Gli eretici d'Italia, vol. III - 49

Il famoso Mirabeau ha una _Lettre sur mm. Cagliostro et Lavater_, ove li
tratta da ciarlatani; mostra i pericoli a cui si espone la società
coll'esaltare le immaginazioni: e poichè si ciancia di tolleranza,
conchiude: «Tollerate Cagliostro, tollerate Lavater, ma tollerate pure
quelli che li denunziano come insensati perchè ripugna il dichiararli
birbi».
[435] Vedi una sua lettera del 1761.
[436]
Vedrò, vedrò dalle malnate fonti
Che di solfo e d'impura
Fiamma, e di nebbia oscura
Scendon l'Italia ad infettar dai monti,
Vedrò la gioventude
I labbri torcer disdegnosi e schivi ecc.
[437] Vedi il nostro Discorso XXXI, nota 8. Che conto si facesse del
medioevo lo indica uno de' più ingegnosi e dotti francesi, il presidente
De Brosses. Nelle lettere che scriveva durante il suo viaggio in Italia
del 1740, narra aver veduto nella biblioteca di Modena il Muratori.
«Trovammo questo buon vecchio, co' suoi quattro capelli bianchi e la
testa calva, che lavorava, malgrado il rigido freddo, senza fuoco e a
capo scoperto in quella galleria glaciale, in mezzo d'un cumulo di
antichità, o piuttosto di vecchiaggini italiane; chè davvero io non so
risolvermi a chiamare antichità ciò che riguarda que' villani secoli
d'ignoranza. Non mi immagino che, fuor della teologia polemica, v'abbia
cosa più stomachevole di questo studio. È fortuna che v'abbia alcuni che
vi si buttano come Curzio nella voragine: ma io sarei poco voglioso
d'imitarli».
[438] Già il Summonte (_Istoria della città e regno di Napoli_, lib. I,
c. XI) scrive che oltre le parrocchie... sono in Napoli più di cento
cappelle, edificate da cittadini presso le loro case, servite da preti
secolari, tra le quali, dodici ne sono sotto il governo di diverse
comunità de' forestieri, come Spagnuoli, Catalani ecc.».
[439] Dopo che Tommaso Campailla avea formato un poema sulle idee di
Cartesio, Tommaso Natale ne fece un altro sulle idee di Leibniz, e che
fu proibito dal Sant'Uffizio.
[440] Anche ai giorni nostri Göschel, Weis, Bromis, Fichte juniore, Rust
ed altri tedeschi cercano conciliare l'hegelianismo col cristianesimo,
introducendovi la personalità di Dio e l'immortalità dell'anima.
[441] Opere sue principali sono:
_Ricerche sulle ricchezze del clero_. Ferrara 1776.
_Emilio disingannato_. Siena 1783.
_Del buon uso della logica in materia di religione_. Foligno 1787. Son 3
volumi che contengono 37 dissertazioni.
_G. G. Rousseau accusatore de' nuovi filosofi_. Asisi 1798.
_Dell'autorità del pontefice ne' Concilj generali_. Gand 1815.


DISCORSO LIII.
PREVALENZA DE' GOVERNI LAICI. ABOLIZIONE DELL'INQUISIZIONE E DEI
GESUITI.

Erano di origine differente e differente intendimento Giansenisti e
Filosofisti; quelli dediti alle austerità, questi all'epicureismo;
quelli appoggiantisi all'autorità, questi sagrificando ogni fede alla
pura ragione; quelli accinti a ricondur la religione alla ascetica
semplicità de' primi secoli, e dicendo «Ciò ch'è antico è divino, ciò
ch'è nuovo è diabolico»: questi tempestandola di dubbj, d'epigrammi,
d'insulti, e rimbalzandosi per parola d'ordine «Guerreggiar la infame».
