Gli eretici d'Italia, vol. III - 64
universale: non vuolsi libera Chiesa in libero Stato, ma in popolo
libero: non condannare ciò che l'immensa maggioranza venera ed ama; non
sottomettere le magnifiche speranze dei giusti e le salutari paure de'
peccatori a decreti di ministri e prefetti, bensì introdurre l'amore e
la giustizia, senza cui non v'è pace; far concorrere al bene universale
le due podestà, che concordi possono tutto, discordi nulla valgono
contro il male.
Questi e ben più solidi argomenti produceano coloro che ancor credono
all'efficacia delle ragioni e dei sentimenti virtuosi, cercando elevar
la quistione di sopra all'atmosfera venefica delle passioni e al
polverio della mischia, e lontano dagli irritanti ricordi[555]. Di
fronte alle difficoltà complicantisi fra un popolo tormentato a vicenda
dalla servitù o dalla libertà, che da un ordine senza dignità passa a un
disordine senza grandezza, i timorati credono e i baldanzosi vantano che
il cattolicismo, privato del piedestallo d'un dominio temporale, va a
perire. Certo s'ingannano. Altri affermano che potrebbe il capo della
Chiesa conservar la sua indipendenza sotto la tutela dello Stato.
Crediamo che costoro lascinsi ingannare. Quelli poi che dicono il potere
temporale dovere abbattersi acciochè meglio sia venerato lo spirituale,
son gente che vuol ingannare. Del resto nessun più che il clero porta
oggi le stigmate dell'ingiustizie del mondo: ma sa che la Chiesa ebbe
per destino il soffrire, per gloria l'aver tutto affrontato, e per
avvenire il soffrire tutto, tutto affrontare ancora, e resistere
incessantemente all'ingiustizia e all'immoralità.
Non vedemmo agitarsi questo conflitto dello Stato e della Chiesa colle
armi, poi colle dottrine, poi col sofisma, poi colle bestemmie? Se non
vi riuscirono Diocleziano, Giuliano, Voltaire, il Terrore, mal
pretenderebbesi ora scioglierlo colle frasi: ma chi dimenticò quel ch'è
giusto è condannato a non conoscere più quel ch'è possibile. In fatto la
Francia stipulò di nuovo col Governo d'Italia che il dominio papale
verrebbe rispettato, e che la capitale sarebbe Firenze: a tali
condizioni ritirerebbe le truppe che proteggevano non un principe
straniero, ma il padre comune a Roma. Al pontefice, quando, per la
convenzione del 15 settembre 1864[556], si trovò abbandonato anche dal
Governo francese che in faccia a tutta l'Europa aveva assunto l'impegno
di difenderlo, non restava che protestare. I Cattolici, trovandosi più
sempre conculcati, pensarono premunirsi costituendo una «Associazione
cattolica per la difesa della religione» che, secondo i suoi statuti,
doveva aver un capo a Bologna, rappresentanti nelle varie città, ma
tutti notificati al Governo, e tenersi estranea a qualunque azione
politica, perfino alle elezioni. Subito dalle mille voci fu denunziata
come una grande cospirazione austro-borbonico-clericale, «una vasta rete
di congiurati per vituperare e combattere le disposizioni del Governo
sulle faccende ecclesiastiche, procacciare nemici con la stampa,
conturbare le coscienze, eccitare il fanatismo e l'intolleranza delle
plebi sotto il pretesto di scuotere l'indifferentismo religioso in
Italia; stabilire insomma una sètta ordinata, numerosa e compatta per
mettere in rovina il potere, e rovesciarlo alla prima occasione
propizia»[557].
A queste ombre dà corpo il partito che s'intitola liberale, e che dice
al potere, «Ajutami ad abbattere i clericali»: poi dirà al popolo,
«Ajutami ad abbattere il Governo»: infine dirà alla ciurma, «Ajutami ad
abbattere Governo e popolo». Di applicare quel che, nel diritto nuovo,
chiamasi libertà, cioè l'arbitrio del Governo, opportunissima occasione
trovò allorquando il regno d'Italia, approfittando della nimicizia rotta
dalla Prussia all'Austria, dichiarò guerra a questa per toglierle il
Veneto. Mentre si ostentava baldanza per un esercito formidabile e una
decantata marina, si finse temere che i Cattolici volessero cogliere il
momento per tentare di sconnettere un regno, dove l'unione è decretata e
legale, ma non ancor penetrata negli spiriti. Allora dunque i liberali
fecero passare una legge de' sospetti (17 maggio 1866), che
infaustamente serba il nome di Crispi, per la quale lasciava autorità al
Governo di mandare a domicilio coatto le persone che dessero ombra.
Subito in ogni città, in ogni borgata furono istituiti comitati che
origliassero e denunziassero; v'ebbe spie che apersero le lettere,
delatori fin tra parenti, fin tra deputati; sfoghi di vendette,
prepotenze di magistrati. Universale fu la costernazione, e la servilità
de' prefetti e de' sindaci, i rancori degli individui, le passioni de'
partiti, la brutalità delle gazzette si accordarono per denunziare i
vescovi e i sacerdoti che avevano mostrato o zelo della religione, o
dottrina non comune, o fermezza a respingere gli abusi; e quelle persone
che si possono calunniare ma non disprezzare, e che non è così facile
far obbedire all'iniquità. Principalmente fu colpa, o almeno indizio
l'esser appartenuto alla Associazione Cattolica. Secondo le statistiche
presentate, seimila ottocenventicinque persone furono proposte per la
relegazione, di cui quattromila censettantuno vi vennero sottoposte,
anche senza processo; e benchè la legge non parlasse che di domicilio
coatto, furono chiusi nelle prigioni dei ladri; appajati agli assassini
nel trattamento. I giornali in quel terrore universale risero
sardonicamente, esclamando: «Ecco applicata la libertà della Chiesa».
L'inverecondo strazio lentossi, poi cessò quando ci fu imposta la pace,
e il ministero, sotto l'ispirazione migliore parve entrare in concetti
più civili e meno illiberali rispetto alla _credenza della maggioranza_,
come diceano, e togliere le inique parzialità. Allora dagli ergastoli,
dalle isole, dalle caserme, dai lontani esigli ritornò quella folla di
sospetti clericali, contro nessun de' quali erasi potuto procedere
legalmente. Allora ancora si permise potessero restituirsi alle sedi i
tanti vescovi che n'erano tenuti lontani per paura della loro virtù, e
sotto la maschera di salvarli dall'oltraggio del popolo. E per verità
quel pugno di persone che in ogni paese usurpa il titolo di pubblico,
que' giornali che han tossico nel cuore e fango nel pensiero tentò
dapertutto eccitare ire, dimostrazioni, fischi; per lo più prevalse il
buon senso: e lasciò sfogo al sentimento devoto e riconoscente dalle
plebi, tantochè potette applicarsi a tante diocesi d'Italia quella
descrizione che Gregorio Nazianzeno fa dell'esultanza de' Cristiani dopo
la morte di Giuliano.
Allora si consentirono alcune libertà alla Chiesa, come di scegliere i
proprj vescovi senza bisogno di presentazione regia, di giuramento, di
placitazioni: si propose una legge che, pure spogliando la Chiesa,
promettevale le sue libertà. Nol sofferse il parlamento; abbattè il
ministero e quella legge, nè tampoco volle discutere; rinnegò ogni
libertà[558], e dopochè l'Austria ebbe abbandonato il Veneto,
all'aspirata unità italiana dichiarava non mancare che l'acquisto di
Roma. Tanto s'è iti lontani dai motori della rigenerazione italiana!
tanto con mezzi sovvertitori si turbò la causa santa promossa da persone
che per la patria aveano fatto più che scrivere una gazzetta!
