Gli eretici d'Italia, vol. III - 65

sono che de' giornalisti.
Volle anche farsi definitore dogmatico nel famoso catechismo. Già negli
articoli organici soggiunti al concordato, aveva imposto non vi sarebbe
che una sola liturgia, un solo catechismo per tutte le chiese di
Francia. Roma, che ama l'unità, non disgradì questa determinazione.
Napoleone, non volendo allora cozzar subito col papa che l'avea
coronato, incaricò di stenderlo un teologo italiano, addetto alla
legazione del cardinale Caprara: ma avendolo fatto male, l'abate Emery
suggeriva di prender il catechismo di Bossuet, prelato pel quale
Napoleone mostrava la più gran venerazione non per altro se non perchè
pareagli ligio a Luigi XIV. Nella spiegazione del quarto comandamento
del decalogo si era sempre stati contenti d'impor l'obbedienza in
generale; e il catechismo di Bossuet diceva: «Il quarto comandamento
impone di rispettar tutti i superiori, pastori, re, magistrati e altri»,
nè di più avea preteso l'imperioso Luigi XIV. Qui bisognò far un intero
capitolo sopra l'obbedienza dovuta ai principi, poi scendere in
particolare a Napoleone I.
Quel catechismo fu tradotto, ad uso del regno d'Italia, e nella lezione
VII si legge:
_D._ Quali sono i doveri dei Cristiani verso i principi che li
governano, e in particolare i nostri verso Napoleone I, imperatore e re?
_R._ I Cristiani devono ai principi, o noi in particolare dobbiamo a
Napoleone, nostro imperatore e re, l'onore, il rispetto, l'obbedienza,
la fedeltà, _il servizio militare_, i tributi per la conservazione
dell'impero o del suo trono. Inoltre gli dobbiamo fervide preghiere per
la salute sua, e la prosperità spirituale e temporale dello Stato.
_D._ Perchè siam tenuti a questi doveri verso il nostro imperatore e re?
_R._ Primo, perchè Dio, che creò gl'imperi e li distribuisce a volontà,
colmando l'Imperatore di doni in pace e in guerra, lo stabilì nostro
sovrano, lo rese ministro della sua potenza, e _sua immagine in terra.
Onorare e servire il nostro imperatore e re è dunque onorare e servire
Dio stesso_. Secondo, perchè nostro signor Gesù Cristo colla dottrina e
coll'esempio ci insegnò quel che dobbiamo al nostro sovrano: nacque
obbedendo all'editto di Cesare Augusto: pagò l'imposta: e come ordinò di
render a Dio quello che è di Dio, così ordinò di rendere a Cesare quel
che è di Cesare.
_D._ Non vi sono doveri particolari che ci attacchino più fortemente a
Napoleone I, nostro imperatore?
_R._ I doveri che ci legano all'Imperatore, ci legheranno anche ai
successori suoi legittimi, nell'ordine stabilito dalla costituzione
dell'Impero.
Il cardinale Caprara, allora legato pontifizio, non sapeva più
contraddir nulla all'imperatore: e sebbene, allorchè primamente ne fe
motto, il cardinale Consalvi avesse apertamente disapprovato il
catechismo inviato a Roma, e detto che non si poteva imporlo a tutti i
vescovi, e tanto meno conveniva all'autorità secolare arrogarsi una
facoltà, da Gesù Cristo confidata solo alla Chiesa e al suo vicario, il
Caprara tenne celata tale disapprovazione, e il catechismo apparve come
autorizzato dal nunzio nell'agosto 1806, benchè alcuni vescovi
trovassero esorbitante la parte che l'imperatore si assumeva nelle cose
ecclesiastiche.
[523] Lettera 23 aprile 1859 all'abate Perreyre, e del 12 aprile a M.
Rendu nell'opuscolo _l'Italie de 1847 à 1864_, p. 102.