Eppure accordavansi nello scalzare la sede romana, e preparare una
rivoluzione nella Chiesa. Ma poichè rivoluzione è il cessare dallo
sviluppo regolare per gettarsi alla ventura di fatti improvisi e
imprevisti, mentre forse i caporioni ne speravano guadagno di libertà
popolare, i principi conobbero potrebbero giovarsene per ingrandire la
propria podestà, sostituendo alla teologia l'avvocheria, rendendo
dispotico il governo nelle cose sacre come aveano fatto i Protestanti, e
separandolo, non ancora dalla Chiesa, come fu proposto solo jeri, ma dal
pontefice. Col furore d'una moda, in tutte le Corti passò il farnetico
d'imitare Luigi XIV; e in Italia, dove unica restava questa grandezza,
la supremazia papale fu contrastata dalle case regnanti, tentate allo
scisma dalla seduzione del despotismo. Tutto ciò sotto il manto della
filantropia, tanto che direbbesi, non volendo più forzare ad obbedire
alla giustizia, volessero mostrar giusto l'obbedire alla forza: invece
di fortificare la giustizia, giustificar la forza.
Noi non dobbiamo qui riprodurre fatti che altrove
particolareggiammo[442], indicando come i re si facessero proseliti
della ribellione contro l'autorità. Già nel Discorso LI mentovammo gli
intendimenti della Casa di Savoja. Tuttora in dipendenza dall'Impero ed
in pericoloso contatto colla Francia, aspirando a divenir italiana dopo
che invano avea tentato impinguarsi a danno della Svizzera e della
Francia, dovea tenersi amici i pontefici, sì perchè la devozione a
questi era popolare e nazionale in Italia, sì perchè della loro potenza
potea farsi un appoggio contro le insidie altrui, intanto che per la
piccolezza e per la lontananza non ne eccitava le gelosie. E mentre per
le ragioni opposte i re di Sicilia furono sempre a cozzo coi papi, i
duchi di Savoja crebbero mediante favori continui della Chiesa; le
diedero molti santi; a capo della magistratura e nelle ambasciate posero
quasi sempre persone religiose: il Conte Verde fra ventitrè membri di
cui componeva l'alto consiglio, ne voleva otto ecclesiastici; il clero
tenea il primo posto negli stati generali; gran cancelliere degli ordini
cavallereschi era sempre o l'arcivescovo di Torino od altro prelato;
tanto ampia la giurisdizione del Foro ecclesiastico, da assorbire una
metà dei processi; i beni e i feudi ecclesiastici rimanevano immuni; fin
i malfattori restavano franchi per quindici giorni quando andassero a
venerare la santa sindone. Dopo il 1560 risedeva a Torino un nunzio con
ampie autorità, e gelosissimo di riservare a Roma le cause più
importanti[443].
Ma Vittorio Amedeo II, che sossoprava l'Italia per ismania di conseguire
il titolo di re, ruppe a duri conflitti col papa pretendendo eleggere
egli stesso i vescovi nel suo paese, per (dicevangli gl'adulatori) «non
mancare alla sua dignità». Peggio operò allorchè ottenne la Sicilia col
titolo di regno. Questo, per antichissimo canone, rilevava dalla suprema
signoria del papa; e avendo il duca ricusato di riconoscerla, il papa
ordinò a' vescovi di colà di non riconoscerlo, sicchè molti uscirono
dall'isola. Risoluto di vendicarsene, Vittorio Amedeo cominciò a
sopprimere l'Inquisizione, avocando ai tribunali le cause a quella
devolute[444]; impose tasse sui beni e sulle persone ecclesiastiche;
puniva atrocemente chi tenesse conto dell'interdetto, mandò truppe
protestanti su terre del papa, mentre fra' sudditi di questo facea
reclute. Clemente XI minacciò più volte scomunicarlo, e sempre sospese;
solo ordinò che in tutte le chiese di Roma si esponesse il Venerabile,
onde supplicare Iddio a toccar il cuore del duca. Allora avvenne un
miserabile strazio delle coscienze, massime nella Sicilia; il senato di
Nizza obbligò i popolani di Roccasterone a riconoscere un parroco,
benchè scomunicato e rimosso dal nunzio[445]: a ribattere le pretensioni
romane aguzzavansi legulej piemontesi, il Pensabene, il D'Aguirre, il
Degubernatis: Vittorio Amedeo fece raccogliere materiali da Girolamo
Settimo e Giambattista Caruso, e li mandò ad Elia Du Pin, che ne formò
la _Défense de la monarchie de Sicile contre les entreprises de la Cour
de Rome_ (Amsterdam 1716).
