Gli eretici d'Italia, vol. III - 63
dello Stato che le porrebbe continui impacci: sarebbe il chiodo battuto
continuamente dal martello della pretesa libertà. La spiegata ostilità
non lasciò ignorare nessuno degli abusi che al clero potrebbero apporsi,
ma voi volete far la politica col mezzo della miscredenza; confondete
l'idea di società con quella di Stato; chiamate libertà il toglierla ad
altri, ad una classe intera; pretendete alla concordia per mezzo
dell'irritazione, e col dividere la nazione in vincitori e vinti.
Riponendo ogni progresso nel livellare (continuano) a questi atti
pretessete il titolo di eguaglianza, quasi la Chiesa pretendesse dare
l'_exequatur_ alla nomina del re o del ministro o del senatore, e
stabilire qual bandiera, che divise, quanti soldati aver deva lo Stato,
e come regolare i collegi militari o di marina, o impedirvi d'opprimere
di tributi i cittadini. La società non tollererebbe più un clero
privilegiato e dominante, ma forse la Chiesa aspira a questo titolo? Non
chiede privilegi, vuol l'eguaglianza, vuole poter seguitare i proprj
statuti che sono i canoni e le disposizioni conciliari, in quanto non
repugnano al diritto comune; vuol garantiti i diritti che spettano a'
ministri e membri suoi secondo quegli statuti.
Viepiù il raziocinio e le azioni scompigliò la aspirazione di
conquistare Roma, sempre coll'ombra di quistioni accessorie offuscando
le verità fondamentali. Nella meschinità de' concetti moderni si suppose
che i contrasti della società secolare contro l'ecclesiastica nel
medioevo mirassero a togliere a questa gli Stati Pontifizj, e si arrivò
persino a fare di Dante l'apostolo, anzi il profeta d'un'unità italiana,
di cui fosse capo un imperadore sedente a Roma; nel veltro allegorico di
lui s'adombrò un re moderno, al quale un prete in pubblica solennità
gridò, _Vieni a veder la tua Roma che chiama_. Chi serbava ombra di
senno non potea dimenticare che quelle parole erano dirette ad Alberto
d'Austria, cui il poeta minacciava il giusto giudizio di Dio se non
venisse qua ad inforcare gli arcioni di questa Italia, fatta indomita e
selvaggia.
Se la fede di Cristo fosse stata applicata nella sua pienezza, la pace
avrebbe regnato nel mondo come in una famiglia; _cor unum et anima una_;
con un solo simbolo per conoscere il suo Padre, una sola morale per
servirlo, un culto per adorarlo, un cuore per amarlo, un pastore per
condurci, eliminando dalla fraternità universale quelle irose ambizioni,
che sopra migliaja di vittime erigono la gloria degli eroi.
Il medioevo sperò effettuare la pace riducendo il mondo a questa grande
unità sotto un solo capo, che potesse imporre agli altri la giustizia,
sia colla forza, o sia coll'autorità. Questo capo era o l'imperatore o
il papa: e quello i Ghibellini, questo i Guelfi miravano a render più
libero e assoluto che si potesse. Nello sfasciamento della società
antica, quando non era sopravvissa altra podestà, altro organamento che
l'ecclesiastico, altra legge che la canonica, altre regolari procedure
che le sacerdotali, prevalsero i pontefici, che della civiltà antica
aveano raccolto le parti migliori, e depurandole se n'erano valsi a
ricostituire la società universale: i principi stessi invocarono l'alto
dominio di essi, fosse per assicurare il proprio, fosse per attingerne
norme d'amministrazione e di giustizia: il popolo ne li benedisse d'un
aumento di potenza, che riusciva tutto a favor suo, perchè surrogava il
diritto alle sciabole, la discussione al decreto, la carità alla
tirannia.
Come le genti si furono sedute ne' paesi che doveano divenir patria
loro, i dominanti particolari che, munitisi d'eserciti e d'erario, più
non sentivano bisogno del patronato dei papi, studiarono ritrarsene, e
recuperare al governo civile le prerogative che quelli aveano non
usurpate, giacchè a nessuno le tolsero, ma esercitate quando altro
organamento non sussisteva.
Forse, col rinnovarsi della civiltà, sarebbonsi potute conciliare le
pretensioni dei due poteri, ma ne tolse speranza la riforma religiosa,
che fu una vera riazione contro la preponderenza italiana e pontifizia.
Sottrattogli mezzo il mondo, il papato non potè più influire
efficacemente sulla civiltà e sulla politica: ristretto a un piccolo
principato, scemata tanto l'efficacia della sua parola; per tutelarne
l'esistenza e i diritti dovette cercare le alleanze dei forti,
stringendosi ora colla Spagna, ora colla Germania, ora colla Francia,
che colla loro protezione, coi loro concordati ne mozzavano spesso la
podestà spirituale; e colla scienza e col moto civile cospiravano,
talora senza accorgersi, a sottometterla al laicato[546].
D'allora il principato di Roma non diversificò dagli altri principati
fra cui sminuzzavansi i regni tutti, ma specialmente l'Italia nostra e
la Germania. La indipendenza più o meno intera di questi piccoli ovviava
l'oltrapotenza dei grossi, che perciò miravano ad ingojarli. Ma di farlo
non trovarono la opportunità se non quando la Rivoluzione, sotto il
titolo di dar a tutti la libertà, abolì le libertà de' singoli a favore
d'un ente astratto che chiamava lo Stato; poi ridottile a una fittizia
unità, li gettava in braccio d'un re.
Questa genesi della libertà moderna ci è data dalla storia che non imiti
un bullettino d'armata; vuolsi aggiungere che, per frenare i possibili
abusi dei re, non più bilanciati dalle piccole aggregazioni e dalla
Chiesa, dovette ricorrersi alle costituzioni, cioè metter limiti fittizj
e irrispettati a principi su cui si era accumulata la piena assolutezza;
e se non vi si attenessero, minacciarli non più della scomunica, ma
della rivolta.
Mercè della Rivoluzione, la Germania che avea da quattrocento Stati,
alcuni repubblicani, tutti con sovranità limitata da privilegi, fu
ristretta in pochi regni, principalmente spodestando i principi
ecclesiastici.
Dall'Italia scomparvero tutte le repubbliche, e gli Stati si ridussero a
pochi, sinchè vennero assorti tutti in uno. Prima del 96 il papa pesava
sulla bilancia europea come un'altra potenza, giacchè come queste poteva
comprare soldati. Introdotta la coscrizione, e perciò misurata
l'importanza dal numero de' sudditi, egli si trovò impotente a petto
degli ambiziosi. Buonaparte nelle prime sue corse tolse ai papi le
Legazioni, garantendo il resto: ma ingrandito, non sofferse che un prete
osasse dirgli no quando gli altri re non sapeano che dirgli sì: che
negasse concorrere a soffogar l'Inghilterra col blocco continentale, o
ricusasse di maledire i suoi nemici, o di dargli soldati contro di
questi, di scioglier il suo matrimonio, acciocchè potesse sposare una
austriaca: sicchè dichiarò finito il dominio temporale del papa, ne fece
dipartimenti francesi, e conferì il titolo di re di Roma al presunto suo
successore.
L'Europa s'indignò alla prepotenza, ma ancora Abele fu il vincitore; e i
popoli, appena ebbero rovesciato Napoleone, non ebbero premura migliore
che di veder restituito al papa il suo dominio. Ma più che da quel misto
di protestantismo e di misticismo che fu la Santa Alleanza, lo Stato
pontifizio restava garantito dal confinare con principati non superiori
di forze; e quando la sommossa del 1830 minacciò l'indipendenza del
regnante di Roma, le grandi potenze d'Europa s'accordarono a
restituirgliela piena.
