I rossi e i neri, vol. 1 - 17
voi, signor poeta, io penso che vi si possa rispondere di trionfo.--
Lorenzo fece un cenno del capo che voleva dirle: non credo.
--Sì certo! Quanto più io potessi parer bella a molti, il che non è
punto vero,--soggiunse ella con quell'accento d'ipocrisia che sanno
metter fuori le donne quando abbiano a parlare della loro
bellezza,--tanto maggiore dovrebbe essere l'orgoglio di chi mi ama.
--Oh, lasciate queste gioie meschine al conte Alerami, che per lui
saranno forse il colmo della felicità!--interruppe Lorenzo.--Io v'amo
ben diversamente, v'amo assai più, o Matilde!--
La bomba era caduta, la gran parola di quel dialogo era detta: e la
contessa, punto turbata, si fece arditamente ad affrontare il
pericolo.
--Ma se lo dicevo io, che siete un fanciullo! Adesso salta in ballo il
conte Alerami.
--Egli vi ama!--proruppe Lorenzo.
--E questo vi spiace? Vi piacerebbe forse di più che egli mi odiasse?
--Forse. Ma perchè stiamo noi qui a schermir le parole?--disse
Lorenzo, armandosi di coraggio.--Appunto del conte Alerami io volevo
parlarvi.... e chiedervi un sacrifizio....--
La contessa rizzò il capo, e guardandolo con un piglio, in cui non si
sarebbe potuto dire se fosse maggiore il disdegno o la compassione, lo
fulminò con queste parole:
--Signor Lorenzo! siete voi così dappoco?
--Perdonatemi, Matilde,--gridò egli allora, gettandosi ai piedi della
contessa ed afferrando la sua mano che non istette molto a bagnare di
lagrime;--ma io soffro, vedete?... Io penso che questa sera andrete a
quella festa appoggiata al braccio del conte Alerami, che egli vi farà
ridere con le sue arguzie, che il vostro petto palpiterà sopra il suo,
nell'ardore della danza. Non vedete voi queste lagrime, Matilde? Il
mio cuore si strugge, a questo pensiero maledetto!...
--Perchè pensare a queste fanciullaggini?--chiese la contessa,
guardando in aria.
--Perchè sono geloso, Matilde, geloso di chiunque vi parla, geloso
perfino della vostra ombra. Non ve ne siete anche avveduta?
--Rifaremo dunque la vecchia storia di Otello?--ripigliò la contessa,
cercando di sciogliere la mano dalle strette di Lorenzo.
--Oh Matilde! Voi non volete capirmi!--esclamò il povero
innamorato.--Quando vi vedo, quando sono daccanto a voi che mi
sorridete, poco m'importa di tutte quelle farfalle che vi aleggiano
dintorno. Ma, lontano da voi, penso che esse ebbero la virtù di
abbagliare i vostri occhi, e che il povero Lorenzo è dimenticato da
voi. Sono geloso, Matilde, sono geloso, perchè sento che voi mi
sfuggite di mano, che ogni giorno che scorre, mi allontana dal vostro
cuore.--
Un affetto vero e profondo ha questo di efficace, che commove, poniamo
pure per un momento, il cuore della donna più fredda. Non è egli vero,
o lettrici? In mezzo alla noia che v'inspira l'assidua presenza e il
piangere di un uomo che non amate e il pensiero di un altro che vi
soggioga, s'infiltra pur sempre uno zinzino di compassione per lo
sventurato che è a' vostri piedi e vi esprime con tanto ardore di
parole la grandezza de' suoi patimenti.
La contessa non seppe resistere a quell'onda di passione disperata;
epperò rispose a Lorenzo:
--E chi vi dice che io non v'ami più?
--Oh grazie!--esclamò il giovine, a cui balenò negli occhi il primo
lampo di gioia;--grazie di questa cortese parola che vi è piaciuto
lasciarvi sfuggirei Ma compite la vostra bell'opera; non andate a
quella festa; rimanete in casa, stasera. Fate questo grande sacrifizio
al povero Lorenzo, che vi ama come un dissennato. Vedete? Noi
rimarremo qui seduti, a parlare del nostro amore, de' miei disegni pel
futuro. Faremo un bel castello in aria, di quei tali che vi piacevano
tanto, e che ci facevano star le ore intiere dimentichi del mondo,
inebbriati di amore. Vi ricordate, bionda Matilde? Non c'era cosa
bella nel creato, che le anime nostre non si facessero sollecite a
spiccare dal suo luogo, per abbellirne il nostro sogno, e le più
graziose pensate non erano certamente le mie....
--Sì, Lorenzo, ma è impossibile adesso che io vi contenti. Che volete?
Sono pure disgraziata! Ho promesso al conte Alerami.... ho accettato
ch'egli venisse ad accompagnarmi dai Torre Vivaldi; e senza mettere in
conto che io fallirei alle buone creanze verso la Ginevra, il rimanere
a casa sarebbe una vera scortesia, usata, senza una ragione al mondo,
a quel povero conte.
--Quel povero conte! E perchè non dite invece questo povero Lorenzo
che soffre? Oh, maledetto quest'uomo che si pone tra me e la mia
felicità!...--
Matilde, giunta a quel segno, doveva farla finita. Ella s'era alzata
un tratto, per virtù della rimembranza, sulle ali di Lorenzo; ma
l'altezza sterminata del volo la spaventava. Vide da lungi sulla terra
il conte Alerami, bello, guardato e vagheggiato da tutte le donne,
sfolgoreggiante di diamanti, caracollare superbamente sul suo cavallo
arabo, e non seppe tenersi dal sospirare. Si guardò dattorno, e non
vide altro che lo spazio muto e freddo; nè valeva a custodirla
Lorenzo, che la teneva fra le braccia, Lorenzo, il povero giovine
senza speranze, brutto della sua gelosia, e male in arnese per giunta.
Sì, fu questo il pensiero che venne in mente alla bionda contessa:
male in arnese! Matilde ebbe paura di trovarsi lassù, e fece come una
delicata signora che salita in barca rabbrividisce al primo ondeggiare
del legno e grida di voler scendere a terra.
--Ed eccovi da capo con le frasi sonanti!--rispose ella, cogliendo la
palla al balzo.--Il conte Alerami è un cavaliere garbato, e voi
avreste il torto a credere che io....
--Voi lo difendete!--interruppe Lorenzo.--Ma lo costringerò ben io a
cedermi il passo, e se egli si ostinerà ai vostri fianchi, tanto
peggio per lui; lo ucciderò.
--Signor Lorenzo, finiamola! Voi non sapete quello che vi diciate,
ora. Perchè dovrei io chiudergli l'uscio di casa mia? Per fargli
capire ch'egli è un uomo pericoloso, e che voi lo temete? In quanto ad
ucciderlo, sarà un'altra faccenda non troppo facile. Voi siete
animoso; ed egli non meno. È schermidore valente, e tutti vi diranno
che con un colpo di pistola coglierebbe in aria una moneta.
--E qualcheduno potrà aggiungere,--rispose Lorenzo rattenendosi a
stento,--che egli si schermisce anche meglio dal pericolo di un
duello....
--Oh, questo, poi!
--Oh, questo, poi, lo so di buon luogo. Egli è vile quanto spavaldo.
Ma a me non fanno senso quei suoi modi da gradasso, e la mano son
certo gli tremerà quando abbia a scendere sul terreno.
--Ma non avete voi detto dianzi,--interruppe la contessa sorridendo
ironicamente,--che egli si schermisce da cosiffatti pericoli?