Pio IX, se come principe adopra ogni guisa al miglioramento del suo
Stato[559], come papa ha l'intima persuasione d'una particolare
assistenza di Dio, il quale certamente lo caverà da questi mali passi,
ripristinerà intera la sua autorità anche temporale, purchè egli non
rendasi indegno delle grazie superne; ed anzichè cercare armi ed appoggi
mondani, aspetta il miracolo. Intanto espone i torti e protesta, e il
fece di nuovo nell'allocuzione del 29 ottobre 1865, dicendo:
«Più volte e con lettere e con allocuzioni abbiamo deplorato le cose di
nostra religione, afflitte da molti anni in Italia, e le gravissime
ingiurie fatte dal Governo del Piemonte a noi e all'apostolica sede.
Cresce il dolor nostro, vedendolo incessantemente e con sempre maggiore
violenza aggredire la cattolica Chiesa, le salutari leggi e i sacri
ministri di essa, vescovi, integerrimi uomini d'ambo i cleri,
onestissimi cittadini cattolici, senza umanità, con quotidiano eccesso
cacciare in esiglio, in carcere, o vessar in modi indegni; le diocesi
con gravissimo detrimento delle anime lasciar prive de' pastori; le
vergini sacre a Dio espulse da' lor monasteri e ridotte a mendicità; i
templi di Dio violati; i seminarj episcopali chiusi; la istruzione della
gioventù tolta alla disciplina cristiana, e commessa a maestri di errore
e d'iniquità: il patrimonio della Chiesa usurpato e distratto. Messi in
non cale le censure ecclesiastiche e i reclami giustissimi da noi fatti
e dai vescovi, sancì leggi avversissime alla Chiesa e alle dottrine e ai
diritti di essa, fin la legge del matrimonio civile, sommamente
contraria non solo alla dottrina cattolica, ma eziandio al bene della
civile società, poichè rompe la dignità e santità del matrimonio, e
promuove un turpissimo concubinato, stantechè tra fedeli non può esserci
matrimonio che non sia sacramento. Violando la pubblica professione de'
consigli evangelici, spregiando i grandissimi beneficj recati dagli
Ordini regolari in tutte le cose religiose, civili e letterarie, non
esitò a sopprimere le corporazioni religiose, e usurparne le possessioni
cogli altri beni ecclesiastici. Fin prima di ottener il possesso della
Venezia, estese a quelle regioni le medesime leggi e decreti, e abolì il
Concordato da noi statuito coll'imperatore d'Austria[560].
«Epperò, come richiede il gravissimo ufficio del nostro apostolico
ministero, di nuovo alziamo la voce pontificale per la religione, per la
Chiesa, pe' sacri dritti di lei, pei diritti e per l'autorità di questa
cattedra di Pietro, fortissimamente detestando e riprovando nel
complesso e in ogni particolare tutto ciò che contro la Chiesa è stato
decretato e operato dal subalpino governo e da' suoi magistrati di
qualunque specie, e quei decreti e i loro effetti colla nostra
apostolica autorità abroghiamo e dichiariamo di niuna forza e valore.
Coloro che ne sono stati autori, e han nome di cristiano, seriamente
vogliano pensare d'essere miserabilmente caduti nelle censure e pene
spirituali che le costituzioni apostoliche, e i decreti de' Concilj
infliggono _ipso facto_ agli invasori de' diritti della Chiesa...
«Uomini astuti interpretano a lor modo e arbitrio quella benedizione che
noi demmo all'Italia allorchè, per ispontaneo amore verso i popoli dello
Stato Pontifizio, parlammo perdono e pace. Femmo umili e fervorose
preghiere a Dio che dagli imminenti mali liberasse, l'Italia e qui
maggiormente splendesse il dono preziosissimo della fede; coll'onestà
de' costumi, la giustizia, la carità, le altre virtù cristiane. Nè
abbiam mai cessato di pregare Iddio, affinchè la salvi da tante calamità
di ogni genere; e più che altro chiediamo al clementissimo Iddio che
questi popoli italiani col suo celeste ajuto soccorra e avvalori a star
saldi nella sua divina fede e religione, e a sopportare con cristiana
fermezza tante avversità.
«È però follia trarre da ciò argomento onde chiedere che noi
rinunziassimo al principato civile. Per singolare consiglio della divina
provvidenza avvenne che il romano pontefice avesse il suo civile
principato, onde nell'assoluta indipendenza da qualunque potere
politico, liberamente esercitasse la sua suprema autorità e
giurisdizione su tutta la Chiesa universale, e tutti i fedeli ai
decreti, e mandati suoi avesser fiducioso ossequio senza sospetto, che
gli atti suoi provenissero da volontà o impulso di verun potere
politico.
«Lo perchè il civile principato non solo non possiamo rinunciare, ma
dobbiamo strenuamente tutelare in tutti i suoi diritti. È noto con
quanta sollecitudine i vescovi di tutto l'orbe cattolico l'abbiano
propugnato a voce e in iscritto, e dichiarato, nella presente condizione
delle cose mondane, essere di tutta necessità al romano pontefice, per
esercitare la sua libertà di pascere il cattolico gregge di tutto il
mondo; colla qual libertà è connessa quella di tutta la Chiesa
universale.
«Vociferano pure che noi dobbiamo pacificarci coll'Italia, intendo dire
coi nemici della religione che intitolano se stessi Italia. Noi che,
assertori e vindici della salutare dottrina della virtù e della
giustizia, dobbiam procurare la salute di tutti, come potremmo
accordarci con quelli, i quali, sordi alla verità, da noi fuggono, e
neppur han voluto aderire ai desiderj nostri, unicamente diretti a
provvedere di vescovi tante diocesi italiane deserte?
«Volesse Dio che costoro, i quali oppugnano sì fieramente noi e questa
sede apostolica, alzando gli occhi e l'animo alla verità e alla
giustizia, ne avessero lume e ravvedimento; e venissero a noi, guidati
da salutare affetto di penitenza! Allora vedrebbero come l'augusta
nostra religione conduca a privata e a pubblica felicità individui e
popoli; dove essa impera, ivi di necessità si ritrovano la vita onesta,
l'integrità, la pace, la giustizia, la carità e ogni altra virtù; nè i
popoli vi sono percossi dai mali che gli opprimono ovunque essa è
conculcata e invisa....
«Furiosi nemici non cessano di gridare che questa Roma dev'essere
partecipe del sovvertimento italico; anzi esserne la capitale. Sperda
Iddio gli empj consigli; e non permetta che quest'alma città, dove Egli
collocò la cattedra di Pietro, abbia a tornare in quel tristissimo
stato, quando la prima volta v'entrò il beatissimo principe degli
apostoli. Noi, da ogni umano ajuto quasi deserti, fidenti nel solo ajuto
di Dio, siamo apparecchiati a difendere anche col pericolo della vita la
causa della Chiesa, a noi da Cristo divinamente commessa; e se fia
bisogno, andarcene in qualunque altro paese ove nel miglior modo
esercitare il nostro apostolico ministero...
«Purtroppo non è certo se questa o quell'altra nazione abbia da
conservar sempre il tesoro preziosissimo della divina fede e religione.
Popoli che un tempo custodivano fedelmente il deposito della fede e la
disciplina dei costumi, al presente sono scissi da quella pietra, su cui
è fondato l'edificio della Chiesa. Miseri i principi i quali, dimentichi
d'esser ministri di Dio pel bene, han trascurato di fare quanto è in
loro potere e dovere per impedire che si distrugga il preziosissimo
tesoro della fede cattolica, fuor della quale è impossibile piacere a
Dio...»