Poi Pio IX credette maturo il paese agli ordini civili che il secolo
nostro proclama; e con timidezza ma con sincerità, inesperto,
scrupoloso, incoerente, ma tutto equità e benevolenza procedendo, si
fece ammirare da tutto il mondo come nessun suo predecessore, e benedire
dall'Italia, della quale egli fu che cominciò il rinnovamento, e sulla
quale attirò l'attenzione di tutta Europa come negli splendidi giorni
del papato.
Presto si trascese; non si seppe cacciar lo straniero, bensì il papa:
Pio IX dovette fuggire dal suo paese che cadde in preda all'anarchia; e
le aspirazioni de' Neoguelfi cedettero alle ambizioni dinastiche e alle
astuzie dottrinarie. Il regno sardo pensò allora rifarsi delle sofferte
sconfitte, e acquistare predominio in Italia coll'andar a ristabilire in
trono il papa. I deputati savojardi, imperterriti sostenitori del
partito conservatore e religioso, mal soffrivano una spedizione che
poteva tornar utile alla repubblica romana, o minacciare gli altri
principi per ingrandire il regno sardo, col che sarebbesi dovuta cangiar
la capitale, e con ciò dare il crollo al regno[547]. Più l'avversavano i
liberali, e gli atti del Parlamento del 1849 meritano esser letti per
vedere sino a qual punto possa trascender la retorica, e come vi si
producessero già que' sofismi, che tratto tratto ripullulano sulla
sovranità popolare o sull'autorità pontifizia. Ma mentre colà si
disputava, i potentati aveano di nuovo pronunziato legittimo il dominio
del papa quanto gli altri, e necessaria all'indipendenza di ducento
milioni di Cattolici la indipendenza del pontefice: e incaricarono di
repristinarlo la Francia repubblicana, così governabile appena non ha
più governo.
Così fu fatto: ma ciò portava l'ingrata necessità di una permanente
occupazione straniera, per reprimere la rivoluzione che aveva
concentrato i suoi fuochi contro di Roma. Il pontefice, in occasione che
si trovavano i vescovi congregati per una sacra solennità, propose loro
di decidere se il potere temporale fosse necessario qui e adesso.
Risposero unanimi del sì, e diceano: «Come i prelati della Chiesa
avrebbero potuto da tutte le parti del mondo arrivar sicuramente per
conferire con vostra santità sui più gravi interessi, qualora avessero
trovato su queste rive un principe geloso de' loro principi, o sospetto
o nemico ad essi? V'è doveri di cristiano e doveri di cittadino, che non
sono contrarj ma differenti. E come i vescovi avrebbero potuto compirli
se non vi fosse a Roma una sovranità temporale, come è la pontifizia,
assolutamente indipendente, e centro della concordia universale, senza
ambizione umana, senza aspirazione a dominio terrestre? Noi liberi siam
venuti a un papa-re libero: pastori noi ci occupiamo degli interessi
della Chiesa: cittadini, degli interessi della patria: equamente
congiungiamo gli uni cogli altri, e non negligendo i doveri nè di
pastori nè di cittadini. Chi dunque oserebbe impugnare un principato
così antico, fondato sopra tale autorità e necessità? Se anche si badi
al diritto umano sul quale riposano la sicurezza de' principi e la
libertà dei popoli, qual altra potenza potrebbe a questa paragonarsi?
qual altra è così venerabile e santa? Se questi diritti si calpestino
riguardo alla santa sede, qual principe sarebbe sicuro di conservar il
suo regno, qual repubblica il suo territorio? È dunque per la religione,
ma anche per la giustizia e pel diritto, fondamenti delle cose umane, se
voi lottate e combattete».
Seicento mandarono indirizzi nell'egual senso, e milioni di firme
accompagnate ciascuna da un'offerta, espressero l'omaggio verso il
pontefice: ora legate in diciotto grossi volumi nella Biblioteca
Vaticana, s'aggiunsero ai tanti documenti del principato romano. Qual
lingua v'ha in cui esso non siasi affermato?
In realtà il potere temporale non è consacrato nè nella necessità nè nel
principio, nè fuori nè dentro da verun dogma, cioè qual verità rivelata,
proposta dalla Chiesa a credersi. È opportunità contingente; eppure
scindere la quistione non è possibile, ed è necessario scegliere fra lo
spirito della Chiesa e lo spirito della Rivoluzione. Quando tutto era
forza, la Chiesa potè, mediante il suo potere, salvar la società e la
civiltà: oggi pure, che al diritto si surrogano gli eserciti, i fatti
compiuti: oggi che la forza proclama, gli oppositori balbettano, e pare
assai ottenere una transazione; quanto le giova l'indipendenza
materiale! vorrebbero il mondo senza papa, cioè come era in man di
Nerone, ai piedi di Poppea, fra le braccia dell'insaziabile Messalina.
Il papa ha per missione il governo della Chiesa, non dello Stato. La
fede non dice che il temporale sia inseparabile appendice della divina
missione, e indispensabile all'esercizio del potere spirituale, ma
determina questo in modo, che non può venir esercitato se non da un capo
indipendente. Tolte le varie gradazioni di sovranità, oggi non si
riconoscono che re o sudditi: il papa, dal momento che cessasse di esser
principe, rimarrebbe suddito d'un re, cioè all'arbitrio d'un ministero,
che ben potrebbe usargli tutti i riguardi, tutte le deferenze, ma non
lascerebbe d'esserne il padrone, anche quando camminasse d'accordo; in
un conflitto poi potrebbe impedire ogni esercizio d'autorità a quello
che ducento milioni di Cattolici han bisogno di saper indipendente.
Queste cose poteano esser comprese da Carlomagno[548] o Napoleone il
Grande: non dalla trivialità de' giornali, non dalla rivoluzione che,
elevato uno sul pinacolo del tempio, gli mostra la penisola, e gli dice:
«Sarà tutta tua se prostrato mi adorerai». In fatto si fece credere che
il ben dell'Italia richiedesse, non l'unità delle anime come vuol la
Chiesa, ma l'unità geografica; si gridò in tutti i toni la frase di
aspirazione nazionale, e fattosene organo il Piemonte, questo cacciò gli
Austriaci dalla Lombardia cogli ajuti di Francia; poi contro il voto
della Francia s'annettè i varj Stati d'Italia, facendo qui ciò che casa
d'Austria fece un tempo colla Spagna. Possano esserne diverse le
conseguenze!
Allora il pontifizio si trovò serrato entro un unico dominio, il quale
gli aveva anche tolto le provincie sue migliori; le Legazioni per
sollevazione, per conquista le Marche e l'Umbria, restringendolo a
settecenmila abitanti, con una delle più insigni città del mondo; enorme
testa di meschinissimo corpo.