--Sì,--rispose Lorenzo, senza badare al piglio sarcastico della
contessa,--quando abbia da fare co' dolci di sale, e possa dar loro a
credere ch'egli è un uomo generoso; ma io lo trascinerò pe' capegli,
il conte Alerami, e gli dirò la gran parola che lo metta a segno per
sempre.... Avventuriere!--
La contessa Cisneri si alzò dalla poltrona, e guardando Lorenzo dal
capo alle piante, gli disse con voce sottile ma ferma:
--Voi insultate un uomo che io accolgo in casa mia!--Se la nostra
lingua italiana consentisse l'uso di certe metafore, diremmo che
quella voce sottile ma ferma della contessa Cisneri poteva
rassomigliarsi ad una lama di pugnale, che appare così fine, e va
diritta nelle carni; che fa un buco da nulla, e tuttavia vi s'immerge
nel cuore.
Intanto per Lorenzo Salvani le parole di Matilde furono come una
trafittura, e il primo atto del giovine fu quello di recarsi una mano
sul cuore, come se appunto colà fosse andato a ferire il dispregio
della bionda signora, che stava ritta in piedi dinanzi a lui,
guardandolo con piglio sdegnoso.
Egli tuttavia non disse parola. L'assalto era stato così repentino e
violento, che egli non seppe che cosa rispondere. A volte anco il
silenzio è sublime, e Lorenzo fu sublime tacendo, in quella che
guardava la contessa con aria di doloroso stupore.
--Signor Salvani,--proseguì la contessa,--siete voi dunque disceso
così in basso, da calunniare i gentiluomini che vi danno molestia?--
Lorenzo impallidì a quella seconda percossa; quindi per naturale
contrasto, gli divampò il volto, all'improvviso rifluire del sangue
alle tempia. Si cacciò una mano ne' capelli, e strinse così forte,
come se volesse strapparseli.
--Calunniare! calunniare!--ripetè egli con una terribile progressione
di accento.--Oh, voi lo amate, signora.... Voi lo amate! Adesso vi
porreste invano a negarlo.--
Matilde rispose crollando le spalle, e stringendo le labbra; quindi si
mosse per andare allo specchio.
Era quello uno stato di cose difficilissimo per ambedue. Lorenzo aveva
già posto mano al cappello per andarsene, quando si udì il fruscio
d'una veste, e subito dopo un batter di nocche sull'uscio.
--Avanti!--disse la contessa, rivolgendosi da quel lato. L'uscio si
aperse, ed entrò la cameriera ad annunziare l'arrivo del conte Alerami
col marchese De' Carli.
--Ah! lo sapeva che non sarebbero stati molto a giungere!--esclamò la
contessa.--Signore, eccovi dunque contento! Il marchese De' Carli è la
lingua più lunga di tutta Genova, e si piglierà certamente una satolla
de' fatti miei.
--Signora,--rispose Lorenzo, facendo ogni sua possa per
rattenersi,--perdonatemi! Me ne andrò.
--Sì, ve ne andrete adesso, perchè vi vedano uscire, e tutti abbiano a
risapere che eravate qui solo nel mio spogliatoio.--
Il giovine Salvani chinò gli occhi, e si morse le labbra, per non
rispondere altro.
--Che cosa avete detto a que' signori?--chiese la contessa a Cecchina.
--Ho detto che la contessa non aveva anche potuto por mano a vestirsi.
--Sta bene. Andate, e fateli entrar qui. E voi intanto, signore,
sedetevi e ricomponetevi.
--Non temete, signora!--rispose Lorenzo con piglio modestamente
contegnoso;--i miei occhi si sono rasciugati, e spero non avrete ad
arrossire più oltre per cagion mia.
--Tanto meglio!--soggiunse la contessa, e andò per sedersi allo
specchio; ma poi, pensando che quella positura avrebbe potuto parere
studiata, corse al sofà dov'era già seduto Lorenzo, col suo cappello
in mano, e gli si pose daccanto, in atto di chi prosegue un discorso.
In quel punto entrarono i due signori annunziati da Cecchina, l'uno il
conte Alerami, che i lettori conoscono per quel tanto che ne abbiamo
già detto, l'altro il marchese De' Carli, un vecchio sui sessanta, o
in quel torno, tutt'e due in falda e coi guanti paglierini.
--Ah! ah!--esclamò il marchese, che rideva sgangheratamente ad ogni
tratto, e tartagliava per giunta;--entriamo dunque nel santuario?
--Sì, per l'appunto; entrate, Onofrio,--gridò allegramente la
contessa,--e non vi spaventate, per carità, se troverete la dea
vestita ancora da casa. Stavo qui domandando il parere del signor
Salvani sull'abbigliatura che debbo indossare; ma egli non ha voluto
dirmi nulla; di guisa che pregavo il cielo che mi mandasse qualche
buon consigliere. Ed ecco, capitate voi, che siete il buon gusto
incarnato.--
La scaltrita contessa voleva con tutti que' vezzi accattarsi la
benevolenza del vecchio marchese, e la sua perorazione era tale da
farlo andare in brodo di succiole.
Era un ridevole personaggio, quel marchese Onofrio De' Carli, o
marchese Tartaglia, come gli si diceva alle spalle da certi burloni.
Da giovine aveva fatto il vagheggino, e perseverava ancora, come se
gli anni non fossero venuti. Si tingeva baffi e capegli, avendone
l'aria di un vecchio Cupido rimpennato e ritinto. Quando parlava, era
necessario tenersi alla larga; se no, con la sua lingua impacciata, vi
schizzava addosso le bollicine di saliva. Sapeva la storia di tutti, e
faceva il gazzettiere nei salotti, dettando anche sonetti e madrigali
per ogni occasione, come un vecchio Arcade. Le signore lo mandavano
ogni tanto a cercare, e tra perchè temevano la sua linguaccia e perchè
si pigliavano spasso de' fatti suoi, non potevano stare un giorno
senza di lui. Questo sapevano tutti, epperò si faceva a chi gli desse
più argutamente la baia intorno alle sue avventure galanti; ed egli a
gongolare, a ridere più sgangheratamente che mai, ed aspergervi della
sua eterna rugiada.
--Il signor Salvani ed io,--disse egli, andando a sedersi nella
poltrona accanto a Matilde,--possiamo darvi ottimi consigli, ma il
vostro specchio ve li darà migliori. Sarete la regina della festa, o
ce ne saranno due. Quella pettinatura, poi, vi sta a meraviglia. A
cavalcioni su que' biondi cernecchi se ne stanno gli amori, saettando
vicini e lontani....
--Basta, basta, Onofrio! Siete un vero diluvio.
--Nel quale la vostra bellezza va incolume come l'Arca.--
E detta quest'arguzia, il marchese Onofrio arrovesciò il capo sulla
spalliera della poltrona, ridendo a crepapelle e sfrombolando l'aria
co' suoi eterni sbruffi.
Lorenzo non aveva ancora aperto bocca. Egli stava rannuvolato
guardando il conte palatino, il quale, dopo aver baciato la mano alla
contessa, si era fatto in disparte, e taceva, come un innamorato in
ufficio.
--Suvvia, non ci perdiamo in chiacchiere!--disse Matilde.--Sarà tardi,
io credo.
--Sono le dieci!--soggiunse l'Alerami, cavando dalla tasca del
panciotto il suo orologio contornato di brillanti.
--Orbene,--proseguì la contessa,--poichè mi avete detto il vostro
parere, andatevene nel salotto, ch'io mi vestirò in fretta.
--Oh, non istate a darvi tanta premura,--disse il marchese.--Purchè
andiamo alle undici, giungerete sempre in tempo, anzi comparirete sul
più bello, come una dea di Omero nel più forte della mischia.
--Benissimo; lasciatemi dunque indossar l'armatura. Se volete
giuocare, aspettandomi....
--Vi obbediremo, contessa;--disse il conte Alerami.--Signor Salvani,
vuole Ella fare una partita?
