur sempre
ingentilito dalle fogge campestri, dov'era una dama come Ginevra?
Costei era bella come una di quelle superbe castellane che talvolta, a
vederle dipinte, ci fanno desiderare di esser vissuti a' tempi loro,
anco a patto d'esser morti e sepolti da secoli e secoli. Si consideri
inoltre che il vestir delle donne non è stato mutato così da non
consentir l'illusione, e che la marchesa Ginevra non la guastava
davvero con le rigonfiature soverchie, essa che, alta della persona e
fatta a pennello, poteva romper guerra al crinolino e meritarne lode
dagli intendenti.
Riviveva adunque il medio evo, intorno alla bella Ginevra. Il marchese
Antoniotto, poi, da vero marito della castellana, faceva in ogni cosa
il suo talento, esercitando, stiamo per dire, alta e bassa giustizia
nelle sue terre. E basti questo fatto ad esempio. Egli aveva fatto
chiudere in una camera sotterranea del suo palazzo un servo, figlio di
uno dei suoi fittaiuoli, perchè esso gli aveva data una mala risposta,
e in quella camera umida e buia lo aveva fatto rimanere quattro dì,
senz'altro cibo che pane e acqua.
Come? griderà il lettore stupefatto. Questo egli ardiva di fare, a
mezzo il secolo decimonono, sotto un reggimento di libertà? Sicuro, lo
aveva osato, e non se n'era neanche pentito, poichè gli pareva la cosa
più naturale del mondo. Nè il povero servo si era lagnato di
quell'arbitrio padronale; e si fosse anco lagnato, chi gli avrebbe
dato ascolto? Le leggi sono state molto acconciamente paragonate alle
ragnatele, nelle quali le mosche incappano, ma che i mosconi strappano
colle ali, passando pel rotto. E poi non vi sono esempi d'altri gran
signori, che hanno fatto anche peggio?
Il povero Menico (che così si chiamava il servitore malcapitato) non
aveva a lagnarsi molto della prigione, se altrove ad altri era toccato
un carico di busse che li avea fatti andare allo spedale, o un colpo
di pistola che li aveva freddati. Il marchese Antoniotto non era
manesco; pregiava abbastanza le sue mani, da non insudiciarle sul viso
o sul groppone della bordaglia, e si contentava di mettere in
prigione.
Quella sua prepotenza del resto gli era passata liscia. Il marchese
Antoniotto era padrone del paese, a cui recava tanto profitto colla
sua villa, colla gente che vi attirava di continuo, colle limosine,
coi donativi ond'era liberalissimo alla chiesa, al comune, e simili. I
pochi che giunsero a risaperlo, non ne rifiatarono, e per certuni
della sua pasta egli ebbe anzi fama d'uomo che voleva e sapeva farsi
rispettare in casa sua, come fuori. Solo i giovani come il Pietrasanta
e il Cigàla notarono che quello era un brutto arbitrio; ma essi per
fermo non potevano farsi vendicatori della libertà offesa, e si
contentarono di appioppare al marchese Antoniotto il soprannome di
__tiranno di Quinto__.
In casa, tuttavia, quell'atto da medio evo non era stato compiuto
senza un po' di contrasto. La marchesa chiedendo grazia pel Menico,
era giunta perfino a rammentare che la terra di Quinto era patrimonio
dei Vivaldi, da lei portato al marito. Ma egli tenne fermo; rispose
alla signora che un esempio era necessario, che la bordaglia bisognava
farla stare a segno, e cento altre cose di quella fatta, dette con
aria di molta deferenza alle preghiere di lei, ma che pure mostravano
com'egli non volesse lasciarsi smuovere. Quando poi ne ebbe
abbastanza, fece restituire il Menico in libertà, ma a patto andasse a
ringraziar la marchesa, che aveva intercesso per lui.
E il pover uomo andò; rese grazie con le lagrime agli occhi; e il
marchese Antoniotto, che era stato a vedere, gli disse con piglio
amorevole:
--Andate, Menico, e non vi avvenga più mai di alzare la voce. Per
quest'oggi intanto la marchesa vi concede di andarvene dai vostri
parenti, ai quali ella v'incarica di dire che condona loro la pigione
di quest'anno.--
Si trattava di un migliaio di lire e qualcos'altro; ma il marchese
Antoniotto era largo signore, come tutti i despoti, e dopo averle
negata la grazia di Menico, amava usare quella galanteria alla
castellana di Quinto. Galanteria tanto più fine, in quanto che il
perdono e il regalo erano concessi per modo che paressero venuti da
lei.
Lasciamo argomentare a voi se il Menico fosse contento, e se corresse
di buone gambe a casa per annunziare quella benedizione. Gli parve