Ridotta la politica a un calcolo di forze e ad una teoria geografica, si
asserì che anche quel brano dovesse appartenere al regno, e capitale di
questo fosse Roma; si tentò averla per forza; e poichè le altre potenze,
e più dichiarata la Francia, lo impediscono, vi si mira con quelli che,
un'altra frase del tempo, intitola mezzi morali. Il migliore certamente
sarebbe il concedere la massima libertà religiosa, e il governar in modo
da rendere desiderabili le leggi, i tributi, la giustizia,
l'amministrazione nostra[549]. Invece si volge ogni studio a dimostrare
che il pontifizio è il pessimo de' governi; e per farlo creder tale
basta lo echeggino le trenta voci di quella che altra frase del tempo
intitola opinione pubblica. Ma diversa cosa è la sovranità temporale dei
papi e il loro governo. Ogni Governo conserva, ed è un modo di
conservare il migliorar gradatamente. Ma perchè le idee, non avendo
ostacoli di realità e d'attualità, procedono più rapide, sempre si trova
che i Governi sono in ritardo. Perciò in ogni paese v'è una porzione,
malcontenta del presente e desiderosa del nuovo, da cui spera ogni
meglio: il grido di rivolta è sempre considerato come voce del popolo,
dacchè, smarrito il senso dell'autorità, i teorici della sovversione
guardano come segno di superiorità lo springar calci, e d'imbecillità il
conservare. Come contro _tutti_ i governi si declama perfin dai loro
amici senza per questo volerli abbattere, così potrebbe esser pessima
l'amministrazione del papa, che è infallibile nelle decisioni
dogmatiche, non in quelle di Stato, nè perciò andarne invalidato il
principio: questo è immanente, quella continuamente mutabile.
Allorchè si discute delle inenarrabili miserie dell'Irlanda,
l'orgoglioso Inglese dice: «La causa n'è il papismo». Così qui si ripete
che da Roma derivano immense jatture all'Italia; là si ricovera un re
spossessato; là si fomenta il brigantaggio; là si desidera la
restaurazione de' principi spossessati e si prepara; là s'insinua ai
preti, e per essi alle popolazioni, che non è bene l'introdurre anche
colà il giansenismo, la sofistica, le idee del 89, il codice francese:
che i fatti compiuti non costituiscono un diritto: che al dominio della
forza prevarrà il regno della giustizia. Se il papa è un capo dei
briganti; se le sue speranze fonda sull'Austria; se i fautori di esso
sono nemici della patria, chi non troverebbe giusto l'odiarli, e consono
il perseguitarli, e il cercar in ogni modo la ruina d'un potere così
micidiale? E chi nol crederebbe quando ogni giorno lo ripetono i
giornali e l'effigiano le caricature?
Di rimpatto i Cattolici credonsi in dovere di obbedir al pontefice in
quanto riguarda il dogma e la morale, e per venerazione filiale
accettano la sua decisione anche quando pronunzia opportuna la
conservazione della podestà temporale. Ai conservatori fa urto che Roma
dovesse cessare d'esser la città delle arti; e colle vie dritte coi
palazzi nuovi, colle caserme, cogli arsenali sostituire le trivialità
odierne alla poesia di tante memorie, e i nomi di fatti e di eroi da
scena a quelli che il mondo venera da secoli. I forestieri ricordano che
Roma è di tutto il mondo, perocchè tutto il mondo contribuì a
fabbricarla e arricchirla. I lepidi pongono in baja questo parlamento
che starebbe al Quirinale mentre il papa al Vaticano; e quello
pubblicherebbe leggi che questo maledice, ordinerebbe atti che questo
proibisce[550]. I serj prevedono che a Roma non regnerebbero i Tarquinj,
che sotto quell'aspirazione scavasi l'abisso alla dinastia. Altri poi
non dissimulavano che, dietro la questione principesca, mascheravasi
l'eresia, che vuole conservar la religione, tagliandole solo il capo; e
lamentavano che la Chiesa è invecchiata, offuscate le sue verità, che
bisogna ringiovanirla associandola alla progrediente civiltà. È la
conseguenza della democrazia che, posto il governo nel popolo, vuol
porre anche la Chiesa nel corpo de' fedeli; è un'applicazione della
teoria protestante del senso privato, e vedemmo gli attacchi contro il
dogma cominciar sempre da questo tema, troppo facile a chi guardi i
disordini soltanto, non le mirabili istituzioni, non tanta esemplarità
di vita e generosità di sacrifizj e d'abnegazione; non la faticosa
propagazione del vangelo, non la perpetuazione dell'organamento
gerarchico.
A questi concetti diè gran peso il libro _Pro causa italica ad episcopos
catholicos, auctore presbitero catholico_ (1861). Era opera del
dottissimo Carlo Passaglia, che dopo avere insignemente combattuto fra'
teologi e massime per l'immacolata concezione, erasi staccato dalla
Compagnia di Gesù, e venuto professore a Torino. A detta sua, non può
annoverarsi fra gli Stati uno che non basta a conservarsi e difendersi
con forze proprie, ma è costretto puntellarsi d'armi straniere contro i
sudditi, attenti ad ogni occasione di ribellarsegli, e che hanno diritto
ad effettuare l'unità d'Italia, e perciò disfarsi di quel governo. Al
papa dunque suggeriva di ovviare i disastri imminenti alla Chiesa col
rinunziare al dominio terreno. Aggiungeva che il vescovo di Roma non può
abbandonar la sua sede: asserzione contraria ai fatti di tanti pontefici
e dei tanti vescovi _in partibus_, i quali niuno vorrebbe obbligar a
rimanere là dove sono spogliati, avviliti, percossi.
In tal senso sporgeva una supplica, dove, confessatane la supremazia sui
vescovi, pregava il papa a far pace coll'Italia, e lasciare che Roma
divenisse capitale del nuovo regno. La petizione girò, e fu firmata da
centinaja di preti, alcuni per verità in buona fede e per desiderio di
concordia, ma pure presumendosi più teologi del papa, più politici dei
consiglieri di esso.
Poco andò, e l'ispiratore vedea diminuirsi la sua autorità, e
grandissimo numero degli aderenti far solenne ritrattazione: ma ciò che
fu notevole, e che discerne l'età nostra dal Cinquecento, si è che
neppure un vescovo sottoscrisse all'indirizzo passagliano. Molti vi
diedero risposta, esagerando come si fa nelle politiche effervescenze: e
domandavano: «Siete voi cattolico? — Sì. — Dunque dovete seguire la
Chiesa e il papa. — Ma Chiesa e papa ingannano i fedeli e insegnano il
falso — Dunque separatevi dalla Chiesa e dal papa; siate francamente
protestante, e dateci il simbolo vostro come vera religione»[551].
Alle minaccie de' forti, come ai suggerimenti de' sofisti, Pio IX
rispondeva una sublime e indomabile parola, _Non è lecito_. La Chiesa fu
solita riconoscere i Governi di fatto, e ampiamente l'avea spiegato
Gregorio XVI nella bolla _Sollicitudo Ecclesiarum_ del 7 agosto 1831.
Disputandosi la corona di Portogallo don Michele e donna Maria da
Gloria, il primo mandò a Roma per provedere i vescovadi vacanti; e
Gregorio, sull'esempio de' suoi predecessori, dichiarava che «se per
necessità ecclesiastiche attribuisse ad alcuno un titolo di dignità
anche regia, o gli spedisse legati, o trattasse o stipulasse con esso,
non dovea tenersi cresciuto il suo o scemato il diritto di altri;
avvegnachè si mirava solo a condurre i popoli alla felicità spirituale
ed eterna». Chiedeasi dunque che anche Pio IX riconoscesse il fatto del
regno d'Italia: ma i difensori della Chiesa rifletteano che oggi non
trattavasi d'altri principi spodestati, sibbene del capo stesso della
Chiesa. S'egli è legittimo per consenso di tutta la pubblica ragione,
non si dà diritto contro il diritto, nè egli potea consentirne alcuna
violazione: non potea rinunziare ad un'indipendenza che protegge
l'indipendenza di tutti i Cattolici del mondo; rinunziare a possessi che
avea ricevuti unicamente in deposito, da trasmettere a' suoi successori;
nè colla propria rinunzia infirmare le ragioni di tutti i principi
spossessati. Egli riformatore, diverrebbe rivoluzionario
rinunziando[552].
