Gli eretici d'Italia, vol. III - 44

JONES, _the history of the Christian Church, including the very
interesting acount of the Waldenses and Albigenses_. 2 vol.
LOWTHEC'S, _Brief observations on the present state of the Waldenses_.
1825.
ACLAND, _A brief sketch of the history and present situation of the
Vaudois_. 1826.
ALLIX, _Some remarks upon the ecclesiastical history of the ancient
churches of Piedmont_.
PEYRUN, _Notice sur l'état actuel des églises vaudoises_. Parigi, 1822,
li sostiene coevi del cristianesimo.
A. MUSTON, _Hist. des Vaudois des vallées du Piémont_. 1834.
_L'Israel des Alpes, ou les martyrs vaudois_ li fa oriundi da Leone, che
nel IV secolo si separò da papa Silvestro, quando questi accettò beni
temporali da Costantino.
[407] _L'Eco delle valli, La Buona novella, Le serate valdesi_, ecc. Ne
riparliamo nel Discorso LVI.


DISCORSO LII.
SECOLO XVIII. GIANSENISMO. FILOSOFISTI. FRANCHIMURATORI. CAGLIOSTRO.

Con tre avversarj, oltre i consueti, ebbe a lottare la Chiesa nel secolo
XVIII: i Giansenisti, i Franchimuratori e i Filosofisti.
Allorchè un uomo delibera sopra il fare od ommettere un'azione, sente di
potere decidersi in un senso o nell'opposto: ma l'azione e la
deliberazione presente dipende da anteriori, in guisa da parerne quasi
inevitabile conseguenza. Ciò non significa che l'uomo sia legato alla
fatalità; bensì che egli non opera a caso, e che la libertà sua non vien
mai esercitata così bene, come quando si conforma alla legge morale,
insita in esso. Prescinde egli da questa? Se n'accorge, e confessa,
«Volendo avrei potuto fare altrimenti».
La volontà dunque ha bisogno di appoggi estrinseci, quali l'esempio, i
conforti, l'amicizia, l'approvazione o disapprovazione, la preghiera, la
coazione morale e fisica. Ma oltre quest'esterna si dà un'azione
interiore, che tutti sentono, che nessuno spiega. Il negare
quest'azione, i diversi tentativi di ragionarla[408] e di misurarne la
relativa importanza danno origine a variissimi sistemi, che collegansi
con quelli che concernono l'altro arcano dell'origine del male.
Fin dai primi secoli, Pelagio, per sostenere il libero arbitrio,
attenuava l'efficacia divina, cioè la Grazia, ponendo che le forze
naturali bastino per adempiere la legge. L'uomo, a dir suo, fu creato
mortale; nè il peccato ne deteriorò punto la prisca condizione. I
bambini nascono nel medesimo stato in cui fu posto Adamo, e gli uomini
sono liberi come erano nel paradiso terrestre. Ognuno può dunque
serbarsi immune da peccato e osservare la legge; sebbene non possa
raggiungere la perfezione. Che se vuolsi ammettere la Grazia divina,
questa consiste appunto nella libera volontà di non peccare; tutt'al più
è una ulteriore facoltà, concessaci da Dio per poter più facilmente
compire quel ch'egli ci comanda: il libero arbitrio consiste
nell'equilibrio fra il bene e il male, nella piena libertà di fare
questo o quello.
Sant'Agostino, il primo de' Padri latini che riducesse a forma
sistematica la dottrina evangelica, molto occupossi di questo dogma
capitale della vita cristiana; e combattendo Pelagio, sosteneva che
l'uomo, dopo la colpa d'origine, cessò di potere per sè evitare il
peccato ed osservare la legge: la grazia di operare il bene non può
venirgli che da Dio, il quale la concede a chi e in qual grado vuole.
Per lo peccato originale i bambini non partecipi della redenzione, van
perduti irremissibilmente; e in alcune anime predestinate alla gloria,
la Grazia si manifesta in modo indeclinabile e insuperabile. Queste
frasi, comparandole ad altre dello stesso santo, da san Fulgenzio e dai
teologi sono chiarite in modo di stabilire che col peccato originale
l'uomo perdette la Grazia santificante, divenne soggetto alla morte; il
libero arbitrio fu in lui non annichilato, ma indebolito; nè è dalla
concupiscenza trascinato inevitabilmente al peccato; nè portato
irresistibilmente al bene dalla Grazia, acquistata pel sangue di Cristo,
e mediante la quale riceve la facoltà di far bene. Questa Grazia
interiore deve prevenire la volontà, ed elevarla di sopra delle forze
sue naturali; nè da noi la meritiamo, ma ci è data gratuitamente: senza
di essa l'uomo non può fare opere meritorie; anche con essa non può
restare immune da qualche venialità.
