Gli eretici d'Italia, vol. III - 24
Veneziani obbedirono al doge e non badarono a decreti di Roma; che
rimasero saldi gli editti e le leggi del senato, ancorchè concernessero
beni e persone ecclesiastiche; fu tenuta per nulla la scomunica
pronunciata col pretesto dell'immunità ecclesiastica, e il senato fu
considerato ancora come cattolico benchè nè chiedesse perdono nè
ottenesse l'assoluzione; che l'accordo si fece per mediazione della
Francia e della Spagna, nè alcuno prese a difendere l'impegno di Paolo
V, nè ad impugnar l'editto del senato: donde si deduce che, contro
pontefici veementi ed esorbitanti si possono difendere i diritti regj
senza ledere la religione.
Si risponde, primo, che il caso di Arrigo IV era ben diverso da questo,
dove non interveniva delitto che portasse la deposizione, nè
disobbedienza minacciosa o professata eresia. Il senato non negava
l'indiretta podestà del papa sul temporale, bensì contendea del fatto e
della materia di tal podestà, e se ingiuste o no le leggi per cui Paolo
V interdiceva Venezia; sul che non era avvenuta alcuna canonica
definizione. Laonde il Donato dichiarava il breve di Paolo ingiusto,
indebito, _nulloque juris ordine servato_, e perciò nullo; non mai
perchè il papa non n'avesse diritto.
Se, come le giudicava il senato, le leggi sue erano giuste e competenti,
il papa avrebbe esercitato un potere diretto sopra uno Stato
indipendente, il che eccedeva le sue attribuzioni, atteso che il potere
spirituale del papa riguarda le cose temporali unicamente per ragione
del peccato. Ecco perchè il senato vi si oppose, nè per questo Paolo V
volle obbligarlo a ritrattarle.
Che i Veneziani tutti obbedissero al Senato, sarebbe a provarsi: gli
Ordini religiosi intanto soffersero piuttosto l'esiglio: quanto agli
altri, il timore e la riverenza potè indurveli, come vediamo tuttodì
sottoporsi i nostri a leggi evidentemente irreligiose dello Stato. La
stessa persuasione del principe che esse leggi non fossero contrarie
alla Chiesa, dovette entrare nei più.
Nella riconciliazione poi dicemmo come si procedesse in modo che, nè da
una parte apparisse ostinazione puntigliosa, nè dall'altra
insubordinatezza.
Che se Francia e Spagna avessero veduto nel senato veneto una rivolta
contro al pontefice, un atto scismatico, si sarebbero elle interposte
per un accordo? Eppure in questo si volle un atto di devozione.
[234] MOROSINI, _Storia_, lib. 18, p. 699. Nel 1657 fu legalmente
riconosciuta una comunità evangelica della Confessione Augustana, esente
dalla giurisdizione del Sant'Offizio, e con diritti che durarono quanto
la Repubblica, e furono confermati dai Governi successivi. Prima tenne
cappella nel fondaco de' Turchi: dopo il 1812 esercitò libero culto in
quella che già era scuola dell'Angelo Custode ai Santi Apostoli. V'è
stabilito l'ordine presbiteriale. Il predicatore o pastore, dipendente
dal concistoro di Vienna, è eletto a maggioranza di voti, e così gli
anziani che presiedono all'amministrazione della Chiesa, del culto,
delle limosine. Le spese sostengonsi con un'imposta ai capi famiglia.
[235] Lettera LXV, 5 luglio 1611 e LV e XI, XII al signor dell'Isola.
[236] I _Monita secreta_ si supposero scritti dallo Scioppio, ma pajono
piuttosto di Girolamo Zaorowsky, polacco, espulso dalla Società il 1611;
certo sono anteriori al 1613, in cui ne fu stampata una confutazione del
padre Jacobo Gretzer. Del satirico Scoti nella _Monarchia solipsorum_,
che è il libello più accannito contro i Gesuiti, non accenna i _Monita
secreta_: eppure nel capo X tratta delle _Leges solipsorum_, e dice
queste _in quinquagena volumina ingentia excrescere, abitura in
infinita, nisi moderatio interest. Continent autem varia decreta, tum ad
universam monarchiam spectantia, tum monarcarum_ (cioè i prevosti
generali) _singularia rescripta, admirandarum plena industriarum et
præceptionum circa singula genera rerum, numerum personarum, et quæ sub
generibus sunt singularum_. E ne riconosce come fondamenti, 1º il
venerar il loro prevosto generale più di qualsiasi persona; 2º
l'affaticarsi per soggiogargli l'intero mondo.
[237] Nelle lettere informa ogni tratto de' ripullulanti litigi di
giurisdizione di Roma colle varie Potenze. Per es. nella LXV: «In
Sicilia è occorso, che volendo il vicerè punire un prete non so per che
delitto, egli si salvò in chiesa, e l'arcivescovo lo difendeva e per
esser prete e per esser in chiesa. Le quali cose non ostanti, il vicerè
lo fece levar di chiesa e impiccare immediato. L'arcivescovo pronunciò
il vicerè scomunicato, e il vicerè fece piantar una forca innanzi la
porta del vescovato, con un editto di pena del laccio a quelli ch'erano
di fuora se entravano, e a quelli di dentro se uscivano fuora. Di questo
è stato mandato corriere espresso a Roma, dove non hanno molto piacere
che si parli di successi di questo genere; atteso che per queste cause
di giurisdizione ecclesiastica pare che in tutti i luoghi nascano
controversie, e che essi per tutto le perdono».
Nella LXXIV: «Trattano gli Spagnuoli di fortificar Cisterna, ch'è un
luogo confine tra il ducato di Milano e il Piemonte, e quello che
importa, è feudo del vescovato di Pavia, onde dispiacerà e al duca e al
papa. Questo lo sopporterà, e quello non può resistere».
Nella LXXV: «Si è abboccato il duca di Savoja in Susa con monsignor
Lesdiguières, e quel principe tratta continuamente con capitani di
guerra. Che disegni egli possa avere, qua non è ancora penetrato, nè io
posso pensar altro, salvo che voglia dare qualche gelosia a Spagna. È
andata attorno una certa voce, che il suo primogenito voglia vestirsi
cappuccino. Io non posso assicurare questo per vero: ma questo so ben
certo, che sua altezza ha comandato alli Cappuccini, che nelli luoghi
del suo dominio non tengano frati, se non sudditi suoi naturali. Ha
ancora quel duca fatto spianare una rôcca nella terra di Vezza, feudo
della chiesa d'Asti; nè per questo il pontefice fa quel tanto rumore,
che s'avrebbe potuto credere. Li Spagnuoli hanno fatto quattro richieste
al papa: una, che non si metta pensione in capo di Spagnuoli per
Italiani; la seconda, che le cause anche in seconda instanza siano
giudicate in Spagna; la terza, che il re abbia la nominazione di tutti i
vescovati delli Stati suoi d'Italia; e la quarta, che, in luogo delle
spoglie di Spagna, si statuisca un'intrata annuale ordinaria, e non si
faccia più spoglie. Pareva che sopra le tre prime si fosse posto
silenzio; nondimeno tornano in trattazione, e di Spagna si aspetta
persona espressa, che viene per sollecitar l'espedizione, e di Roma
mandarono in Spagna il padre Alagona gesuita, per mostrare che le
dimande sono contra coscienza».