--Non giuoco, signore.
--Giuocheremo una partita innocente. Appena una piccola posta, tanto
per tener vivo il giuoco.
--Tanto meglio per Lei, signore;--ripigliò Lorenzo con asciutta
cortesia;--la sua borsa non ne patirà danni troppo gravi, nel caso che
il marchese De' Carli fosse il fortunato.--
Matilde, avvedutasi della brutta piega che stava per prendere la
conversazione, si affrettò a soggiungere in quella che volgeva
un'occhiata severa a Lorenzo:
--Il proverbio dice: chi ha fortuna in amor non giuochi a carte.--
Il marchese Onofrio fece un inchino e una risata, per ringraziar la
contessa. Lorenzo, dal canto suo, stette saldo, aspettando che il
conte palatino gli dicesse qualche altra impertinenza. Egli, in fin
de' conti, non aveva fatto altro che respingere, con modi cortesi,
sebbene asciutti, un assalto del suo fortunato rivale.
Ma questi, che si sentiva punto sul vivo dall'accento sarcastico di
Lorenzo, volle aver la rivincita, e rispose con aria burbanzosa:
--A me non fa caso il perdere.
--E nemmeno a me,--disse di rimando Salvani,--fa gran caso sapere se
il giuoco sia innocente, o no. Ogniqualvolta potrò aver la ventura di
giuocare con Lei, non sarà certo la posta che mi metterà in pensiero.
--Ella parla come un Creso, signor Salvani!--rispose l'Alerami,
impaniandosi sempre più.
--Non c'è bisogno d'essere un Creso per parlare come io faccio, e
tutti i tesori del famoso re di Lidia non varrebbero la posta che il
più meschino degli uomini potrebbe giuocare. Ella che è stato in
India, signore--(Lorenzo non diceva mai signor conte)--conoscerà
certamente la posta che mettono talvolta gli Indiani su d'una partita
a scacchi.
--Non la conosco, in fede mia!
--Orbene, la servirò io: si giuocano gli occhi.
--Diamine!--esclamò il marchese Onofrio, che non capiva un'acca di
tutto quel battibecco.
Matilde, pallida, sbigottita, si era accasciata sul sofà, aspettando
la fine di quel dialogo ch'ella s'era inutilmente industriata a
sviare.
--Sicuro, gli occhi!--proseguì Lorenzo, guardando sempre fissò
l'Alerami.--Ad ogni partita che un giuocatore vince, cava un ferruzzo
leggerissimo, e fa con gran maestria saltare un occhio all'avversario.
Ella capirà benissimo che non si possa far più di tre partite, a
questo bel giuoco; e l'ultimo occhio che rimane incolume all'uno dei
due, gli serve per andarsene pe' fatti suoi, dopo avere accompagnato
il perdente fino all'uscio di casa. Ella è dunque avvertita; io soglio
giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre ai suoi
riveriti comandi.
--Eh! chi sa che non me ne venga la voglia!--disse il conte Alerami,
che la rabbia aveva fatto diventar bianco come un cencio lavato.
--Si accomodi, signore! E adesso,--conchiuse Lorenzo volgendosi con un
grazioso sorriso ai muti spettatori di quella scena,--signora
contessa, signor marchese, loro servo divoto!--
Con queste parole si accomiatò, lasciandoli tutti sbalorditi.
Grama vittoria, nondimeno! Il povero Lorenzo si sentiva schiantare il
cuore, uscendo da quella casa, che era stata la culla ed era la tomba
dell'amor suo.
XXIV.
Nel quale si parla di molte stelle del cielo ligustico.
Quella sera il palazzo Vivaldi era magnificamente illuminato. I grandi
finestroni sfolgoreggianti facevano impallidire le scarse fiammelle
del gasse negli scarsi fanali della via Nuova, e gli sfaccendati, i
musoni, stavano a contemplare quello spettacolo, senza sapere il
perchè. I curiosi si stringevano intorno agli sfaccendati; e i
viandanti, rattenuti da quell'ostacolo, intorno ai curiosi; di guisa
che al vedere tutta quella calca di gente, si sarebbe potuto credere
che fosse avvenuto in quel luogo un fatto grave, un alterco, una
rissa, un'uccisione, uno insomma di que' fatti che il giorno appresso
dànno agli strilloni il diritto di assordare le genti.
--Che è? che non è?--Non sapete?--È la gran festa da ballo in casa
Torre Vivaldi.
--Quella sì, è gente per la quale! Guardate che sfoggio di dorature!
Come splendono, attraverso i vetri delle finestre!
--Hanno illuminato tutto il palazzo. Vedete? Anche dalle finestre che
dànno sui vicoli c'è la medesima luce.
--Eh! le cose si fanno, o non si fanno. Ci saranno forse quattrocento
invitati!
--Che quattrocento? Dite pur mille. Io conosco lo scritturale di casa,
e so che le lettere d'invito salgono oltre al migliaio.
--Ve l'avrà data a bere, lo scritturale. O come volete che ci
capiscano mille persone là entro?
--Che sfarzo da principi! Già, costoro vogliono andare a finir male
con tanto lusso....
--Finir male! Siete pazzo? O non sapete che ci hanno dai dodici ai
quattordici milioni, senza contare i quadri, e quei due leoni di marmo
nella scala, che non hanno voluto vendere a un Inglese per cinquecento
mila lire?
--Ah! ah? bella, la storia dell'Inglese!
--O che? non lo credete?
--Sì, credo tutto, ma so ancora che a Genova, dovunque c'è un
capolavoro, c'è pure la sua brava leggenda dell'Inglese che voleva
comprarlo a peso d'oro.
--Sia come vi garba; intanto è sicuro che ci hanno molti milioni.
--Oh, non lo nego. Ma poichè sono ricchi sfondati, dovrebbero pensare
anche un tantino ai poveri.
--Ai poveri? Oh, non aspettano consigli, per pensarci, e si conta che
facciano per centomila lire di limosine all'anno, oltre le opere pie
nelle quali hanno mano.
--Davvero?
--Certo; sono gran signori, e amici della povera gente. Avrebbero ad
essere otto o dieci di quella fatta, in Genova, e la vedreste cambiare
dal nero al bianco.
--O dal bianco al nero!--soggiungeva un altro.
--E perchè dice questo, Lei? Non le par forse che io dica la verità?
--Dio me ne guardi! Ma chi le distribuisce, tutte queste limosine?
--Oh, fior di galantuomini; ottimi ecclesiastici, ed altre religiose
persone.
--Sta bene; ma sono accorte egualmente?
--Come sarebbe a dire?
--Che la limosina fatta alla cieca, non è altro che uno sfoggio
superbo, epperò avvilisce l'uomo, senza migliorarne lo stato. Oltre di
che, mentre se la spartiscono i raccomandati, la vedova muore di fame
con la sua figliuola, dopo avere inutilmente bussato all'uscio
signorile, e l'onesto bracciante è cacciato dalla casupola perchè non
ha pagato la pigione, e non ha lisciato acconciamente il fattore di
Sua Eccellenza.
--Sarà; ma intanto dove mi trova Ella un uomo che spenda centomila
lire in elemosine, come il marchese Antoniotto?
--Eh, non dico già questo per levargli il merito. Alla stretta dei
conti son sempre uomini commendevoli, e degni, d'esser fatti
consiglieri e sindaci della città.
--Ahi questa che Ella dice è una gran verità! Costoro almeno
amministrerebbero a dovere il danaro del comune, e non ci sarebbe
risico....
--Certo!--soggiungeva un altro.--Non ci sarebbe risico che rubassero
essi, ma che lasciassero rubare gli altri. A costoro basterebbe di
poter fare i prepotenti.
