Gli eretici d'Italia, vol. III - 70

l'irreligione, cioè la progressiva propagazione della scienza che si
sostituisca alle favole del culto e alle contraddizioni fatali della
metafisica» (_Della Federazione Italiana_).
A queste idee, manifestate esplicitamente nella _Federazione
repubblicana_ e nella _Filosofia della Rivoluzione_, come d'uomo che
«con rara profondità annienta i sistemi vani ed assurdi della metafisica
teologica, e stabilisce i veri principj del naturalismo razionale»
applaude il curato Cristoforo Bonavino da Pegli[591], del quale, come
già femmo dell'Ochino, del Vergerio, di altri, riferiremo la conversione
colle parole sue stesse nella _Filosofia delle scuole italiane_:
«Le opinioni che oggi professo non sono quelle a cui venni educato: nè
però si possono attribuire alla forza delle abitudini, o all'effetto di
pregiudizj. Ho passato l'adolescenza e la gioventù sotto la disciplina
del collegio, o del seminario, la quale trovò sempre in me un allievo
non solo docile, ma affezionato e devoto fino allo scrupolo ed alla
passione. I miei poveri studj di letteratura, di filosofia, e di
teologia non uscirono mai dal cerchio della più pura e gelosa ortodossia
romana; i miei prediletti maestri furono i santi, e in capo a tutti
Tommaso d'Aquino e Alfonso de' Liguori. Due soli affetti governarono
quel periodo della mia vita; lo studio e la pietà: e fino all'età di
ventitrè anni, in cui venni ordinato sacerdote, io non ebbi altra
occupazione, non gustai altro piacere che la lettura e la preghiera.
Dirò tutto in una parola; se non era la prudente fermezza di un padre
amatissimo, io sarei entrato, come avea già meco stesso risoluto, nella
Compagnia di Gesù, unico instituto dove mi parea più facile di poter
saziare la mia brama di sapere con lo studio, e il mio zelo di faticare
per Dio colle missioni. Così la primavera della mia vita non conobbe
altre gioje che quelle del sacrifizio e del terrore, e non assaggiò
altre delizie che quelle dell'orazione e della penitenza. La mia fede
avea serbato tutta la semplicità, il candore e l'abbandono
dell'infanzia; e sol chi ne ha fatto in sè medesimo l'esperienza può
intendere quella misteriosa condizione di un cuore, che a forza di virtù
smarrisce la coscienza, per fervore di pietà rinega la ragione, e per
amor di Dio volontariamente delira! Ma il sacerdozio fu per me l'alba di
una nuova esistenza; e il primo raggio di luce mi balenò alla mente dal
confessionale.»
«Al primo contatto dell'anima mia con la realtà della vita umana; a
quella storia di miserie e di dolori, che l'uomo e la donna del popolo
venivano a deporre piangendo, tremando, nel mio seno, io cominciai a
sentire una repugnanza fra la dottrina morale delle scuole, e la voce
intima delle coscienze. Indi i primi assalti del dubbio. A tranquillare
l'animo mio ripresi adunque lo studio e l'esame de' principi teologici
che io avea tenuto sempre in conto di verità eterne ed assolute. Allora
per la prima volta io m'avvidi che i miei studi erano stati diretti, non
dallo spirito della verità ma da quello di setta; e quando io credeva di
averli compiti, m'accôrsi ch'era tempo e faceva mestieri ricominciarli.
Non esitai un istante. Un nuovo mondo, ancora in confuso, mi s'apriva
allo sguardo; ed un segreto presentimento m'avvertiva, che dietro alle
quistioni sulla morale gesuitica sorgevano altre quistioni ben più gravi
ed importanti, e sotto i casi di coscienza celavasi tutto il sistema
della religione, della scienza, della società e della vita. E non esitai
un istante. Quasi per istinto giudicai che la via, per cui mi
incamminava, non poteva essere di quelle che guidano agli impieghi, agli
onori; ed io incontanente di buon grado rinunciai a quelli che m'erano
stati già conferiti; fermai tra me stesso di tenermi in una condizione
affatto privata e indipendente...»