«L'altro giorno è stato carcerato per il Sant'Officio l'abbate di Bois
francese dell'ordine de' Celestini per ordine della regina, per esser
quest'uomo sedizioso, e che dopo la morte del re abbia predicato
pubblicamente cose in pregiudicio della religione: e quello che gli ha
cagionata questa risoluzione, è stato per avere sparlato alla gagliarda
de' Gesuiti, e detto pubblicamente ogni male. E volendo il consiglio e
la regina farlo carcerare, fu deliberato a non venir a simile
risoluzione, dubitando di qualche sollevamento, avendo quest'uomo gran
seguito, ma con intenzione di mandarlo a trattar certo negozio per
servizio della regina a Fiorenza: ed in questa corte l'hanno benissimo
trappolato, e sì bene, che la passerà male, non avendo alcun appoggio, e
malissimo veduto dall'ambasciatore di Francia; e li Gesuiti faranno
ancor loro quanto potranno acciocchè non abbia più modo di sparlar di
loro: perchè tra le altre cose si affatica a più potere a dare da
intender alli Francesi in Parigi, che detti Gesuiti avevano cagionata la
morte del re; del che persuasi quelli popoli, un giorno avrebbono potuto
fare qualche segnalato risentimento contra di loro. Io pronostico, che
questo pover'uomo debba correr la fortuna di frà Fulgenzio cordeliere, e
prego Dio che gli abbia misericordia».
Nella LXXVI: «Già diedi conto a vostra signoria della cattura
dell'abbate di Bois successa in Roma. Debbo dirli di più cosa che allora
non sapeva, che il pover'uomo, forse dubitando di quello che gli è
avvenuto, non volse partir da Siena se non avesse prima un salvocondotto
del pontefice; con quello se ne andò, e si credette esser sicuro; ma nè
è il primo, nè sarà l'ultimo, che si fiderà di chi professa non esser
obbligato a servar fede. La cattura si scusa dalla Corte con dire, che
il salvocondotto pontificio non si cura dell'Inquisizione. Fu preso il
dì 10, e il 24 fu impiccato pubblicamente in campo di Fiore; ma la
mattina per tempo fu immediate levato dalla forca, e portato a
sepellire, senza che si possa penètrare che cosa significhi questa
mistura di pubblico e d'occulto. Certo è che l'ambasciadore del re ha
parte in quella morte».
«Altro non abbiamo in Italia di nuovo se non che il Piemonte è pieno di
soldati, ma però con certezza che in Italia non debba esser nissuna
novità, e che tra tanto quel paese si rovina. In Torino è avvenuto un
accidente considerabile. Il vescovato d'Asti ha alcune terre, delle
quali più volte è stata controversia tra il duca e gli ecclesiastici,
pretendendo questi che la sopranità sia del papa, e il duca come conte
pretendendo che debbano esser riconosciute da lui. Finalmente in questi
tempi essendosi fatta una fortificazione e reparazione, il nuncio del
pontefice ha fulminato una scomunica contra il presidente Galleani; però
l'ha pubblicata solamente in scritto. Li ministri del duca veduto
questo, hanno fatto una dichiarazione di aver il decreto del nuncio come
nullo ed ingiusto, comandando che senza averli risposto si proceda
all'esazione: e sono passati anco a usar queste parole, che non
solamente il tentativo intrapreso dal nuncio è nullo, ma ancora quando
venisse dal papa medesimo. Si aspetterà di vedere dove terminerà questo
principio assai considerabile, e che un giorno sarà fatto dalla
repubblica per Ceneda, massime che molte turbolenze sono pei confini».
[238] Lettera LXIX dell'edizione Lemonnier, ma non mi sa di genuina.
[239] _Ibid._ Lettera CXXVIII.
L'edizione più completa ch'io conosco è «Opere di frà Paolo Sarpi
servita teologo e consultore della serenissima repubblica di Venezia. In
Helmstat, per Jacopo Mulleri 1765». Sono sei volumi in-4º cui se ne
aggiungono due di supplemento, colla data vera di Verona, stamperia
Moroni, con licenza de' superiori e privilegio, 1768.
Il sesto tomo comprende un'amplissima vita, poi le sue lettere latine e
italiane.
Nelle lettere al Gillot lo loda immensamente de' suoi studj sul Concilio
di Trento. Narra le cure che egli stesso prese onde radunar documenti su
questo, ma che i Gesuiti con immensa attenzione tirano a sè gli atti che
vi si riferiscono, levandoli di mano a chi li possiede, fin con minaccia
dell'inferno. Lo esalta del difendere che fa le libertà gallicane; per
lo che è dannato dai Gesuiti, le cui accuse colgono ogni uom dabbene e
amator del giusto: dichiara d'aborrire più la superstizione che
l'empietà; sempre ribatte l'eccessiva potenza degli ecclesiastici e del
papa, che ormai non ha solo il _primato_, ma il _tuttato_; se in Italia
alcuna libertà si tiene o si usurpa, è merito affatto della Francia, che
insegnò a resistervi: ma gli scrittori nostrani non sono che compilatori
(_consarcinatores_), che giudicano le opinioni dal numero, non dal peso.
Loda smisuratamente il Barclay, ma se ne scosta in ciò, che egli crede
che Chiesa e Stato siano due cose distinte, che devono sorreggersi e
difendersi ciascuna coi mezzi proprj. «Arbitror ego Regnum et Ecclesiam
duas republicas esse, constantes tamen ex iisdem hominibus; alteram
prorsus cœlestem, alteram terrenam omnino; easque subesse propriis
majestatibus, defendi armis et munitionibus propriis, nihil habere
commune, neque unam alteri bellum ullo modo inferre posse. Cur enim
arietari possent, in eodem loco non ambulantes?... Ambiguitas subest
huic vocabulo _Ecclesiastica Potestas_: si enim ea intelligatur qua
regnum Christi, regnum cœlorum administratur, ea nulli potestati subest,
nulli imperat, ad aliam non potest arietari, præterquam ad satanicum,
cum quo assidue illi bellum. Si vero qua disciplina clericorum regitur,
ea non est potestas regni cœlorum; ea pars est reipublicæ» (pag. 9).
In una lettera latina del 12 maggio 1609 di frà Paolo al Lescasserio,
leggiamo:
«Fulvio Sarcinario di Rieti uccise un suo concittadino nemico. I figli
dell'ucciso, da Clemente VIII ottennero un breve ove dichiara che ad
essi e a chichessia è lecito in buona coscienza e in qualunque luogo e
per qualunque strada, sia giudiziale o comunque, procurar la morte
dell'uccisore. Questo Breve fu divulgato con iscandalo di molti, e come
avviene, vi s'aggiunse che gli uccisori avranno indulgenza plenaria;
mentre nel Breve non è detto se non che questo può farsi in buona
coscienza, e senza tema di irregolarità. Posso aver copia del Breve; è
autentico in pubblico: ma non essendo del tenore che a costui fu
riferito, soprassedo: se vorrai, tel manderò. Io non approvo che possa
il pontefice, nella giurisdizione d'altro principe, fino ad autorizzare
ad uccidere in buona coscienza: perocchè esso principe non potrebbe
punir l'uccisore, il che vale quanto far il papa signore e principe
supremo».
[240] Trajano Boccalini da Roma scriveva a frà Paolo che era tenuto in
conto di Lutero o Calvino; e le sue opere v'erano cercate dagli zelanti
per darle al fuoco, mentre gli altri ne faceano ricerca colla lanterna
di Diogene. GREGORIO LETI, _Bilancia politica_, Lett. XVII.
_Cum ille frater Paulus calvinianæ hæresi, quam cucculatus favebat, per
eorum dissidiorum occasionem aditum aliquem quærens, nullum invenerit,
aut senatus inducere ausus sit, insidiosissimus licet, ad infringendam
sedis apostolicæ majestatem. Bossuet, Defensio declar. cleri gallicani._
T. I, p. 2, lib. 8, c. 12. E nella _Histoire des variations_: «Sous un
froc il cachait un cœur calviniste, et il travaillait sourdement à
décréditer la messe, qu'il disait tous les jours».
Il Courayer dice che, come Erasmo, era _catholique en gros et protestant
en détail_.