Esposto alla doppia prova dell'ovazione e degli insulti, più che non de'
possessi temporali Pio IX affliggeasi per le persecuzioni insistenti e
per la vedovanza di tante chiese, i cui vescovi od erano morti nè più
surrogati, o giacevano in esiglio o in carcere. Pertanto, essendo rotte
le comunicazioni legali fra il padre di tutti e i suoi figliuoli, in
modo privato dirizzò una lettera a Vittorio Emanuele, invitandolo a
combinar modo di provvedere alle settantadue sedi vacanti. I ministri ne
gioirono, quasi con ciò avesse egli riconosciuto il re d'Italia; e come
una grazia mandarono persona che trattasse, ma senza veste pubblica.
L'avvocato Vegezzi, tanto savio quanto pratico, portò ben innanzi gli
accordi, ma mentre era prestabilito non si toccasse alla questione
politica, ecco sopraggiungergli istruzioni che la implicavano. La Corte
romana le ricusò; e i ministri, asserendo che n'era compromessa la
dignità della corona[553], richiamarono il messo; e aprendosi allora il
parlamento nel novembre 1865, vi fecero pronunziare dal re, che dovrebbe
provedersi a segregar lo Stato dalla Chiesa.
Era una nuova frase d'un tempo che le frasi accetta per pensieri. I
conservatori rispondevano che tale separazione suppone due podestà di
fronte, mentre i governativi non ne ammettono che una; ma quest'una
abbraccia l'intero individuo, o lascia qualche elemento del cittadino
sottrarsi allo Stato? Il progresso civile del cristianesimo sopra la
gentilità consistette appunto nel riconoscere che l'uomo, anche legato
in civile società, resta padrone di sè, delle credenze sue, della sua
fede, delle facoltà per le quali si inalza a Dio. In quell'ordine egli è
sovrano; e può od isolarsi, od unirsi a un gruppo di persone, libere
come lui d'adorare e credere. Lo Stato non ha nulla a immischiarsene; e
trattisi d'un uomo, o d'un sodalizio, o d'un Concilio, la sovranità, che
è d'origine puramente naturale, si arresta davanti al santuario della
coscienza. Come ente morale distinto, la Chiesa dee aver facoltà
d'amministrare, far leggi, osservarle, senza che il Governo possa
impacciarla in quanto concerne i dogmi, la disciplina, la gerarchia.
E la Chiesa e lo Stato (argomentavano i conservatori) sono distinti per
origine e per mezzi; ma entrambi operano sopra un individuo
inseparabile, che come cristiano appartiene alla Chiesa, come cittadino
appartiene alla società civile, sicchè necessariamente dipende e dalla
Chiesa e dal Governo. Voler che quella restringa la sua autorità a sole
le anime, implicherebbe che il corpo possa operare indipendentemente
dallo spirito, o viceversa. Entrambi agiscono sull'ente duplice; e
qualora propongansi lo stesso fine, non v'è titolo perchè operino
separatamente; qualora siano in conflitto, l'uno soprafarà l'altro;
saranno due potenze a cozzo; uno Stato nello Stato; una guerra
inevitabile. Già Dante rimproverava l'antica Roma di confondere in sè
_due reggimenti_, mentre lo Stato e la Chiesa devono restare non
separati, ma distinti; non una Chiesa nazionale, servile alle esigenze
politiche; non lo Stato impedito dalla Chiesa. Lontana dal tempo quando
prevaleva allo Stato, essa a questo non domanda che la libertà; la quale
val ben meglio d'una protezione comprata a spesa di diritti. Che importa
alla Chiesa delle condizioni politiche? essa non ha per suo ideale verun
Governo umano; basta nol trovi in opposizione colla sua dottrina. Suo
uffizio è proclamare la verità, attuare la morale, comandando in nome di
Dio al fôro interno. Tale uffizio non potrebbe assumersi il Governo
senza ledere la libertà di coscienza. Il Governo deve possibilmente
conformare i suoi atti politici ai beni spirituali e morali. Come
conoscerli, come determinarli, quando cozzino coi temporali? Questo
cozzo non deriva dall'esser uniti Stato e Chiesa, bensì dalla natura
viziata dell'uomo, che ravvisa due sorta di beni, e non sa via di
conciliarli.
Come all'umana natura sono insiti l'autorità della fede e la libertà del
ragionamento, e perciò essendo indistruttibili, bisogna conciliarli,
così è dello Stato e della Chiesa; e poichè tutti i poteri hanno il
dovere di cooperare alla destinazione umana, lo Stato nel cercar il bene
temporale non può prescindere dallo spirituale che n'è tanta parte,
procedendo per la via della giustizia, santificata dalla religione.
La Chiesa ha bisogno d'aver la libera parola, perchè tutti ricevettero
da Cristo il diritto di ascoltarla; ha bisogno d'aver libere le
elezioni, onde conservare alla società cristiana il diritto alla
successione apostolica; ha bisogno d'adunarsi e discutere, perchè i
comuni interessi dei fedeli vengano in comune ponderati dai loro
pastori; ha bisogno di diriger l'educazione e i matrimonj, perchè la
famiglia ha diritto di far risalire a Dio la grazia della paternità, e
di produrre cittadini degni della patria terrena e della celeste. Donde
appare che i diritti della Chiesa sono infine diritti dei fedeli e lor
patrimonio comune. Se, quale podestà spirituale, la Chiesa deve avere la
libertà della parola, della grazia, della virtù, per insegnar agli
uomini, convertirli, renderli perfetti, bisogna abbia la facoltà di
difendere anche contro la forza i diritti della coscienza e la libertà
delle anime. Suo destino è di vivere nel tempo e nello spazio, mescolata
agli affari del mondo, e mal la conosce chi dalla segregazione spera
pace e prosperità. Appunto perchè mista alle cose mondane ha il diritto
di proprietà e sovranità, fondato sulla natura e sulla storia. Uno può
possedere come proprietario o come sovrano. La Chiesa volle sempre il
primo modo: non fe che accettare il secondo, perchè lo crede necessario
in certe contingenze.
Non dunque Chiesa nello Stato o Stato nella Chiesa, nè Stato senza
Chiesa, ma armonia dello Stato colla Chiesa, liberi nel loro campo
d'azione, nell'amichevole esercizio dei loro poteri, e nel fine comune
di prosperar l'umana convivenza; non secolarizzare la religione, bensì
consacrare la politica, accordandosi in un potere discrezionale, di
limiti indefinibili e di mutua compensazione. Lo Stato cura gli atti
giuridici, la Chiesa i morali; quello è razionale, questa bada al
sovranaturale, alla Grazia; per quello la libertà civile, obbediente
alle prescrizioni umane, per questa la libertà morale, obbediente alla
legge divina. Grave errore il lasciare cancellar dallo spirito,
foss'anche pel barbaglio della gloria, la distinzione del giusto e
dell'ingiusto, e fidarsi alla forza sin al giorno inevitabile ch'essa
soccomba ad una maggiore! I due ordini coesistenti diansi la mano per la
felicità del genere umano; è delitto di lesa società il confonderli
quanto il disgregarli; e la difficoltà non consiste nello stabilire
accordi, ma nella diffidenza che sieno osservati.