Non lasciarono sfuggire quest'occasione i Protestanti e gli spiriti
forti per veder di guadagnare il duca. Alberto Radicati, conte di
Passerano e di Cocconato da Casale, fu de' più ferventi oppositori alle
pretensioni curiali e negava ogni supremazia del papa sui vescovi; la
gerarchia ecclesiastica esser una corruzione della dottrina evangelica,
donde passava a voltare in burla i dogmi e i misteri.
L'Inquisizione lo cita tre volte; non risponde; in contumacia è
condannato ad esser bruciato vivo, ed egli trionfa in Torino: ma ecco un
bel giorno gli è intimato che Vittorio Amedeo lo chiama. Egli ci va con
esitanza, e si sgomenta davvero quando nell'anticamera scorge il padre
inquisitore e il procuratore fiscale. Pure Vittorio l'accolse
graziosamente; l'avvertì che potenti nemici teneano l'occhio sopra di
esso, e l'accusavano d'ateismo: avesse cura di parlare più temperato;
del resto egli eragli riconoscente dello zelo che mostrava per
gl'interessi della Corona.
— Se il re mi approva, non curo la disapprovazione di chicchessia:
(rispose l'accorto cortigiano) se il re mi biasimasse, tacerei».
Vittorio l'assicurò della sua protezione: tornasse domani. E al domani
lo interrogò se conoscesse a fondo i diritti delle due podestà. Il
Radicati rispose averne fatto lo studio di tutta la sua vita: e se tutti
ne sapessero altrettanto, nessun principe accetterebbe nel suo Stato
altra podestà fuor della propria.
— Ma se così operassero, che diventerebbe l'autorità della Chiesa?»
dimandò il principe.
— Diventerebbe una chimera qual è veramente».
— Comprendete voi tutto il peso delle vostre parole quando trattate di
chimera l'autorità che i papi tengono da Dio?»
— Maestà sì, la conosco, e mi darebbe il cuore di mostrarle che tale
autorità, non che venire da Dio, è repugnante al Vangelo».
— Ma diminuendo questa autorità, non si correrebbe rischio di turbare la
tranquillità pubblica?»
— Mi permetta vostra maestà di non crederlo, qualora l'impresa fosse
assunta da principe saggio quanto Vittorio Amedeo. Il senato di Venezia
ha pur potuto mettere freno alle esorbitanze del clero, malgrado i
dispareri che nascono nelle assemblee numerose. Quanto più sarebbe
agevole a principe, che non dee consultare se non la propria volontà?»
Pochi giorni appresso, il re tornava a chiamarlo, e gli disse come le
sue ragioni avessergli fatto colpo, ma per restarne meglio convinto
occorreagli di vederle rinfiancate con altre; ed esposte in iscritto per
pesarle ad agio: il facesse, e mettesse cura di non asserire cosa senza
provarla.
E il Radicati si pose all'opera, e già avevala ben avanzata quando si
sparse voce di accordi fra Torino e Roma; al Radicati parve che il re
nol ricevesse più colla cordialità di prima, nè in udienze private:
credea che i magnati della Corte stessero seco sul grave, che frati e
preti ridessero di lui, come già sovrastasse il giorno delle vendette.
Son fantasie, con cui si piacciono alcuni di mostrarsi perseguitati:
fatto è che, non tenendosi più sicuro, uscì di Piemonte e passò in
Inghilterra. Il marchese d'Aix, che colà stava ambasciadore del re, gli
fece sapere come avesse avuto torto di abbandonare il Piemonte, che
nulla a temere v'aveva, nè il re cesserebbe di tenerlo in protezione.