«Ripigliai pertanto il corso de' miei studj; e dalla morale dovetti
bentosto passare alla dogmatica; indi alla storia, e di mano mano alla
letteratura, alla pedagogia, alla filosofia, alla politica. Questo
lavoro, che produsse una rivoluzione profonda e incancellabile in tutto
l'essere mio, fu da prima una lotta tremenda contro me stesso, contro le
credenze succhiate dal materno seno e attinte da venerato labbro, contro
gl'insegnamenti della scuola, contro gli anatemi della Chiesa, contro i
solismi dell'amor proprio, contro le seduzioni della paura, lotta che
costò lagrime di sangue al mio cuore, il quale la intraprese, la
sostenne, la vinse da se solo, nel segreto della coscienza, senz'altro
testimonio, consigliere o giudice che Dio; lotta, che ogni giorno ad una
ad una mi strappava dall'anima quelle convinzioni, ch'io avea sinora
professato con tutto l'entusiasmo d'una fede pura ed illibata, a cui per
voto avea consacrato il fiore della mia giovinezza, in cui avea riposto
le delizie più care, le illusioni più nobili, le speranze più dolci
della mia vita.
«Ma dopo aver esaminato le dottrine delle varie scuole cattoliche, mi
son rivolto ai principj dei Giansenisti; poi ho consultato i sistemi dei
Protestanti, interrogato la filosofia del secolo scorso, ponderato i
lavori della critica moderna intorno ai simboli religiosi; e la prima
conclusione certa, inconcussa, irrepugnabile, in cui la mente mia trovò
il suo punto d'appoggio, fu questa, che il criterio supremo d'ogni
verità risiede nella ragione. Stabilito questo principio, la mia
emancipazione intellettuale e morale fu compiuta. Con esso pervenni
immediatamente alla negazione di ogni ordine sovranaturale, d'ogni
teologia positiva, d'ogni autorità teocratica, d'ogni rivelazione
divina; esso mi scoprì la legge universale di progresso perpetuo e di
transformazione successiva, che dirige la vita del mondo fisico e
morale, degli esseri e delle idee, della natura, e della scienza, della
civiltà e della religione; e in esso rinvenni quell'armonia
dell'intelletto col cuore, che indarno io avea cercato in qualunque
altro sistema. Quindi riebbi la pace dell'anima, pace profonda e
imperturbabile, che deriva dalla libera contemplazione del vero, dal
sentimento della dignità umana dalla conoscenza comechè imperfetta delle
leggi dell'universo e dell'umanità, dall'amore disinteressato del bene,
dal rispetto spontaneo degli altrui diritti, dall'osservanza volonterosa
de' proprj doveri. Così ho sperimentato in me stesso e la vantata
felicità del credente, e la pretesa disperazione dell'incredulo; ho
provato le consolazioni, e le dolcezze, che ne procura il misticismo, e
la filosofia, la Chiesa e l'umanità; E se per giungere a questa meta ho
dovuto soffrire, di chi è la colpa? Non è tutta di coloro che pervertono
l'intelletto co' pregiudizj, e la coscienza colle superstizioni? Di
coloro che sconvolgono la fantasia con lo spettro del demonio e
dell'inferno? Di coloro che presentano il dubbio come un delitto, e
l'uso della ragione come un sacrilegio? Di coloro che hanno gettato la
nostra società in tale abisso di fanatismo e d'ipocrisia, che altri non
possa esprimere le sue opinioni, comunicarle a' suoi amici, discuterle,
professarle, senza porre a repentaglio l'onore, il credito, l'officio,
la sicurezza, la sussistenza di sè e de' suoi cari?[592]»
Parole simili avevamo udite dal Geoffroy quando diceva non poter
sopportare l'incertezza sull'enigma della destinazione umana, e
mancandogli la fede per risolverlo, aver cercato la luce della ragione
per declinarlo. Come meglio potrebbesi rivelare il desiderio sterile di
trovar la certezza, partendo dall'incredulità? E a tal punto si trovano
gl'increduli intelligenti, che per ciò desiderano la disputa coi
Cattolici, locchè non avviene a chi tiene una fede solida e assoluta, nè
al pio che s'allieta quando gli è detto, _Riposiamo nella casa del
Signore_[593].