Ai dì nostri due preti in maniera opposta visitarono o giudicarono Roma:
Lamenais e Lacordaire. L'uno come Lutero non seppe vedervi che
ambizione, che intrighi, che sottofini, che coperte vie; e andatovi con
orgoglio, le volgeva lo spalle per divenir apostolo del comunismo e
della ribellione.
L'altro, ravveduto da un'eccessiva ammirazione della ragione, venerava
la rivelazione e i suoi depositarj, pur non lasciando di proclamare
l'associazione della libertà colla Chiesa. E diceva: «Il mondo cerca la
pace e la libertà, ma sulle vie della turbolenza e della servitù. Sola
la Chiesa ne fu la sorgente pel genere umano; sola, nel seno oltraggiato
dai suoi figli ella serba il latte inesauribile. Quando le nazioni
saranno stanche d'essere parricide, colà troveranno il bene ch'esse non
posseggono più. Per ciò il prete non si mescolerà alle quistioni
sanguinose e sterili del suo secolo; pregherà pel presente e per
l'avvenire:... predirà senza stancarsi alle generazioni contemporanee,
che non v'ha pace nè libertà possibile fuor della verità:... ringrazierà
Dio di viver in un tempo, in cui l'ambizione non è più possibile:
comprenderà che, più gli uomini sono agitati, più possente è la pace che
regna sulla fronte e nell'anima del prete; più gli uomini sono
nell'anarchia, più possente è l'unità della Chiesa; più il secolo
profetizza la morte del cristianesimo, più il cristianesimo ne diverrà
glorioso, quando il tempo, fedele all'eternità, avrà spazzato
quell'orgogliosa polvere, la quale non dubita che, per esser qualcosa
nell'avvenire bisogna esser qualcosa nel presente, e che il nulla mena
al nulla. — In fine il prete sarà quel ch'è la Chiesa, inerme, pacifico,
caritatevole, paziente, viaggiatore che passa beneficando, e che non si
meraviglia d'essere mal conosciuto dal tempo, perchè egli non è del
tempo.
«O Roma, siffatta io t'ho vista. Serena fra le tempeste dell'Europa, tu
non avevi alcun dubbio di te stessa, alcuna stanchezza: il tuo sguardo,
rivolto alle quattro plaghe del mondo, seguiva con sublime lucidezza lo
svolgersi degli affari umani nel loro legame coi divini: solo la
tempesta, che ti lasciava calma perchè lo spirito di Dio soffiava in te,
mescolava agli occhi del semplice fedele, men avvezzo alle variazioni
del secolo, qualche compassione alla sua ammirazione... Roma, lo sa Dio,
io non ti sconobbi perchè non vedessi i re prosternati alle tue porte;
ho baciato la tua polvere con una gioja e un rispetto indicibili: tu
m'apparisti qual sei veramente, la benefattrice del genere umano nel
passato, la speranza del suo avvenire, la sola cosa grande che oggi viva
in Europa, la captiva d'una universal gelosia, la regina del mondo».
[524] Quando il Piemonte annullò in Lombardia quel concordato, nella
relazione presentata il 16 ottobre 1860, si diceva: «Quel concordato
segna l'ultimo grado della precipitosa decadenza della casa degli
Absburgo. Nel secolo scorso gl'imperatori di quella famiglia rifiutavano
di riconoscere i diritti dei popoli, ma si mostravano religiosi
osservatori dei doveri dei principi. Erano nemici della libertà, ma
amici della giustizia (sic). Volevano avere sudditi fedeli ed
obbedienti, ma li difendevano contro l'altrui prepotenza, contro le
altrui usurpazioni. Col concordato il gabinetto di Vienna, ripudiando le
tradizioni di Giuseppe II, pose la corona imperiale sotto la protezione
della tiara. Piuttosto che dare la libertà al popolo, il principe si è
fatto schiavo del prete. Si è detto molto contro questo concordato
eppure non si è ancora messo in chiaro tutto ciò che esso contiene
d'iniquo e d'assurdo». _Relazione del Sineo._
[525] _Morale Cattolica_, VII, 5. E altrove dice: «S'usa una strana
ingiustizia con gli apologisti della religione cattolica. Si sarà
prestato un orecchio favorevole a ciò che vien detto contro di essa; e
quando questi si presentano per rispondere, si sentono dire che la loro
causa non è abbastanza interessante, che il mondo ha altro a pensare,
che il tempo delle discussioni teologiche è passato. La nostra causa non
è interessante! Ah! noi abbiamo la prova del contrario nell'avidità con
cui sono sempre state ricevute le objezioni che le sono state fatte. Non
è interessante! e in tutte le quistioni che toccano ciò che l'uomo ha di
più serio e di più intimo, essa si presenta così naturalmente, che è più
facile respingerla che dimenticarla. Non è interessante! e non c'è
secolo in cui essa non abbia monumenti d'una venerazione profonda, d'un
amore prodigioso e d'un odio ardente e infaticabile. Non è interessante!