Questi gemiti ripetemmo perchè rivelano i dissensi della Chiesa dallo
Stato, del popolo vero dai suoi rappresentanti, della nazione da' suoi
padroni: perchè si ebbe cuore di dire solennemente che il papa non si
duole delle ingiustizie contro la Chiesa[561]; e perchè si veda come i
fabbricatori di distruzione allontanino più sempre quella conciliazione,
senza della quale non potrà dirsi fatta l'Italia. E mentre scrivo vien
ratificata (15 agosto 1867) una legge di passione e di guerra per
dilapidare la Chiesa, lasciando senza risposta le lezioni del passato e
le interrogazioni dell'avvenire, a cui legheremo tanti inganni, tanti
errori, tanti rimpianti: suonano i gemiti di migliaja di anacoreti e
monache, cacciati dagli asili dove s'erano formati all'amor del prossimo
e all'energica sommessione al voler di Dio, e che esposti a vera fame,
ispirano compassione fin ai loro nemici, che crederebbero viltà
l'ostinarsi a ingiuriarli; suonano gridi dal parlamento che, «ritirati i
Francesi da Roma, omai i preti possono prendersi a calci»[562]: suonano
i proclami de' comitati, che spinti dal gran rivoluzionario, preparano
armi, prestiti, mine contro Roma, non dissimulando che con ciò si dee
scassinare l'ordinamento cattolico.
Se i potentati sostengono il pontefice, s'egli è una forza con cui le
forze devono contare, gli è perchè il popolo è ben lontano dall'averlo
abbandonato. Altrove le dinastie spariscono alle trame d'un ministro o
d'un cospiratore; al comparir dell'oro o delle camicie rosse sfasciansi
gli eserciti, spergiurano gl'impiegati. Qui non avvenne. Ma se Dio vorrà
non esista più un popolo, a governar il quale basti un prete senza
spada, che annunzia la pace e non vuol mai la guerra; dove non si cambiò
dinastia da XVIII secoli; dove ogni lingua ha collegi e rappresentanti e
tribunali; dov'è l'asilo comune de' perseguitati, la scuola degli
artisti e degli eruditi; dove stanno gli archivj della civiltà che di
qui fu inviata e protetta in tutto il mondo; dov'è una quiete che
ripugna, un silenzio che mortifica il convulsivo rumore dell'altre
genti; se s'avvererà la profezia che il demonio prevalga ai santi[563],
il pericolo sarà de' Cattolici, non del cattolicismo, e ai paurosi
suonerà la parola, «Di poca fede, che dubiti?».
NOTE
[517] Il filosofo Rosmini ha un'orazione funebre per Pio VII, dove è a
vedere come lo scagiona dell'aver incoronato Buonaparte. Gli atti corsi
in quell'occasione servono a spiegare in qual guisa la Corte di Roma
intenda la tolleranza, e come vada intesa l'enciclica dell'8 dicembre
1864. La verità è una. Non può teologicamente riconoscersi vera
nessun'altra religione. Ma ciò non importa che, civilmente, non abbiasi
a tollerare chi ne professa un'altra. Talleyrand stesso, in un rapporto
all'imperatore del 13 luglio 1804, diceva: «La tolleranza in Francia e
nella più parte degli Stati europei è un dovere politico, che non
affetta in nulla la cattolicità de' sovrani e degli Stati che governano.
In Germania, in Italia, a Roma stessa e in Francia si vietano l'insulto
e la persecuzione; si compiangono i dissidenti, ma si comanda di
rispettarne le opinioni e il culto, che la coscienza prescrive loro di
praticare.»
[518] «Intanto innumerevoli spie son qui mantenute, e tutta Roma e tutto
lo Stato pontificio sono in preda alle loro calunnie, il palazzo
apostolico n'è assediato, come fosse un castello». Note del Consalvi al
Talleyrand, 1805.
[519] Nelle memorie lasciate dal principe di Metternich, lungamente
ministro dell'impero austriaco è detto: «Io, non come cattolico, ma come
ministro d'Austria voglio che il papa soggiorni in casa del papa, e non
in casa d'altri. L'ho cantato a Napoleone quando il papa era in Savona
prigioniero della Francia. Napoleone mi volea bene, e sapeva che il papa
onoravami di sua fiducia. Un giorno mi chiamò e mi disse: — Fatemi un
servizio. Sono stanco della cattività del papa. È una condizione che non
può fruttar nessun utile, e che importa di non continuare a lungo.
Desidero che andiate a Savona; il papa vi è benevolo; gli farete gradire
un disegno che ho divisato per isbrigar questa brutta lite.
Io ripresi che mi converrebbe ottener prima la licenza del mio
imperatore.
— O che! mi ricusereste questo piacere? (replicò egli). Parmi che non
arrischiereste nulla, adoperandovi per la _pace del mondo_.
— Di ciò per appunto dubito, io ripigliai sorridendo. Temo che non sia
pace quella che vostra maestà propone al papa. Si degnerebbe
manifestarmi il suo disegno?
— Eccovelo, disse Napoleone quietamente. Da qui innanzi la sede della
Chiesa non sarà più a Roma, sarà a Parigi. — Io feci un moto
d'ammirazione e un sorriso d'incredulità.
— Sì, continuò il terribile uomo. Io fo venire il papa a Parigi, e vi
fermo la sede della Chiesa. Ma voglio che il papa sia indipendente: gli
accomodo presso la capitale una dimora convenevole; gli regalo un
palazzo, e affinchè sia in casa propria, dichiaro neutro il territorio
per la circonferenza di alcune leghe. Colà avrà il suo corpo
diplomatico, le sue Congregazioni, la sua Corte, e acciò che di nulla
difetti, gli assicuro una dotazione annua di sei milioni. Credete voi
che rifiuterebbe?
— Certo sì, e tutta Europa lo sosterrà nel rifiuto; il papa vedrà, e
giustamente, che egli sarebbe prigioniero coi vostri sei milioni, quanto
è in Savona.
Napoleone si indispettì, e mi tempestò con cento clamorose querele. In
ultimo io gli dissi: — Vostra maestà mi strappa un segreto. L'imperatore
d'Austria ha avuto questo disegno medesimo. Si accorge che vostra maestà
non vuol ricollocare il papa in Roma: egli non vuole che resti in
cattività, e pensa altresì fargli uno Stato. Vostra maestà conosce il
palazzo di Schönbrunn; l'imperatore lo dà al papa, con un circuito di
dieci o quindici leghe, neutro del tutto, e gli aggiunge una rendita di
dodici milioni. Se il papa accoglie questa proposizione, ci consente
vostra maestà?»
[520] Queste dottrine erano sostenute da un Ferloni prete cremonese
(1740-1813) che avea scritto la _Storia delle variazioni della
disciplina della Chiesa_. Il manuscritto ne perdette nell'invasione de'
Francesi a Roma il 1798: ma invece d'indispettirsene, offrì ai
rivoluzionarj la sua penna, pubblicò omelie in favor di Buonaparte, fu
teologo del consiglio privato del vicerè d'Italia, e scrisse
«Dell'autorità della Chiesa secondo la vera idea che ne ha data
l'antichità, libro da cui si dimostra l'abuso che se n'è fatto e la
necessità di circoscriverlo». Gl'indirizzi dei vescovi d'Italia son
posti all'Indice per decreto 30 settembre 1817, avvertendo che parte
erano finti, parte alterati; e che, appena i tempi lo permisero, tutti
furono riprovati da quelli di cui portavano i nomi, con ossequiose
lettere spontanee dirette al papa.