Calorosissimo sostenitore dell'autorità temporale de' papi fu ai dì
nostri l'abate Gioberti. Sul bel principio del suo _Primato_ stabilisce
che la debolezza degli spiriti italici viene dall'aver separato la
nazionalità dal principio religioso: errore già balenato nel medioevo,
più applicato al risorgimento, e nei tentativi _sconsigliati e spesso
colpevoli_ di Crescenzio, Arnaldo, Cola Rienzi, Porcari, Baroncelli,
come nell'_eroico sogno_ di Dante, e nella _folla di scrittori_ che
tanto _nocquero allo spirito patrio, fra' quali Machiavello e Sarpi son
principali_. Questi due scrittori, entrambi uffiziali civili di una
repubblica, in ciò consentono che reputano il papa per un fuordopera
della civiltà italiana, anzi per un impedimento, per non dir un
flagello: ma in ciò si dividono, che l'uno aspira a ricomporre una
Italia unita, forte e nazionale, ma animata dagli spiriti gentili, e
fondata principalmente sul ferro, come ai tempi di Cammillo e di
Scipione: l'altro (per quanto si può conghietturare il suo pensiero) par
voglia una Italia cristiana, ma protestante, divulsa e al più
confederata, come la Svizzera e l'Olanda, non informata da un principio
unico, e signoreggiante le ambizioni parziali. Il primo ammira un
modello antico e grande, ma pagano; il secondo vagheggia un esemplare
coetaneo, ma acattolico e forestiero (p. 30). La Providenza suscitò
contro i Ghibellini la sètta dei Guelfi, (p. 34). L'idea guelfa è in sè
stessa giusta e santa, e io la tengo come la sola soluzione ragionevole
dell'intricato problema agitato tante volte intorno all'essere nazionale
degli Italiani. Essa è... praticamente la sola che si possa effettuare
senza colpa e senza delirio (p. 35). E vedasi il seguito di tutta
quell'opera, che, eliminandone la retorica, sarebbe utile a difondere.
[241] Abbiamo _Frà Paolo Sarpi giustificato, dissertazioni epistolari
di_ GIUSTO NAVE. Colonia 1752, che credonsi del veneziano Giuseppe
Bergantini, e stampate a Lucca; come pure _Justification de frà Paolo
Sarpi, ou lettres d'un prêtre italien à un magistrat français, etc._
Parigi 1811, che sono del genovese Eustachio Degola, in senso
giansenistico.
_Del genio di frà Paolo Sarpi in ogni facoltà scientifica e nelle
dottrine ortodosse tendenti alla difesa dell'originario diritto de'
sovrani ne' loro rispettivi dominj ad intento che colle leggi
dell'ordine vi rifiorisca la pubblica prosperità._ Venezia 1785, due
volumi s. n. d. ma è di Francesco Grisellini, e fu dilapidato dal
Bianchi Giovini. L'autore dicea avere Bouschet raccolte le opere tutte
di frà Paolo a Losanna, poi a Venezia, donde tre traduzioni francesi, ad
Amsterdam, Londra, Ulma, e da Lebretin in tedesco. Costui è un
ciarlatano: finge che un incendio gli abbia guaste molte carte: in fatto
adulava ai papofobi del secolo passato, e fu premiato e impiegato a
Milano. Agatopisto Cromaziano lo confutò nel lavoro _Della Malignità
storica_.
Fu poi stampata a Lugano una vita del Sarpi, che fu de' primi esercizj a
cui si provò uno che dovea riuscire fra' più ribaldi pubblicisti
dell'età e del paese nostro. Credo di costui mano anche la vita premessa
all'edizione delle _Scelte lettere inedite_ del Sarpi (Capolago 1847),
repugnante al buonsenso e alla creanza, e tutta ingiurie da taverna
contro Roma e i preti in generale. Quattro sole pagine (dalla 108 alla
112) di queste _Lettere inedite_ contengono contro i Gesuiti più infamie
e stolidezze che non sapesse diluirne il Gioberti in cinque grossi
volumi. Perocchè, come se parlasse alla gente più ignorante del globo,
quel brutale editore assicura essere «dottrina insegnata concordemente
dai Gesuiti, approvata dai loro teologi e generali, che è lecito
l'assassinar l'accusatore e il giudice, lecito il furto, il giuramento
falso, la simonia; che l'onania, il procurato aborto, la bestemmia, la
ribellione contro il principe, il contrabbando, l'omicidio, il suicidio,
il parricidio, il regicidio, e mille altre abominazioni sono o
giustificate o dichiarate lecite, od anche in certi casi obbligatorie; i
precetti di Dio e della Chiesa non obbligano alcuno, la rivelazione, i
profeti, i vangeli si possono credere e non credere; anzi son cose
credibili sì ma non evidentemente vere...» Di mezzo alle quali gli
sfugge la confessione che non conveniva abbattere la dominazione della
Chiesa: «È vero che la politica romana si mostrava oscillante e
malferma; pure era necessaria al contrappeso politico della penisola,
contribuiva a conservare l'agonizzante indipendenza dei governi
nazionali d'Italia. Lo Stato pontifizio era un governo nazionale, buono
o cattivo che fosse, ma per quei tempi più buono che cattivo, e sotto
cui i popoli viveano men peggio che altrove, massime che sotto il
dominio de' forestieri; nè si sarebbe potuto abbatterlo senza far
sorgere gravi disordini».
Del Sarpi è annunziata una nuova vita, scritta da una signora inglese
dopo che ebbe spogliato gli Archivj di Venezia. Contro le opinioni del
Sarpi dicesi facesse una protesta l'Ordine dei Serviti ai quali
apparteneva: certo molti di essi tolsero a confutarle. Principale fra
essi fu Lelio Baglioni _De potestate atque immunitate ecclesiastica_;
per la qual opera gli fu da Paolo V data la commissione di confutare il
De Dominis, il che non potè fare per morte. Esso Baglioni mosse ogni
pietra per far tornare frà Paolo alla verità, e alfine, come generale,
lo citò a Roma, senza frutto. È pur notabile la _Difesa delle censure
pubblicate da n. s. Paolo V nella causa delli signori Veneziani, fatta
da alcuni teologi serviti in risposta alle considerazioni di frà Paolo e
al trattato dell'interdetto_ (Perugia 1707).
Il Sarpi aveva avuta molta mano nel compilare le costituzioni de'
Serviti, e suo fu il capo _de judiciis_, molto lodato. Il rigore di cui
lo imputammo era forse reso necessario dal disordine in cui era caduto
quell'Ordine, prima che con vigorosa mano lo riformasse il generale
Jacobo Tavanti.
[242] È la definizione del Bellarmino, _De romano pontifice_, I, 3, e
vedi la nota 40 al nostro Discorso XXX.
[243] De Republica Ecclesiastica, L. I, c. 8, n. 13: e c. 12 n. 42: Lib.
II, c. 1, n. 9.
[244] Per la bizzarria del titolo menzioneremo _Daniel Lohetus, Sorex
primus, oras chartarum primi libri de Republica Ecclesiastica
archiepiscopi spalatensis corrodens, Leonardus Marius coloniensis in
muscipula captus_.
[245] _M. A. De Dominis arch. spalatensis, sui reditus ex Anglia
consilium exponit._ Fu poi stampata dal padre Zaccaria nella raccolta
delle ritrattazioni col titolo THEOTIMI EUPISTINI, _De doctis catholicis
viris qui cl. Justino Febronio in scriptis suis retractandis ab anno_
1580 _laudabili exemplo præiverunt_. Roma 1791.
[246] È anche indicata col titolo _Papatus romanus, liber de origine,
progressu atque extinctione ipsius_.
Il processo del De Dominis è riferito dal Limbroch nella _Storia
dell'Inquisizione_.