Pertanto deliberò rimpatriare: ma giunsegli ordine di indugiare finchè
al re non avesse presentato il libro, del quale tanto si parlava, ancor
prima che comparisse. E il Radicati, datovi l'ultima mano, lo spedì a
Torino.
Ma ecco il ministro intimargli che sua maestà era indignata gli avesse
spedito uno scritto siffatto, e che non potrebbe più conservare seco
relazione: i beni suoi, come di nobile migrato senza consenso regio,
furono confiscati.
Il libro è intitolato _Receuil de pièces curieuses sur les matières les
plus intéressantes_ (Rotterdam 1736), e sostiene dodici proposizioni: 1º
Il principe dee aver libera la collazione degli arcivescovadi,
vescovadi, badie, parrocchie, e disporne a suo talento come i re di
Francia: nominare inoltre i provinciali, priori, superiori degli Ordini
religiosi, o rimuoverli. 2º Determini egli il numero de' preti, frati,
di ciascun Ordine, monastero, collegio. 3º Incameri tutti i beni e le
rendite della Chiesa e degli Ordini religiosi, dando al clero
sufficienti provigioni. 4º Vieti ai sudditi di donare mobili o stabili a
Chiese o a corpi religiosi. 5º Proibisca ai Gesuiti o frati qualunque
d'insegnare pubblicamente o privatamente, ma stabilisca scuole laicali
nelle città e nelle borgate. 6º Proibisca al clero di ricevere mercede
per la celebrazione di messe, punendo come simoniaco chi ne accetta. 7º
Tenga per ribelli i confessori o ecclesiastici che ne' penitenti o ne'
fedeli eccitano odio contro il sovrano. 8º Abolisca l'asilo delle
chiese; pigli le terre del papa che si trovino nello Stato, come sono i
feudi pontifizj in Piemonte. 9º Abolisca il Sant'Uffizio 10º e le
confraternite del Rosario, del Monte Carmelo, della Cintura di
sant'Agostino, del Cordone di san Francesco, dello Spirito Santo. 11º
Diminuisca il numero delle feste, riducendole alle domeniche, pasqua,
natale, capo d'anno, natività della Beata Vergine, tanto per distinguere
i Cattolici dai Protestanti. 12º I beni del clero scomparta fra i nobili
ed i Comuni; e poichè cesserebbero d'esser immuni dal tributo,
diminuisca d'altrettanto le gravezze pubbliche.
Avanti procedere a tali riforme bisognava fondare l'Università e
l'insegnamento laicale, togliendo ai Gesuiti l'istruzione: stampare
un'istruzione popolare sulla distinzione fra l'autorità spirituale e la
temporale; e difondere gli scritti di frà Paolo Sarpi.
L'opera alla quale precede il racconto dei fatti che su riferimmo, nella
stampa fu dedicata a Carlo III Borbone delle Due Sicilie; e poichè
confidava diventerebbe re di tutta Italia rifacendo la nazione, gli
offriva questi pensieri come conducenti a tal fine. È scritta con
vivacità e acrimonia, attaccando anche l'autorità spirituale, e
proponendo a modello Enrico VIII e il czar. Suggerisce però ai principi
si mostrino zelanti della religione per ingannare il popolo, e averlo
favorevole nella lotta contro gli ecclesiastici: non tocchino il dogma
per non offendere gli altri sovrani.