Lo sforzo di conciliare l'ordine ecclesiastico col civile fu fatto anche
nel tempo de' Francesi. Giuseppe De Poggi nato a Piozzano nel piacentino
il 1761, allo scendere de' Giacobini uscì dagli Ordini, come molti
altri, ebbe incarichi dalla Repubblica Cisalpina, al cader della quale
si fissò in Parigi, ove stette fin al 1842 quando morì. Fu lui che
procurò la pubblicazione della _Storia d'Italia_ di Carlo Botta.
Giovanissimo stampò _De Ecclesia tractatus_, nelle idee febroniane, poi
le _Emende sincere_ (1791) tutte in sostegno de' diritti del principe
nelle discipline ecclesiastiche e in lode del Ricci e di P. Leopoldo, e
le pungenti _Lettere di frà Colombano_. Venuta la repubblica, sostenne i
diritti di questa contro la Chiesa; il che è logico: stampò il giornale
il _Repubblicano Evangelico_, la _Concordanza della Democrazia col
Vangelo_, un'_Istruzione dei Cattolici sul giuramento della Repubblica
Cisalpina_. Oltre varie opere d'erudizione e di storia naturale;
tradusse in versi l'empia _Guerra degli Dei_ di Parny (Parigi 1830), e
fece un poema _della natura delle cose_, ove sostiene l'eternità della
materia.
Eterna ed una, dell'immenso tutto
Somma cagion, visibile, verace,
Alma natura, che qual sempre fosti
E sarai sempre, sei ciò ch'è, che fue,
Che in avvenir sarà: sta delle cose
In te il principio, la ragion, l'essenza,
Il moto, la virtù, la vita, il senso, ecc.
[521] _Qualora non potessero esimersene senza grave pericolo e danno_,
Pio VII permetteva agli antichi suoi sudditi di giurare «di non prender
parte in qualsiasi congiura, complotto o sedizione contro il governo
attuale; e d'essergli sottomessi e obbedienti in tutto ciò che non sia
contro alle leggi di Dio e della Chiesa».
[522] Di quella che chiamammo eresia politica fu il tipo Napoleone I. Il
suo intento fu sempre di dominare la Chiesa; e come disse a Sant'Elena,
«rispettar le cose spirituali, dominandole senza toccarle; volendo
acconciarle ai suoi intenti politici, ma per l'influenza delle cose
temporali». Ma per l'inseparabilità loro, anche delle spirituali si
mescolò. Il diritto avuto pel concordato di nominar i vescovi, che un
tempo la Chiesa avea potuto cedere a principi religiosi, diveniva
terribile stromento in mano del rappresentante della rivoluzione
francese; d'un libero pensatore. Il linguaggio verso il papa e i prelati
ne fu dapprincipio rispettoso; conoscendo l'importanza di restaurare
l'autorità, ripristinò la gerarchia, e nelle cerimonie i cardinali
passavano avanti ai marescialli, i vescovi ai generali, ma purchè
obbedissero a' suoi decreti, assecondassero le sue mire: il che per
verità era men difficile, atteso il fascino della grandezza di lui, e
dell'imperiosità che non supponeva mai la possibilità d'un'opposizione.
La nomina de' primi 60 vescovi fu prudente, e diretta a conciliare i
partiti, ma insieme a prepararsi vescovi favorevoli per quando
domanderebbe la già meditata corona. Dappoi fu sempre più interessata,
sebbene non mai scandalosa, cernendoli fra le persone avverse alla
revoluzione, devote a lui e alle istituzioni imperiali, fedeli alle
libertà della Chiesa gallicana e di famiglie aristocratiche, avendo
potuto dire: «Non c'è che le persone di vecchia razza che sappiano ben
servire». Al principe Eugenio scriveva: «Fatemi conoscere chi sostituir
nelle sedi vacanti. Bisogna nominar de' preti che mi sian molto
attaccati, non cercar vecchj cardinali che all'occasione non mi
seconderebbero» (17 febbrajo 1806). E a Giuseppe re di Napoli: «Vi dirò
schietto che non mi piace il proemio della soppressione dei conventi. In
ciò che riguarda la religione il linguaggio dev'essere nello spirito
della religione, e non in quello della filosofia. Qui sta la grand'arte
di chi governa. Il preambolo doveva essere in istile da frate. Gli
uomini sopportano meglio il male quando non vi si unisca l'insulto. Del
resto sapete che non amo i frati, giacchè li distruggo da per tutto» (14
aprile 1807). E ad Elisa: «Non esigete giuramento dai preti. Non riesce
che a far nascere delle difficoltà. Tirate dritto, e sopprimete i
conventi» (17 maggio 1806). E poco dopo: «Il Breve del papa non importa
un fico sinchè resta in man vostra. Non perdete un momento per incamerar
tutti i beni de' conventi. Non badate ad alcun dogma. Pigliate i beni
de' frati, e lasciate correr il resto» (24 maggio).
Frequenti nasceano le occasioni di _Te Deum_, accompagnati da pastorali
dove i vescovi esaltavano il presente ordine, e, ispirati dal ministero,
lanciavano qualche motto contro gli scismatici Russi, gli eretici
Inglesi, le persecuzioni che i cattolici soffrivano in Irlanda: non
doveano mai mancar le lodi al restaurator della Chiesa, e venivano
rimproveri se fossero scarse. Introdusse di far leggere nelle chiese i
bullettini dell'esercito, ma poi gli parve che con ciò si desse ai preti
un'ingerenza nelle cose politiche, ch'ei non voleva. Da ciò il volere
che i preti non potessero salire a gradi nel ministero dei culti senza
aver laurea dall'università (30 luglio 1806), la quale potrebbe
ricusarla «a chi fosse conosciuto per idee oltramontane, pericolose
all'autorità». Che se anche semplici curati dessero segno
d'indipendenza, faceali mettere prima in conventi, poi in prigioni; e
quelle di Vincennes, di Santa Margherita, di Fenestrelle, d'Ivrea furono
piene di sacerdoti, non processati, non condannati, che o morirono, o
furono liberati alla caduta di lui, senza sapere il perchè fossero stati
presi. Ciò in appresso, ma fin dal principio lagnavasi altamente delle
sofisticherie di Pio VII, e assicurava che con ciò portava la ruina
della religione. Minacciava che la Francia fosse per divenir
protestante, e al nunzio Caprara rimproverando qualche opposizione,
diceva: «Non è più il tempo che i preti faceano miracoli. Richiamate
quel tempo, ed io vi lascio tutto. Nelle circostanze presenti, dovete
lasciar fare ogni cosa a me, prestandomi appoggio fin dove la religione
lo consente. Le differenze nostre han fatto nascere fra gl'increduli e
gli atei l'idea di gettarsi nel protestantismo, che, dicono, non porta
discussioni, e i cui capi fanno ogni opera per trarre il mondo in questa
via».
Volle anche procacciarsi il monopolio della parola, e a Portalis,
ministro de' culti, il quale avea messo il molto suo ingegno a tutto
servizio di lui, scriveva di abolir tutti i giornali religiosi, e
ridurli a un solo _Giornale dei Curati_: eppur si sbigottiva quando
questo contenesse alcuna cosa avversa alle libertà gallicane. Non è da
tacere che, fin dai primi tempi, ma viepiù in appresso, falsificava o
alterava i documenti emanati dalla santa sede nel riprodurli sul
_Moniteur_ o nel tradurli, nè esitava di darvi interpretazioni e
ispiegazioni fallaci.
Intanto egli s'intrigava di cose strettamente religiose, come la festa
del 15 agosto, per la quale fe comparire un san Napoleone, fin allora
ignoto al calendario francese, e che doveva escluder la memoria
dell'Assunta. Era una nuova occasione ai vescovi di far elogi
all'imperatore, e pur troppo vi strabbondarono in frasi, che ormai non
libero: non condannare ciò che l'immensa maggioranza venera ed ama; non
sottomettere le magnifiche speranze dei giusti e le salutari paure de'
peccatori a decreti di ministri e prefetti, bensì introdurre l'amore e
la giustizia, senza cui non v'è pace; far concorrere al bene universale
le due podestà, che concordi possono tutto, discordi nulla valgono
contro il male.