--Ohi ecco un'altra carrozza. Chi è quella signora che scende?
--È la marchesa Pellegrina Bracelli. Bella donna a' suoi tempi! Adesso
sua figlia è più bella di lei.
--Che novità! E probabilmente tra cento anni saranno morte ambedue.
--L'ha da essere una festa, ma di quelle!--diceva un altro.--Questa
gente si ricorda d'essere sangue di dogi.
--Ci sono stati dei dogi nella casata Vivaldi?
--Nella casata Vivaldi, e anche in quella dei Torre.
--Peccato che non ne nascono più, dei dogi!
--Ma! è davvero un peccato. Essi valevano assai più dei vostri
__governatori e intendenti__ moderni.
--Oh, qui poi ci avete ragioni da vendere. Quando non ci fosse altro,
basterebbe notare che erano animali domestici.
Erano questi i discorsi che la gente faceva sulla via.
Il popolo genovese è pieno di questi capi ameni, i quali si dànno
pensiero d'ogni cosa, pel solo ed unico gusto di disputare; ciceroni
da dozzina e curiosi di ogni risma, i quali sanno tutte le minuzie del
passato, frugano tutte quelle del presente e vorrebbero anche
indovinar quelle del futuro; la più parte avventori costanti del
__caffè della Liguria__, in via Luccoli, o del __caffè di Napoli__ in
Soziglia; filosofi peripatetici dei portici del Teatro; speculatori
del bel tempo sulle mura delle Grazie; uditori attentissimi alla Corte
d'Assise, e alle parlate del Consiglio comunale.
Intanto giungevano le carrozze stemmate, e, mandando un po' indietro
la calca dei curiosi, si fermavano dinanzi al portone. Lo staffiere
saltava giù da cassetto, apriva lo sportello, e, col cappello
gallonato in mano, distendeva i gradini ripiegati dello smontatoio. Il
cavaliere scendeva sollecito, e porgeva la mano alla dama, che, tutta
ravvolta nella sua mantellina, non lasciava veder altro che
l'acconciatura del capo e la noce del piede.
Era già molto pei riguardanti, se il viso era bello, sottile il
piedino e ben tornito il fùsolo.
--È la tale!--No, è la tal altra!--E lì commenti, aneddoti, vita e
miracoli della signora che passava.
La carrozza della nobile Ottavia Scotti, vedova Belmosti, si fermò a
sua volta, e ne scese la vecchia dama, con Matilde Cisneri, il
marchese De' Carli e il conte Alerami.
Il lettore ricorderà che nei primi cenni intorno alla bionda contessa,
abbiamo parlato d'una sua vecchia amica, la quale, non sapendo
staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata
bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto. Era costei la
Belmosti, ottima donna in fin dei conti, la quale con la sua
nobilissima compagnia dava assai più che non ricevesse da altri. E la
Cisneri lo sapeva benissimo, che, la mercè della sua vecchia amica,
cugina del marchese Antoniotto dal lato materno, era stata invitata
alla festa dai Torre Vivaldi.
Il nostro conte palatino si affrettò, con savio accorgimento, ad
offrire il braccio alla nobile Ottavia. Il marchese Tartaglia si
dinoccolò per offrire il suo alla Matilde, e tutti e quattro, gloriosi
e trionfanti, salirono le scale.
Lorenzo Salvani, nascosto nella folla, ebbe agio di vedere tutta la
scena e udire per giunta le chiacchiere degli sfaccendati, che
tagliavano i panni addosso a quelle nobili persone.
Colla falda del cappello aggrondata sugli occhi, il colletto del
pastrano alzato fino all'orecchio, egli era andato ad appostarsi colà,
per vedere anche una volta la bella Matilde. Ultimo guizzo d'una
lucerna che si spegne, ultima ubbìa d'un povero amante lasciato in
asso!
Il cuore gli si strinse, quando vide Matilde, saltar leggiera e
contenta dallo smontatoio sulla soglia del portico; gli occhi
mandarono lampi, quando scorse l'Alerami.
--Domani;--borbottò egli tra sè.--Domani, se non siete un
codardo....--
Matilde era sparita col marchese De' Carli, e Lorenzo vide ancora la
vecchia gentildonna che le teneva dietro, appoggiata al braccio del
conte palatino.
Su per le scale marmoree del palazzo Vivaldi era una luce vivissima.
Numerosi servi in livrea e guanti bianchi stavano nella sala
d'ingresso, che era pittorescamente ornata di fiori e piante
tropicali, come le stufe dei nostri giardini.
Di là s'entrava in una fila di sale stupende, le quali giravano tutto
intorno il piano nobile del palazzo, ricche delle tele, degli
affreschi e degli ornati dei più famosi artisti.
Quelle sale, giusta l'antico costume dei signori italiani, portavano
il nome delle divinità pagane che la fantasia del pittore aveva
effigiate nella volta. Epperò in quella sontuosa dimora dei Vivaldi si
notava il salotto di Cerere, dell'Aurora, di Diana, delle Muse e di
Flora; divinità tutte rappresentate in altrettanti medaglioni a buon
fresco, e accompagnate dai loro emblemi; storie particolari e scene
simboliche negli altri scompartimenti e lunetti della sala.
Per tal modo gl'intendenti di cose artistiche potevano ammirare le
opere del Semino, del Carlone, del Tavarone e d'altri buoni frescanti
della scuola genovese, le quadrature dell'Adrovandini, le prospettive
degli Haffner, e gli ornati recenti condotti con finissimo gusto e
accortamente disposati alle antiche dipinture dal nostro valoroso
Michele Canzio.
Che diremo noi delle tele d'ogni misura, le quali arricchivano quelle
magnifiche sale? Erano dipinti del Caracci, dell'Albano e del Rubens,
battaglie del Bourguignon e di Salvator Rosa, madonne del Dolci,
ritratti di Tiziano, di Paris Bordone e del Vandyck. In un salottino,
che era il pensatoio della marchesa Ginevra (diciamo italianamente
pensatoio il francese __boudoir__, che ha una etimologia meno cortese)
regnava solitaria ma splendida una Danae di Guido Reni, la quale
aspettava la pioggia d'oro, e faceva sospirare tutti coloro che non si
sentivano da tanto di contenderla a Giove. Alla luce dei doppieri i
capegli d'oro e gli occhi desiosi della bella prigioniera
sfavillavano; il molleggiare delle carni dava immagine di donna viva,
e quella bianca cortina che di consueto nascondeva il quadro, tirata
discretamente sui lati, faceva credere al riguardante che egli fosse
davvero il furtivo testimone dei voluttuosi segreti di un'alcova
pagana.
Le modanature d'oro, gli affreschi, gli ornati, le tele, gli arazzi
antichi, insuperbivano le sale del palazzo Vivaldi, e tanto più
degnamente in quanto che la luce, in ogni parte profusa, faceva
risplendere ogni cosa in apparenza di freschezza e di novità. Le
grandi masserizie mirabilmente intagliate e indorate con recente
accuratezza, le tavole incrostate di marmi preziosi, i velluti di
Utrecht orlati di frange e nappe d'oro, i damaschi azzurrini, rossi e
gialli, i tappeti storiati, le larghe cortine rabescate, tutto
attestava l'opera dei secoli più largamente magnifici; e tutto del
pari era fresco, rilucente, sfolgoreggiante, come se tutti gli
artefici che avevano arricchito il palazzo Vivaldi delle opere loro,
avessero dato l'ultima mano ad ogni cosa il giorno innanzi la festa.
Mirabile su tutti gli altri era il salone di Flora, dove si facevano
le danze. Quel salone che, se i lettori rammentano, non si illuminava
se non nelle grandi occasioni, risplendeva per le opere di Pierin del
Vaga, discepolo di Raffaello, che vi aveva fatto prova del suo
Lorenzo fece un cenno del capo che voleva dirle: non credo.