In Inghilterra si amicò a Collins, a Tyndal ed altri spiriti forti, e
per secondarli avventò contro la Chiesa una finta lettera all'imperatore
Trajano, ove si pongono a parallelo Maometto e Sosem cioè Mosè. Fece
pure una _Storia succinta della professione sacerdotale antica, dedicata
all'illustre e celebratissima setta degli spiriti forti da un libero
pensatore (freethinker) cristiano nazareno_; e il _Racconto fedele e
comico della religione dei canibali moderni_, di Zelim Moslem, _in cui
l'autore dichiara i motivi che ebbe di rinunziare a tal idolatria
abominevole_. Ivi numera le cause che pervertirono i costumi dei
Cristiani, i mali che la moltiplicità de' templi e degli ecclesiastici
causò alla repubblica cristiana, e i modi con cui si formò e si mantenne
la monarchia papale; mentre l'autorità sacra come la civile spetta di
diritto al sovrano.
Dappoi nella _Dissertazione sulla morte_ (1733) sostenne la fatalità
degli atti e giustificò il suicidio; essendo l'uomo semplice materia,
ch'ebbe la vita per essere felice, può rinunziarvi quando manchi lo
scopo. Per questo libro processato insieme collo stampatore,
dall'Inghilterra dovette uscire, e vagò in Olanda, in Francia,
impugnando anche le verità bibliche, massime nel libro _La religione
maomettana comparata colla pagana dell'Indostan da Ali-Ebn-Omar-Moslem_,
e in un sermone che fingea predicato nell'assemblea de' Quacqueri di
Londra dal famoso fratello Elvell (1737).
Si sa che Vittorio Amedeo abdicò, ma volendo intrigarsi ancora d'affari,
e forse ripigliare la corona, fu dal figlio fatto arrestare. Di questo
fatto vergognoso le invereconde e spietate circostanze furono tenute
occultissime; e poichè allora non v'avea giornali onde far propagare la
bugia, il marchese d'Ormea ministro finse che una relazione di quei
fatti fosse diramata alle legazioni, e la fece arrivare agli
ambasciadori stranieri residenti in Torino quasi provenisse da infedeltà
d'un impiegato. L'ebbe pure il Radicati, e tradottala in inglese, offrì
al ministro di Piemonte a Londra cavalier d'Ossono di cedergliela,
sperando così amicarsi Carlo Emanuele III, e ottenerne il rimpatrio. Non
gli si badò: ond'egli, fingendo gli fosse mandata in forma di lettera da
Torino, e aggiuntevi altre notizie, la pubblicò: più volte ristampata,
fu una delle scritture più lette di quel tempo, e gli storici ne
adottarono le favolose circostanze, come troppo spesso confondendo il
proibito col vero. Dicono che il Radicati, morendo in man di ministri
protestanti, abjurasse gli errori contro il cristianesimo.
Nelle controversie stesse s'agitò Pietro Giannone d'Ischitella
(1696-1758), uno de' più pertinaci sostenitori dell'onnipotenza regia. A
tacere varie scritture polemiche, fe la _Storia civile del Regno_
(1723), quasi unicamente diretta ad abbattere le opposizioni che i
feudatarj o i Comuni o la Chiesa mettevano agli arbitrj de' regnanti,
sempre appellando alla legalità ch'e' confonde colla giustizia; tornando
al sistema pagano che non v'abbia diritto se non quel che è promulgato,
nè alcun diritto contro ciò che fu promulgato: e la dedicò all'austriaco
Carlo VI, «del cui felicissimo regno il maggior pregio è l'aver col
decoro dell'imperiale maestà sostenuto tra noi le sue alte e supreme
regalie». Quanto devoto ai re, è avverso ai papi, sui quali e sulle cose
sacre versa facezie indecenti, intento ad opprimere l'autorità
spirituale sotto ai pronunziati del diritto romano, e dare la società
all'arbitrio dei giureconsulti; con durezza ed acrimonia piuttosto da
curiale che da storico, e talvolta travisando il testo[446]. Secondo
lui, la Chiesa da principio era nell'Impero; gl'imperatori anche
battezzati chiamavansi _pontifices maximi, episcopi ab extra_; e quelle
della Chiesa sono usurpazioni, continuate per secoli con un freddo
calcolo, per cui la repubblica invisibile del sacerdozio soverchiò ogni
repubblica politica.