Il Bonavino, adottato il pseudonimo di Ausonio Franchi e irato alla
Chiesa che abbandonò, combatte «la filosofia che educa ancora al sofisma
e all'assurdo la gioventù delle scuole italiane, e la religione che
ancor mantiene in servaggio i popoli del secolo XIX»; confuta la
teologia positiva; dissuade dall'indietreggiare fino a Lutero, e
dall'accettare la Bibbia e l'assurdo dei misteri e il culto d'un Dio
incarnato: la teorica d'un Dio personale e creatore esser infetta
d'antropomorfismo e contraddizioni, nè potersi di Dio avere alcun
concetto razionale; donde resta provato che la religione nostra è falsa,
e il cattolicismo è contrario ad ogni libertà, ed ormai non è tenuto che
da pochissimi[594]: poli delle nazioni moderne sono la scienza e la
libertà, le quali non può l'Italia acquistare se non rinunziando alle
idee filosofiche e religiose del medioevo: ond'egli, come l'antico
Lucrezio, s'accinge a «svincolar gli animi dal giogo d'una fede cieca,
immobile, misteriosa», per trarli alla «ragione, unico criterio del
vero».
Negato ogni ordine sopranaturale, ogni autorità teocratica, mette come
legge universale il continuo progresso e la successiva trasformazione.
Il Dio d'un'epoca è sempre falso per rispetto ad un'altra più colta. —
Dio del secolo nostro è la scienza. — Dio non lo pensiamo in quanto
esiste, ma esiste in quanto lo pensiamo. — Il Dio di ciascuno è la
personificazione del proprio ideale: onde tutte le variazioni che
succedono in questo avvengono in quello. — Dio, providenza, natura è
tutt'uno. — Nelle credenze occorre un'affermazione, ma è affermazione di
una possibilità, non d'una realtà. — Sarebbe tempo di finirla con tante
pie favole circa la natura di Dio, le sue persone, le sue idee, i suoi
amori, i suoi voleri, i suoi atti. Il criticismo ha dimostrato che le
essenze e le sostanze ci sono affatto sconosciute e inconoscibili. Gli
uomini civili del secolo XIX non sono disposti a credere se non quello
che intendono. — De' suoi futuri destini l'uomo non ha, e non può avere
alcuna conoscenza certa e positiva: la vita avvenire, agli occhi della
ragione, è un vago presentimento, un'aspirazione ideale, una certezza
istintiva, ma non una teoria[595]. «Quel desiderio che per se stesso vi
pare disordine e tormento, è insomma il carattere più nobile e sublime
dell'uomo: giacchè, se gli togliete l'aspirazione all'infinito, voi lo
disgradate, distruggete l'uomo per farne un bruto. Lo stimolo incessante
di un bisogno che non sarà mai appagato ed estinto, è ciò che
costituisce la vera grandezza e dignità dell'uomo ciò che lo rende
educabile, perfettibile e progressivo senza fine».
E poichè può far senza della religione chi riesca a contenere la propria
ragione dentro i limiti precisi della conoscenza scientifica, e
interdica a se stesso ogni ricerca, ogni aspirazione ulteriore, vuole
che gli Italiani siano «onesti senza temer inferno o sperare paradiso,
generosi senza essere nè cattolici, nè cristiani, nè ebrei».