Col De Dominis era fuggito in Inghilterra un Benedettino, che vi si fece
protestante. Tornato con lui, si rimise cattolico, e faceagli da mastro
di casa. Invaghitosi d'una vicina, ne uccise il marito, e fe sposar la
druda a un servo del De Dominis. Ma quando il denaro gli venne meno,
cominciò a uccidere e rubare. Stava allora in Roma il padre Bzovio
domenicano polacco, che scrivea la continuazione del Baronio; colui
entrò a forza nella camera di questo, e ucciso il servo, rubò quanto
potè. Alfine scoperto, fu impiccato. NICIUS ERYTRAEUS, _Pinacoth_, I, p.
200.
Del De Dominis si occupa spesso il carteggio del 1617 fra il cardinale
Guido Bentivoglio e il cardinale Scipione Borghese, insistendo
principalmente sul trovarsi quello mal provigionato dall'Inghilterra e
perciò scontento. La lettera del Bentivoglio da Parigi, 11 aprile 1617,
dice: «L'arcivescovo di Spalatro si trattiene tuttavia in casa
dell'arcivescovo di Cantuaria (_Cantorbery_), dove gli viene proveduto
quanto bisogna: ma di provisione di denari non s'intende che sinora egli
abbia più di novecento scudi. Egli sollecita l'impressione della sua
opera. Il suo senso però in materia di religione non piace del tutto,
perchè non è del tutto conforme al senso anglicano» _La nunziatura di
Francia del cardinale Guido Bentivoglio_ ecc. Firenze 1863.
E al 25 aprile: «In Inghilterra corre voce che il detto arcivescovo sia
uomo molto carnale, e che spezialmente abbia avuto a fare con una sua
propria nipote: del che mi ha detto il conte di Scarnafigi, che la
regina parlò a lui medesimo».
E al 9 maggio: «L'arcivescovo di Spalatro va stampando la sua opera, ed
è già finito di stampare il primo libro. Il re ha deputato uno dei più
eminenti fra loro in dottrina a rivedere di mano in mano quello che si
va mettendo alle stampe. Egli si trattiene tuttavia in casa
dell'arcivescovo di Cantorbery, e vien custodito affinchè non sia
ammazzato, come egli mostra di temere. Il re gli ha conferito
ultimamente il decanato di Windsor, che vale tremila scudi».
Al 27 maggio il Borghese gli scriveva da Roma: «D'Inghilterra s'intende
che quel De Dominis vada stampando quell'empia sua opera, e che saranno
tre libri. L'imperatore ha già dato ordine in Germania che non corrano e
siano proibiti, e l'istesso si spera che farà sua maestà
cristianissima».
Al 27 settembre: «In Inghilterra si mira a far che la sua opera sia
piuttosto di scismatico che di eretico, per la maggior speranza che si
ha di facilitare qui fra cattolici e altrove lo scisma, piuttostochè
l'eresia aperta».
Il 25 ottobre 1617 narra le premure da lui fatte col cancelliere e il
guardasigilli perchè i libri _De Republica Ecclesiastica_ non fossero
posti in vendita. Il guardasigilli propose che la Sorbona facesse una
censura dell'opera per venire a un'espressa proibizione, «sebben qui la
libertà è tanto grande, e sì grande l'ardire degli Ugonotti, che non si
può sperare quel frutto che si dovrebbe da così fatte diligenze».
Il 22 novembre il cardinale Borghese lo avvisa che, «sebbene il libro è
pessimo e tutto pieno d'eresie gravissime e di odio e veleno contro la
santa sede... ciò non ostante, per la gravità e importanza del negozio,
il quale sarà facilmente fomentato dal re d'Inghilterra e da' suoi
ministri, sua santità gli raccomanda stia vigilantissimo e procuri di
scoprire e sapere tutto quello che s'anderà facendo».
Il 5 dicembre il Bentivoglio annunziava che la Sorbona s'è risoluta di
fare una severa censura d'esso libro.
L'8 dicembre il cardinale Borghese da Roma fa noto essersi proibita
«l'opera _De Republica Ecclesiastica_, che il già arcivescovo di
Spalatro promise di dare in luce in un suo libretto che stampò con
l'occasione della sua andata in Inghilterra: poichè si vide chiaramente
dal contenuto dell'istesso libretto, che la suddetta opera era tutta
piena d'eresie, e di odio e veleno contro questa santa sede. E ora,
essendo usciti in luce i primi quattro libri, s'è trovato che sono
pessimi, e s'è già dato ordine di rinnovare la proibizione».
Il 17 gennajo 1618, il Bentivoglio da Parigi annunzia la censura fattane
dalla facoltà teologica di Parigi; e come questa fosse criticata per
aver censurato solo alcune proposizioni, e non tant'altre che più lo
meritavano; ma la Sorbona non avea voluto toccare i punti concernenti la
potestà temporale, per evitare cozzi col parlamento. Al 31 poi manda una
predica italiana _fatta_ dal De Dominis _nella cappella delli Mercieri
in Londra_, stampato in-16º, ch'è una rarità bibliografica, e che
attesta quanto poco valesse quell'apostata, e come ci fosse una chiesa
italiana acattolica in Londra. Il 20 giugno annunziava un nuovo libro
italiano di esso, che dev'essere _Gli scogli del cristiano naufragio_.
Al 18 luglio informa che M. De l'Aubépine, vescovo d'Orleans, piglia
l'impresa di confutare il De Dominis, «e benchè qui non si usi molto a
scrivere in latino, egli potrà essere ajutato facilmente». Non so se
l'Aubépine abbia fatto questa particolar confutazione: bensì scrisse
opere di gran pregio, e nominatamente sull'antica disciplina della
Chiesa.
[247] Nella prefazione è detto: «Tutta la fermezza della fede cattolica
sta nei Gesuiti: e però non v'è cosa più efficace onde scassinarla che
scassinare il loro credito. Rovinando questi si rovina Roma; e se Roma
si perde, la religione si riformerà da se stessa, cioè diventerà
protestante». Amsterdam 1751.
[248] Bolla _Benedictus Deus_, 7 kal. febbr. 1563.
[249] Monsignor Jacobo Altoviti patriarca d'Antiochia, stato più di
sette anni nunzio apostolico in Venezia, lasciò manuscritte varie
relazioni su quel paese, ove tra altre cose dice che, sul Sant'Uffizio,
è «inesplicabile l'ombra che prende questa Repubblica, e indicibili
essere i sospetti che ciascuno della medesima concepisce, che noi a Roma
vogliamo, per questo verso del Sant'Uffizio, entrare nel loro governo...
Chi sta sull'essere tenuto buon repubblicista, studia il capitolare di
frà Paolo per bene istruirsi» (pag. 275). Soggiunge poi, che il senato
rispettava il corso de' tribunali del Sant'Uffizio, quando fosse stato
informato dall'ambasciatore di Roma, che, per assicurazioni dirette del
papa, le cause in essi trattate appartenessero veramente alla disciplina
religiosa (pag. 276). I missionarj allevati nel collegio di _Propaganda
fide_ soleano capitare a Venezia, per quindi imbarcarsi alle loro
missioni. «Suggerii, dice, alla Sagra Congregazione di fare nella
nunziatura, come fummi promesso, quattro stanze, affinchè, capitando a
Venezia questi missionarj, in pubblici alberghi non vi smarrissero
quella buona educazione che avevano appresa nel collegio di _Propaganda
fide_, come per lo più accadeva; e vi si davano a siffatti divertimenti,
che non trovavano poi la strada di andarsene alle loro missioni» (pag.
281).
[250] Lettera CIC dell'edizione di Firenze.