Il suo odierno panegirista dice ch'e' fa la storia del diritto contro la
Chiesa, coi soli dati dell'esperienza, come se Dio non fosse; e contro
«le critiche tradizionali della scuola storica, e la falsa superiorità
della scienza municipale di chi prende a censurare gli storici passati»:
e non solo il difende, ma non dubita affermare che la Storia Civile
sovrasta «al tanto celebrato _Discorso sulla storia universale_ di
Bossuet, nel quale non si trova nè filosofia nè storia», mentre il
Giannone è fondatore della filosofia della storia.
A tale vanto non assentirà chi veda come le epoche sue il Giannone
deduca non da idee, ma da fatti, cioè da conquiste, da regnanti; osservi
le leggi fatte in ciascun'epoca, non i loro motivi e intenti; non induca
la legittimità delle tante e sempre facili conquiste dalle aspirazioni e
soddisfazioni popolari: nonchè sciogliere, neppure ravvisi i grandi
problemi della «contraddizione tra la follia del papato e il costante
suo elevarsi» (FERRARI): dell'antagonismo fra la Sicilia e la
terraferma, della rispondenza o contrarietà cogli avvenimenti dell'alta
Italia; della predilezione federativa dapprima, poi della
centralizzazione imposta dalla più popolosa città. Protervia d'uomini,
malvagità di natura, volontà di principi sono le spiegazioni ch'egli
reca, anzichè disegnare il gran moto della civiltà e della religione.
Teme il progresso, teme la stampa, e se crede usurpazione la censura
affidata alla Chiesa, dice «ai principi importa che lo Stato non si
corrompa, che i suoi sudditi s'imbevino (_sic_) d'opinioni che ripugnino
col buon governo: nel che ora più che mai è bisogno che veglino per le
tante nuove dottrine introdotte, contrarie alle antiche ed ai loro
interessi e supreme regalie, poichè da quelle ne nascono le opinioni, le
quali cagionano le parzialità che terminano poi in fazioni e in
asprissime guerre»[447]: si rallegra delle restrizioni messe nel regno
ai vescovi di stampar senza licenza neppure i calendarj, «ciò che poi si
è inviolabilmente osservato sempre che ministri del re han voluto
adempire alla loro obbligazione, ed aver zelo del servizio del loro
signore».
Per difendere i Longobardi che, nel vulgare sogno d'un'unità regia in
Italia, assalivano il pontefice, sostiene che non erano stranieri,
perocchè non aveano altro dominio fuori d'Italia; ragione che varrebbe
anche pel Turco in Grecia, e che egli applica ai Saraceni, i quali dice
«erano omai fatti siciliani»[448] perchè da un secolo tiranneggiavano la
Sicilia.
Tutto re, nulla aspettando dal popolo, fu dal popolo preso in sinistro a
segno, che il presidente Argento, valentissimo giureconsulto napoletano,
diceagli: «Vi siete messo in capo una corona, ma di spine»; e il vicerè
cardinale Altan lo consigliò di ricoverarsi in Austria. Insultato a
Barletta, a Manfredonia, non trovò pace che arrivando a Trieste e
Lubiana, donde a Vienna, dove undici anni godette una pensione di mille
fiorini assegnatagli da Carlo VI, che allora teneva il trono delle Due
Sicilie. Di là il Giannone chiese dall'arcivescovo di Napoli e dal
sant'Uffizio l'assoluzione per la sua storia e l'ebbe, onde fu sopito il
processo. Nè per questo desisteva dal sostenere i diritti regj contro la
curia, e contrastar «le vittorie riportate dalla prevalente astuzia del
vero», come dice il suo panegirista. Ma quando l'italica indipendenza si
trovò quasi compiuta, e Carlo VI perdè la dominazione della Sicilia,
Vienna cessò di careggiare i fuorusciti, e sospese la pensione al nostro
storico. Il quale allora stabilì ritornare in patria ad offrire i suoi
servigi a re Carlo III. E prima errò per varj paesi, trovando
contraddittori alle falsità e nemici alla mordacità della sua storia: a
Venezia il senatore Pisani ben l'accoglie; il senato gli offre cattedra
di pandette a Padova, ma egli allega non aver l'uso del latino; cerca
gli si agevoli il ritorno in patria, ma Carlo III nol vuole: si offre
alla Corte di Torino per servirla nelle controversie allora vive con
Roma, ma è politamente ricusato (1735).