--Sì certo! Quanto più io potessi parer bella a molti, il che non è
punto vero,--soggiunse ella con quell'accento d'ipocrisia che sanno
metter fuori le donne quando abbiano a parlare della loro
bellezza,--tanto maggiore dovrebbe essere l'orgoglio di chi mi ama.
--Oh, lasciate queste gioie meschine al conte Alerami, che per lui
saranno forse il colmo della felicità!--interruppe Lorenzo.--Io v'amo
ben diversamente, v'amo assai più, o Matilde!--
La bomba era caduta, la gran parola di quel dialogo era detta: e la
contessa, punto turbata, si fece arditamente ad affrontare il
pericolo.
--Ma se lo dicevo io, che siete un fanciullo! Adesso salta in ballo il
conte Alerami.
--Egli vi ama!--proruppe Lorenzo.
--E questo vi spiace? Vi piacerebbe forse di più che egli mi odiasse?
--Forse. Ma perchè stiamo noi qui a schermir le parole?--disse
Lorenzo, armandosi di coraggio.--Appunto del conte Alerami io volevo
parlarvi.... e chiedervi un sacrifizio....--
La contessa rizzò il capo, e guardandolo con un piglio, in cui non si
sarebbe potuto dire se fosse maggiore il disdegno o la compassione, lo
fulminò con queste parole:
--Signor Lorenzo! siete voi così dappoco?
--Perdonatemi, Matilde,--gridò egli allora, gettandosi ai piedi della
contessa ed afferrando la sua mano che non istette molto a bagnare di
lagrime;--ma io soffro, vedete?... Io penso che questa sera andrete a
quella festa appoggiata al braccio del conte Alerami, che egli vi farà
ridere con le sue arguzie, che il vostro petto palpiterà sopra il suo,
nell'ardore della danza. Non vedete voi queste lagrime, Matilde? Il
mio cuore si strugge, a questo pensiero maledetto!...
--Perchè pensare a queste fanciullaggini?--chiese la contessa,
guardando in aria.
--Perchè sono geloso, Matilde, geloso di chiunque vi parla, geloso
perfino della vostra ombra. Non ve ne siete anche avveduta?
--Rifaremo dunque la vecchia storia di Otello?--ripigliò la contessa,
cercando di sciogliere la mano dalle strette di Lorenzo.
--Oh Matilde! Voi non volete capirmi!--esclamò il povero
innamorato.--Quando vi vedo, quando sono daccanto a voi che mi
sorridete, poco m'importa di tutte quelle farfalle che vi aleggiano
dintorno. Ma, lontano da voi, penso che esse ebbero la virtù di
abbagliare i vostri occhi, e che il povero Lorenzo è dimenticato da
voi. Sono geloso, Matilde, sono geloso, perchè sento che voi mi
sfuggite di mano, che ogni giorno che scorre, mi allontana dal vostro
cuore.--
Un affetto vero e profondo ha questo di efficace, che commove, poniamo
pure per un momento, il cuore della donna più fredda. Non è egli vero,
o lettrici? In mezzo alla noia che v'inspira l'assidua presenza e il
piangere di un uomo che non amate e il pensiero di un altro che vi
soggioga, s'infiltra pur sempre uno zinzino di compassione per lo
sventurato che è a' vostri piedi e vi esprime con tanto ardore di
parole la grandezza de' suoi patimenti.
La contessa non seppe resistere a quell'onda di passione disperata;
epperò rispose a Lorenzo:
--E chi vi dice che io non v'ami più?
--Oh grazie!--esclamò il giovine, a cui balenò negli occhi il primo
lampo di gioia;--grazie di questa cortese parola che vi è piaciuto
lasciarvi sfuggirei Ma compite la vostra bell'opera; non andate a
quella festa; rimanete in casa, stasera. Fate questo grande sacrifizio
al povero Lorenzo, che vi ama come un dissennato. Vedete? Noi
rimarremo qui seduti, a parlare del nostro amore, de' miei disegni pel
futuro. Faremo un bel castello in aria, di quei tali che vi piacevano
tanto, e che ci facevano star le ore intiere dimentichi del mondo,
inebbriati di amore. Vi ricordate, bionda Matilde? Non c'era cosa
bella nel creato, che le anime nostre non si facessero sollecite a
spiccare dal suo luogo, per abbellirne il nostro sogno, e le più
graziose pensate non erano certamente le mie....
--Sì, Lorenzo, ma è impossibile adesso che io vi contenti. Che volete?
Sono pure disgraziata! Ho promesso al conte Alerami.... ho accettato
ch'egli venisse ad accompagnarmi dai Torre Vivaldi; e senza mettere in
conto che io fallirei alle buone creanze verso la Ginevra, il rimanere
a casa sarebbe una vera scortesia, usata, senza una ragione al mondo,
a quel povero conte.
--Quel povero conte! E perchè non dite invece questo povero Lorenzo
che soffre? Oh, maledetto quest'uomo che si pone tra me e la mia
felicità!...--
Matilde, giunta a quel segno, doveva farla finita. Ella s'era alzata
un tratto, per virtù della rimembranza, sulle ali di Lorenzo; ma
l'altezza sterminata del volo la spaventava. Vide da lungi sulla terra
il conte Alerami, bello, guardato e vagheggiato da tutte le donne,
sfolgoreggiante di diamanti, caracollare superbamente sul suo cavallo
arabo, e non seppe tenersi dal sospirare. Si guardò dattorno, e non
vide altro che lo spazio muto e freddo; nè valeva a custodirla
Lorenzo, che la teneva fra le braccia, Lorenzo, il povero giovine
senza speranze, brutto della sua gelosia, e male in arnese per giunta.
Sì, fu questo il pensiero che venne in mente alla bionda contessa:
male in arnese! Matilde ebbe paura di trovarsi lassù, e fece come una
delicata signora che salita in barca rabbrividisce al primo ondeggiare
del legno e grida di voler scendere a terra.
--Ed eccovi da capo con le frasi sonanti!--rispose ella, cogliendo la
palla al balzo.--Il conte Alerami è un cavaliere garbato, e voi
avreste il torto a credere che io....
--Voi lo difendete!--interruppe Lorenzo.--Ma lo costringerò ben io a
cedermi il passo, e se egli si ostinerà ai vostri fianchi, tanto
peggio per lui; lo ucciderò.
--Signor Lorenzo, finiamola! Voi non sapete quello che vi diciate,
ora. Perchè dovrei io chiudergli l'uscio di casa mia? Per fargli
capire ch'egli è un uomo pericoloso, e che voi lo temete? In quanto ad
ucciderlo, sarà un'altra faccenda non troppo facile. Voi siete
animoso; ed egli non meno. È schermidore valente, e tutti vi diranno
che con un colpo di pistola coglierebbe in aria una moneta.
--E qualcheduno potrà aggiungere,--rispose Lorenzo rattenendosi a
stento,--che egli si schermisce anche meglio dal pericolo di un
duello....
--Oh, questo, poi!
--Oh, questo, poi, lo so di buon luogo. Egli è vile quanto spavaldo.
Ma a me non fanno senso quei suoi modi da gradasso, e la mano son
certo gli tremerà quando abbia a scendere sul terreno.
--Ma non avete voi detto dianzi,--interruppe la contessa sorridendo
ironicamente,--che egli si schermisce da cosiffatti pericoli?