Calcando le orme di Ausonio Franchi, «suo generoso amico ed insigne
maestro... inesorabile ed irresistibile critico», il Lazzarini trova
strano che l'anima, conservando le sue condizioni di ente finito e
personale dopo la morte, possa godere o soffrire in Dio ch'è infinito.
Riconoscendo che «il razionalismo teorico si argomenta di abbattere ogni
tempio, di estirpare ogni culto, predica la religione della natura e la
scienza dell'umanità; esorta la fede a non ispirare nei petti umani che
virtù cittadine del mondo: perchè sdegna conservare e correggere, e
tende implacato a sconvolgere e distruggere», egli si astiene «da ogni
discussione circa la convenienza di un tal programma». Pur confessa che
si lascia indietro mille miglia la teorica della ragion pura, la
filosofia gallo-eccletica, la teologia dogmatico-razionale, il sistema
dell'umana infallibilità. Secondo lui, non è vero che il fatalismo
induca gli animi all'apatia ed all'inazione. L'idea del libero arbitrio
è l'idea d'un potere che non ha nè può aver limiti: ove pertanto
esistesse nell'uomo questa _esecrabile_ strapotenza, egli rimarrebbe
sempre tal quale sarebbe nato, impassibile, inalterabile. Costui confida
nel progresso civile, e ha «salda speranza che due religioni debbano
costituirsi amiche, l'una terrestre e l'altra celeste». Io nol giudico
perchè non lo capisco.
Nè sono a tacere i fisiologi e naturalisti. Cabanis, trasformando anche
la politica in fisiologia, introdusse la parola razza, così poco
precisa, e che divide i popoli nell'egoismo, invece di unirli nella
giustizia e nell'incivilimento. Da noi il Gioja, il Lallebasque,
Pasquale Borelli, e pochi altri teorizzarono la filosofia della materia
con dottrine che si scusano sol perchè furono seguìte da ben peggiori.
Perocchè dappoi affinato l'ingegno ad escludere Dio dalla creazione, si
suppose una primitiva molecola o cellula che per un'«agglutinazione
continuata migliaja di migliaja di secoli», diventa natura, poi uomo,
poi Dio: è la scimmia che progredì in uomo, come l'uomo progredirà in
animale più perfetto: oggi medesimo la materia organica può
animalizzarsi. Anima è un nome che anatomicamente esprime il complesso
delle facoltà del cervello e del midollo spinale; fisiologicamente, il
complesso delle funzioni della sensibilità encefalica, cioè la
percezione degli oggetti sì esterni che interni; la somma de' bisogni e
delle tendenze che servono a conservar l'individuo e la specie, e a
metterlo in relazione cogli altri esseri; e le facoltà che compongono
l'intelletto e la volontà; il potere di muover il sistema muscolare, e
d'operar per esso sul mondo esteriore. Nelle nostre Università
Moleschott insegna «il pensiero, la volontà, le azioni dell'uomo essere
nell'animale un prodotto della naturale necessità»[596]. Così il
materialismo s'insinua anche nella scienza che più s'accosta ai dolori
dell'umanità, e procede fino alle conseguenze che l'ignoranza vorrebbe
trarre dall'uomo fossile e dalle abitazioni lacustri.
Queste dottrine dicono i dotti esser rattacconature di antiche o plagio
di straniere; dicono i savj che, mentre mirano a far una rivoluzione,
non arrivano che a fare uno scandalo; dicono gli artisti ch'è prodigiosa
fatuità l'emettere con pretenziosa serietà idee assurde e stantie. Certo
è orgoglio, cioè la meno filosofica delle passioni, il dire «Non è
possibile la tal cosa perchè io non la intendo». O forse non s'appoggia
a un atto di fede anche la vita intellettuale? e nello stesso ordine
naturale si può dimostrare la veracità dell'intelligenza altrimenti che
per l'intelligenza? Bensì è comodo quanto facile il sottomettersi solo
al proprio talento, credere unico Dio l'uomo, unica potenza il numero,
unica legge l'istinto, unico intento il godere finchè si può, e
nell'accidia e nella voluttà stordirsi finchè il corpo si dissolva ne'
chimici componenti.