e il vôto che lascerebbe nel mondo il levarnela è tanto immenso e
orribile, che i più di quelli che non la vogliono per loro, dicono che
conviene lasciarla al popolo, cioè ai nove decimi del genere umano. La
nostra causa non è interessante! e si tratta di decidere se una morale
professata da milioni d'uomini, e proposta a tutti gli uomini, deva
essere abbandonata, o conosciuta meglio, e seguita più e più
fedelmente...
«Parlare di dommi, di diritti, di sacramenti per combattere la fede, si
chiama filosofia; parlarne per difenderla, si chiama entrare in
teologia, voler fare l'ascetico, il predicatore; si pretende che la
discussione prenda allora un carattere meschino e pedantesco. Eppure non
si può difendere la religione, senza discutere le questioni poste da chi
l'accusa, senza mostrare l'importanza e la ragionevolezza di ciò che
forma la sua essenza. Volendo parlare di cristianesimo bisogna pur
risolversi a non lasciar da parte i dommi, i riti, i sacramenti. Che
dico? perchè ci vergogneremo di confessare quelle cose in cui è riposta
la nostra speranza? perchè non renderemo testimonianza nel tempo d'una
gioventù che passa, d'un vigore che ci abbandona, a ciò che invocheremo
nel momento della separazione e del terrore?»
[526] Nota 30 al vol. I.
[527] Ho indelebile nella memoria il calore con cui mi lesse un articolo
di giornale inglese, ove si narrava, e forse esagerava, il prosperare
del cattolicismo in Inghilterra, e la speranza che, mercè de' Puseisti,
quel gran paese tornasse alla nostra unità. Vero è bene che le più
insigni conversioni e forse i più splendidi trionfi della verità
cattolica in questi ultimi tempi intervennero in Inghilterra, nel paese
cioè ove l'uomo opera e ragiona più liberamente. Vedi CAPECELATRO,
_Neuman e la religione cristiana in Inghilterra_. Napoli 1839.