[251] Secondo i documenti prodotti testè da Rawdon Brown nel _Venitian
Calendar_, sir Enrico Wolto, ambasciatore inglese, narrava al doge
Donato che il feritore di frà Paolo fu uno scozzese, che frequentava
l'ambasciata d'Inghilterra, e passava col nome di Giovanni Fiorentino
figlio di Paolo.
rimasero saldi gli editti e le leggi del senato, ancorchè concernessero
beni e persone ecclesiastiche; fu tenuta per nulla la scomunica
pronunciata col pretesto dell'immunità ecclesiastica, e il senato fu
considerato ancora come cattolico benchè nè chiedesse perdono nè
ottenesse l'assoluzione; che l'accordo si fece per mediazione della
Francia e della Spagna, nè alcuno prese a difendere l'impegno di Paolo
V, nè ad impugnar l'editto del senato: donde si deduce che, contro
pontefici veementi ed esorbitanti si possono difendere i diritti regj
senza ledere la religione.
Si risponde, primo, che il caso di Arrigo IV era ben diverso da questo,
dove non interveniva delitto che portasse la deposizione, nè
disobbedienza minacciosa o professata eresia. Il senato non negava
l'indiretta podestà del papa sul temporale, bensì contendea del fatto e
della materia di tal podestà, e se ingiuste o no le leggi per cui Paolo
V interdiceva Venezia; sul che non era avvenuta alcuna canonica
definizione. Laonde il Donato dichiarava il breve di Paolo ingiusto,
indebito, _nulloque juris ordine servato_, e perciò nullo; non mai
perchè il papa non n'avesse diritto.
Se, come le giudicava il senato, le leggi sue erano giuste e competenti,
il papa avrebbe esercitato un potere diretto sopra uno Stato
indipendente, il che eccedeva le sue attribuzioni, atteso che il potere
spirituale del papa riguarda le cose temporali unicamente per ragione
del peccato. Ecco perchè il senato vi si oppose, nè per questo Paolo V
volle obbligarlo a ritrattarle.
Che i Veneziani tutti obbedissero al Senato, sarebbe a provarsi: gli
Ordini religiosi intanto soffersero piuttosto l'esiglio: quanto agli
altri, il timore e la riverenza potè indurveli, come vediamo tuttodì
sottoporsi i nostri a leggi evidentemente irreligiose dello Stato. La
stessa persuasione del principe che esse leggi non fossero contrarie
alla Chiesa, dovette entrare nei più.
Nella riconciliazione poi dicemmo come si procedesse in modo che, nè da
una parte apparisse ostinazione puntigliosa, nè dall'altra
insubordinatezza.
Che se Francia e Spagna avessero veduto nel senato veneto una rivolta
contro al pontefice, un atto scismatico, si sarebbero elle interposte
per un accordo? Eppure in questo si volle un atto di devozione.
[234] MOROSINI, _Storia_, lib. 18, p. 699. Nel 1657 fu legalmente
riconosciuta una comunità evangelica della Confessione Augustana, esente
dalla giurisdizione del Sant'Offizio, e con diritti che durarono quanto
la Repubblica, e furono confermati dai Governi successivi. Prima tenne
cappella nel fondaco de' Turchi: dopo il 1812 esercitò libero culto in
quella che già era scuola dell'Angelo Custode ai Santi Apostoli. V'è
stabilito l'ordine presbiteriale. Il predicatore o pastore, dipendente
dal concistoro di Vienna, è eletto a maggioranza di voti, e così gli
anziani che presiedono all'amministrazione della Chiesa, del culto,
delle limosine. Le spese sostengonsi con un'imposta ai capi famiglia.
[235] Lettera LXV, 5 luglio 1611 e LV e XI, XII al signor dell'Isola.
[236] I _Monita secreta_ si supposero scritti dallo Scioppio, ma pajono
piuttosto di Girolamo Zaorowsky, polacco, espulso dalla Società il 1611;
certo sono anteriori al 1613, in cui ne fu stampata una confutazione del
padre Jacobo Gretzer. Del satirico Scoti nella _Monarchia solipsorum_,
che è il libello più accannito contro i Gesuiti, non accenna i _Monita
secreta_: eppure nel capo X tratta delle _Leges solipsorum_, e dice
queste _in quinquagena volumina ingentia excrescere, abitura in
infinita, nisi moderatio interest. Continent autem varia decreta, tum ad
universam monarchiam spectantia, tum monarcarum_ (cioè i prevosti
generali) _singularia rescripta, admirandarum plena industriarum et
præceptionum circa singula genera rerum, numerum personarum, et quæ sub
generibus sunt singularum_. E ne riconosce come fondamenti, 1º il
venerar il loro prevosto generale più di qualsiasi persona; 2º
l'affaticarsi per soggiogargli l'intero mondo.
[237] Nelle lettere informa ogni tratto de' ripullulanti litigi di
giurisdizione di Roma colle varie Potenze. Per es. nella LXV: «In
Sicilia è occorso, che volendo il vicerè punire un prete non so per che
delitto, egli si salvò in chiesa, e l'arcivescovo lo difendeva e per
esser prete e per esser in chiesa. Le quali cose non ostanti, il vicerè
lo fece levar di chiesa e impiccare immediato. L'arcivescovo pronunciò
il vicerè scomunicato, e il vicerè fece piantar una forca innanzi la
porta del vescovato, con un editto di pena del laccio a quelli ch'erano
di fuora se entravano, e a quelli di dentro se uscivano fuora. Di questo
è stato mandato corriere espresso a Roma, dove non hanno molto piacere
che si parli di successi di questo genere; atteso che per queste cause
di giurisdizione ecclesiastica pare che in tutti i luoghi nascano
controversie, e che essi per tutto le perdono».
Nella LXXIV: «Trattano gli Spagnuoli di fortificar Cisterna, ch'è un
luogo confine tra il ducato di Milano e il Piemonte, e quello che
importa, è feudo del vescovato di Pavia, onde dispiacerà e al duca e al
papa. Questo lo sopporterà, e quello non può resistere».
Nella LXXV: «Si è abboccato il duca di Savoja in Susa con monsignor
Lesdiguières, e quel principe tratta continuamente con capitani di
guerra. Che disegni egli possa avere, qua non è ancora penetrato, nè io
posso pensar altro, salvo che voglia dare qualche gelosia a Spagna. È
andata attorno una certa voce, che il suo primogenito voglia vestirsi
cappuccino. Io non posso assicurare questo per vero: ma questo so ben
certo, che sua altezza ha comandato alli Cappuccini, che nelli luoghi
del suo dominio non tengano frati, se non sudditi suoi naturali. Ha
ancora quel duca fatto spianare una rôcca nella terra di Vezza, feudo
della chiesa d'Asti; nè per questo il pontefice fa quel tanto rumore,
che s'avrebbe potuto credere. Li Spagnuoli hanno fatto quattro richieste
al papa: una, che non si metta pensione in capo di Spagnuoli per
Italiani; la seconda, che le cause anche in seconda instanza siano
giudicate in Spagna; la terza, che il re abbia la nominazione di tutti i
vescovati delli Stati suoi d'Italia; e la quarta, che, in luogo delle
spoglie di Spagna, si statuisca un'intrata annuale ordinaria, e non si
faccia più spoglie. Pareva che sopra le tre prime si fosse posto
silenzio; nondimeno tornano in trattazione, e di Spagna si aspetta
persona espressa, che viene per sollecitar l'espedizione, e di Roma
mandarono in Spagna il padre Alagona gesuita, per mostrare che le
dimande sono contra coscienza».