Questi scrittori noi vorremmo poter combattere senza ferirli; tanto ci
cale della concordia e di dar l'esempio d'un rispetto di cui non
attendiamo il ricambio. Ma potremmo non indicarli ai nostri lettori?
Soffogarli nella cospirazione del silenzio, come essi fanno di noi, non
è possibile, giacchè quel ch'è mostruoso, che esce dalle leggi normali,
dal senso comune eccita naturalmente l'attenzione e attira gli animi; nè
di loro può dirsi, «Perdona perchè non san quel che fanno». Ma qualvolta
alcuno toglie a combatterli, ecco gridarsi alle ingiurie ortodosse, al
fiele teologico, alle intolleranze bigotte. La carità non deve giungere
sino alla pusillanimità; può unire i simili, non i contrarj. Il filare
ragionamenti, accumulare autorità e testi come ci rinfacciano, non è
pieno nostro diritto? È possibile rimaner indifferenti quando si ode
bestemmiar Cristo e Maria, e ciò che più venerarono i secoli e nostra
madre, dichiarar assurdo ciò che credettero tanti sommi ingegni prima
del regno d'Italia? E noi, per quanto ignoranti, abbiamo lume di
ragione: e mentre essi pel _disprezzo trascendentale_[597] affettano di
non guardar i libri nostri, noi studiamo i loro: e noi che apparteniamo
ai 40 anni dacchè la storia fu creata[598], come gli Spartani sull'Ilota
facciamo esercizj sulla critica, allo studio e alla pratica della quale,
cioè al veder co' proprj occhi e pensar col proprio capo, richiamiamo
incessantemente coloro, il cui ebetismo non ci pare ancora divenuto
cronico, gl'invitiamo a ricuperare quel pane quotidiano dell'anima che è
la verità. D'altra parte se, giusta le loro teoriche, un'asserzione non
è più falsa che la sua opposta, perchè vengono sì da lontano a
insegnarcele? se è indifferente l'adorar nel sacramento Iddio o un pezzo
di pane, tollerino che noi crediamo e affermiamo le nostre dottrine, e
che veneriamo la ragione come una forza, la quale cerca l'unità, sia
quella che consiste nei fenomeni della sostanza, sia quella che sta
nell'armonia, cioè la gerarchia.
Si dice, «Son pochi questi dottori». Sì: pochi, ma rumorosi, sostenuti,
echeggiati in modo da soffogar i buoni. E se si troverebbe da deplorare
un Governo che non si sente bastante autorità per reprimer le teoriche
immorali, altro sentimento eccita quando vi appone il suggello dello
Stato, quando paga perchè si insegnino nelle Università; cioè costringe
la gioventù, se voglia conseguire i gradi accademici, ad abbeverarsi a
tali fonti. Basti un'occhiata alle prolusioni de' professori, chiamati a
dettare le tante filosofie introdotte dal Mamiani: onde deriva maggior
lode a quei pochi che hanno il coraggio d'affrontare la cospirazione
degli applausi e de' fischi.
Nel che rivelasi di nuovo il carattere del regno d'Italia, la ostentata
nimicizia alla cattolica religione, con quell'ira che, quando non è
forte, quando serve ai dominatori del giorno e ad una popolarità di
bassa lega, diviene accattabrighe, e non attira che sprezzo. Dichiarata
guerra alle istituzioni della Chiesa, e professato volerla affogare nel
fango, non bastando l'opprimere si volle anche corrompere, spingendo
alla licenza e alla deprevazione; poeti e romanzieri insultarono a Dio,
al pudore, alla famiglia, e ottennero denari e decorazioni, applausi e
posti, quasi non dissi gloria. Non occorre dire che si volgarizzano
subito le produzioni più irreligiose degli stranieri, talvolta
aggravandole con note e declamazioni; e non solo il romanzo delle libere
pensatrici, ch'è il Renan, all'ipocrito suo sentimentalismo soggiungendo
grossolanità irritanti; ma fin _la Strega_ di Michelet, «gran parto
dell'umano ingegno», ove si dà colpa alla Chiesa d'aver creato le
fatucchiere.