Questi e ben più solidi argomenti produceano coloro che ancor credono
all'efficacia delle ragioni e dei sentimenti virtuosi, cercando elevar
la quistione di sopra all'atmosfera venefica delle passioni e al
polverio della mischia, e lontano dagli irritanti ricordi[555]. Di
fronte alle difficoltà complicantisi fra un popolo tormentato a vicenda
dalla servitù o dalla libertà, che da un ordine senza dignità passa a un
disordine senza grandezza, i timorati credono e i baldanzosi vantano che
il cattolicismo, privato del piedestallo d'un dominio temporale, va a
perire. Certo s'ingannano. Altri affermano che potrebbe il capo della
Chiesa conservar la sua indipendenza sotto la tutela dello Stato.
Crediamo che costoro lascinsi ingannare. Quelli poi che dicono il potere
temporale dovere abbattersi acciochè meglio sia venerato lo spirituale,
son gente che vuol ingannare. Del resto nessun più che il clero porta
oggi le stigmate dell'ingiustizie del mondo: ma sa che la Chiesa ebbe
per destino il soffrire, per gloria l'aver tutto affrontato, e per
avvenire il soffrire tutto, tutto affrontare ancora, e resistere
incessantemente all'ingiustizia e all'immoralità.
Non vedemmo agitarsi questo conflitto dello Stato e della Chiesa colle
armi, poi colle dottrine, poi col sofisma, poi colle bestemmie? Se non
vi riuscirono Diocleziano, Giuliano, Voltaire, il Terrore, mal
pretenderebbesi ora scioglierlo colle frasi: ma chi dimenticò quel ch'è
giusto è condannato a non conoscere più quel ch'è possibile. In fatto la
Francia stipulò di nuovo col Governo d'Italia che il dominio papale
verrebbe rispettato, e che la capitale sarebbe Firenze: a tali
condizioni ritirerebbe le truppe che proteggevano non un principe
straniero, ma il padre comune a Roma. Al pontefice, quando, per la
convenzione del 15 settembre 1864[556], si trovò abbandonato anche dal
Governo francese che in faccia a tutta l'Europa aveva assunto l'impegno
di difenderlo, non restava che protestare. I Cattolici, trovandosi più
sempre conculcati, pensarono premunirsi costituendo una «Associazione
cattolica per la difesa della religione» che, secondo i suoi statuti,
doveva aver un capo a Bologna, rappresentanti nelle varie città, ma
tutti notificati al Governo, e tenersi estranea a qualunque azione
politica, perfino alle elezioni. Subito dalle mille voci fu denunziata
come una grande cospirazione austro-borbonico-clericale, «una vasta rete
di congiurati per vituperare e combattere le disposizioni del Governo
sulle faccende ecclesiastiche, procacciare nemici con la stampa,
conturbare le coscienze, eccitare il fanatismo e l'intolleranza delle
plebi sotto il pretesto di scuotere l'indifferentismo religioso in
Italia; stabilire insomma una sètta ordinata, numerosa e compatta per
mettere in rovina il potere, e rovesciarlo alla prima occasione
propizia»[557].
A queste ombre dà corpo il partito che s'intitola liberale, e che dice
al potere, «Ajutami ad abbattere i clericali»: poi dirà al popolo,
«Ajutami ad abbattere il Governo»: infine dirà alla ciurma, «Ajutami ad
abbattere Governo e popolo». Di applicare quel che, nel diritto nuovo,
chiamasi libertà, cioè l'arbitrio del Governo, opportunissima occasione
trovò allorquando il regno d'Italia, approfittando della nimicizia rotta
dalla Prussia all'Austria, dichiarò guerra a questa per toglierle il
Veneto. Mentre si ostentava baldanza per un esercito formidabile e una
decantata marina, si finse temere che i Cattolici volessero cogliere il
momento per tentare di sconnettere un regno, dove l'unione è decretata e
legale, ma non ancor penetrata negli spiriti. Allora dunque i liberali
fecero passare una legge de' sospetti (17 maggio 1866), che
infaustamente serba il nome di Crispi, per la quale lasciava autorità al
Governo di mandare a domicilio coatto le persone che dessero ombra.
Subito in ogni città, in ogni borgata furono istituiti comitati che
origliassero e denunziassero; v'ebbe spie che apersero le lettere,
delatori fin tra parenti, fin tra deputati; sfoghi di vendette,
prepotenze di magistrati. Universale fu la costernazione, e la servilità
de' prefetti e de' sindaci, i rancori degli individui, le passioni de'
partiti, la brutalità delle gazzette si accordarono per denunziare i
vescovi e i sacerdoti che avevano mostrato o zelo della religione, o
dottrina non comune, o fermezza a respingere gli abusi; e quelle persone
che si possono calunniare ma non disprezzare, e che non è così facile
far obbedire all'iniquità. Principalmente fu colpa, o almeno indizio
l'esser appartenuto alla Associazione Cattolica. Secondo le statistiche
presentate, seimila ottocenventicinque persone furono proposte per la
relegazione, di cui quattromila censettantuno vi vennero sottoposte,
anche senza processo; e benchè la legge non parlasse che di domicilio
coatto, furono chiusi nelle prigioni dei ladri; appajati agli assassini
nel trattamento. I giornali in quel terrore universale risero
sardonicamente, esclamando: «Ecco applicata la libertà della Chiesa».
L'inverecondo strazio lentossi, poi cessò quando ci fu imposta la pace,
e il ministero, sotto l'ispirazione migliore parve entrare in concetti
più civili e meno illiberali rispetto alla _credenza della maggioranza_,
come diceano, e togliere le inique parzialità. Allora dagli ergastoli,
dalle isole, dalle caserme, dai lontani esigli ritornò quella folla di
sospetti clericali, contro nessun de' quali erasi potuto procedere
legalmente. Allora ancora si permise potessero restituirsi alle sedi i
tanti vescovi che n'erano tenuti lontani per paura della loro virtù, e
sotto la maschera di salvarli dall'oltraggio del popolo. E per verità
quel pugno di persone che in ogni paese usurpa il titolo di pubblico,
que' giornali che han tossico nel cuore e fango nel pensiero tentò
dapertutto eccitare ire, dimostrazioni, fischi; per lo più prevalse il
buon senso: e lasciò sfogo al sentimento devoto e riconoscente dalle
plebi, tantochè potette applicarsi a tante diocesi d'Italia quella
descrizione che Gregorio Nazianzeno fa dell'esultanza de' Cristiani dopo
la morte di Giuliano.
Allora si consentirono alcune libertà alla Chiesa, come di scegliere i
proprj vescovi senza bisogno di presentazione regia, di giuramento, di
placitazioni: si propose una legge che, pure spogliando la Chiesa,
promettevale le sue libertà. Nol sofferse il parlamento; abbattè il
ministero e quella legge, nè tampoco volle discutere; rinnegò ogni
libertà[558], e dopochè l'Austria ebbe abbandonato il Veneto,
all'aspirata unità italiana dichiarava non mancare che l'acquisto di
Roma. Tanto s'è iti lontani dai motori della rigenerazione italiana!
tanto con mezzi sovvertitori si turbò la causa santa promossa da persone
che per la patria aveano fatto più che scrivere una gazzetta!