«L'altro giorno è stato carcerato per il Sant'Officio l'abbate di Bois
francese dell'ordine de' Celestini per ordine della regina, per esser
quest'uomo sedizioso, e che dopo la morte del re abbia predicato
pubblicamente cose in pregiudicio della religione: e quello che gli ha
cagionata questa risoluzione, è stato per avere sparlato alla gagliarda
de' Gesuiti, e detto pubblicamente ogni male. E volendo il consiglio e
la regina farlo carcerare, fu deliberato a non venir a simile
risoluzione, dubitando di qualche sollevamento, avendo quest'uomo gran
seguito, ma con intenzione di mandarlo a trattar certo negozio per
servizio della regina a Fiorenza: ed in questa corte l'hanno benissimo
trappolato, e sì bene, che la passerà male, non avendo alcun appoggio, e
malissimo veduto dall'ambasciatore di Francia; e li Gesuiti faranno
ancor loro quanto potranno acciocchè non abbia più modo di sparlar di
loro: perchè tra le altre cose si affatica a più potere a dare da
intender alli Francesi in Parigi, che detti Gesuiti avevano cagionata la
morte del re; del che persuasi quelli popoli, un giorno avrebbono potuto
fare qualche segnalato risentimento contra di loro. Io pronostico, che
questo pover'uomo debba correr la fortuna di frà Fulgenzio cordeliere, e
prego Dio che gli abbia misericordia».
Nella LXXVI: «Già diedi conto a vostra signoria della cattura
dell'abbate di Bois successa in Roma. Debbo dirli di più cosa che allora
non sapeva, che il pover'uomo, forse dubitando di quello che gli è
avvenuto, non volse partir da Siena se non avesse prima un salvocondotto
del pontefice; con quello se ne andò, e si credette esser sicuro; ma nè
è il primo, nè sarà l'ultimo, che si fiderà di chi professa non esser
obbligato a servar fede. La cattura si scusa dalla Corte con dire, che
il salvocondotto pontificio non si cura dell'Inquisizione. Fu preso il
dì 10, e il 24 fu impiccato pubblicamente in campo di Fiore; ma la
mattina per tempo fu immediate levato dalla forca, e portato a
sepellire, senza che si possa penètrare che cosa significhi questa
mistura di pubblico e d'occulto. Certo è che l'ambasciadore del re ha
parte in quella morte».
«Altro non abbiamo in Italia di nuovo se non che il Piemonte è pieno di
soldati, ma però con certezza che in Italia non debba esser nissuna
novità, e che tra tanto quel paese si rovina. In Torino è avvenuto un
accidente considerabile. Il vescovato d'Asti ha alcune terre, delle
quali più volte è stata controversia tra il duca e gli ecclesiastici,
pretendendo questi che la sopranità sia del papa, e il duca come conte
pretendendo che debbano esser riconosciute da lui. Finalmente in questi
tempi essendosi fatta una fortificazione e reparazione, il nuncio del
pontefice ha fulminato una scomunica contra il presidente Galleani; però
l'ha pubblicata solamente in scritto. Li ministri del duca veduto
questo, hanno fatto una dichiarazione di aver il decreto del nuncio come
nullo ed ingiusto, comandando che senza averli risposto si proceda
all'esazione: e sono passati anco a usar queste parole, che non
solamente il tentativo intrapreso dal nuncio è nullo, ma ancora quando
venisse dal papa medesimo. Si aspetterà di vedere dove terminerà questo
principio assai considerabile, e che un giorno sarà fatto dalla
repubblica per Ceneda, massime che molte turbolenze sono pei confini».
[238] Lettera LXIX dell'edizione Lemonnier, ma non mi sa di genuina.
[239] _Ibid._ Lettera CXXVIII.
L'edizione più completa ch'io conosco è «Opere di frà Paolo Sarpi
servita teologo e consultore della serenissima repubblica di Venezia. In
Helmstat, per Jacopo Mulleri 1765». Sono sei volumi in-4º cui se ne
aggiungono due di supplemento, colla data vera di Verona, stamperia
Moroni, con licenza de' superiori e privilegio, 1768.
Il sesto tomo comprende un'amplissima vita, poi le sue lettere latine e
italiane.
Nelle lettere al Gillot lo loda immensamente de' suoi studj sul Concilio
di Trento. Narra le cure che egli stesso prese onde radunar documenti su
questo, ma che i Gesuiti con immensa attenzione tirano a sè gli atti che
vi si riferiscono, levandoli di mano a chi li possiede, fin con minaccia
dell'inferno. Lo esalta del difendere che fa le libertà gallicane; per
lo che è dannato dai Gesuiti, le cui accuse colgono ogni uom dabbene e
amator del giusto: dichiara d'aborrire più la superstizione che
l'empietà; sempre ribatte l'eccessiva potenza degli ecclesiastici e del
papa, che ormai non ha solo il _primato_, ma il _tuttato_; se in Italia
alcuna libertà si tiene o si usurpa, è merito affatto della Francia, che
insegnò a resistervi: ma gli scrittori nostrani non sono che compilatori
(_consarcinatores_), che giudicano le opinioni dal numero, non dal peso.
Loda smisuratamente il Barclay, ma se ne scosta in ciò, che egli crede
che Chiesa e Stato siano due cose distinte, che devono sorreggersi e
difendersi ciascuna coi mezzi proprj. «Arbitror ego Regnum et Ecclesiam
duas republicas esse, constantes tamen ex iisdem hominibus; alteram
prorsus cœlestem, alteram terrenam omnino; easque subesse propriis
majestatibus, defendi armis et munitionibus propriis, nihil habere
commune, neque unam alteri bellum ullo modo inferre posse. Cur enim
arietari possent, in eodem loco non ambulantes?... Ambiguitas subest
huic vocabulo _Ecclesiastica Potestas_: si enim ea intelligatur qua
regnum Christi, regnum cœlorum administratur, ea nulli potestati subest,
nulli imperat, ad aliam non potest arietari, præterquam ad satanicum,
cum quo assidue illi bellum. Si vero qua disciplina clericorum regitur,
ea non est potestas regni cœlorum; ea pars est reipublicæ» (pag. 9).
In una lettera latina del 12 maggio 1609 di frà Paolo al Lescasserio,
leggiamo:
«Fulvio Sarcinario di Rieti uccise un suo concittadino nemico. I figli
dell'ucciso, da Clemente VIII ottennero un breve ove dichiara che ad
essi e a chichessia è lecito in buona coscienza e in qualunque luogo e
per qualunque strada, sia giudiziale o comunque, procurar la morte
dell'uccisore. Questo Breve fu divulgato con iscandalo di molti, e come
avviene, vi s'aggiunse che gli uccisori avranno indulgenza plenaria;
mentre nel Breve non è detto se non che questo può farsi in buona
coscienza, e senza tema di irregolarità. Posso aver copia del Breve; è
autentico in pubblico: ma non essendo del tenore che a costui fu
riferito, soprassedo: se vorrai, tel manderò. Io non approvo che possa
il pontefice, nella giurisdizione d'altro principe, fino ad autorizzare
ad uccidere in buona coscienza: perocchè esso principe non potrebbe
punir l'uccisore, il che vale quanto far il papa signore e principe
supremo».
[240] Trajano Boccalini da Roma scriveva a frà Paolo che era tenuto in
conto di Lutero o Calvino; e le sue opere v'erano cercate dagli zelanti
per darle al fuoco, mentre gli altri ne faceano ricerca colla lanterna
di Diogene. GREGORIO LETI, _Bilancia politica_, Lett. XVII.
_Cum ille frater Paulus calvinianæ hæresi, quam cucculatus favebat, per
eorum dissidiorum occasionem aditum aliquem quærens, nullum invenerit,
aut senatus inducere ausus sit, insidiosissimus licet, ad infringendam
sedis apostolicæ majestatem. Bossuet, Defensio declar. cleri gallicani._
T. I, p. 2, lib. 8, c. 12. E nella _Histoire des variations_: «Sous un
froc il cachait un cœur calviniste, et il travaillait sourdement à
décréditer la messe, qu'il disait tous les jours».
Il Courayer dice che, come Erasmo, era _catholique en gros et protestant
en détail_.