Per questi oggetti egli trattava coi ministri esteri, e poichè ai
senatori e a chi stesse in lor casa era proibito parlare con
rappresentanti stranieri, gl'inquisitor di Stato, cui già era accusato
d'appartenere ad una società di ottanta gentiluomini che si burlavano
del papa, delle preghiere, dei miracoli, lo fecero arrestare, mettere in
una barca, e deporre a Crespino terra di papa. Non vi fu scoperto, e
passò a Modena, indi dai Trivulzj a Milano, città che per un momento si
trovava sotto al Piemonte, poco contenta d'un re di dubbia indipendenza,
di soldati che invadevano i vescovadi, di professori scomunicati. Tornò
allora offrirsi al re sardo mediante il conte Pettiti e il marchese
D'Ormea, promettendo che «con tutto lo spirito avrebbe in suo servizio
sagrificato tutto il rimanente della sua vita, in qualunque occasione la
sua opera e la sua penna potesse essergli di gradimento». Ma un ordine
preciso del re gl'intimò d'uscire di Lombardia. Traversò il Piemonte nel
novembre 1735, e poichè Roma mostrava desiderio fosse arrestato, onde,
fissatosi in paese d'eretici, non portasse danno, il marchese d'Ormea le
dava contezza che, saputo come si dirigesse a Ginevra, avea spiccato
l'ordine d'arrestarlo. E al cardinale ministro Albani scriveva il 13
dicembre 1735: «Vostra eccellenza avrà inteso che, sulla notizia datami
dal grancancelliere di Milano delle intenzioni di Pietro Giannone di
voler passare a Ginevra, s'erano date disposizioni necessarie per farlo
arrestare. Or devo aggiungerle che, essendosi trovato partito da Milano,
ne feci far qui le più esatte diligenze, e finalmente scoprii, non senza
grande stento, stante che qui s'era nominato per Pepe Anello, che non
avea fatto che qui pernottare la notte del 27 caduto, essendo partito la
mattina del 28. Spedii subito l'ordine sulla rotta (_strada_) ma essendo
già passati alcuni giorni dacchè era in viaggio, più non si potè
cogliere. Se sua santità avesse da principio lasciata intendere la sua
intenzione che fosse arrestato, non sarebbe certamente mancato il colpo,
e se fosse riuscito dopo che qui se ne era presa spontaneamente la
risoluzione, avevo risoluto di mandarlo legato al papa sino dentro Roma,
scortato da un distaccamento di dragoni. Desidero sinceramente che le
attenzioni incaricate novamente al signor conte Piccone (_governatore
della Savoja_) sortiscano il loro effetto; perchè in tal caso sua
santità potrà conoscere che, se nelle cose temporali la disgrazia ha
voluto che non si sono potute incontrare in cotesta Corte le dovute
convenienze, nelle spirituali non v'è chi superi sua maestà nella sua
devozione ed ossequio verso la santa sede e la persona di sua santità,
ne chi più vivamente s'interessi per il sostegno e vantaggio della
nostra santa fede».