Pio IX, se come principe adopra ogni guisa al miglioramento del suo
Stato[559], come papa ha l'intima persuasione d'una particolare
assistenza di Dio, il quale certamente lo caverà da questi mali passi,
ripristinerà intera la sua autorità anche temporale, purchè egli non
rendasi indegno delle grazie superne; ed anzichè cercare armi ed appoggi
mondani, aspetta il miracolo. Intanto espone i torti e protesta, e il
fece di nuovo nell'allocuzione del 29 ottobre 1865, dicendo:
«Più volte e con lettere e con allocuzioni abbiamo deplorato le cose di
nostra religione, afflitte da molti anni in Italia, e le gravissime
ingiurie fatte dal Governo del Piemonte a noi e all'apostolica sede.
Cresce il dolor nostro, vedendolo incessantemente e con sempre maggiore
violenza aggredire la cattolica Chiesa, le salutari leggi e i sacri
ministri di essa, vescovi, integerrimi uomini d'ambo i cleri,
onestissimi cittadini cattolici, senza umanità, con quotidiano eccesso
cacciare in esiglio, in carcere, o vessar in modi indegni; le diocesi
con gravissimo detrimento delle anime lasciar prive de' pastori; le
vergini sacre a Dio espulse da' lor monasteri e ridotte a mendicità; i
templi di Dio violati; i seminarj episcopali chiusi; la istruzione della
gioventù tolta alla disciplina cristiana, e commessa a maestri di errore
e d'iniquità: il patrimonio della Chiesa usurpato e distratto. Messi in
non cale le censure ecclesiastiche e i reclami giustissimi da noi fatti
e dai vescovi, sancì leggi avversissime alla Chiesa e alle dottrine e ai
diritti di essa, fin la legge del matrimonio civile, sommamente
contraria non solo alla dottrina cattolica, ma eziandio al bene della
civile società, poichè rompe la dignità e santità del matrimonio, e
promuove un turpissimo concubinato, stantechè tra fedeli non può esserci
matrimonio che non sia sacramento. Violando la pubblica professione de'
consigli evangelici, spregiando i grandissimi beneficj recati dagli
Ordini regolari in tutte le cose religiose, civili e letterarie, non
esitò a sopprimere le corporazioni religiose, e usurparne le possessioni
cogli altri beni ecclesiastici. Fin prima di ottener il possesso della
Venezia, estese a quelle regioni le medesime leggi e decreti, e abolì il
Concordato da noi statuito coll'imperatore d'Austria[560].
«Epperò, come richiede il gravissimo ufficio del nostro apostolico
ministero, di nuovo alziamo la voce pontificale per la religione, per la
Chiesa, pe' sacri dritti di lei, pei diritti e per l'autorità di questa
cattedra di Pietro, fortissimamente detestando e riprovando nel
complesso e in ogni particolare tutto ciò che contro la Chiesa è stato
decretato e operato dal subalpino governo e da' suoi magistrati di
qualunque specie, e quei decreti e i loro effetti colla nostra
apostolica autorità abroghiamo e dichiariamo di niuna forza e valore.
Coloro che ne sono stati autori, e han nome di cristiano, seriamente
vogliano pensare d'essere miserabilmente caduti nelle censure e pene
spirituali che le costituzioni apostoliche, e i decreti de' Concilj
infliggono _ipso facto_ agli invasori de' diritti della Chiesa...
«Uomini astuti interpretano a lor modo e arbitrio quella benedizione che
noi demmo all'Italia allorchè, per ispontaneo amore verso i popoli dello
Stato Pontifizio, parlammo perdono e pace. Femmo umili e fervorose
preghiere a Dio che dagli imminenti mali liberasse, l'Italia e qui
maggiormente splendesse il dono preziosissimo della fede; coll'onestà
de' costumi, la giustizia, la carità, le altre virtù cristiane. Nè
abbiam mai cessato di pregare Iddio, affinchè la salvi da tante calamità
di ogni genere; e più che altro chiediamo al clementissimo Iddio che
questi popoli italiani col suo celeste ajuto soccorra e avvalori a star
saldi nella sua divina fede e religione, e a sopportare con cristiana
fermezza tante avversità.
«È però follia trarre da ciò argomento onde chiedere che noi
rinunziassimo al principato civile. Per singolare consiglio della divina
provvidenza avvenne che il romano pontefice avesse il suo civile
principato, onde nell'assoluta indipendenza da qualunque potere
politico, liberamente esercitasse la sua suprema autorità e
giurisdizione su tutta la Chiesa universale, e tutti i fedeli ai
decreti, e mandati suoi avesser fiducioso ossequio senza sospetto, che
gli atti suoi provenissero da volontà o impulso di verun potere
politico.
«Lo perchè il civile principato non solo non possiamo rinunciare, ma
dobbiamo strenuamente tutelare in tutti i suoi diritti. È noto con
quanta sollecitudine i vescovi di tutto l'orbe cattolico l'abbiano
propugnato a voce e in iscritto, e dichiarato, nella presente condizione
delle cose mondane, essere di tutta necessità al romano pontefice, per
esercitare la sua libertà di pascere il cattolico gregge di tutto il
mondo; colla qual libertà è connessa quella di tutta la Chiesa
universale.
«Vociferano pure che noi dobbiamo pacificarci coll'Italia, intendo dire
coi nemici della religione che intitolano se stessi Italia. Noi che,
assertori e vindici della salutare dottrina della virtù e della
giustizia, dobbiam procurare la salute di tutti, come potremmo
accordarci con quelli, i quali, sordi alla verità, da noi fuggono, e
neppur han voluto aderire ai desiderj nostri, unicamente diretti a
provvedere di vescovi tante diocesi italiane deserte?
«Volesse Dio che costoro, i quali oppugnano sì fieramente noi e questa
sede apostolica, alzando gli occhi e l'animo alla verità e alla
giustizia, ne avessero lume e ravvedimento; e venissero a noi, guidati
da salutare affetto di penitenza! Allora vedrebbero come l'augusta
nostra religione conduca a privata e a pubblica felicità individui e
popoli; dove essa impera, ivi di necessità si ritrovano la vita onesta,
l'integrità, la pace, la giustizia, la carità e ogni altra virtù; nè i
popoli vi sono percossi dai mali che gli opprimono ovunque essa è
conculcata e invisa....
«Furiosi nemici non cessano di gridare che questa Roma dev'essere
partecipe del sovvertimento italico; anzi esserne la capitale. Sperda
Iddio gli empj consigli; e non permetta che quest'alma città, dove Egli
collocò la cattedra di Pietro, abbia a tornare in quel tristissimo
stato, quando la prima volta v'entrò il beatissimo principe degli
apostoli. Noi, da ogni umano ajuto quasi deserti, fidenti nel solo ajuto
di Dio, siamo apparecchiati a difendere anche col pericolo della vita la
causa della Chiesa, a noi da Cristo divinamente commessa; e se fia
bisogno, andarcene in qualunque altro paese ove nel miglior modo
esercitare il nostro apostolico ministero...
«Purtroppo non è certo se questa o quell'altra nazione abbia da
conservar sempre il tesoro preziosissimo della divina fede e religione.
Popoli che un tempo custodivano fedelmente il deposito della fede e la
disciplina dei costumi, al presente sono scissi da quella pietra, su cui
è fondato l'edificio della Chiesa. Miseri i principi i quali, dimentichi
d'esser ministri di Dio pel bene, han trascurato di fare quanto è in
loro potere e dovere per impedire che si distrugga il preziosissimo
tesoro della fede cattolica, fuor della quale è impossibile piacere a
Dio...»