Non trattasi dunque se un principe abbia ad occupare un altro piccolo
territorio, se un re governi bene o male[554], bensì dell'armonia
continuamente dal martello della pretesa libertà. La spiegata ostilità
non lasciò ignorare nessuno degli abusi che al clero potrebbero apporsi,
ma voi volete far la politica col mezzo della miscredenza; confondete
l'idea di società con quella di Stato; chiamate libertà il toglierla ad
altri, ad una classe intera; pretendete alla concordia per mezzo
dell'irritazione, e col dividere la nazione in vincitori e vinti.
Riponendo ogni progresso nel livellare (continuano) a questi atti
pretessete il titolo di eguaglianza, quasi la Chiesa pretendesse dare
l'_exequatur_ alla nomina del re o del ministro o del senatore, e
stabilire qual bandiera, che divise, quanti soldati aver deva lo Stato,
e come regolare i collegi militari o di marina, o impedirvi d'opprimere
di tributi i cittadini. La società non tollererebbe più un clero
privilegiato e dominante, ma forse la Chiesa aspira a questo titolo? Non
chiede privilegi, vuol l'eguaglianza, vuole poter seguitare i proprj
statuti che sono i canoni e le disposizioni conciliari, in quanto non
repugnano al diritto comune; vuol garantiti i diritti che spettano a'
ministri e membri suoi secondo quegli statuti.
Viepiù il raziocinio e le azioni scompigliò la aspirazione di
conquistare Roma, sempre coll'ombra di quistioni accessorie offuscando
le verità fondamentali. Nella meschinità de' concetti moderni si suppose
che i contrasti della società secolare contro l'ecclesiastica nel
medioevo mirassero a togliere a questa gli Stati Pontifizj, e si arrivò
persino a fare di Dante l'apostolo, anzi il profeta d'un'unità italiana,
di cui fosse capo un imperadore sedente a Roma; nel veltro allegorico di
lui s'adombrò un re moderno, al quale un prete in pubblica solennità
gridò, _Vieni a veder la tua Roma che chiama_. Chi serbava ombra di
senno non potea dimenticare che quelle parole erano dirette ad Alberto
d'Austria, cui il poeta minacciava il giusto giudizio di Dio se non
venisse qua ad inforcare gli arcioni di questa Italia, fatta indomita e
selvaggia.
Se la fede di Cristo fosse stata applicata nella sua pienezza, la pace
avrebbe regnato nel mondo come in una famiglia; _cor unum et anima una_;
con un solo simbolo per conoscere il suo Padre, una sola morale per
servirlo, un culto per adorarlo, un cuore per amarlo, un pastore per
condurci, eliminando dalla fraternità universale quelle irose ambizioni,
che sopra migliaja di vittime erigono la gloria degli eroi.
Il medioevo sperò effettuare la pace riducendo il mondo a questa grande
unità sotto un solo capo, che potesse imporre agli altri la giustizia,
sia colla forza, o sia coll'autorità. Questo capo era o l'imperatore o
il papa: e quello i Ghibellini, questo i Guelfi miravano a render più
libero e assoluto che si potesse. Nello sfasciamento della società
antica, quando non era sopravvissa altra podestà, altro organamento che
l'ecclesiastico, altra legge che la canonica, altre regolari procedure
che le sacerdotali, prevalsero i pontefici, che della civiltà antica
aveano raccolto le parti migliori, e depurandole se n'erano valsi a
ricostituire la società universale: i principi stessi invocarono l'alto
dominio di essi, fosse per assicurare il proprio, fosse per attingerne
norme d'amministrazione e di giustizia: il popolo ne li benedisse d'un
aumento di potenza, che riusciva tutto a favor suo, perchè surrogava il
diritto alle sciabole, la discussione al decreto, la carità alla
tirannia.
Come le genti si furono sedute ne' paesi che doveano divenir patria
loro, i dominanti particolari che, munitisi d'eserciti e d'erario, più
non sentivano bisogno del patronato dei papi, studiarono ritrarsene, e
recuperare al governo civile le prerogative che quelli aveano non
usurpate, giacchè a nessuno le tolsero, ma esercitate quando altro
organamento non sussisteva.
Forse, col rinnovarsi della civiltà, sarebbonsi potute conciliare le
pretensioni dei due poteri, ma ne tolse speranza la riforma religiosa,
che fu una vera riazione contro la preponderenza italiana e pontifizia.
Sottrattogli mezzo il mondo, il papato non potè più influire
efficacemente sulla civiltà e sulla politica: ristretto a un piccolo
principato, scemata tanto l'efficacia della sua parola; per tutelarne
l'esistenza e i diritti dovette cercare le alleanze dei forti,
stringendosi ora colla Spagna, ora colla Germania, ora colla Francia,
che colla loro protezione, coi loro concordati ne mozzavano spesso la
podestà spirituale; e colla scienza e col moto civile cospiravano,
talora senza accorgersi, a sottometterla al laicato[546].
D'allora il principato di Roma non diversificò dagli altri principati
fra cui sminuzzavansi i regni tutti, ma specialmente l'Italia nostra e
la Germania. La indipendenza più o meno intera di questi piccoli ovviava
l'oltrapotenza dei grossi, che perciò miravano ad ingojarli. Ma di farlo
non trovarono la opportunità se non quando la Rivoluzione, sotto il
titolo di dar a tutti la libertà, abolì le libertà de' singoli a favore
d'un ente astratto che chiamava lo Stato; poi ridottile a una fittizia
unità, li gettava in braccio d'un re.
Questa genesi della libertà moderna ci è data dalla storia che non imiti
un bullettino d'armata; vuolsi aggiungere che, per frenare i possibili
abusi dei re, non più bilanciati dalle piccole aggregazioni e dalla
Chiesa, dovette ricorrersi alle costituzioni, cioè metter limiti fittizj
e irrispettati a principi su cui si era accumulata la piena assolutezza;
e se non vi si attenessero, minacciarli non più della scomunica, ma
della rivolta.
Mercè della Rivoluzione, la Germania che avea da quattrocento Stati,
alcuni repubblicani, tutti con sovranità limitata da privilegi, fu
ristretta in pochi regni, principalmente spodestando i principi
ecclesiastici.
Dall'Italia scomparvero tutte le repubbliche, e gli Stati si ridussero a
pochi, sinchè vennero assorti tutti in uno. Prima del 96 il papa pesava
sulla bilancia europea come un'altra potenza, giacchè come queste poteva
comprare soldati. Introdotta la coscrizione, e perciò misurata
l'importanza dal numero de' sudditi, egli si trovò impotente a petto
degli ambiziosi. Buonaparte nelle prime sue corse tolse ai papi le
Legazioni, garantendo il resto: ma ingrandito, non sofferse che un prete
osasse dirgli no quando gli altri re non sapeano che dirgli sì: che
negasse concorrere a soffogar l'Inghilterra col blocco continentale, o
ricusasse di maledire i suoi nemici, o di dargli soldati contro di
questi, di scioglier il suo matrimonio, acciocchè potesse sposare una
austriaca: sicchè dichiarò finito il dominio temporale del papa, ne fece
dipartimenti francesi, e conferì il titolo di re di Roma al presunto suo
successore.
L'Europa s'indignò alla prepotenza, ma ancora Abele fu il vincitore; e i
popoli, appena ebbero rovesciato Napoleone, non ebbero premura migliore
che di veder restituito al papa il suo dominio. Ma più che da quel misto
di protestantismo e di misticismo che fu la Santa Alleanza, lo Stato
pontifizio restava garantito dal confinare con principati non superiori
di forze; e quando la sommossa del 1830 minacciò l'indipendenza del
regnante di Roma, le grandi potenze d'Europa s'accordarono a
restituirgliela piena.