Calorosissimo sostenitore dell'autorità temporale de' papi fu ai dì
nostri l'abate Gioberti. Sul bel principio del suo _Primato_ stabilisce
che la debolezza degli spiriti italici viene dall'aver separato la
nazionalità dal principio religioso: errore già balenato nel medioevo,
più applicato al risorgimento, e nei tentativi _sconsigliati e spesso
colpevoli_ di Crescenzio, Arnaldo, Cola Rienzi, Porcari, Baroncelli,
come nell'_eroico sogno_ di Dante, e nella _folla di scrittori_ che
tanto _nocquero allo spirito patrio, fra' quali Machiavello e Sarpi son
principali_. Questi due scrittori, entrambi uffiziali civili di una
repubblica, in ciò consentono che reputano il papa per un fuordopera
della civiltà italiana, anzi per un impedimento, per non dir un
flagello: ma in ciò si dividono, che l'uno aspira a ricomporre una
Italia unita, forte e nazionale, ma animata dagli spiriti gentili, e
fondata principalmente sul ferro, come ai tempi di Cammillo e di
Scipione: l'altro (per quanto si può conghietturare il suo pensiero) par
voglia una Italia cristiana, ma protestante, divulsa e al più
confederata, come la Svizzera e l'Olanda, non informata da un principio
unico, e signoreggiante le ambizioni parziali. Il primo ammira un
modello antico e grande, ma pagano; il secondo vagheggia un esemplare
coetaneo, ma acattolico e forestiero (p. 30). La Providenza suscitò
contro i Ghibellini la sètta dei Guelfi, (p. 34). L'idea guelfa è in sè
stessa giusta e santa, e io la tengo come la sola soluzione ragionevole
dell'intricato problema agitato tante volte intorno all'essere nazionale
degli Italiani. Essa è... praticamente la sola che si possa effettuare
senza colpa e senza delirio (p. 35). E vedasi il seguito di tutta
quell'opera, che, eliminandone la retorica, sarebbe utile a difondere.
[241] Abbiamo _Frà Paolo Sarpi giustificato, dissertazioni epistolari
di_ GIUSTO NAVE. Colonia 1752, che credonsi del veneziano Giuseppe
Bergantini, e stampate a Lucca; come pure _Justification de frà Paolo
Sarpi, ou lettres d'un prêtre italien à un magistrat français, etc._
Parigi 1811, che sono del genovese Eustachio Degola, in senso
giansenistico.
_Del genio di frà Paolo Sarpi in ogni facoltà scientifica e nelle
dottrine ortodosse tendenti alla difesa dell'originario diritto de'
sovrani ne' loro rispettivi dominj ad intento che colle leggi
dell'ordine vi rifiorisca la pubblica prosperità._ Venezia 1785, due
volumi s. n. d. ma è di Francesco Grisellini, e fu dilapidato dal
Bianchi Giovini. L'autore dicea avere Bouschet raccolte le opere tutte
di frà Paolo a Losanna, poi a Venezia, donde tre traduzioni francesi, ad
Amsterdam, Londra, Ulma, e da Lebretin in tedesco. Costui è un
ciarlatano: finge che un incendio gli abbia guaste molte carte: in fatto
adulava ai papofobi del secolo passato, e fu premiato e impiegato a
Milano. Agatopisto Cromaziano lo confutò nel lavoro _Della Malignità
storica_.
Fu poi stampata a Lugano una vita del Sarpi, che fu de' primi esercizj a
cui si provò uno che dovea riuscire fra' più ribaldi pubblicisti
dell'età e del paese nostro. Credo di costui mano anche la vita premessa
all'edizione delle _Scelte lettere inedite_ del Sarpi (Capolago 1847),
repugnante al buonsenso e alla creanza, e tutta ingiurie da taverna
contro Roma e i preti in generale. Quattro sole pagine (dalla 108 alla
112) di queste _Lettere inedite_ contengono contro i Gesuiti più infamie
e stolidezze che non sapesse diluirne il Gioberti in cinque grossi
volumi. Perocchè, come se parlasse alla gente più ignorante del globo,
quel brutale editore assicura essere «dottrina insegnata concordemente
dai Gesuiti, approvata dai loro teologi e generali, che è lecito
l'assassinar l'accusatore e il giudice, lecito il furto, il giuramento
falso, la simonia; che l'onania, il procurato aborto, la bestemmia, la
ribellione contro il principe, il contrabbando, l'omicidio, il suicidio,
il parricidio, il regicidio, e mille altre abominazioni sono o
giustificate o dichiarate lecite, od anche in certi casi obbligatorie; i
precetti di Dio e della Chiesa non obbligano alcuno, la rivelazione, i
profeti, i vangeli si possono credere e non credere; anzi son cose
credibili sì ma non evidentemente vere...» Di mezzo alle quali gli
sfugge la confessione che non conveniva abbattere la dominazione della
Chiesa: «È vero che la politica romana si mostrava oscillante e
malferma; pure era necessaria al contrappeso politico della penisola,
contribuiva a conservare l'agonizzante indipendenza dei governi
nazionali d'Italia. Lo Stato pontifizio era un governo nazionale, buono
o cattivo che fosse, ma per quei tempi più buono che cattivo, e sotto
cui i popoli viveano men peggio che altrove, massime che sotto il
dominio de' forestieri; nè si sarebbe potuto abbatterlo senza far
sorgere gravi disordini».
Del Sarpi è annunziata una nuova vita, scritta da una signora inglese
dopo che ebbe spogliato gli Archivj di Venezia. Contro le opinioni del
Sarpi dicesi facesse una protesta l'Ordine dei Serviti ai quali
apparteneva: certo molti di essi tolsero a confutarle. Principale fra
essi fu Lelio Baglioni _De potestate atque immunitate ecclesiastica_;
per la qual opera gli fu da Paolo V data la commissione di confutare il
De Dominis, il che non potè fare per morte. Esso Baglioni mosse ogni
pietra per far tornare frà Paolo alla verità, e alfine, come generale,
lo citò a Roma, senza frutto. È pur notabile la _Difesa delle censure
pubblicate da n. s. Paolo V nella causa delli signori Veneziani, fatta
da alcuni teologi serviti in risposta alle considerazioni di frà Paolo e
al trattato dell'interdetto_ (Perugia 1707).
Il Sarpi aveva avuta molta mano nel compilare le costituzioni de'
Serviti, e suo fu il capo _de judiciis_, molto lodato. Il rigore di cui
lo imputammo era forse reso necessario dal disordine in cui era caduto
quell'Ordine, prima che con vigorosa mano lo riformasse il generale
Jacobo Tavanti.
[242] È la definizione del Bellarmino, _De romano pontifice_, I, 3, e
vedi la nota 40 al nostro Discorso XXX.
[243] De Republica Ecclesiastica, L. I, c. 8, n. 13: e c. 12 n. 42: Lib.
II, c. 1, n. 9.
[244] Per la bizzarria del titolo menzioneremo _Daniel Lohetus, Sorex
primus, oras chartarum primi libri de Republica Ecclesiastica
archiepiscopi spalatensis corrodens, Leonardus Marius coloniensis in
muscipula captus_.
[245] _M. A. De Dominis arch. spalatensis, sui reditus ex Anglia
consilium exponit._ Fu poi stampata dal padre Zaccaria nella raccolta
delle ritrattazioni col titolo THEOTIMI EUPISTINI, _De doctis catholicis
viris qui cl. Justino Febronio in scriptis suis retractandis ab anno_
1580 _laudabili exemplo præiverunt_. Roma 1791.
[246] È anche indicata col titolo _Papatus romanus, liber de origine,
progressu atque extinctione ipsius_.
Il processo del De Dominis è riferito dal Limbroch nella _Storia
dell'Inquisizione_.