Deplorabile sintomo di debolezza ne' nostri! Perocchè fra tante
scritture lanciate dal Moretti di Bergamo, dal siciliano Castiglia, dal
veneto De Boni, dal napoletano Petrucelli, dal cremonese Bissolato,...
nessuna forse passò i monti; imitatori o plagiarj di Tedeschi,
d'Inglesi, massime di Francesi, non capeggiamo fra gli eresiarchi, non
possiamo annicchiarci tra le ammirate allucinazioni di Fourrier e
Saint-Simon, nè con Neander, Lachman, Schleiermacher, Credner, Weisse,
Schotten, Köstlin, Strauss, Wieseler, Reuss, Meyer, Holtzmann, nè
tampoco con Pelletan e Quinet; siamo panteisti dietro a Vacherot,
critici dietro a Renan, che ci appunta di far predominare l'idea
politica[599]; positivisti dietro a Taine, Comte e Littrè; razionalisti
dietro Ewald e Baur; socialisti dietro alle sublimi assurdità di
Proudhon. E anche non volendo ripetere coll'iroso Niccolini «Italia
vile, non ha di suo neppur i vizj», dobbiam confessare che non
risplendiamo che di luce crepuscolare, neppur raggiungendo quella
robusta brutalità che soggioga l'intelletto; paghiamo chi vada a
fischiar un predicatore, a rompere i vetri d'un vescovado, a gettar un
petardo in una cappella, non osiamo farlo noi stessi: per servilità ai
Francesi indussero fin gli scolari a sottoscrivere per un monumento a
Voltaire, non si osò erigerne uno al suo predecessore, Pietro Aretino.
Sembra anzi fatale che questi oltraggi alla fede e alla morale non
possano farsi senza oltraggiare e la lingua e l'arte. Scomparsa la
serenità da tutti gli animi, si cerca l'orrido, lo straordinario: in
piani di generale mediocrità, non si trova che trivialità d'idee, di
stile, di distribuzione, che adulazioni alla incurabile snervatezza del
tempo: per quanto i romanzi si condiscano di calunnia, di lubricità, di
scandalo, nessuno ottenne la diffusione dei _Promessi Sposi_ o delle
_Mie prigioni_: non sorgono da costoro quelli che, allorquando la patria
soccombe, sanno ancora amarla e piangerla.
La stupida demolizione è potentemente ajutata dalle società segrete.
Indicammo come sin dal 28 aprile 1738 Clemente XII rivelasse le tendenze
sovversive della massoneria, la condannasse in nome della libertà e
della moralità, e i membri di essa considerasse come «gravemente
sospetti d'eresia». Benedetto XIV, il 16 marzo 1751 ripeteva la
condanna. Ciò non impedì i trionfi della sètta e della rivoluzione,
giacchè è più facile deridere che smentire il Barruel, il quale suprema
parte attribuisce alla massoneria nell'origine e nel procedimento della
rivoluzione. Con questa scese ella trionfante in Italia a gavazzare
nelle repubbliche Cisalpina, Romana, Partenopea. Trasformatesi poi
questi in regni, Napoleone, invece di sopprimerla, pensò farsela
ancella. In Milano già nel 1805 v'avea cinque loggie, adulanti fin nel
nome di _Reale Napoleone_, _Real Giuseppe_, _Eugenio_, _La Concordia_,
_l'Heureuse rencontre_; a Bergamo l'_Unione_, a Verona l'_Oriente
dell'Arena_, a Taranto l'_Amica dell'uomo_...; oltre quelle
dell'esercito, delle quali era granmaestro Giuseppe Lechi. Dal supremo
consiglio di Parigi mandato qui come apostolo, Vidal divenne oratore
della loggia madre di Milano, e blandendo alle passioni e all'opinione,
raccoglieva i più distinti personaggi, e costituì un supremo consiglio
di ispettori generali del 33 grado. Abbiamo a stampe l'_Estratto de'
primi travagli del Grande Oriente in Italia_, in cui viene costituita la