È dunque atto creativo la predestinazione, per la quale la creatura
riesce quel che è; e una libertà finita non potrebbe limitare la
infinita del Creatore; il quale non sarebbe perfettamente libero se la
libertà finita non potesse determinare altrimenti che sforzandola. Però
la Grazia non viola il libero arbitrio nè potrebbe violarlo, poichè è
essa medesima che lo crea. Ma in che consista l'azione di Dio sulle
creature libere, in che modo producasi quell'effetto, si disputa.
Mentre alcuni, attribuendo tutto alla Grazia, pensavano che Dio abbia
irrevocabilmente prestabilita la sorte di ciascuno, Cassiano riconosceva
insufficiente la volontà umana, e necessario un sussidio esterno, per
operare il progressivo santificamento, ma negava l'azione gratuita e
preveniente, immediata e speciale di Dio sull'anima per muoverla a
cominciare il bene: anzi in un certo senso l'uomo colle forze naturali
può tutto, in quanto che i meriti di Cristo apersero a tutti
indistintamente un tesoro di grazie, ove ciascuno, mediante il desiderio
suo naturale di procacciarsi la salute, può attingerli quando e quanto
vuole (_Semipelagianismo_).
La quistione tocca a punti supremi di filosofia, di politica, di
religione; e per quanto il secolo possa deriderla, essa ancora
sopravvive ne' filosofi, che tutto attribuiscono all'energia umana,
escludendo ogni influenza superna sulle azioni e perciò ogni bisogno di
preghiera; e ne' pubblicisti che indagano se v'abbia una filosofia della
storia, cioè quanto l'azione della Provvidenza si combini con quella
dell'uomo nell'attuamento della società. Che se nella grossolana sua
manifestazione primitiva di Pelagio soccombette alle condanne della
Chiesa, modificata s'aggirò nelle scuole teologiche, dibattuta
contraddittoriamente dai seguaci di san Tommaso e da quelli di Duncano
Scoto (_Tomisti e Scotisti_): la vedemmo ridesta dai Protestanti, e non
risoluta pienamente dal Concilio di Trento, il quale, come non avea
determinato le precise relazioni della Chiesa collo Stato, così lasciò
indecise e la supremazia papale e la questione della natura della
Grazia, enigma della religione come della ragione, di cui Dio riserva a
sè il segreto.
Bensì avea pronunziato che la giustificazione si fa pei meriti di
Cristo, pe' quali l'uomo, liberamente consentendo e cooperando, riceve e
la remissione de' peccati e una carità inerente all'anima. La Grazia è
gratuita, ed è necessaria non solo per far opere meritorie, ma fino per
concepire il desiderio di farle. Col peccato, all'uomo restò indebolita
la libertà naturale, e Cristo non gli restituì l'innocenza. Iddio
concede a tutti quanta grazia è _sufficiente_ all'eterna salute; ad
alcuni, che predilige per fini imperscrutabili, dà una grazia
_efficace_, che li stabilisce irremovibilmente nel bene. Tutti dunque
son liberi di fare il bene, alcuni non sono liberi di fare il male.
Qualche luce in questo mistero venne portata allorchè fu condannato
Bajo. Il quale, o i suoi seguaci, insegnano che il predominio della
carità o della cupidine toglie la libertà di operare differentemente
dall'affetto predominante; mentre i Cattolici credono che all'uomo
rimane sempre il libero arbitrio _a necessitate_, non solo per le opere
proprie allo stato in cui trovasi attualmente, ma anche per quelle dello
stato contrario, cioè verso il male finch'è in istato di grazia, e
reciprocamente. Bajo fa che l'uomo dominato da cupidità abituale non può
fare azioni buone, sicchè tutte le opere degli infedeli e de' malvagi
sono peccato; mentre i Cattolici tengono che l'uomo signoreggiato dalla
cupidità può, in virtù d'un soccorso attuale, operar bene in ordine al
debito fine, benchè l'azione non possa esser meritoria, mancandovi la
giustizia abituale. Secondo Bajo, ogni azione non diretta al debito fine
da un abito oltranaturale è intrinsecamente viziosa; mentre i Cattolici
credono tale azione possa esser buona nella sostanza, benchè non
lodevole in ogni parte: e questo indirizzo al debito fine può darsi
anche nell'infedele e nel peccatore per opera della sola Grazia attuale:
tali azioni possono esser buone in sè, ma _non bene fiunt_.