Col De Dominis era fuggito in Inghilterra un Benedettino, che vi si fece
protestante. Tornato con lui, si rimise cattolico, e faceagli da mastro
di casa. Invaghitosi d'una vicina, ne uccise il marito, e fe sposar la
druda a un servo del De Dominis. Ma quando il denaro gli venne meno,
cominciò a uccidere e rubare. Stava allora in Roma il padre Bzovio
domenicano polacco, che scrivea la continuazione del Baronio; colui
entrò a forza nella camera di questo, e ucciso il servo, rubò quanto
potè. Alfine scoperto, fu impiccato. NICIUS ERYTRAEUS, _Pinacoth_, I, p.
200.
Del De Dominis si occupa spesso il carteggio del 1617 fra il cardinale
Guido Bentivoglio e il cardinale Scipione Borghese, insistendo
principalmente sul trovarsi quello mal provigionato dall'Inghilterra e
perciò scontento. La lettera del Bentivoglio da Parigi, 11 aprile 1617,
dice: «L'arcivescovo di Spalatro si trattiene tuttavia in casa
dell'arcivescovo di Cantuaria (_Cantorbery_), dove gli viene proveduto
quanto bisogna: ma di provisione di denari non s'intende che sinora egli
abbia più di novecento scudi. Egli sollecita l'impressione della sua
opera. Il suo senso però in materia di religione non piace del tutto,
perchè non è del tutto conforme al senso anglicano» _La nunziatura di
Francia del cardinale Guido Bentivoglio_ ecc. Firenze 1863.
E al 25 aprile: «In Inghilterra corre voce che il detto arcivescovo sia
uomo molto carnale, e che spezialmente abbia avuto a fare con una sua
propria nipote: del che mi ha detto il conte di Scarnafigi, che la
regina parlò a lui medesimo».
E al 9 maggio: «L'arcivescovo di Spalatro va stampando la sua opera, ed
è già finito di stampare il primo libro. Il re ha deputato uno dei più
eminenti fra loro in dottrina a rivedere di mano in mano quello che si
va mettendo alle stampe. Egli si trattiene tuttavia in casa
dell'arcivescovo di Cantorbery, e vien custodito affinchè non sia
ammazzato, come egli mostra di temere. Il re gli ha conferito
ultimamente il decanato di Windsor, che vale tremila scudi».
Al 27 maggio il Borghese gli scriveva da Roma: «D'Inghilterra s'intende
che quel De Dominis vada stampando quell'empia sua opera, e che saranno
tre libri. L'imperatore ha già dato ordine in Germania che non corrano e
siano proibiti, e l'istesso si spera che farà sua maestà
cristianissima».
Al 27 settembre: «In Inghilterra si mira a far che la sua opera sia
piuttosto di scismatico che di eretico, per la maggior speranza che si
ha di facilitare qui fra cattolici e altrove lo scisma, piuttostochè
l'eresia aperta».
Il 25 ottobre 1617 narra le premure da lui fatte col cancelliere e il
guardasigilli perchè i libri _De Republica Ecclesiastica_ non fossero
posti in vendita. Il guardasigilli propose che la Sorbona facesse una
censura dell'opera per venire a un'espressa proibizione, «sebben qui la
libertà è tanto grande, e sì grande l'ardire degli Ugonotti, che non si
può sperare quel frutto che si dovrebbe da così fatte diligenze».
Il 22 novembre il cardinale Borghese lo avvisa che, «sebbene il libro è
pessimo e tutto pieno d'eresie gravissime e di odio e veleno contro la
santa sede... ciò non ostante, per la gravità e importanza del negozio,
il quale sarà facilmente fomentato dal re d'Inghilterra e da' suoi
ministri, sua santità gli raccomanda stia vigilantissimo e procuri di
scoprire e sapere tutto quello che s'anderà facendo».
Il 5 dicembre il Bentivoglio annunziava che la Sorbona s'è risoluta di
fare una severa censura d'esso libro.
L'8 dicembre il cardinale Borghese da Roma fa noto essersi proibita
«l'opera _De Republica Ecclesiastica_, che il già arcivescovo di
Spalatro promise di dare in luce in un suo libretto che stampò con
l'occasione della sua andata in Inghilterra: poichè si vide chiaramente
dal contenuto dell'istesso libretto, che la suddetta opera era tutta
piena d'eresie, e di odio e veleno contro questa santa sede. E ora,
essendo usciti in luce i primi quattro libri, s'è trovato che sono
pessimi, e s'è già dato ordine di rinnovare la proibizione».
Il 17 gennajo 1618, il Bentivoglio da Parigi annunzia la censura fattane
dalla facoltà teologica di Parigi; e come questa fosse criticata per
aver censurato solo alcune proposizioni, e non tant'altre che più lo
meritavano; ma la Sorbona non avea voluto toccare i punti concernenti la
potestà temporale, per evitare cozzi col parlamento. Al 31 poi manda una
predica italiana _fatta_ dal De Dominis _nella cappella delli Mercieri
in Londra_, stampato in-16º, ch'è una rarità bibliografica, e che
attesta quanto poco valesse quell'apostata, e come ci fosse una chiesa
italiana acattolica in Londra. Il 20 giugno annunziava un nuovo libro
italiano di esso, che dev'essere _Gli scogli del cristiano naufragio_.
Al 18 luglio informa che M. De l'Aubépine, vescovo d'Orleans, piglia
l'impresa di confutare il De Dominis, «e benchè qui non si usi molto a
scrivere in latino, egli potrà essere ajutato facilmente». Non so se
l'Aubépine abbia fatto questa particolar confutazione: bensì scrisse
opere di gran pregio, e nominatamente sull'antica disciplina della
Chiesa.
[247] Nella prefazione è detto: «Tutta la fermezza della fede cattolica
sta nei Gesuiti: e però non v'è cosa più efficace onde scassinarla che
scassinare il loro credito. Rovinando questi si rovina Roma; e se Roma
si perde, la religione si riformerà da se stessa, cioè diventerà
protestante». Amsterdam 1751.
[248] Bolla _Benedictus Deus_, 7 kal. febbr. 1563.
[249] Monsignor Jacobo Altoviti patriarca d'Antiochia, stato più di
sette anni nunzio apostolico in Venezia, lasciò manuscritte varie
relazioni su quel paese, ove tra altre cose dice che, sul Sant'Uffizio,
è «inesplicabile l'ombra che prende questa Repubblica, e indicibili
essere i sospetti che ciascuno della medesima concepisce, che noi a Roma
vogliamo, per questo verso del Sant'Uffizio, entrare nel loro governo...
Chi sta sull'essere tenuto buon repubblicista, studia il capitolare di
frà Paolo per bene istruirsi» (pag. 275). Soggiunge poi, che il senato
rispettava il corso de' tribunali del Sant'Uffizio, quando fosse stato
informato dall'ambasciatore di Roma, che, per assicurazioni dirette del
papa, le cause in essi trattate appartenessero veramente alla disciplina
religiosa (pag. 276). I missionarj allevati nel collegio di _Propaganda
fide_ soleano capitare a Venezia, per quindi imbarcarsi alle loro
missioni. «Suggerii, dice, alla Sagra Congregazione di fare nella
nunziatura, come fummi promesso, quattro stanze, affinchè, capitando a
Venezia questi missionarj, in pubblici alberghi non vi smarrissero
quella buona educazione che avevano appresa nel collegio di _Propaganda
fide_, come per lo più accadeva; e vi si davano a siffatti divertimenti,
che non trovavano poi la strada di andarsene alle loro missioni» (pag.
281).
[250] Lettera CIC dell'edizione di Firenze.
[251] Secondo i documenti prodotti testè da Rawdon Brown nel _Venitian
Calendar_, sir Enrico Wolto, ambasciatore inglese, narrava al doge
Donato che il feritore di frà Paolo fu uno scozzese, che frequentava
l'ambasciata d'Inghilterra, e passava col nome di Giovanni Fiorentino
figlio di Paolo.
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