Poi Pio IX credette maturo il paese agli ordini civili che il secolo
nostro proclama; e con timidezza ma con sincerità, inesperto,
scrupoloso, incoerente, ma tutto equità e benevolenza procedendo, si
fece ammirare da tutto il mondo come nessun suo predecessore, e benedire
dall'Italia, della quale egli fu che cominciò il rinnovamento, e sulla
quale attirò l'attenzione di tutta Europa come negli splendidi giorni
del papato.
Presto si trascese; non si seppe cacciar lo straniero, bensì il papa:
Pio IX dovette fuggire dal suo paese che cadde in preda all'anarchia; e
le aspirazioni de' Neoguelfi cedettero alle ambizioni dinastiche e alle
astuzie dottrinarie. Il regno sardo pensò allora rifarsi delle sofferte
sconfitte, e acquistare predominio in Italia coll'andar a ristabilire in
trono il papa. I deputati savojardi, imperterriti sostenitori del
partito conservatore e religioso, mal soffrivano una spedizione che
poteva tornar utile alla repubblica romana, o minacciare gli altri
principi per ingrandire il regno sardo, col che sarebbesi dovuta cangiar
la capitale, e con ciò dare il crollo al regno[547]. Più l'avversavano i
liberali, e gli atti del Parlamento del 1849 meritano esser letti per
vedere sino a qual punto possa trascender la retorica, e come vi si
producessero già que' sofismi, che tratto tratto ripullulano sulla
sovranità popolare o sull'autorità pontifizia. Ma mentre colà si
disputava, i potentati aveano di nuovo pronunziato legittimo il dominio
del papa quanto gli altri, e necessaria all'indipendenza di ducento
milioni di Cattolici la indipendenza del pontefice: e incaricarono di
repristinarlo la Francia repubblicana, così governabile appena non ha
più governo.
Così fu fatto: ma ciò portava l'ingrata necessità di una permanente
occupazione straniera, per reprimere la rivoluzione che aveva
concentrato i suoi fuochi contro di Roma. Il pontefice, in occasione che
si trovavano i vescovi congregati per una sacra solennità, propose loro
di decidere se il potere temporale fosse necessario qui e adesso.
Risposero unanimi del sì, e diceano: «Come i prelati della Chiesa
avrebbero potuto da tutte le parti del mondo arrivar sicuramente per
conferire con vostra santità sui più gravi interessi, qualora avessero
trovato su queste rive un principe geloso de' loro principi, o sospetto
o nemico ad essi? V'è doveri di cristiano e doveri di cittadino, che non
sono contrarj ma differenti. E come i vescovi avrebbero potuto compirli
se non vi fosse a Roma una sovranità temporale, come è la pontifizia,
assolutamente indipendente, e centro della concordia universale, senza
ambizione umana, senza aspirazione a dominio terrestre? Noi liberi siam
venuti a un papa-re libero: pastori noi ci occupiamo degli interessi
della Chiesa: cittadini, degli interessi della patria: equamente
congiungiamo gli uni cogli altri, e non negligendo i doveri nè di
pastori nè di cittadini. Chi dunque oserebbe impugnare un principato
così antico, fondato sopra tale autorità e necessità? Se anche si badi
al diritto umano sul quale riposano la sicurezza de' principi e la
libertà dei popoli, qual altra potenza potrebbe a questa paragonarsi?
qual altra è così venerabile e santa? Se questi diritti si calpestino
riguardo alla santa sede, qual principe sarebbe sicuro di conservar il
suo regno, qual repubblica il suo territorio? È dunque per la religione,
ma anche per la giustizia e pel diritto, fondamenti delle cose umane, se
voi lottate e combattete».
Seicento mandarono indirizzi nell'egual senso, e milioni di firme
accompagnate ciascuna da un'offerta, espressero l'omaggio verso il
pontefice: ora legate in diciotto grossi volumi nella Biblioteca
Vaticana, s'aggiunsero ai tanti documenti del principato romano. Qual
lingua v'ha in cui esso non siasi affermato?
In realtà il potere temporale non è consacrato nè nella necessità nè nel
principio, nè fuori nè dentro da verun dogma, cioè qual verità rivelata,
proposta dalla Chiesa a credersi. È opportunità contingente; eppure
scindere la quistione non è possibile, ed è necessario scegliere fra lo
spirito della Chiesa e lo spirito della Rivoluzione. Quando tutto era
forza, la Chiesa potè, mediante il suo potere, salvar la società e la
civiltà: oggi pure, che al diritto si surrogano gli eserciti, i fatti
compiuti: oggi che la forza proclama, gli oppositori balbettano, e pare
assai ottenere una transazione; quanto le giova l'indipendenza
materiale! vorrebbero il mondo senza papa, cioè come era in man di
Nerone, ai piedi di Poppea, fra le braccia dell'insaziabile Messalina.
Il papa ha per missione il governo della Chiesa, non dello Stato. La
fede non dice che il temporale sia inseparabile appendice della divina
missione, e indispensabile all'esercizio del potere spirituale, ma
determina questo in modo, che non può venir esercitato se non da un capo
indipendente. Tolte le varie gradazioni di sovranità, oggi non si
riconoscono che re o sudditi: il papa, dal momento che cessasse di esser
principe, rimarrebbe suddito d'un re, cioè all'arbitrio d'un ministero,
che ben potrebbe usargli tutti i riguardi, tutte le deferenze, ma non
lascerebbe d'esserne il padrone, anche quando camminasse d'accordo; in
un conflitto poi potrebbe impedire ogni esercizio d'autorità a quello
che ducento milioni di Cattolici han bisogno di saper indipendente.
Queste cose poteano esser comprese da Carlomagno[548] o Napoleone il
Grande: non dalla trivialità de' giornali, non dalla rivoluzione che,
elevato uno sul pinacolo del tempio, gli mostra la penisola, e gli dice:
«Sarà tutta tua se prostrato mi adorerai». In fatto si fece credere che
il ben dell'Italia richiedesse, non l'unità delle anime come vuol la
Chiesa, ma l'unità geografica; si gridò in tutti i toni la frase di
aspirazione nazionale, e fattosene organo il Piemonte, questo cacciò gli
Austriaci dalla Lombardia cogli ajuti di Francia; poi contro il voto
della Francia s'annettè i varj Stati d'Italia, facendo qui ciò che casa
d'Austria fece un tempo colla Spagna. Possano esserne diverse le
conseguenze!
Allora il pontifizio si trovò serrato entro un unico dominio, il quale
gli aveva anche tolto le provincie sue migliori; le Legazioni per
sollevazione, per conquista le Marche e l'Umbria, restringendolo a
settecenmila abitanti, con una delle più insigni città del mondo; enorme
testa di meschinissimo corpo.