I teologi sono lontani dall'andare d'accordo nell'esposizione; e i
Domenicani sopra l'opinione di san Tommaso compilarono il catechismo
romano: i Gesuiti propendettero a Duncano Scoto, che asseriva l'uomo
essere capace di qualche movimento verso il bene, fondandosi sulla bontà
del Padre e la misericordia del Figlio; ond'erano tacciati di
semipelagiani.
Maggiore efficacia all'arbitrio volle attribuire lo spagnuolo Luigi
Molina, supponendo che l'uomo, senza il soccorso della Grazia, possa
produr opere moralmente buone, resistere alle tentazioni, elevarsi da sè
ad atti di fede, speranza, carità, contrizione; giunto a questo, Iddio
gli concede la Grazia pei meriti di Gesù Cristo, per la quale prova gli
effetti soprannaturali della santificazione: ma l'arbitrio rimane sempre
indifferente anche sotto l'azione della Grazia, la quale esso può render
efficace o no. In somma l'opera buona la giustificazione vengono dal
cooperare della volontà e della Grazia; Iddio prevede, ma non determina
l'azione, bensì vede qual sarà la deliberazione della volontà.
Piacque tale sistema, che nella sua chiarezza pareva conciliare l'azione
della Grazia col libero arbitrio; ma viva guerra gli mossero i
Domenicani come a liberalismo razionalista e superficiale. Per avere una
precisa decisione sarebbe bisognato prima definir la natura della Grazia
efficace, e la Chiesa non lo fece mai. Clemente VIII ne affidò l'esame a
una congregazione _De auxiliis divinæ gratiæ_, ma questa si sciolse
prima di nulla decidere: e si disse che ciò siasi fatto per non
condannare un Ordine tanto benemerito come i Gesuiti.
Imposto silenzio su tale materia, non altro rimaneva più che di usare
strettamente le parole della Chiesa e di sant'Agostino. Ma sant'Agostino
insegnò egli appunto la dottrina adottata dalla Chiesa? Se poi il
principio della giustificazione sta nella volontà e libertà dell'uomo,
in modo che possa di per sè cominciare il suo rigeneramento e meritare
per moto spontaneo della sua buona volontà, egli non è caduto
irreparabilmente, nè in conseguenza è indispensabile la redenzione
sempre vivente per opera di Gesù Cristo.
Questo opponevano gli avversarj ai Gesuiti, i quali, sostenendo
l'opinione più larga e ampliando il benefizio della redenzione, parve
portassero un rilassamento nella morale, un pericoloso tranquillamento
delle coscienze e una sciagurata facilità d'assoluzione, tappezzando di
velluto la via del paradiso. Per riazione altri teologi s'accinsero a
ripristinare, come diceano, la vera scienza interiore dei sacramenti e
della penitenza; e a tale intento Giansenio, vescovo d'Ipri, espose il
sistema di sant'Agostino in modo da combattere i Semipelagiani, ed egli
intendeva i Molinisti. Quell'opera rattizzò le controversie cui
pretendeva sopire, e in essa si ripescarono cinque proposizioni
repugnanti ai dettati della Chiesa e che Innocenzo X condannò; ma il
litigio si prolungò fra equivoci e sottigliezze, che fu menato
coll'entusiasmo e colla furberia, colle bajonette, e le caricature, e di
cui si scandalizzò e si divertì il secolo di Luigi XIV in Francia. Il
giansenismo confondeva nel primo uomo la natura e la grazia, la ragione
e la rivelazione, sicchè in lui non v'era nè il fine soprannaturale
detto la gloria, nè il mezzo soprannaturale detto la Grazia, ma fine e
mezzi puramente naturali ad esso. Nell'uomo caduto e redento la Grazia
non era che il restauramento della natura, la rivelazione non era che il
restauramento della ragione naturale.