[528] Il cardinale Bernetti, ministro di Stato di Gregorio XVI, che fu
dei più calunniati perchè più aveva intelligenza e volontà, il 4 agosto
1845 scriveva a un amico: «Il papa e il governo cercano rimedio a questi
mali, che crescono senza che si sappia arrestarli. Cose vaghe e
misteriose s'agitano attorno a noi. Il clero è imbevuto d'idee liberali,
prese nel senso peggiore. Gli studj severi sono abbandonati, per quanto
s'incoraggino gli allievi, si ricompensino i professori, si promettano
grazie che il santo padre è sempre disposto a largheggiare. I giovani
s'addestrano alle future loro funzioni, ma non vi mettono gioja e
ambizione, come ne' bei tempi di Roma: poco curano di diventare dotti
teologi, gravi casisti, abili canonisti; son preti, ma aspirano a
diventar uomo, e non credereste qual mescolanza di fede cattolica e di
stravaganza italiana facciano in questa parola d'uomo, che preconizzano
con enfasi buffa. La mano di Dio pesa su noi, umiliamci e preghiamo:
eppure questa perversione umana della gioventù non è quel che più ci
tormenta. Ben più affetta ne è la porzione di clero che, dopo noi,
giunse agli affari, e che ci spinge alla tomba rimproverandoci di campar
troppo. La gioventù è inesperta, sedotta come un novizio scappato al
convento si dà due belle ore di aria e di sole, poi rientra. Cogli
uomini fatti la cosa va ben peggio: la più parte non conoscono le cose
nè l'indole del tempo, e s'abbandonano a suggestioni che produrranno
gravi crisi per la Chiesa. Qualunque persona di cuore o di testa venga
adoprata, è subito esposta alla pubblica maldicenza: mentre
gl'ignoranti, i fiacchi, i codardi sono ipso facto cinti d'un'aureola di
popolarità, che li fa ancor più ridicoli. In Piemonte, in Toscana, nelle
Due Sicilie, nel Lombardo-Veneto lo stesso alito di discordia soffia sul
clero. Di Francia notizie deplorabili; si conculca il passato per
divenir uomini nuovi; lo spirito di sètta surrogasi all'amor del
prossimo, e all'amor di Dio l'orgoglio individuale di talenti mal
applicati. Giorno verrà che queste mine, caricate con polvere
costituzionale e progressiva, scoppieranno; e Dio voglia che io, dopo
viste tante rivoluzioni e tanti disastri, non assista a nuovi guai della
Chiesa».
[529] Il signor Nicomede Bianchi, nella _Storia documentata della
Diplomazia europea in Italia_, vol. III, stampa molte relazioni al
ministero sardo, che spesso sono o basso spionaggio fatto in
istrettissima confidenza, o impudenti censure delle cose di Roma. Ve
n'ha però taluna meno inetta, come quella del Santacroce 14 ottobre
1834, ove deplorati alcuni difetti del governo pontifizio, massime le
soverchie imposte (!) e la poca economia, dice: «V'è chi pensa che
questi mali derivino da perfidi consigli di nemici occulti, che aggirano
i governanti, persuadendoli a smungere i popoli affinchè si levino su in
odio e discordia peggiore... Ad una efficace rinnovazione si oppongono
le opinioni dei vecchi, le gelosie di privilegi e l'autorità che
esercita un personaggio degnissimo, il quale, dopo tanti avvenimenti,
non apprese ancora esser cangiati i tempi: aver la Chiesa, che fu sempre
immutabile ne' retti principj, usata una maravigliosa prudenza nello
stringere e rallentare il freno del puro dominio secolare, e le
istituzioni del governo ecclesiastico apparir nate di tempo in tempo,
quando l'utilità e il bisogno lo richiedevano. Dal che si può giudicare,
che i sapientissimi antichi non temettero di aggiungervi ad ora ad ora
varie novità, e che nei tempi passati non tenevasi per eresia, come oggi
si tiene, ogni cosa nuova, quantunque buona e di sani principj». pag.
401.