società, e si andò _fastosi_ allorchè Napoleone concesse come gran
commendatore il vicerè: suo luogotenente il Calepio, grandi ispettori il
Felici ministro dell'interno, Costabili, Alessandri, Lechi, Degrasse,
Tilly, Renier, Pyron; gran dignitarj Luosi, Fenaroli, Pignatelli,
Jourdan, Jacob; il pittore Appiani facea da guardasigilli nel capitolo
generale, e v'apparteneano Gioja, Romagnosi, Salfi. Furono poi stampati
nel 1808 e 9 il _Catechismo dei tre gradi_ e _la Costituzione generale
del Grande Oriente in Italia_, francese colla traduzione italiana lurida
di francesismi e di adulazioni al dio d'allora. Le adunanze aprivansi e
chiudevansi al grido «Viva l'imperatore», e nel 1812 ben 1089 loggie
dipendeano dal Grande Oriente di Parigi, coll'entrata di due milioni pel
granmaestro di Francia, ch'era Giuseppe Napoleone, e centomila lire per
Cambacérès suo vicario. Stromento di sorveglianza pel Governo, per gli
ascritti erano mezzi ad acquistare impieghi o legare relazioni, oltre il
sommuovere gli altri Stati, e preparare le vittorie dell'esercito.
Allorchè questo s'avviò verso l'infausta Russia, fu dato per parola
d'ordine _Vittoria e ritorno_ a quella nostra eletta gioventù, che
doveva impinguar delle sue ossa le rive della Beresina e del Reno.
Restaurati gli antichi principi, le loggie si ridussero secretissime, e
appena qualche vestigio ne trapela ai momenti di politici sussulti. Ma
il fatto loro capitale fu il trasformarsi nella carboneria. Questa
nacque, o piuttosto da paesi forestieri fu trapiantata fra i boschi
della Calabria, per opporsi alla smisurata ambizione dei Napoleonidi; e
Murat, spintovi dal ministro Maghella, seppe valersene al concetto che
gli spumeggiava in capo di farsi re indipendente di tutta Italia.
Egli ne rimase vittima; i Carbonari sopravvissero, e si restrinsero in
cospirazione politica, dissimulata sotto le formole di vendita, di
barracca, di carbone, di ceppo, di fornace, di minestra. Sono abbastanza
conosciute le iniziazioni, il catechismo, la coccarda di azzurro, rosso
e nero, e le sceniche apparenze sotto cui celavansi gl'intenti
sovvertitori; perocchè tutta la nostra generazione ne fu partecipe o
martire.
Ancona e Bologna erano centro di quelli degli Stati Pontifizj, che
raccomandavansi per mezzo di carte da giuoco con segni convenzionali; e
che presto cominciarono il terribile giuoco del pugnale. Nel 1817,
credendosi imminente la morte del pontefice, si strinsero i nodi,
moltiplicaronsi scritture contro il governo papale, e accolte e
giuramenti. Il cardinale Consalvi ministro di Stato avvertiva Metternich
della trasformazione: il carbonarismo esser ancora sparpagliato, ma
l'evenienza più vulgare potea riunirlo: nol credesse un vano
sbigottimento da prete: la rivoluzione aver cambiato tattica; e non
assale più a mano armata i troni e gli altari, ma li scalza con calunnie
incessanti; semina odj e diffidenze fra governati e governanti; rende
odiosi gli uni compassionando gli altri: sicchè un giorno le monarchie
più antiche, abbandonate dai loro difensori, si troveranno all'arbitrio
d'alcuni bassi intriganti, ai quali oggi nessuno degna badare. «Il
bisogno di cospirare (soggiungeva) è insito agli Italiani: non bisogna
lasciare naturarsi questa mala inclinazione: se no, fra pochi anni i
principi saranno costretti a rigori; le prigioni o il sangue porranno un
muro fra loro e i sudditi; e si camminerà ad un abisso, che con un poco
di prudenza sarebbe facile evitare».