Mentre coi lassi militavano cattolici di santità e scienza segnalata,
anche i rigoristi onoravansi dei nomi di Nicole, di Pascal, di Racine,
di Arnauld, di Sacy, di Tillemont, insigni per scienza, e che la Chiesa
non disgiunse mai dalla nostra carità. Non ebbero questi umiltà bastante
per sottoporsi alla decisione del papa: non voleano però staccarsene:
onde sostennero da prima che le proposizioni condannate non si trovano
proprio in Giansenio; poi, che il papa non aveva intenzione di
condannarle; indi che questo non è infallibile se non quando decida
colla Chiesa riunita. Ma se la promessa di Cristo dee limitarsi ai
Concilj ecumenici, la Chiesa non avrebbe più sufficienti mezzi per
arrestare il progresso dell'errore ogniqualvolta essa non potesse
adunarsi. Restringete con condizioni arbitrarie le promesse divine e
indistinte, e si troverà sempre il modo di eluderle. Se la Chiesa può
ingannarsi una volta, il potrà sempre. In somma il Giansenismo era
ancora l'ostilità contro il papa, ma disciplinata; misurando i diritti
della Chiesa e de' Concilj; disubbidendo, mentre si protestava obbedire.
Pure se que' settarj negavano d'aver emessi, e sostenuti gli errori a
loro attribuiti, non valea meglio prenderli in parola? Ma ne' partiti si
vuol che l'avversario si dichiari nel torto, non già che si scusi o si
giustifichi; e i nemici dei Giansenisti aveano preso anch'essi tal
questione come personale, e la spinsero all'estremo. Tacciavano essi
Giansenio di rinnovare Calvino, il quale avea detto che «i comandamenti
di Dio sono sempre superiori agli sforzi dei giusti». Posto un Dio
austero, men padre amoroso che esattore inesorabile, il quale impone una
legge superiore alle forze e non concede i mezzi per adempirla: con un
gelo razionale assideravano il germe della vita cristiana,
approfondavano l'abisso fra Dio e l'uomo, sostituendo il fatalismo e la
necessità del male alla fiducia nella Grazia; rinserravano fra la
disperazione e l'incredulità. Straordinarj in conseguenza doveano essere
i rimedj: onde, torcendo contro l'uomo la virtù sua stessa, e perdendolo
pel desiderio di perfezione, i sacramenti venivano posti tant'alto da
restare quasi inacessibili, da esser piuttosto la difficile ricompensa
che non il mezzo del santificamento; la confessione rendeasi tanto più
severa, quanto censuravansi i Gesuiti d'averla resa comoda mediante il
probabilismo.
Dicono probabile quella opinione che, senza aver la forza e il carattere
della certezza, pure determina a credere che un'azione sia permessa o
vietata. Alcuno ha per probabile un'opinione quando ad affermarla si
hanno maggiori ragioni che a negarla. Per altri a considerarla tale
basta sia stata sostenuta da qualche teologo. Ad ogni modo il
probabilismo non può cadere su nulla che osti alla morale o ai precetti
divini ed ecclesiastici: nè su opinamenti intorno a cui la Chiesa abbia
pronunziato. La volontà dell'uomo può spingersi fin dove Iddio non le
pose limiti. Se legge v'è, l'uomo dee conformarvisi; ma una legge dubbia
non toglie la libertà. Or questi dubbj sono appunto il campo del
probabilismo: diviene però vizioso quando tenda a scusare i disordini, e
mettere una maschera di onestà a ciò che la offende.
La morale evangelica suggerisce sempre il partito più umano, il più
generoso; ma messa a cozzo colla natura depravata, e cogli interessi
personali, non può non adagiarsi a consigli d'opportunità. Il confessore
che dee dirigere le coscienze e risolvere i dubbj particolari, è
sottoposto a terribile responsabilità, potendo o suggerire o non
impedire un atto peccaminoso. Peccato che l'uomo abbia, la Chiesa non
vuol gettarlo nella disperazione, ma lo chiama a pentire e soddisfare.
Pure la soddisfazione non sempre è possibile, non sempre può
determinarsene il preciso grado. Inoltre, sussisteva l'Inquisizione che
puniva corporalmente; ed il peccatore lasciato un anno senza assoluzione
e perciò senza i sacramenti, trovavasi esposto ai rigori di quella.
Si studiarono dunque ripieghi e compensi che, salvando il diritto della
coscienza, non disperassero della salute, nè però allettassero colla
soverchia indulgenza.