--Sì,--rispose Lorenzo, senza badare al piglio sarcastico della
contessa,--quando abbia da fare co' dolci di sale, e possa dar loro a
credere ch'egli è un uomo generoso; ma io lo trascinerò pe' capegli,
il conte Alerami, e gli dirò la gran parola che lo metta a segno per
sempre.... Avventuriere!--
La contessa Cisneri si alzò dalla poltrona, e guardando Lorenzo dal
capo alle piante, gli disse con voce sottile ma ferma:
--Voi insultate un uomo che io accolgo in casa mia!--Se la nostra
lingua italiana consentisse l'uso di certe metafore, diremmo che
quella voce sottile ma ferma della contessa Cisneri poteva
rassomigliarsi ad una lama di pugnale, che appare così fine, e va
diritta nelle carni; che fa un buco da nulla, e tuttavia vi s'immerge
nel cuore.
Intanto per Lorenzo Salvani le parole di Matilde furono come una
trafittura, e il primo atto del giovine fu quello di recarsi una mano
sul cuore, come se appunto colà fosse andato a ferire il dispregio
della bionda signora, che stava ritta in piedi dinanzi a lui,
guardandolo con piglio sdegnoso.
Egli tuttavia non disse parola. L'assalto era stato così repentino e
violento, che egli non seppe che cosa rispondere. A volte anco il
silenzio è sublime, e Lorenzo fu sublime tacendo, in quella che
guardava la contessa con aria di doloroso stupore.
--Signor Salvani,--proseguì la contessa,--siete voi dunque disceso
così in basso, da calunniare i gentiluomini che vi danno molestia?--
Lorenzo impallidì a quella seconda percossa; quindi per naturale
contrasto, gli divampò il volto, all'improvviso rifluire del sangue
alle tempia. Si cacciò una mano ne' capelli, e strinse così forte,
come se volesse strapparseli.
--Calunniare! calunniare!--ripetè egli con una terribile progressione
di accento.--Oh, voi lo amate, signora.... Voi lo amate! Adesso vi
porreste invano a negarlo.--
Matilde rispose crollando le spalle, e stringendo le labbra; quindi si
mosse per andare allo specchio.
Era quello uno stato di cose difficilissimo per ambedue. Lorenzo aveva
già posto mano al cappello per andarsene, quando si udì il fruscio
d'una veste, e subito dopo un batter di nocche sull'uscio.
--Avanti!--disse la contessa, rivolgendosi da quel lato. L'uscio si
aperse, ed entrò la cameriera ad annunziare l'arrivo del conte Alerami
col marchese De' Carli.
--Ah! lo sapeva che non sarebbero stati molto a giungere!--esclamò la
contessa.--Signore, eccovi dunque contento! Il marchese De' Carli è la
lingua più lunga di tutta Genova, e si piglierà certamente una satolla
de' fatti miei.
--Signora,--rispose Lorenzo, facendo ogni sua possa per
rattenersi,--perdonatemi! Me ne andrò.
--Sì, ve ne andrete adesso, perchè vi vedano uscire, e tutti abbiano a
risapere che eravate qui solo nel mio spogliatoio.--
Il giovine Salvani chinò gli occhi, e si morse le labbra, per non
rispondere altro.
--Che cosa avete detto a que' signori?--chiese la contessa a Cecchina.
--Ho detto che la contessa non aveva anche potuto por mano a vestirsi.
--Sta bene. Andate, e fateli entrar qui. E voi intanto, signore,
sedetevi e ricomponetevi.
--Non temete, signora!--rispose Lorenzo con piglio modestamente
contegnoso;--i miei occhi si sono rasciugati, e spero non avrete ad
arrossire più oltre per cagion mia.
--Tanto meglio!--soggiunse la contessa, e andò per sedersi allo
specchio; ma poi, pensando che quella positura avrebbe potuto parere
studiata, corse al sofà dov'era già seduto Lorenzo, col suo cappello
in mano, e gli si pose daccanto, in atto di chi prosegue un discorso.
In quel punto entrarono i due signori annunziati da Cecchina, l'uno il
conte Alerami, che i lettori conoscono per quel tanto che ne abbiamo
già detto, l'altro il marchese De' Carli, un vecchio sui sessanta, o
in quel torno, tutt'e due in falda e coi guanti paglierini.
--Ah! ah!--esclamò il marchese, che rideva sgangheratamente ad ogni
tratto, e tartagliava per giunta;--entriamo dunque nel santuario?
--Sì, per l'appunto; entrate, Onofrio,--gridò allegramente la
contessa,--e non vi spaventate, per carità, se troverete la dea
vestita ancora da casa. Stavo qui domandando il parere del signor
Salvani sull'abbigliatura che debbo indossare; ma egli non ha voluto
dirmi nulla; di guisa che pregavo il cielo che mi mandasse qualche
buon consigliere. Ed ecco, capitate voi, che siete il buon gusto
incarnato.--
La scaltrita contessa voleva con tutti que' vezzi accattarsi la
benevolenza del vecchio marchese, e la sua perorazione era tale da
farlo andare in brodo di succiole.
Era un ridevole personaggio, quel marchese Onofrio De' Carli, o
marchese Tartaglia, come gli si diceva alle spalle da certi burloni.
Da giovine aveva fatto il vagheggino, e perseverava ancora, come se
gli anni non fossero venuti. Si tingeva baffi e capegli, avendone
l'aria di un vecchio Cupido rimpennato e ritinto. Quando parlava, era
necessario tenersi alla larga; se no, con la sua lingua impacciata, vi
schizzava addosso le bollicine di saliva. Sapeva la storia di tutti, e
faceva il gazzettiere nei salotti, dettando anche sonetti e madrigali
per ogni occasione, come un vecchio Arcade. Le signore lo mandavano
ogni tanto a cercare, e tra perchè temevano la sua linguaccia e perchè
si pigliavano spasso de' fatti suoi, non potevano stare un giorno
senza di lui. Questo sapevano tutti, epperò si faceva a chi gli desse
più argutamente la baia intorno alle sue avventure galanti; ed egli a
gongolare, a ridere più sgangheratamente che mai, ed aspergervi della
sua eterna rugiada.
--Il signor Salvani ed io,--disse egli, andando a sedersi nella
poltrona accanto a Matilde,--possiamo darvi ottimi consigli, ma il
vostro specchio ve li darà migliori. Sarete la regina della festa, o
ce ne saranno due. Quella pettinatura, poi, vi sta a meraviglia. A
cavalcioni su que' biondi cernecchi se ne stanno gli amori, saettando
vicini e lontani....
--Basta, basta, Onofrio! Siete un vero diluvio.
--Nel quale la vostra bellezza va incolume come l'Arca.--
E detta quest'arguzia, il marchese Onofrio arrovesciò il capo sulla
spalliera della poltrona, ridendo a crepapelle e sfrombolando l'aria
co' suoi eterni sbruffi.
Lorenzo non aveva ancora aperto bocca. Egli stava rannuvolato
guardando il conte palatino, il quale, dopo aver baciato la mano alla
contessa, si era fatto in disparte, e taceva, come un innamorato in
ufficio.
--Suvvia, non ci perdiamo in chiacchiere!--disse Matilde.--Sarà tardi,
io credo.
--Sono le dieci!--soggiunse l'Alerami, cavando dalla tasca del
panciotto il suo orologio contornato di brillanti.
--Orbene,--proseguì la contessa,--poichè mi avete detto il vostro
parere, andatevene nel salotto, ch'io mi vestirò in fretta.
--Oh, non istate a darvi tanta premura,--disse il marchese.--Purchè
andiamo alle undici, giungerete sempre in tempo, anzi comparirete sul
più bello, come una dea di Omero nel più forte della mischia.
--Benissimo; lasciatemi dunque indossar l'armatura. Se volete
giuocare, aspettandomi....
--Vi obbediremo, contessa;--disse il conte Alerami.--Signor Salvani,
vuole Ella fare una partita?
--Non giuoco, signore.