Questi gemiti ripetemmo perchè rivelano i dissensi della Chiesa dallo
Stato, del popolo vero dai suoi rappresentanti, della nazione da' suoi
padroni: perchè si ebbe cuore di dire solennemente che il papa non si
duole delle ingiustizie contro la Chiesa[561]; e perchè si veda come i
fabbricatori di distruzione allontanino più sempre quella conciliazione,
senza della quale non potrà dirsi fatta l'Italia. E mentre scrivo vien
ratificata (15 agosto 1867) una legge di passione e di guerra per
dilapidare la Chiesa, lasciando senza risposta le lezioni del passato e
le interrogazioni dell'avvenire, a cui legheremo tanti inganni, tanti
errori, tanti rimpianti: suonano i gemiti di migliaja di anacoreti e
monache, cacciati dagli asili dove s'erano formati all'amor del prossimo
e all'energica sommessione al voler di Dio, e che esposti a vera fame,
ispirano compassione fin ai loro nemici, che crederebbero viltà
l'ostinarsi a ingiuriarli; suonano gridi dal parlamento che, «ritirati i
Francesi da Roma, omai i preti possono prendersi a calci»[562]: suonano
i proclami de' comitati, che spinti dal gran rivoluzionario, preparano
armi, prestiti, mine contro Roma, non dissimulando che con ciò si dee
scassinare l'ordinamento cattolico.
Se i potentati sostengono il pontefice, s'egli è una forza con cui le
forze devono contare, gli è perchè il popolo è ben lontano dall'averlo
abbandonato. Altrove le dinastie spariscono alle trame d'un ministro o
d'un cospiratore; al comparir dell'oro o delle camicie rosse sfasciansi
gli eserciti, spergiurano gl'impiegati. Qui non avvenne. Ma se Dio vorrà
non esista più un popolo, a governar il quale basti un prete senza
spada, che annunzia la pace e non vuol mai la guerra; dove non si cambiò
dinastia da XVIII secoli; dove ogni lingua ha collegi e rappresentanti e
tribunali; dov'è l'asilo comune de' perseguitati, la scuola degli
artisti e degli eruditi; dove stanno gli archivj della civiltà che di
qui fu inviata e protetta in tutto il mondo; dov'è una quiete che
ripugna, un silenzio che mortifica il convulsivo rumore dell'altre
genti; se s'avvererà la profezia che il demonio prevalga ai santi[563],
il pericolo sarà de' Cattolici, non del cattolicismo, e ai paurosi
suonerà la parola, «Di poca fede, che dubiti?».
NOTE
[517] Il filosofo Rosmini ha un'orazione funebre per Pio VII, dove è a
vedere come lo scagiona dell'aver incoronato Buonaparte. Gli atti corsi
in quell'occasione servono a spiegare in qual guisa la Corte di Roma
intenda la tolleranza, e come vada intesa l'enciclica dell'8 dicembre
1864. La verità è una. Non può teologicamente riconoscersi vera
nessun'altra religione. Ma ciò non importa che, civilmente, non abbiasi
a tollerare chi ne professa un'altra. Talleyrand stesso, in un rapporto
all'imperatore del 13 luglio 1804, diceva: «La tolleranza in Francia e
nella più parte degli Stati europei è un dovere politico, che non
affetta in nulla la cattolicità de' sovrani e degli Stati che governano.
In Germania, in Italia, a Roma stessa e in Francia si vietano l'insulto
e la persecuzione; si compiangono i dissidenti, ma si comanda di
rispettarne le opinioni e il culto, che la coscienza prescrive loro di
praticare.»
[518] «Intanto innumerevoli spie son qui mantenute, e tutta Roma e tutto
lo Stato pontificio sono in preda alle loro calunnie, il palazzo
apostolico n'è assediato, come fosse un castello». Note del Consalvi al
Talleyrand, 1805.
[519] Nelle memorie lasciate dal principe di Metternich, lungamente
ministro dell'impero austriaco è detto: «Io, non come cattolico, ma come
ministro d'Austria voglio che il papa soggiorni in casa del papa, e non
in casa d'altri. L'ho cantato a Napoleone quando il papa era in Savona
prigioniero della Francia. Napoleone mi volea bene, e sapeva che il papa
onoravami di sua fiducia. Un giorno mi chiamò e mi disse: — Fatemi un
servizio. Sono stanco della cattività del papa. È una condizione che non
può fruttar nessun utile, e che importa di non continuare a lungo.
Desidero che andiate a Savona; il papa vi è benevolo; gli farete gradire
un disegno che ho divisato per isbrigar questa brutta lite.
Io ripresi che mi converrebbe ottener prima la licenza del mio
imperatore.
— O che! mi ricusereste questo piacere? (replicò egli). Parmi che non
arrischiereste nulla, adoperandovi per la _pace del mondo_.
— Di ciò per appunto dubito, io ripigliai sorridendo. Temo che non sia
pace quella che vostra maestà propone al papa. Si degnerebbe
manifestarmi il suo disegno?
— Eccovelo, disse Napoleone quietamente. Da qui innanzi la sede della
Chiesa non sarà più a Roma, sarà a Parigi. — Io feci un moto
d'ammirazione e un sorriso d'incredulità.
— Sì, continuò il terribile uomo. Io fo venire il papa a Parigi, e vi
fermo la sede della Chiesa. Ma voglio che il papa sia indipendente: gli
accomodo presso la capitale una dimora convenevole; gli regalo un
palazzo, e affinchè sia in casa propria, dichiaro neutro il territorio
per la circonferenza di alcune leghe. Colà avrà il suo corpo
diplomatico, le sue Congregazioni, la sua Corte, e acciò che di nulla
difetti, gli assicuro una dotazione annua di sei milioni. Credete voi
che rifiuterebbe?
— Certo sì, e tutta Europa lo sosterrà nel rifiuto; il papa vedrà, e
giustamente, che egli sarebbe prigioniero coi vostri sei milioni, quanto
è in Savona.
Napoleone si indispettì, e mi tempestò con cento clamorose querele. In
ultimo io gli dissi: — Vostra maestà mi strappa un segreto. L'imperatore
d'Austria ha avuto questo disegno medesimo. Si accorge che vostra maestà
non vuol ricollocare il papa in Roma: egli non vuole che resti in
cattività, e pensa altresì fargli uno Stato. Vostra maestà conosce il
palazzo di Schönbrunn; l'imperatore lo dà al papa, con un circuito di
dieci o quindici leghe, neutro del tutto, e gli aggiunge una rendita di
dodici milioni. Se il papa accoglie questa proposizione, ci consente
vostra maestà?»
[520] Queste dottrine erano sostenute da un Ferloni prete cremonese
(1740-1813) che avea scritto la _Storia delle variazioni della
disciplina della Chiesa_. Il manuscritto ne perdette nell'invasione de'
Francesi a Roma il 1798: ma invece d'indispettirsene, offrì ai
rivoluzionarj la sua penna, pubblicò omelie in favor di Buonaparte, fu
teologo del consiglio privato del vicerè d'Italia, e scrisse
«Dell'autorità della Chiesa secondo la vera idea che ne ha data
l'antichità, libro da cui si dimostra l'abuso che se n'è fatto e la
necessità di circoscriverlo». Gl'indirizzi dei vescovi d'Italia son
posti all'Indice per decreto 30 settembre 1817, avvertendo che parte
erano finti, parte alterati; e che, appena i tempi lo permisero, tutti
furono riprovati da quelli di cui portavano i nomi, con ossequiose
lettere spontanee dirette al papa.
Lo sforzo di conciliare l'ordine ecclesiastico col civile fu fatto anche
nel tempo de' Francesi. Giuseppe De Poggi nato a Piozzano nel piacentino
il 1761, allo scendere de' Giacobini uscì dagli Ordini, come molti
altri, ebbe incarichi dalla Repubblica Cisalpina, al cader della quale
si fissò in Parigi, ove stette fin al 1842 quando morì. Fu lui che
procurò la pubblicazione della _Storia d'Italia_ di Carlo Botta.