Maggiori dubbiezze porgevano la veridicità e le obbligazioni derivanti
da promessa. Con quanti sofismi l'interesse non cerca di sottrarsi a
carichi assunti! quanto transigere fra la legge dello spirito e quella
della carne! Moralisti epicurei, della scuola del Machiavello,
insegnarono a scientemente mentire, sicchè è insania il dire che i
Gesuiti ciò inventarono perchè industriaronsi a conciliare l'onestà
colle necessità della politica e la corruttela del mondo, e a salvar
almeno la coscienza fra la crescente depravazione.
Di tale tolleranza erano essi imputati: e, vero o falso, ciò che d'uno
si dice ha forza più di quel che è e fa veramente. Non cerchiamo dunque
quanto di realtà ci avesse in accuse, mosse forse da quelli stessi che
ruggivano contro la intolleranza della Chiesa: fatto è che quella
società, nel secolo precedente denunziata come frenetica contro i
miscredenti, allora fu tacciata di connivenza mondana, di avversione ai
Cattolici austeri; e per una delle solite contraddizioni di partito,
quei che avrebbero giudicato tirannide il proibire teatri, danze, lusso,
dichiaravano lassismo il trovarvi scuse. Gran rigorista il domenicano
Daniele Concina friulano (1687-1756) calde controversie agitò contro i
Gesuiti, massime pel digiuno quaresimale e pei teatri; ristampò con
aggiunte i casi di coscienza del Pontas; fe una _Disciplina monastica_,
la _Storia del probabilismo_ e _del rigorismo_ (1743): la _Teologia
cristiana dogmatica-morale_, le _Lettere teologiche-morali_ relative ai
casi riservati, la _Quaresima appellante dal fôro contenzioso di alcuni
recenti casisti al tribunale del buon senso_: scrisse pure _della
Religione rivelata_ (1754) contro atei, deisti e materialisti; e gli
integerrimi suoi costumi e la saldissima persuasione possono solo
scusarlo dell'accannimento contro degli avversarj e dei moltissimi
contraddittori, i quali avranno avuto la loro parte di ragione e di
torto, come in ogni contesa umana[409].
Contro il gesuita Jacobo Sanvitali parmigiano il domenicano Vincenzo
Patuzzi veronese agitò le quistioni del lassismo e del rigorismo col
pseudonimo di Eusebio Eraniste. Altro campione del Concina, il padre
Fassini di Racconigi combattè valorosamente il Freret intorno
all'autenticità dell'Apocalisse.
Passarono per rigoristi il Rotigni di Trescorre, detto il priore di
Brescia; il milanese don Celso Migliavacca ( — 1755) ed altri, contro
dei quali sarebbe facile trovare violenti libelli d'imputazioni
ingiuriose. Che se tali quistioni or pajono solo da sacristia,
appassionavano tutti in tempo che tutti si confessavano, persino
Voltaire. Viepiù le complicavano le gelosie fra gli Ordini religiosi,
l'inestinguibile odio contro i Gesuiti e le arroganze principesche.
Perocchè i re, se aveano un momento incensato ai pontefici quando si
trovarono di fronte la rivoluzione, nemico comune, presto ripigliarono
le pretensioni giurisdizionali, quasi restasse sminuita la regia dignità
da cotesto papato che volea farsi credere un potere e un diritto.
Cercavano pertanto restringere l'ingerenza de' nunzj[410], sottraendone
le cause matrimoniali, ed escludendoli dai processi per delitti comuni;
limitare le nomine riservate a Roma; pubblicare editti concernenti
materie religiose; sindacare l'amministrazione de' beni ecclesiastici e
fin le comunicazioni tra le chiese particolari e la romana; ridur la
Chiesa ad una funzione dello Stato, e riformarla non a vantaggio del
popolo o della nazionalità, ma nell'interesse del principe. Li secondava
l'opinione, ch'è così facilmente abbagliata dalla forza o raggirata
dall'intrigo.