Il Broglia, al 28 marzo 1835, imputava Gregorio XVI di inesperienza e
soverchia clemenza. «Sua Santità è dotta assai, e nelle cose
ecclesiastiche versatissima, ma nelle governative dice essa stessa che
punto non se n'intende... La vera dottrina religiosa in Roma si trova
quasi solo presso gli Ordini religiosi, e ad essi nei casi difficili le
sacre Congregazioni richiedono consiglio o, come dicesi, il voto. Dalla
condizione dei tempi, tolta a Roma quella influenza, della quale si
valeva a pro della Chiesa e dei popoli, ben pochi sono coloro che da
paesi lontani, come anticamente, si recano in quella dominante per
consacrarsi alla prelatura: quasi tutti i prelati ora sono italiani e
con mezzi pecuniarj ristretti, di modo che a fatica sostengono certe
idee di grandezza che rimangono dell'antica prelatura. Le imposizioni
sono assai gravose, e non vi è mezzo d'alleggerirle... L'alta classe è
molto malcontenta; conserva però uno spirito di rettitudine, che la
rende aliena da ogni divisamento illegale o turbolento. Nelle province
lo spirito pubblico è pessimo, affatto avverso al Governo... Altre volte
quel governo passava per mano de' più accorti: ora la bonarietà è il suo
pregio distintivo... Le Congregazioni che trattano di affari
ecclesiastici e delle cose spirituali, sono presedute da uomini di pietà
e dottrina. Sotto questo rapporto le cose camminano bene... Le potenze
scismatiche nutrono disegni contrarj alla santa sede. Delle cattoliche,
varie ancora rimangono colle antiche impressioni di gelosia. Il fu
imperatore Francesco d'Austria da alcun tempo si era accostato alla
santa sede; ma il suo governo continuò sempre ad avere le massime di
Giuseppe II e di Leopoldo. L'eminentissimo Albani, che era a parte dei
secreti austriaci, in un momento di fiducia mi disse chiaramente che
l'Austria non era la migliore amica del papa... Il papa è sommamente
venerabile per la santità de' principj e de' costumi suoi, ma non emerge
sopra la comune degli uomini per sublimità di talenti politici», pag.
404.
E dopo narrato del poco conto che Roma potea fare sull'Austria,
soggiunge: «Esulta la santa sede dello spirito di cattolicismo che vede
rinascere ed infiammarsi ne' popoli di altre nazioni, e a queste sembra
voglia appellarsi, in deficienza di altri mezzi. Il santo padre, tutto
fidando per ciò che riguarda gl'interessi temporali nella divina
providenza, stretto e vincolato nelle sue attribuzioni spirituali da
varj sovrani cattolici non che dagli eterodossi, a ben pochi può
rivolgere la sua fiducia, epperò oserei dire che sarà forzato a
simpatizzare coi movimenti di quei popoli cattolici, che fossero per
adoperarsi in favore della indipendenza della Chiesa». Pag. 423; 25
gennajo 1839.
[530] Suole dirsi che al 27 aprile 1848 il papa disertò la causa della
rivoluzione. Ma fin dal 4 ottobre 1847 annunziando la nomina del
patriarca di Gerusalemme, «apertamente e chiaramente dichiarava» le cure
e i pensieri suoi essere estranei ad ogni quistione politica, e solo
intenti a diffondere la religione e dottrina di Cristo. «Se desideriamo
che i principi, stornando da fraudolenti consigli, custodendo la
giustizia, e tutelando la libertà della Chiesa, procurino la felicità
de' loro popoli, ci duole che alcuni, abusando del nostro nome, osino
rifiutar ai principi la sommessione dovuta, ed eccitare contro di essi
colpevoli perturbazioni. Che un tal procedere sia contro le nostre
intenzioni appare già dall'enciclica del 9 novembre anno passato, ove
inculcammo l'obbedienza dovuta alle podestà, dalla quale non può alcuno
discostarsi senza peccato, salvo il caso che comandasse cosa opposta
alle leggi di Dio e della Chiesa».
[531] Il Plezza, ministro dell'interno, in una circolare del 1 agosto
1848 rammentava che «se l'Austria prevalesse in Italia, il suo dominio
nocerebbe non solo alle libertà nostre, ma la religione cattolica ne
soffrirebbe non poco essendo noto che l'Austria fu sempre nemica delle
prerogative della santa sede, e intende a diffondere ne' suoi Stati e in
quelli su cui ha qualche influenza principj e massime o regole di
disciplina e di culto poco ortodosse, e contrarie alla sovranità della
Chiesa. Oltre che, se l'imperatore vincesse in Lombardia, egli non si
contenterebbe più degli antichi dominj: torrebbe al papa le Legazioni;
distruggerebbe la sua indipendenza politica con grave danno della
libertà ecclesiastica».