Ridotta la politica a un calcolo di forze e ad una teoria geografica, si
asserì che anche quel brano dovesse appartenere al regno, e capitale di
questo fosse Roma; si tentò averla per forza; e poichè le altre potenze,
e più dichiarata la Francia, lo impediscono, vi si mira con quelli che,
un'altra frase del tempo, intitola mezzi morali. Il migliore certamente
sarebbe il concedere la massima libertà religiosa, e il governar in modo
da rendere desiderabili le leggi, i tributi, la giustizia,
l'amministrazione nostra[549]. Invece si volge ogni studio a dimostrare
che il pontifizio è il pessimo de' governi; e per farlo creder tale
basta lo echeggino le trenta voci di quella che altra frase del tempo
intitola opinione pubblica. Ma diversa cosa è la sovranità temporale dei
papi e il loro governo. Ogni Governo conserva, ed è un modo di
conservare il migliorar gradatamente. Ma perchè le idee, non avendo
ostacoli di realità e d'attualità, procedono più rapide, sempre si trova
che i Governi sono in ritardo. Perciò in ogni paese v'è una porzione,
malcontenta del presente e desiderosa del nuovo, da cui spera ogni
meglio: il grido di rivolta è sempre considerato come voce del popolo,
dacchè, smarrito il senso dell'autorità, i teorici della sovversione
guardano come segno di superiorità lo springar calci, e d'imbecillità il
conservare. Come contro _tutti_ i governi si declama perfin dai loro
amici senza per questo volerli abbattere, così potrebbe esser pessima
l'amministrazione del papa, che è infallibile nelle decisioni
dogmatiche, non in quelle di Stato, nè perciò andarne invalidato il
principio: questo è immanente, quella continuamente mutabile.
Allorchè si discute delle inenarrabili miserie dell'Irlanda,
l'orgoglioso Inglese dice: «La causa n'è il papismo». Così qui si ripete
che da Roma derivano immense jatture all'Italia; là si ricovera un re
spossessato; là si fomenta il brigantaggio; là si desidera la
restaurazione de' principi spossessati e si prepara; là s'insinua ai
preti, e per essi alle popolazioni, che non è bene l'introdurre anche
colà il giansenismo, la sofistica, le idee del 89, il codice francese:
che i fatti compiuti non costituiscono un diritto: che al dominio della
forza prevarrà il regno della giustizia. Se il papa è un capo dei
briganti; se le sue speranze fonda sull'Austria; se i fautori di esso
sono nemici della patria, chi non troverebbe giusto l'odiarli, e consono
il perseguitarli, e il cercar in ogni modo la ruina d'un potere così
micidiale? E chi nol crederebbe quando ogni giorno lo ripetono i
giornali e l'effigiano le caricature?
Di rimpatto i Cattolici credonsi in dovere di obbedir al pontefice in
quanto riguarda il dogma e la morale, e per venerazione filiale
accettano la sua decisione anche quando pronunzia opportuna la
conservazione della podestà temporale. Ai conservatori fa urto che Roma
dovesse cessare d'esser la città delle arti; e colle vie dritte coi
palazzi nuovi, colle caserme, cogli arsenali sostituire le trivialità
odierne alla poesia di tante memorie, e i nomi di fatti e di eroi da
scena a quelli che il mondo venera da secoli. I forestieri ricordano che
Roma è di tutto il mondo, perocchè tutto il mondo contribuì a
fabbricarla e arricchirla. I lepidi pongono in baja questo parlamento
che starebbe al Quirinale mentre il papa al Vaticano; e quello
pubblicherebbe leggi che questo maledice, ordinerebbe atti che questo
proibisce[550]. I serj prevedono che a Roma non regnerebbero i Tarquinj,
che sotto quell'aspirazione scavasi l'abisso alla dinastia. Altri poi
non dissimulavano che, dietro la questione principesca, mascheravasi
l'eresia, che vuole conservar la religione, tagliandole solo il capo; e
lamentavano che la Chiesa è invecchiata, offuscate le sue verità, che
bisogna ringiovanirla associandola alla progrediente civiltà. È la
conseguenza della democrazia che, posto il governo nel popolo, vuol
porre anche la Chiesa nel corpo de' fedeli; è un'applicazione della
teoria protestante del senso privato, e vedemmo gli attacchi contro il
dogma cominciar sempre da questo tema, troppo facile a chi guardi i
disordini soltanto, non le mirabili istituzioni, non tanta esemplarità
di vita e generosità di sacrifizj e d'abnegazione; non la faticosa
propagazione del vangelo, non la perpetuazione dell'organamento
gerarchico.
A questi concetti diè gran peso il libro _Pro causa italica ad episcopos
catholicos, auctore presbitero catholico_ (1861). Era opera del
dottissimo Carlo Passaglia, che dopo avere insignemente combattuto fra'
teologi e massime per l'immacolata concezione, erasi staccato dalla
Compagnia di Gesù, e venuto professore a Torino. A detta sua, non può
annoverarsi fra gli Stati uno che non basta a conservarsi e difendersi
con forze proprie, ma è costretto puntellarsi d'armi straniere contro i
sudditi, attenti ad ogni occasione di ribellarsegli, e che hanno diritto
ad effettuare l'unità d'Italia, e perciò disfarsi di quel governo. Al
papa dunque suggeriva di ovviare i disastri imminenti alla Chiesa col
rinunziare al dominio terreno. Aggiungeva che il vescovo di Roma non può
abbandonar la sua sede: asserzione contraria ai fatti di tanti pontefici
e dei tanti vescovi _in partibus_, i quali niuno vorrebbe obbligar a
rimanere là dove sono spogliati, avviliti, percossi.
In tal senso sporgeva una supplica, dove, confessatane la supremazia sui
vescovi, pregava il papa a far pace coll'Italia, e lasciare che Roma
divenisse capitale del nuovo regno. La petizione girò, e fu firmata da
centinaja di preti, alcuni per verità in buona fede e per desiderio di
concordia, ma pure presumendosi più teologi del papa, più politici dei
consiglieri di esso.
Poco andò, e l'ispiratore vedea diminuirsi la sua autorità, e
grandissimo numero degli aderenti far solenne ritrattazione: ma ciò che
fu notevole, e che discerne l'età nostra dal Cinquecento, si è che
neppure un vescovo sottoscrisse all'indirizzo passagliano. Molti vi
diedero risposta, esagerando come si fa nelle politiche effervescenze: e
domandavano: «Siete voi cattolico? — Sì. — Dunque dovete seguire la
Chiesa e il papa. — Ma Chiesa e papa ingannano i fedeli e insegnano il
falso — Dunque separatevi dalla Chiesa e dal papa; siate francamente
protestante, e dateci il simbolo vostro come vera religione»[551].
Alle minaccie de' forti, come ai suggerimenti de' sofisti, Pio IX
rispondeva una sublime e indomabile parola, _Non è lecito_. La Chiesa fu
solita riconoscere i Governi di fatto, e ampiamente l'avea spiegato
Gregorio XVI nella bolla _Sollicitudo Ecclesiarum_ del 7 agosto 1831.
Disputandosi la corona di Portogallo don Michele e donna Maria da
Gloria, il primo mandò a Roma per provedere i vescovadi vacanti; e
Gregorio, sull'esempio de' suoi predecessori, dichiarava che «se per
necessità ecclesiastiche attribuisse ad alcuno un titolo di dignità
anche regia, o gli spedisse legati, o trattasse o stipulasse con esso,
non dovea tenersi cresciuto il suo o scemato il diritto di altri;
avvegnachè si mirava solo a condurre i popoli alla felicità spirituale
ed eterna». Chiedeasi dunque che anche Pio IX riconoscesse il fatto del
regno d'Italia: ma i difensori della Chiesa rifletteano che oggi non
trattavasi d'altri principi spodestati, sibbene del capo stesso della
Chiesa. S'egli è legittimo per consenso di tutta la pubblica ragione,
non si dà diritto contro il diritto, nè egli potea consentirne alcuna
violazione: non potea rinunziare ad un'indipendenza che protegge
l'indipendenza di tutti i Cattolici del mondo; rinunziare a possessi che
avea ricevuti unicamente in deposito, da trasmettere a' suoi successori;
nè colla propria rinunzia infirmare le ragioni di tutti i principi
spossessati. Egli riformatore, diverrebbe rivoluzionario
rinunziando[552].