Giovanissimo stampò _De Ecclesia tractatus_, nelle idee febroniane, poi
le _Emende sincere_ (1791) tutte in sostegno de' diritti del principe
nelle discipline ecclesiastiche e in lode del Ricci e di P. Leopoldo, e
le pungenti _Lettere di frà Colombano_. Venuta la repubblica, sostenne i
diritti di questa contro la Chiesa; il che è logico: stampò il giornale
il _Repubblicano Evangelico_, la _Concordanza della Democrazia col
Vangelo_, un'_Istruzione dei Cattolici sul giuramento della Repubblica
Cisalpina_. Oltre varie opere d'erudizione e di storia naturale;
tradusse in versi l'empia _Guerra degli Dei_ di Parny (Parigi 1830), e
fece un poema _della natura delle cose_, ove sostiene l'eternità della
materia.
Eterna ed una, dell'immenso tutto
Somma cagion, visibile, verace,
Alma natura, che qual sempre fosti
E sarai sempre, sei ciò ch'è, che fue,
Che in avvenir sarà: sta delle cose
In te il principio, la ragion, l'essenza,
Il moto, la virtù, la vita, il senso, ecc.
[521] _Qualora non potessero esimersene senza grave pericolo e danno_,
Pio VII permetteva agli antichi suoi sudditi di giurare «di non prender
parte in qualsiasi congiura, complotto o sedizione contro il governo
attuale; e d'essergli sottomessi e obbedienti in tutto ciò che non sia
contro alle leggi di Dio e della Chiesa».
[522] Di quella che chiamammo eresia politica fu il tipo Napoleone I. Il
suo intento fu sempre di dominare la Chiesa; e come disse a Sant'Elena,
«rispettar le cose spirituali, dominandole senza toccarle; volendo
acconciarle ai suoi intenti politici, ma per l'influenza delle cose
temporali». Ma per l'inseparabilità loro, anche delle spirituali si
mescolò. Il diritto avuto pel concordato di nominar i vescovi, che un
tempo la Chiesa avea potuto cedere a principi religiosi, diveniva
terribile stromento in mano del rappresentante della rivoluzione
francese; d'un libero pensatore. Il linguaggio verso il papa e i prelati
ne fu dapprincipio rispettoso; conoscendo l'importanza di restaurare
l'autorità, ripristinò la gerarchia, e nelle cerimonie i cardinali
passavano avanti ai marescialli, i vescovi ai generali, ma purchè
obbedissero a' suoi decreti, assecondassero le sue mire: il che per
verità era men difficile, atteso il fascino della grandezza di lui, e
dell'imperiosità che non supponeva mai la possibilità d'un'opposizione.
La nomina de' primi 60 vescovi fu prudente, e diretta a conciliare i
partiti, ma insieme a prepararsi vescovi favorevoli per quando
domanderebbe la già meditata corona. Dappoi fu sempre più interessata,
sebbene non mai scandalosa, cernendoli fra le persone avverse alla
revoluzione, devote a lui e alle istituzioni imperiali, fedeli alle
libertà della Chiesa gallicana e di famiglie aristocratiche, avendo
potuto dire: «Non c'è che le persone di vecchia razza che sappiano ben
servire». Al principe Eugenio scriveva: «Fatemi conoscere chi sostituir
nelle sedi vacanti. Bisogna nominar de' preti che mi sian molto
attaccati, non cercar vecchj cardinali che all'occasione non mi
seconderebbero» (17 febbrajo 1806). E a Giuseppe re di Napoli: «Vi dirò
schietto che non mi piace il proemio della soppressione dei conventi. In
ciò che riguarda la religione il linguaggio dev'essere nello spirito
della religione, e non in quello della filosofia. Qui sta la grand'arte
di chi governa. Il preambolo doveva essere in istile da frate. Gli
uomini sopportano meglio il male quando non vi si unisca l'insulto. Del
resto sapete che non amo i frati, giacchè li distruggo da per tutto» (14
aprile 1807). E ad Elisa: «Non esigete giuramento dai preti. Non riesce
che a far nascere delle difficoltà. Tirate dritto, e sopprimete i
conventi» (17 maggio 1806). E poco dopo: «Il Breve del papa non importa
un fico sinchè resta in man vostra. Non perdete un momento per incamerar
tutti i beni de' conventi. Non badate ad alcun dogma. Pigliate i beni
de' frati, e lasciate correr il resto» (24 maggio).
Frequenti nasceano le occasioni di _Te Deum_, accompagnati da pastorali
dove i vescovi esaltavano il presente ordine, e, ispirati dal ministero,
lanciavano qualche motto contro gli scismatici Russi, gli eretici
Inglesi, le persecuzioni che i cattolici soffrivano in Irlanda: non
doveano mai mancar le lodi al restaurator della Chiesa, e venivano
rimproveri se fossero scarse. Introdusse di far leggere nelle chiese i
bullettini dell'esercito, ma poi gli parve che con ciò si desse ai preti
un'ingerenza nelle cose politiche, ch'ei non voleva. Da ciò il volere
che i preti non potessero salire a gradi nel ministero dei culti senza
aver laurea dall'università (30 luglio 1806), la quale potrebbe
ricusarla «a chi fosse conosciuto per idee oltramontane, pericolose
all'autorità». Che se anche semplici curati dessero segno
d'indipendenza, faceali mettere prima in conventi, poi in prigioni; e
quelle di Vincennes, di Santa Margherita, di Fenestrelle, d'Ivrea furono
piene di sacerdoti, non processati, non condannati, che o morirono, o
furono liberati alla caduta di lui, senza sapere il perchè fossero stati
presi. Ciò in appresso, ma fin dal principio lagnavasi altamente delle
sofisticherie di Pio VII, e assicurava che con ciò portava la ruina
della religione. Minacciava che la Francia fosse per divenir
protestante, e al nunzio Caprara rimproverando qualche opposizione,
diceva: «Non è più il tempo che i preti faceano miracoli. Richiamate
quel tempo, ed io vi lascio tutto. Nelle circostanze presenti, dovete
lasciar fare ogni cosa a me, prestandomi appoggio fin dove la religione
lo consente. Le differenze nostre han fatto nascere fra gl'increduli e
gli atei l'idea di gettarsi nel protestantismo, che, dicono, non porta
discussioni, e i cui capi fanno ogni opera per trarre il mondo in questa
via».
Volle anche procacciarsi il monopolio della parola, e a Portalis,
ministro de' culti, il quale avea messo il molto suo ingegno a tutto
servizio di lui, scriveva di abolir tutti i giornali religiosi, e
ridurli a un solo _Giornale dei Curati_: eppur si sbigottiva quando
questo contenesse alcuna cosa avversa alle libertà gallicane. Non è da
tacere che, fin dai primi tempi, ma viepiù in appresso, falsificava o
alterava i documenti emanati dalla santa sede nel riprodurli sul
_Moniteur_ o nel tradurli, nè esitava di darvi interpretazioni e
ispiegazioni fallaci.
Intanto egli s'intrigava di cose strettamente religiose, come la festa
del 15 agosto, per la quale fe comparire un san Napoleone, fin allora
ignoto al calendario francese, e che doveva escluder la memoria
dell'Assunta. Era una nuova occasione ai vescovi di far elogi
all'imperatore, e pur troppo vi strabbondarono in frasi, che ormai non
- Parts
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 01
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 02
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 03
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 04
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 05
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 06
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 07
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 08
- Gli eretici d'Italia, vol. III - 09
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