Anche quando fu conquistata la Lombardia, il giugno 1859, il governatore
Vigliani vi proclamava che «l'Austria esercitava sulla Chiesa un
patrocinio che riusciva ad una vera servitù», mentre «valida guarentigia
debbono essere pel clero le tradizioni della real casa di Savoja, la
quale in ogni tempo si distinse per illuminata sollecitudine dei più
preziosi interessi della religione e della morale». Poi vi facea tener
dietro i comandi più dispotici per l'intrinseco e pel modo.
[532] Giuseppe La Farina, in un articolo sopra l'opera del Boggio _Sulla
Chiesa e lo Stato_, espone tutte quelle libertà ecclesiastiche fremendo,
e conchiude: «Gli studj, la stampa, le magistrature, la legge, le
relazioni esterne, i diritti de' cittadini, le ragioni del principato
civile, tutto era sottoposto a' preti, ed essi sottoposti (!) alla sola
Compagnia di Gesù: così in fondo era il generale de' Gesuiti il vero
sovrano degli Stati Sardi. Non mai forse in Europa si era veduto un
simile spettacolo d'abjezione... soli i preti liberi in un popolo di
schiavi... Il Piemonte era uno Stato più teocratico che monarchico:
un'anomalia: un anacronismo vivente...»
E poi costoro urlavano quando alcun forestiero sparlasse dell'Italia.
[533] Più tardi professò che anche tutte le lodi sparnazzate ai principi
d'Italia non erano che finzioni e spedienti. Nel 1848 aveva stampato che
«Roma moderna può vantarsi del suo Ciciruacchio, come l'antica di
Cicerone». _Apologia_, c. III, p. 354. Quegli Italiani cui aveva
aggiudicato il primato del mondo, allora dichiarò «decrepiti, rimbambiti
o fanciulli» (_Rinnovamento civile_, p. 381), e ch'egli faceva il
possibile per esser uomo in un secolo di ragazzi (_Monitore bibl._, n.
28). E ne' suoi scritti trovansi lodate e biasimate le persone stesse,
secondo l'occasione o la passione.
[534] _Prémier entretien d'Eudosse et de Cléandre._
[535] Io lo trovai a Bruxelles quando finiva il suo _Primato_, e mi
chiese schiarimenti e rettificazioni d'una indigesta nota d'illustri
italiani viventi che avea ricevuta allora, e che pose nelle ultime
pagine. Quando, ripagato egli pure colla solita moneta della popolarità,
obblio e vituperj, ne versava sui vecchi suoi amici e su Pio IX,
scriveva: «Parria che mi contraddica parlando in tal forma di un
pontefice, del quale a principio celebrai il valore: ma io posso far una
girata dello sbaglio ai miei onorandi compatrioti: perchè, essendo
allora lontano, e non conoscendo altrimenti il nuovo papa, io fui
semplice ripetitore in Parigi di quanto si diceva, si scriveva, si
acclamava in Roma e per tutta Italia». _Rinnovamento_, pag. 418.
[536] A tacere le definizioni precedenti, lo Scavini definisce _quod
concordata nihil aliud sunt quam conventiones, ac quædam veluti fœdera,
contracta inter potestatem civilem et potestatem ecclesiasticam... et
partes contrahentes ita obligant, ut eorum violatio sit contra ipsum jus
naturale, præcipiens pacta legitime inita semper esse religiose
servanda_ (_Theol. mor. univ._, tom. I, tract. 2, cap. VII). Il Tonello
(_Juris eccles. institut._, lib. I, c. 13) insegnava pel Piemonte che i
concordati _tamquam totidem leges ab utraque potestate debent servari_.