E fu allora che venne ordito un infame tranello, d'accordo col
governatore Piccone. Giuseppe Guastaldi, gabelliere a Vesenà, villaggio
sardo vicin di Ginevra, finse interesse per la sorte del Giannone e d'un
figlio naturale che menava seco, e volerlo riconciliare colla Corte. A
tal uopo gioverebbe mostrasse non esser vero che avesse apostatato, nè
altra cosa il proverebbe meglio che il far pasqua; andasse seco a
riceverla nel vicino villaggio savojardo. E il Giannone vi andò il 24
marzo 1736, ma v'erano disposti birri regj, incaricati d'arrestarlo «con
destrezza e piacevolezza»[449] come fecero. Roma attestò al re «simili
ingegni turbolenti dover celeremente essere sconcertati e allontanati
dal consorzio degli uomini»: il re significò al governatore Piccone
l'_agrément très-distingué avec lequel il avait reçu la nouvelle de
l'emprisonnement de Giannone_: il marchese d'Ormea sollecitò perchè se
ne raccogliessero i manuscritti, se ne esplorassero le intenzioni, e se
avesse apostatato o ci pensasse: voleva anche farlo tradur a Roma, ma la
clemenza del re s'accontentò di gettarlo nella rócca di Miolans poi a
Torino, sottoponendolo per dodici anni a una prigionia brutalmente
severa e vessatoria. L'Ormea assicurò Roma che mai, per qual fosse
ragione non sarebbe liberato: il padre Prever fu mandato per
convertirlo, pur dichiarandogli che, qualunque fosse l'esito della sua
missione, non isperasse libertà, e soltanto pensasse all'anima sua:
ond'egli fece la più ampia ritrattazione; desiderare che della sua
Storia perisse fin la ricordanza; ringraziare Dio e il re e suoi
ministri che, col tenerlo prigione, l'aveano campato da altri
errori[450].
Quest'atto a nulla gli valse; non lo sporgere istanze; non il rammentare
quanto fosse stato devoto alla Casa di Savoja, e che dall'arcivescovo di
Napoli e dal Sant'Uffizio era stato assolto; la durezza de' ministri e
l'avidità de' castellani peggiorava la sua miseria, nella quale
lasciavasegli fino ignorare che ne fosse del suo figlio e della madre di
questo, a spogliare i quali s'erano affrettati i parenti.
Che avesse rinnegato la religione de' suoi padri non appare. La sacra
Congregazione proibì la Storia di lui per «dottrine false, temerarie,
scandalose, sediziose, ingiuriose a tutti gli ordini della Chiesa,
erronee, scismatiche, empie, e che a dir poco sanno d'eresia (_hæreses
ut minimum sapientes_)» non però veramente ereticali. Ma oltre di quella
avea scritto il _Triregno_, opera che non fu stampata, e neppure
compita, ma della quale fra' manuscritti del prigioniero trovossi una
copia dall'abate Palazzi di Selve bibliotecario dell'Università di
Torino, incaricato dall'Ormea di esaminarli, e da lui trasmessa alla
sacra Congregazione dove si conserva. Un'altra copia era a Ginevra in
mano del ministro calvinista Isacco Vernet, che la cedette a un librajo
olandese, e questi a un abate Bentivoglio, il quale la vendette al papa.
D'un'altro esemplare, rimasto al suo figliuolo, diede estratti e indici
il Panzini, tanto da poter ricomporre anche le parti che mancano.
E ciò tolse a fare un'ingegnoso quanto dotto nostro contemporaneo, il
quale, per esaltarlo davanti a un uditorio prevenuto, vi legge
«riflessioni senza che vi siano», vi suppone uno scopo, una connessione
ideale, mettendo il pensiero scettico d'oggi al posto della quistione
avvocatesca d'allora.
Sull'orme dei filosofi inglesi e francesi che rompevano guerra alla
tradizione religiosa, il Giannone combatte la Chiesa, cercando le leggi
della storia in quelle della mente umana. Secondo la sua teorica, il
pontefice dichiara che scopo della vita terrena è conquistare il regno
del Cielo. Chi gliel'ha rivelato? chi intese la voce di Dio? e al mondo
chi diè principio? Nessuno; è eterno; ha vita inerente alla materia, e
produttrice di tutti i viventi; immutabili sono le sue leggi. Essa
produsse anche l'uomo, se pur non è eterno: e in lui nulla parla di Dio;