Esposto alla doppia prova dell'ovazione e degli insulti, più che non de'
possessi temporali Pio IX affliggeasi per le persecuzioni insistenti e
per la vedovanza di tante chiese, i cui vescovi od erano morti nè più
surrogati, o giacevano in esiglio o in carcere. Pertanto, essendo rotte
le comunicazioni legali fra il padre di tutti e i suoi figliuoli, in
modo privato dirizzò una lettera a Vittorio Emanuele, invitandolo a
combinar modo di provvedere alle settantadue sedi vacanti. I ministri ne
gioirono, quasi con ciò avesse egli riconosciuto il re d'Italia; e come
una grazia mandarono persona che trattasse, ma senza veste pubblica.
L'avvocato Vegezzi, tanto savio quanto pratico, portò ben innanzi gli
accordi, ma mentre era prestabilito non si toccasse alla questione
politica, ecco sopraggiungergli istruzioni che la implicavano. La Corte
romana le ricusò; e i ministri, asserendo che n'era compromessa la
dignità della corona[553], richiamarono il messo; e aprendosi allora il
parlamento nel novembre 1865, vi fecero pronunziare dal re, che dovrebbe
provedersi a segregar lo Stato dalla Chiesa.
Era una nuova frase d'un tempo che le frasi accetta per pensieri. I
conservatori rispondevano che tale separazione suppone due podestà di
fronte, mentre i governativi non ne ammettono che una; ma quest'una
abbraccia l'intero individuo, o lascia qualche elemento del cittadino
sottrarsi allo Stato? Il progresso civile del cristianesimo sopra la
gentilità consistette appunto nel riconoscere che l'uomo, anche legato
in civile società, resta padrone di sè, delle credenze sue, della sua
fede, delle facoltà per le quali si inalza a Dio. In quell'ordine egli è
sovrano; e può od isolarsi, od unirsi a un gruppo di persone, libere
come lui d'adorare e credere. Lo Stato non ha nulla a immischiarsene; e
trattisi d'un uomo, o d'un sodalizio, o d'un Concilio, la sovranità, che
è d'origine puramente naturale, si arresta davanti al santuario della
coscienza. Come ente morale distinto, la Chiesa dee aver facoltà
d'amministrare, far leggi, osservarle, senza che il Governo possa
impacciarla in quanto concerne i dogmi, la disciplina, la gerarchia.
E la Chiesa e lo Stato (argomentavano i conservatori) sono distinti per
origine e per mezzi; ma entrambi operano sopra un individuo
inseparabile, che come cristiano appartiene alla Chiesa, come cittadino
appartiene alla società civile, sicchè necessariamente dipende e dalla
Chiesa e dal Governo. Voler che quella restringa la sua autorità a sole
le anime, implicherebbe che il corpo possa operare indipendentemente
dallo spirito, o viceversa. Entrambi agiscono sull'ente duplice; e
qualora propongansi lo stesso fine, non v'è titolo perchè operino
separatamente; qualora siano in conflitto, l'uno soprafarà l'altro;
saranno due potenze a cozzo; uno Stato nello Stato; una guerra
inevitabile. Già Dante rimproverava l'antica Roma di confondere in sè
_due reggimenti_, mentre lo Stato e la Chiesa devono restare non
separati, ma distinti; non una Chiesa nazionale, servile alle esigenze
politiche; non lo Stato impedito dalla Chiesa. Lontana dal tempo quando
prevaleva allo Stato, essa a questo non domanda che la libertà; la quale
val ben meglio d'una protezione comprata a spesa di diritti. Che importa
alla Chiesa delle condizioni politiche? essa non ha per suo ideale verun
Governo umano; basta nol trovi in opposizione colla sua dottrina. Suo
uffizio è proclamare la verità, attuare la morale, comandando in nome di
Dio al fôro interno. Tale uffizio non potrebbe assumersi il Governo
senza ledere la libertà di coscienza. Il Governo deve possibilmente
conformare i suoi atti politici ai beni spirituali e morali. Come
conoscerli, come determinarli, quando cozzino coi temporali? Questo
cozzo non deriva dall'esser uniti Stato e Chiesa, bensì dalla natura
viziata dell'uomo, che ravvisa due sorta di beni, e non sa via di
conciliarli.
Come all'umana natura sono insiti l'autorità della fede e la libertà del
ragionamento, e perciò essendo indistruttibili, bisogna conciliarli,
così è dello Stato e della Chiesa; e poichè tutti i poteri hanno il
dovere di cooperare alla destinazione umana, lo Stato nel cercar il bene
temporale non può prescindere dallo spirituale che n'è tanta parte,
procedendo per la via della giustizia, santificata dalla religione.
La Chiesa ha bisogno d'aver la libera parola, perchè tutti ricevettero
da Cristo il diritto di ascoltarla; ha bisogno d'aver libere le
elezioni, onde conservare alla società cristiana il diritto alla
successione apostolica; ha bisogno d'adunarsi e discutere, perchè i
comuni interessi dei fedeli vengano in comune ponderati dai loro
pastori; ha bisogno di diriger l'educazione e i matrimonj, perchè la
famiglia ha diritto di far risalire a Dio la grazia della paternità, e
di produrre cittadini degni della patria terrena e della celeste. Donde
appare che i diritti della Chiesa sono infine diritti dei fedeli e lor
patrimonio comune. Se, quale podestà spirituale, la Chiesa deve avere la
libertà della parola, della grazia, della virtù, per insegnar agli
uomini, convertirli, renderli perfetti, bisogna abbia la facoltà di
difendere anche contro la forza i diritti della coscienza e la libertà
delle anime. Suo destino è di vivere nel tempo e nello spazio, mescolata
agli affari del mondo, e mal la conosce chi dalla segregazione spera
pace e prosperità. Appunto perchè mista alle cose mondane ha il diritto
di proprietà e sovranità, fondato sulla natura e sulla storia. Uno può
possedere come proprietario o come sovrano. La Chiesa volle sempre il
primo modo: non fe che accettare il secondo, perchè lo crede necessario
in certe contingenze.
Non dunque Chiesa nello Stato o Stato nella Chiesa, nè Stato senza
Chiesa, ma armonia dello Stato colla Chiesa, liberi nel loro campo
d'azione, nell'amichevole esercizio dei loro poteri, e nel fine comune
di prosperar l'umana convivenza; non secolarizzare la religione, bensì
consacrare la politica, accordandosi in un potere discrezionale, di
limiti indefinibili e di mutua compensazione. Lo Stato cura gli atti
giuridici, la Chiesa i morali; quello è razionale, questa bada al
sovranaturale, alla Grazia; per quello la libertà civile, obbediente
alle prescrizioni umane, per questa la libertà morale, obbediente alla
legge divina. Grave errore il lasciare cancellar dallo spirito,
foss'anche pel barbaglio della gloria, la distinzione del giusto e
dell'ingiusto, e fidarsi alla forza sin al giorno inevitabile ch'essa
soccomba ad una maggiore! I due ordini coesistenti diansi la mano per la
felicità del genere umano; è delitto di lesa società il confonderli
quanto il disgregarli; e la difficoltà non consiste nello stabilire
accordi, ma nella diffidenza che sieno osservati.
Non trattasi dunque se un principe abbia ad occupare un altro piccolo
territorio, se un re governi bene o male[554], bensì dell'armonia
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