Carlo Emanuele III scriveva a Clemente XI i concordati «essere per legge
e per uso di tutte le genti, cosa sacra, e dalla pubblica fede
sostenuta; onde violare non si possono». Lettera 14 ottobre 1742. Nei
_Traités publics de la royale maison de Savoie avec les puissances
étrangères_ (Torino 1846) sono inseriti come vere convenzioni
internazionali i concordati del 1741 e del 1750, e le lettere e
istruzioni relative: il che tutto prova che son considerati come veri
accordi pubblici e obbligatorj bilaterali, e non già provvedimenti di
sola opportunità e convenienza. Fossero anche mere convenzioni, vi
s'applicherebbe il § 1225 del codice civile: «Le convenzioni legalmente
formate hanno forza di legge per coloro che le hanno fatte, e non
possono essere rivocate che per un mutuo consenso, e per le cause
autorizzate dalla legge: e devono essere eseguite di buona fede».
I Francesi tengono il concordato, non soltanto come contratto, ma come
legge civile dello Stato. Ledru-Rollin, autorità non sospetta, dice che
«pris dans son sens général, le mot _concordat_ signifie une espèce de
transaction. Conservant toujours cette idée fondamentale, il se divise
en accord ou transaction entre beneficiers, et transactions entre le
chef du pouvoir spirituel et le chef du pouvoir temporel d'un État,
ayant pour bût de regler les rapports généraux, qui unissent les deux
pouvoirs dans les divers pays de la Chrétienneté» (_Répertoire général
de la jurisprudence_, ad vocem; e vedasi pure DUPIN, _Manuel du Droit
publique ecclesiastique français_, Parigi 1845, § 6, introduction). Dal
1802 al 1866 quanti governi non cambiò la Francia! Passò dall'impero al
sistema parlamentare, alla repubblica, a un nuovo e diverso impero, e
non credette mai annullato il concordato.
[537] Il Nnytz era però lontano dal negar alla Chiesa e alle Chiese il
diritto di possedere: anzi stabilisce che il dominio delle cose
acquistate è proprietà _peculiaris illius paroeciæ aut alterius
Ecclesiæ, cui data est. Hinc hæres ad alias ecclesias transferri non
possunt. Et revera Ecclesia eas non transfert nisi per derogationem,
quum conditiones ad derogationem necessariæ se sistunt_ (Inst. j. eccl.
131, 132). Anche il codice al § 418 dichiara che «i beni sono o della
Corona, o della Chiesa, o dei Comuni, o dei pubblici stabilimenti, o dei
privati». Solo la sapienza del Parlamento doveva impugnare il diritto di
possesso della Chiesa, e voler palliare l'usurpazione che se ne facea
con cavilli repugnanti alla giustizia non meno che alla pratica delle
genti civili. Tutte le costituzioni date nel 1814 sancivano l'integrità
de' beni ecclesiastici, appunto perchè la Rivoluzione gli avea
dapertutto intaccati.
[538] L'11 luglio 1867 il deputato Mancini alla Camera vantavasi
d'avere, come ministro, impedito anche un breve della penitenzieria, e
«mi fu agevole dimostrare che finanche le bolle dogmatiche e le
decisioni riguardanti la fede e il costume, quando in esse il dogma e la
fede servissero di velo a pronunziare sopra quistioni pregiudicevoli
alle prerogative della sovranità politica, eransi sempre riguardate
soggette alla preventiva verificazione e all'_Exequatur_».
[539] Ho udito varj miei colleghi vantarsi d'aver essi suggerita a
Cavour questa formola; ma Cavour stesso non la pretendeva per sua, e
disse che «un illustre scrittore in un lucido intervallo» avea con essa
voluto mostrare all'Europa che la libertà avea giovato grandemente a
ridestar lo spirito religioso (_Atti uffic._ del 1860, pag. 594).
Infatti il conte di Montalembert si lagnava che questa formola gli era
stata _derobée et mise en circulation par un grand coupable_
(Correspondant, août 1863). Che giudizio portasse di questa formola
l'Azeglio è noto: che conto ne facessero i deputati fu chiaro assai
nelle loro parlate del luglio 1867. Uno che fu ministro dichiara: «Ho
udito molti enunciare questa formola: vi ho anch'io per mia parte
applicato un po' di studio, ma non ho mai capito che cosa volesse
significare» (_Atti ufficiali_ del 1862, pag. 4678).