Prevedeva egli giusto?
Non era però ancora stagione da poter altamente proclamare la nimicizia
alle religioni; anzi la Carboneria assunse una tinta mistica,
proponendosi di vendicar la morte di Cristo; nel simbolo _libertà,
eguaglianza, fratellanza_ del triangolo d'acciajo surrogò all'ultima
parola quella di _umanità_: pure i suoi intenti arcani ci sono rivelati
da questa istruzione data nel 1819.
«Dall'emancipazione dell'Italia deve uscir l'emancipazione del mondo
intero, la repubblica fraterna e l'armonia dell'umanità. I nostri
fratellii d'oltralpe credono che l'Italia non possa cospirare che
nell'ombra, distribuire qualche pugnalata a spie o traditori, e subir
tranquillamente gli avvenimenti che di là dai monti si compiono per
l'Italia, ma senza l'Italia. Errore funesto, che non convien combattere
a frasi, ma svellere coi fatti. E però, tra le cure che agitano
gl'intelletti più vigorosi, una sovrattutto non dobbiamo dimenticare.
«Il papato ebbe in ogni tempo azione decisiva sugli affari d'Italia. Pel
braccio, la voce, la penna, il cuore de' suoi innumerevoli vescovi,
preti, frati, monache, fedeli d'ogni grado, il papato trovò persone
sempre disposte al martirio e all'entusiasmo: dovunque piacciagli, ha
amici che muojono o s'impoveriscono per esso. Leva immensa, di cui
alcuni papi apprezzarono la potenza, ma se ne valsero con una certa
misura. Oggi non si tratta più per noi di ricostituir questo potere, di
prestigio affievolito: nostro intento finale è quello di Voltaire e
della rivoluzione francese, annichilare il cattolicismo e l'idea
cristiana, che, rimasta in piedi sulle ruine di Roma, lo perpetuerebbe.
Per giungervi senza rovesci che ritardino per secoli la riuscita della
buona causa, non bisogna badare ai nebulosi Tedeschi, ai vanitosi
Francesi, ai tristi Inglesi che s'immaginano uccidere il cattolicismo
chi con una canzone oscena, chi con una deduzione illogica, chi con un
grossolano sarcasmo. Il cattolicismo ha vita ben più tenace: ha veduto
nemici più terribili e implacabili; ed ebbe spesso il piacere di
asperger d'acqua santa le loro tombe. Lasciamo dunque che i nostri
fratelli di colà s'abbandonino alle sterili intemperanze del loro zelo
anticattolico; lasciamoli beffarsi delle nostre Madonne e della nostra
esterna devozione: la quale ci sarà di passaporto per cospirare al
nostro intento.
«Il papato è da sedici secoli inerente alla storia d'Italia: l'Italia
non può respirare, non muoversi senza beneplacito del sommo pastore: con
lui essa ha le cento braccia di Briareo; senza lui, ridotta a impotenza
deplorabile, non ha che divisioni da fomentare, rancori rinascenti,
ostilità dall'Alpi all'estremo Apennino. Ciò non possiamo voler noi;
bisogna cercarvi un rimedio, e l'abbiamo. Il papa non verrà mai alle
società segrete: le società segrete facciano il primo passo verso la
Chiesa. Non vi basta un giorno nè un mese o un anno: può volersene
molti, fors'anche un secolo: ma nelle nostre fila il soldato muore, il
combattimento prosegue.
«Guadagnar i papi alla nostra causa, farne proseliti de' nostri
principj, apostoli delle nostre idee sarebbe sogno ridicolo; e comunque