Per imitare Luigi XIV di Francia, che avea fatto ammirare il despotismo
amministrativo, e proclamata l'onnipotenza del re sottomettendovi anche
la Chiesa e collocando il trono più alto che l'altare, si ridestarono le
libertà gallicane. Queste erano restrizioni che, non già la Chiesa di
Francia, ma alcuni dottori francesi aveano poste a Roma quando pareva
ella invadesse il diritto civile e nazionale; e poco a poco crebbero a
segno da escluder Roma da ogni ingerenza nella Chiesa e nello Stato
francese, pur rimanendo nel cattolicismo. Con ciò non temperavano
l'autorità pontifizia a favore della libertà popolare, bensì la libertà
sottoponeano al re, facendolo indipendente. Da trentaquattro fra i
centrenta vescovi di Francia, _mandato regio congregati_ nell'assemblea
del 1682 per (come dice Fleury) «mortificar il papa, e soddisfare il lor
proprio risentimento», furono proclamati quattro articoli, la cui
sostanza è: 1º che i papi nulla possano in generale o in particolare su
quanto concerne interessi temporali ne' paesi sottoposti all'obbedienza
del re di Francia; se il fanno, nessun suddito, sebbene ecclesiastico, è
tenuto obbedirgli; 2º il papa ha sovranità nelle cose spirituali, ma
pure in Francia la potestà sua è limitata dai canoni e decreti degli
antichi Concilj della Chiesa. Se ne deduce l'assoluta dipendenza dei
vescovi dal re; non devono uscir dal regno senza suo consenso; non vanno
esenti da imposte, o dal fôro comune; non si conferiscono benefizj a chi
non sia nazionale; tocca al re nominare o confermare le elezioni. Sono
dunque libertà di re, il quale resta vero capo della Chiesa, come
giudici ne sono le assemblee nazionali: gli ecclesiastici, non
appoggiati più ad un potere lontano e indipendente, rimangono al pieno
arbitrio dell'autorità civile, niente meno che gl'impiegati[411].
Così, invece della libertà della Chiesa universale zelavansi privilegi
d'una particolare: ma sotto il nome di Chiesa gallicana celavasi
qualcosa di più durevole ed effettivo, la paura di una autorità, inerme
e perciò non domabile colle bajonette, che si estende sopra ducento
milioni di Cattolici, e che alcuni per venerazione, altri per dispetto
dichiaravano onnipotente. Vi si applaudiva anche fuori, per la pendenza
allora cominciata di centralizzare le amministrazioni, sull'esempio di
Francia; e per la scossa che il libero pensare dava al sentimento
dell'autorità, il quale avea dettato i regolamenti del medioevo. Che se
nel secolo precedente la gran protesta contro la Chiesa avea diviso gli
eterodossi dai cattolici, ora in seno di questi sottraeva l'obbedienza
al pontefice, per attribuirla ai re; salvo nel secolo successivo a
negarla anche a questi[412].
I Romanisti dicono: La Chiesa è una monarchia che il papa governa per
mezzo dei vescovi; successore di san Pietro principe degli apostoli,
egli nomina i vescovi o da solo o in accordo coi governi: i vescovi, col
concorso dei sacerdoti da essi ordinati e da loro dipendenti,
amministrano i sacramenti, insegnano; sotto la vicaria paternità del
papa esercitano tutti i poteri spirituali, eccetto la suprema
determinazione della fede, che ricevono da esso, e che trasmettono ai
laici. Il papa, in cui risiede l'autorità cattolica, pronunzia dalla
cattedra come infallibile; i vescovi da lui istituiti, e i preti che da
questi dipendono formano il legame della Chiesa[413].
Invece di ammettere questo prezioso accordo di monarchia, aristocrazia,
democrazia, attuato nella repubblica cristiana, i Giansenisti, traendo
in mal senso parole che buono l'aveano, sostennero che sant'Agostino,
col dire che le chiavi _non homo unus sed unitas accepit Ecclesiæ_,
ponevano l'università de' fedeli al disopra del pontefice; per modo che
vera sovrana sia la generalità de' credenti, e loro ministri o delegati
i vescovi e il papa, a cui obbediscono solo quando e in quanto
vogliano[414].