[540] Citano il cardinale arcivescovo di Napoli, due volte cacciato in
esiglio: il cardinale arcivescovo di Pisa, arrestato poi esigliato; il
cardinale Baluffi arcivescovo d'Imola processato, il cardinale De
Angelis arcivescovo di Fermo condotto coi carabinieri a Torino, ove
stette rinchiuso sei anni; il cardinale arcivescovo di Benevento, il
cardinale vescovo di Camerino ed altri, processati. D'Avanzo vescovo di
Castellaneta, Laspro di Gallipoli, Gallo d'Avellino, Frisciola di
Foggia, i vescovi di Bovino, di Oria, di Muro Lucano, di Chieti, di
Castellamare, di Nola, di Oppido, Apuzzo vescovo di Sorrento, Salomone
di Salerno, Rotondo di Taranto, Ricciardi di Reggio, e si può dire tutti
quelli del Napoletano, cacciati o dovuti esulare: a pericoli e insulti
esposti quei che rimasero, come l'arcivescovo di Trani, il vescovo
d'Ischia, quel di Sant'Agata, quel di Tropea.
Il vescovo di Faenza fu condannato a trentasei mesi di carcere e seimila
lire di multa: quel di Piacenza a quattordici mesi di carcere e
millecinquecento lire di multa: Arnaldi vescovo di Spoleto tenuto in
carcere senza processo: processati quelli di Bergamo, di Fano, il
vescovo vicario di Milano: a tre anni di carcere e lire duemila di multa
il vicario capitolare di Bologna: tenuti in castello due vicarj generali
di Napoli col canonico penitenziere: così quel di Piacenza, e
innumerevoli altri.
[541] Circolare del ministro Gioja del 13 maggio 1851. Quaranta
circolari di tenore simile dal 1848 al 1863 sono raccolte nelle _Memorie
per la storia de' nostri tempi_, vol. I, pag. 257. Una del 28 febbrajo
1863 prescrive di non badar allo indulto pontifizio, ma regolare il cibo
quaresimale secondo il criterio della propria coscienza. Il 24 marzo
1863 ne uscì una intorno agli _Oremus_. Il 16 gennajo 1863 si ordinò al
procuratore generale di procedere contro i vescovi che negassero la
patente di confessore ai sacerdoti che aveano sottoscritto l'indirizzo
Passaglia; mentre una del 4 gennajo persuadeva d'associarsi al giornale
_Il Mediatore_, e assegnava pensioni ai preti contumaci.
[542] Vigliani, governator di Milano, il 22 settembre 1859 mandava
invito al vescovo vicario di Milano di illuminar il suo palazzo, la
chiesa, gli edifizj sacri, e tutti quei che da lui direttamente o
indirettamente dipendessero; altrimente verrebbero illuminati
dall'autorità governativa, che non garantiva delle conseguenze cui si
esporrebbe con sì funesta provocazione. Ciò nell'occasione che una
deputazione di Romagnuoli era venuta ad offrire la loro patria al re.
Egli stesso, divenuto prefetto di Napoli, domandò al ministero la
facoltà di proibire ogni funzione religiosa fuori delle chiese: e le
proibì nel veneto il ministro Tecchio, il 20 luglio 1867.
[543] Vedi CASONI, _La libertà della Chiesa in Italia_, Bologna 1863.
«Per lo addietro dai liberali francesi si chiedeva _libertà come in
Belgio_, ed ora si domanda _libertà come in Austria_. Dovrem noi
cattolici italiani chiedere _libertà religiosa come in Inghilterra,
libertà di coscienza come in Turchia_?... Non sarà nostra colpa se
dovremo impetrare anche noi il bill di emancipazione di Guglielmo Pitt,
o il battihayoum d'Abdul Megid».
[544] Secondo gli ultimi distruttori, in Italia sono 87,000 preti,