--Giuocheremo una partita innocente. Appena una piccola posta, tanto
per tener vivo il giuoco.
--Tanto meglio per Lei, signore;--ripigliò Lorenzo con asciutta
cortesia;--la sua borsa non ne patirà danni troppo gravi, nel caso che
il marchese De' Carli fosse il fortunato.--
Matilde, avvedutasi della brutta piega che stava per prendere la
conversazione, si affrettò a soggiungere in quella che volgeva
un'occhiata severa a Lorenzo:
--Il proverbio dice: chi ha fortuna in amor non giuochi a carte.--
Il marchese Onofrio fece un inchino e una risata, per ringraziar la
contessa. Lorenzo, dal canto suo, stette saldo, aspettando che il
conte palatino gli dicesse qualche altra impertinenza. Egli, in fin
de' conti, non aveva fatto altro che respingere, con modi cortesi,
sebbene asciutti, un assalto del suo fortunato rivale.
Ma questi, che si sentiva punto sul vivo dall'accento sarcastico di
Lorenzo, volle aver la rivincita, e rispose con aria burbanzosa:
--A me non fa caso il perdere.
--E nemmeno a me,--disse di rimando Salvani,--fa gran caso sapere se
il giuoco sia innocente, o no. Ogniqualvolta potrò aver la ventura di
giuocare con Lei, non sarà certo la posta che mi metterà in pensiero.
--Ella parla come un Creso, signor Salvani!--rispose l'Alerami,
impaniandosi sempre più.
--Non c'è bisogno d'essere un Creso per parlare come io faccio, e
tutti i tesori del famoso re di Lidia non varrebbero la posta che il
più meschino degli uomini potrebbe giuocare. Ella che è stato in
India, signore--(Lorenzo non diceva mai signor conte)--conoscerà
certamente la posta che mettono talvolta gli Indiani su d'una partita
a scacchi.
--Non la conosco, in fede mia!
--Orbene, la servirò io: si giuocano gli occhi.
--Diamine!--esclamò il marchese Onofrio, che non capiva un'acca di
tutto quel battibecco.
Matilde, pallida, sbigottita, si era accasciata sul sofà, aspettando
la fine di quel dialogo ch'ella s'era inutilmente industriata a
sviare.
--Sicuro, gli occhi!--proseguì Lorenzo, guardando sempre fissò
l'Alerami.--Ad ogni partita che un giuocatore vince, cava un ferruzzo
leggerissimo, e fa con gran maestria saltare un occhio all'avversario.
Ella capirà benissimo che non si possa far più di tre partite, a
questo bel giuoco; e l'ultimo occhio che rimane incolume all'uno dei
due, gli serve per andarsene pe' fatti suoi, dopo avere accompagnato
il perdente fino all'uscio di casa. Ella è dunque avvertita; io soglio
giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre ai suoi
riveriti comandi.
--Eh! chi sa che non me ne venga la voglia!--disse il conte Alerami,
che la rabbia aveva fatto diventar bianco come un cencio lavato.
--Si accomodi, signore! E adesso,--conchiuse Lorenzo volgendosi con un
grazioso sorriso ai muti spettatori di quella scena,--signora
contessa, signor marchese, loro servo divoto!--
Con queste parole si accomiatò, lasciandoli tutti sbalorditi.
Grama vittoria, nondimeno! Il povero Lorenzo si sentiva schiantare il
cuore, uscendo da quella casa, che era stata la culla ed era la tomba
dell'amor suo.
XXIV.
Nel quale si parla di molte stelle del cielo ligustico.
Quella sera il palazzo Vivaldi era magnificamente illuminato. I grandi
finestroni sfolgoreggianti facevano impallidire le scarse fiammelle
del gasse negli scarsi fanali della via Nuova, e gli sfaccendati, i
musoni, stavano a contemplare quello spettacolo, senza sapere il
perchè. I curiosi si stringevano intorno agli sfaccendati; e i
viandanti, rattenuti da quell'ostacolo, intorno ai curiosi; di guisa
che al vedere tutta quella calca di gente, si sarebbe potuto credere
che fosse avvenuto in quel luogo un fatto grave, un alterco, una
rissa, un'uccisione, uno insomma di que' fatti che il giorno appresso
dànno agli strilloni il diritto di assordare le genti.
--Che è? che non è?--Non sapete?--È la gran festa da ballo in casa
Torre Vivaldi.
--Quella sì, è gente per la quale! Guardate che sfoggio di dorature!
Come splendono, attraverso i vetri delle finestre!
--Hanno illuminato tutto il palazzo. Vedete? Anche dalle finestre che
dànno sui vicoli c'è la medesima luce.
--Eh! le cose si fanno, o non si fanno. Ci saranno forse quattrocento
invitati!
--Che quattrocento? Dite pur mille. Io conosco lo scritturale di casa,
e so che le lettere d'invito salgono oltre al migliaio.
--Ve l'avrà data a bere, lo scritturale. O come volete che ci
capiscano mille persone là entro?
--Che sfarzo da principi! Già, costoro vogliono andare a finir male
con tanto lusso....
--Finir male! Siete pazzo? O non sapete che ci hanno dai dodici ai
quattordici milioni, senza contare i quadri, e quei due leoni di marmo
nella scala, che non hanno voluto vendere a un Inglese per cinquecento
mila lire?
--Ah! ah? bella, la storia dell'Inglese!
--O che? non lo credete?
--Sì, credo tutto, ma so ancora che a Genova, dovunque c'è un
capolavoro, c'è pure la sua brava leggenda dell'Inglese che voleva
comprarlo a peso d'oro.
--Sia come vi garba; intanto è sicuro che ci hanno molti milioni.
--Oh, non lo nego. Ma poichè sono ricchi sfondati, dovrebbero pensare
anche un tantino ai poveri.
--Ai poveri? Oh, non aspettano consigli, per pensarci, e si conta che
facciano per centomila lire di limosine all'anno, oltre le opere pie
nelle quali hanno mano.
--Davvero?
--Certo; sono gran signori, e amici della povera gente. Avrebbero ad
essere otto o dieci di quella fatta, in Genova, e la vedreste cambiare
dal nero al bianco.
--O dal bianco al nero!--soggiungeva un altro.
--E perchè dice questo, Lei? Non le par forse che io dica la verità?
--Dio me ne guardi! Ma chi le distribuisce, tutte queste limosine?
--Oh, fior di galantuomini; ottimi ecclesiastici, ed altre religiose
persone.
--Sta bene; ma sono accorte egualmente?
--Come sarebbe a dire?
--Che la limosina fatta alla cieca, non è altro che uno sfoggio
superbo, epperò avvilisce l'uomo, senza migliorarne lo stato. Oltre di
che, mentre se la spartiscono i raccomandati, la vedova muore di fame
con la sua figliuola, dopo avere inutilmente bussato all'uscio
signorile, e l'onesto bracciante è cacciato dalla casupola perchè non
ha pagato la pigione, e non ha lisciato acconciamente il fattore di
Sua Eccellenza.
--Sarà; ma intanto dove mi trova Ella un uomo che spenda centomila
lire in elemosine, come il marchese Antoniotto?
--Eh, non dico già questo per levargli il merito. Alla stretta dei
conti son sempre uomini commendevoli, e degni, d'esser fatti
consiglieri e sindaci della città.
--Ahi questa che Ella dice è una gran verità! Costoro almeno
amministrerebbero a dovere il danaro del comune, e non ci sarebbe
risico....
--Certo!--soggiungeva un altro.--Non ci sarebbe risico che rubassero
essi, ma che lasciassero rubare gli altri. A costoro basterebbe di
poter fare i prepotenti.
--Ohi ecco un'altra carrozza. Chi è quella signora che scende?