I vescovi sono tutti successori degli apostoli, i quali furono scelti da
Cristo al par di Pietro, la cui primazia non fu nulla più che una
presidenza. Adunque la podestà dei vescovi non emana dal papa ma da
Cristo stesso, per l'intermezzo degli apostoli e per la non interrotta
successione. Ogni vescovo sia scelto dai fedeli della sua diocesi, e
istituito dai vescovi della provincia, i quali all'occasione diventano
tribunale per proteggere i preti contro il vescovo: esercitano tutti i
poteri spirituali, e pronunziano sul dogma, sotto la presidenza del
papa. Il papa è successore di san Pietro, non perchè vescovo di Roma, ma
perchè papa, cioè scelto dagli altri a preside; come scelsero il vescovo
della metropoli del mondo, potrebbero designarne un altro: e papa è quel
ch'essi tengono per tale. Il Concilio di Costanza proferì decaduti i due
papi e ne nominò un altro: e volle che dall'elezione derivino tutti gli
impieghi e le dignità; e ogni dieci anni abbia a convocarsi il Concilio,
nel quale risiede l'autorità cattolica. Nessun Concilio vale se non
preseduto dal papa, ma la parola del papa non vale se non perchè
promulga ciò che il Concilio ha deciso; e ciò che ha deciso questo non
diviene irreformabile se non quando l'abbia accettato la Chiesa. Il papa
ha la presidenza della Chiesa: il Concilio ecumenico ne ha l'autorità:
l'assemblea intera de' fedeli, preti o laici, è infallibile. Tale,
dicono, era la costituzione primitiva, alterata per circostanze che la
storia registrò.
E intorno all'infallibilità del papa fanno riserve, prima sull'oggetto
de' giudizj, sottraendo al papa il proferire in materia ch'essi
dichiarano non interessare la religione e la disciplina; secondo, sul
soggetto che dee proferire i giudizj, dichiarando indefettibile la sede,
non il sedente: infallibile non il papa, non la Chiesa dispersa, ma
raccolta in Concilio universale, e i cui decreti siano accettati
all'unanimità; terzo, sulla modalità dei giudizj. Con ciò mascherano la
reluttanza, ma quando sieno serrati, son dialetticamente costretti a
pronunziare che i pastori insegnano l'errore; e s'appoggiano non
all'autorità pontifizia, ma ad un esame storico critico; distinguono il
_corpo visibile_ della Chiesa dall'_autorità spirituale_ di essa: quella
infallibile, questa soggetta ad errore. Con senso privato esaminano
dunque la tradizione, e all'antichità si appellano dalle decisioni della
Chiesa contemporanea. Mentre il protestantismo, col criterio supremo
della coscienza individuale, arrogava a ciascuno il diritto di
interpretare a suo senso la Bibbia, il giansenismo accettava la condanna
che ne pronunziò il sinodo tridentino; ma si riservava d'interpretare la
Chiesa stessa, distinguendo la nuova dalla vecchia. Or qual cosa più
facile che confondere la Chiesa coi documenti che ne esprimono la fede,
e le parole e la storia spiegare in senso privato? Così prendeano un
mezzo termine fra l'obbedienza in astratto e l'obbedienza in concreto;
l'indocilità verso l'autorità viva della Chiesa coprendo colle
attestazioni di rispetto ad un'antichità della Chiesa, foggiata a lor
modo: quelli obbligano il credente a studj filologici, questi a indagine
di archivj per trovare frasi e fatti, repudiando la legittima interprete
vivente e perpetua delle tradizioni.
E appunto il richiamo verso i tempi primitivi è consueto ai Giansenisti.
Con ciò rinnegano il progresso e lo svolgimento; perocchè non bisogna
ritornare al passato per isciogliere il gran problema del presente;
bensì volgersi all'avvenire colla coscienza del passato, coscienza di
principj che stanno, mentre le forme si cangiano. Pure, anche guardando
al passato, fin dai primordj i santi padri deplorarono gli abusi
derivati dall'eleggersi popolarmente le dignità ecclesiastiche. Cristo
elesse i proprj apostoli; questi elessero i loro successori, e così
continuossi sempre. I Padri del sinodo di Trento, non che introdurre
verun elemento democratico, anzi con lunghi ragionamenti ne mostrarono
la sconvenienza, solo affidando ai capitoli delle cattedrali l'elezione
dei vescovi: e fu condannata la dottrina del Richerio che mettea nel
popolo il primo possesso della sovranità.
Mentre poi erano democratici in chiesa, fuori i Giansenisti mostravansi
monarchici, come aveano fatto nel medioevo i Fraticelli; la riforma
della Chiesa voleano ottener da altri che dalla Chiesa; e come Calvino
avea detto «Non c'è altra giustizia in Dio che la volontà di Dio», i
Giansenisti dissero «Nella società civile non v'è altra giustizia che la
volontà del principe»; così esagerando l'autorità regia, fecero nascere
la rivolta popolare.
Prima d'indicare lo svolgersi di queste dottrine in Italia accenneremo