--È la marchesa Pellegrina Bracelli. Bella donna a' suoi tempi! Adesso
sua figlia è più bella di lei.
--Che novità! E probabilmente tra cento anni saranno morte ambedue.
--L'ha da essere una festa, ma di quelle!--diceva un altro.--Questa
gente si ricorda d'essere sangue di dogi.
--Ci sono stati dei dogi nella casata Vivaldi?
--Nella casata Vivaldi, e anche in quella dei Torre.
--Peccato che non ne nascono più, dei dogi!
--Ma! è davvero un peccato. Essi valevano assai più dei vostri
__governatori e intendenti__ moderni.
--Oh, qui poi ci avete ragioni da vendere. Quando non ci fosse altro,
basterebbe notare che erano animali domestici.
Erano questi i discorsi che la gente faceva sulla via.
Il popolo genovese è pieno di questi capi ameni, i quali si dànno
pensiero d'ogni cosa, pel solo ed unico gusto di disputare; ciceroni
da dozzina e curiosi di ogni risma, i quali sanno tutte le minuzie del
passato, frugano tutte quelle del presente e vorrebbero anche
indovinar quelle del futuro; la più parte avventori costanti del
__caffè della Liguria__, in via Luccoli, o del __caffè di Napoli__ in
Soziglia; filosofi peripatetici dei portici del Teatro; speculatori
del bel tempo sulle mura delle Grazie; uditori attentissimi alla Corte
d'Assise, e alle parlate del Consiglio comunale.
Intanto giungevano le carrozze stemmate, e, mandando un po' indietro
la calca dei curiosi, si fermavano dinanzi al portone. Lo staffiere
saltava giù da cassetto, apriva lo sportello, e, col cappello
gallonato in mano, distendeva i gradini ripiegati dello smontatoio. Il
cavaliere scendeva sollecito, e porgeva la mano alla dama, che, tutta
ravvolta nella sua mantellina, non lasciava veder altro che
l'acconciatura del capo e la noce del piede.
Era già molto pei riguardanti, se il viso era bello, sottile il
piedino e ben tornito il fùsolo.
--È la tale!--No, è la tal altra!--E lì commenti, aneddoti, vita e
miracoli della signora che passava.
La carrozza della nobile Ottavia Scotti, vedova Belmosti, si fermò a
sua volta, e ne scese la vecchia dama, con Matilde Cisneri, il
marchese De' Carli e il conte Alerami.
Il lettore ricorderà che nei primi cenni intorno alla bionda contessa,
abbiamo parlato d'una sua vecchia amica, la quale, non sapendo
staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata
bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto. Era costei la
Belmosti, ottima donna in fin dei conti, la quale con la sua
nobilissima compagnia dava assai più che non ricevesse da altri. E la
Cisneri lo sapeva benissimo, che, la mercè della sua vecchia amica,
cugina del marchese Antoniotto dal lato materno, era stata invitata
alla festa dai Torre Vivaldi.
Il nostro conte palatino si affrettò, con savio accorgimento, ad
offrire il braccio alla nobile Ottavia. Il marchese Tartaglia si
dinoccolò per offrire il suo alla Matilde, e tutti e quattro, gloriosi
e trionfanti, salirono le scale.
Lorenzo Salvani, nascosto nella folla, ebbe agio di vedere tutta la
scena e udire per giunta le chiacchiere degli sfaccendati, che
tagliavano i panni addosso a quelle nobili persone.
Colla falda del cappello aggrondata sugli occhi, il colletto del
pastrano alzato fino all'orecchio, egli era andato ad appostarsi colà,
per vedere anche una volta la bella Matilde. Ultimo guizzo d'una
lucerna che si spegne, ultima ubbìa d'un povero amante lasciato in
asso!
Il cuore gli si strinse, quando vide Matilde, saltar leggiera e
contenta dallo smontatoio sulla soglia del portico; gli occhi
mandarono lampi, quando scorse l'Alerami.
--Domani;--borbottò egli tra sè.--Domani, se non siete un
codardo....--
Matilde era sparita col marchese De' Carli, e Lorenzo vide ancora la
vecchia gentildonna che le teneva dietro, appoggiata al braccio del
conte palatino.
Su per le scale marmoree del palazzo Vivaldi era una luce vivissima.
Numerosi servi in livrea e guanti bianchi stavano nella sala
d'ingresso, che era pittorescamente ornata di fiori e piante
tropicali, come le stufe dei nostri giardini.
Di là s'entrava in una fila di sale stupende, le quali giravano tutto
intorno il piano nobile del palazzo, ricche delle tele, degli
affreschi e degli ornati dei più famosi artisti.
Quelle sale, giusta l'antico costume dei signori italiani, portavano
il nome delle divinità pagane che la fantasia del pittore aveva
effigiate nella volta. Epperò in quella sontuosa dimora dei Vivaldi si
notava il salotto di Cerere, dell'Aurora, di Diana, delle Muse e di
Flora; divinità tutte rappresentate in altrettanti medaglioni a buon
fresco, e accompagnate dai loro emblemi; storie particolari e scene
simboliche negli altri scompartimenti e lunetti della sala.
Per tal modo gl'intendenti di cose artistiche potevano ammirare le
opere del Semino, del Carlone, del Tavarone e d'altri buoni frescanti
della scuola genovese, le quadrature dell'Adrovandini, le prospettive
degli Haffner, e gli ornati recenti condotti con finissimo gusto e
accortamente disposati alle antiche dipinture dal nostro valoroso
Michele Canzio.
Che diremo noi delle tele d'ogni misura, le quali arricchivano quelle
magnifiche sale? Erano dipinti del Caracci, dell'Albano e del Rubens,
battaglie del Bourguignon e di Salvator Rosa, madonne del Dolci,
ritratti di Tiziano, di Paris Bordone e del Vandyck. In un salottino,
che era il pensatoio della marchesa Ginevra (diciamo italianamente
pensatoio il francese __boudoir__, che ha una etimologia meno cortese)
regnava solitaria ma splendida una Danae di Guido Reni, la quale
aspettava la pioggia d'oro, e faceva sospirare tutti coloro che non si
sentivano da tanto di contenderla a Giove. Alla luce dei doppieri i
capegli d'oro e gli occhi desiosi della bella prigioniera
sfavillavano; il molleggiare delle carni dava immagine di donna viva,
e quella bianca cortina che di consueto nascondeva il quadro, tirata
discretamente sui lati, faceva credere al riguardante che egli fosse
davvero il furtivo testimone dei voluttuosi segreti di un'alcova
pagana.
Le modanature d'oro, gli affreschi, gli ornati, le tele, gli arazzi
antichi, insuperbivano le sale del palazzo Vivaldi, e tanto più
degnamente in quanto che la luce, in ogni parte profusa, faceva
risplendere ogni cosa in apparenza di freschezza e di novità. Le
grandi masserizie mirabilmente intagliate e indorate con recente
accuratezza, le tavole incrostate di marmi preziosi, i velluti di
Utrecht orlati di frange e nappe d'oro, i damaschi azzurrini, rossi e
gialli, i tappeti storiati, le larghe cortine rabescate, tutto
attestava l'opera dei secoli più largamente magnifici; e tutto del
pari era fresco, rilucente, sfolgoreggiante, come se tutti gli
artefici che avevano arricchito il palazzo Vivaldi delle opere loro,
avessero dato l'ultima mano ad ogni cosa il giorno innanzi la festa.
Mirabile su tutti gli altri era il salone di Flora, dove si facevano
le danze. Quel salone che, se i lettori rammentano, non si illuminava
se non nelle grandi occasioni, risplendeva per le opere di Pierin del
Vaga, discepolo di Raffaello, che vi aveva fatto prova del suo
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