Gli eretici d'Italia, vol. III - 11

s'adopera a propagar l'evangelo di Gesù Cristo. Così Dio lo prosperi! Me
e la chiesa mia vogli raccomandar a Dio. Finora sono molto più coloro
che avversano il Vangelo, benchè abbiansi a dir piuttosto atei che di
alcuna religione. Potente è Iddio ad aprir i loro cuori. Mesocco, 17
maggio 1559».
A Rovereto si era messo Giovanni Antonio Viscato, detto il Trontano
dalla patria, e vi piantò una chiesa. Se ne conturbarono i Cattolici: e
i cinque Cantoni, temendo la propagazione dell'eresia, e che i Locarnesi
rimasti in patria non prendessero coraggio a rianimar la loro fazione,
instavano presso i Grigioni affinchè fossero sbanditi. Vinse la parte
contraria, e l'aprile 1560 fu legalmente permesso al Beccaria di restar
a Mesocco, e istruir fanciulli. Crebbero così quelli che, abbandonata la
messa, adunavansi in case private per udir la predica; poi pretesero due
delle cinque chiese che eran nella valle, e le ottennero dalla Dieta. Ma
i cinque Cantoni insistettero a segno, che si diede libertà ai Comuni
della Mesolcina di ritenere o rimandare il Beccaria: e in questi adunati
prevalse il voto di congedarlo, con arbitrio però d'elegger altro
ministro. Allora il Beccaria andossene a Chiavenna, e ne scriveva a
Fabrizio Montano: «Dopo lunga e grave disputa con questi nemici di
Cristo, vinse la parte di mandarmi via, patto però che i fratelli
possano aver un altro predicante. A dirti il vero, vedendo in che stato
erano le cose nostre e quanta l'ingratitudine dei più, mi rallegro che
Dio m'abbia offerto occasione d'andarmene, prima che mi vi
costringessero il bisogno e la miseria. Dopo la morte del magnifico
Antonio e del commissario suo fratello, questa Chiesa restava talmente
sprovvista d'uomini e mezzi, che a stento v'era da mantener il
pastore... Ho dunque per benefizio del Signore che m'abbia liberato da
tale trambusto e dalla misera colluvie del popolo... Mia moglie già da
sei mesi sta a Locarno, dove fu costretta recarsi per la perduta salute:
in breve tornerà, per dir addio a questo gratissimo popolo» (15 novembre
1561). Il Beccaria per altro di tempo in tempo rivedeva Mesocco, finchè
per forza ne fu cacciato a istanza di san Carlo nel 1571.
Questo santo addoloravasi del progresso dell'eresia in paesi contigui
alla sua diocesi; onde fattosi a Roma nel 1582, n'ebbe titolo di
visitatore pei paesi svizzeri e grigioni, anche sottoposti all'ordinario
di Como. Non fu autorità a cui non avess'egli ricorso per ajuto in
questa legazione: ai re di Spagna e d'Inghilterra, a Rodolfo imperatore,
ai Cantoni cattolici, al vescovo di Coira, al duca di Savoja, ai
Veneziani. Era il tempo che più ferveva la nimistà fra Cattolici e
Riformati in Francia e in Inghilterra; a Parigi prevaleva la Lega che
cacciò il re, e ch'era sostenuta dalla Spagna; per mezzo della quale il
duca di Savoja sperava in quell'occasione recuperare Ginevra e i paesi
toltigli dai Bernesi, come tentò; ma non si potè impedire che gli
Svizzeri facessero alleanza colla Francia, e vi si unissero i Grigioni,
a gran dispiacere de' Cattolici. Pertanto il Borromeo, scrivendo al
Castelli vescovo di Rimini nunzio pontifizio in Francia, perchè
intercedesse da re Enrico sicurezza e libertà a lui ed ai preti, «Fate
però (gli diceva), che i Grigioni non sentano che io ci vado qual legato
del papa; questo sol nome ogni cosa perderebbe. Si dica un privato mio
viaggio; col qual titolo, senza scemare il frutto, consolerò quei
popoli. Ben i Cattolici mi desiderano, e gli eretici stessi mi mostrano
qualche deferenza ed amore; onde nutro speranza non mi si attraversino
impedimenti; solo ho paura che i profughi dall'Italia non mi guastino
ogni cosa. Son costoro sentina di vizj, nè solo eretici, ma molti
apostati, e del resto facinorosi e perduti, che appena udranno trattasi
di sostenere la religione cattolica e vedranno maturare i primi felici
semi, temendo essere sterminati, daranno in furore, metteranno fuoco ne'
capi per ritardarmi o impedirmi ogni buon effetto.... Principalmente
sarebbe a curare che dall'intollerabile giogo degli eretici venissero
sollevati i Cattolici di qua dall'Alpi. Poichè, quando sortiscono
magistrati eretici, se anche non facciano ad essi aperta violenza, pure
mostransi vogliosi di svellere la religione; danno pessimi esempj come
scellerati ministri del diavolo, non lasciano la libertà di cercare o
ritenere probi e religiosi sacerdoti, che avviino sul calle della
salute: vietano agli esteri, tuttochè ottimi, d'andar colà, mentre fanno
arbitrio di rimanervi a uomini empj e perduti. Poichè il re può tanto
presso i Reti, gioverebbe che, senza far mostra d'essere da me
officiato, vi s'adoprasse; e la signoria vostra potrebbe suggerire ad
Enrico uno scrupolo che pungesse e lui ed i Grigioni: mostrare cioè qual
danno potrebbe uscirne se mai tanti, oppressi dalle calamità e stancati
dal giogo, macchinassero alcuna cosa e si ribellassero»[108].
Con Francesco Panigarola francescano, famoso predicatore, e col gesuita
Achille Gagliardo riassunta la visita, il Borromeo fu di nuovo a Lugano,
poi a Tesserete, consolato dalla pietà di quei terrazzani, ove di
cinquecento confessati, neppur uno trovossi in colpa mortale[109]; per
Bellinzona si condusse a Rovereto nella Mesolcina.
In questa valle trovò abbondare scolari del Vergerio e di Pietro Martire
Vermiglio, ed esservi (scriveva al cardinale Sabello) il nome di
cattolici, non i costumi, nè la credenza. V'aveano tenuto casa i
novatori Trontano e Kanesgen, pseudonimo del Beccaria; poc'anzi v'era
morto Lodovico Besozio, scolaro del Trontano migliore del maestro: era
frequentissimo il contatto colla val del Reno, tutta già calvinista.
Singolarmente vi si segnalavano per odio ai cattolici Francesco Luino,
che da trent'anni era colà: un figlio del Trontano[110] e due o tre
altri, «le cui mogli sono veri mostri d'inferno». Stava a capo delle
cose sacre un frate, disertore dell'Ordine e della religione, che seco
traeva una femminaccia e quattro suoi figliuoli: poco di meglio erano
gli altri preti. Il Borromeo coll'amorevolezza, coll'Inquisizione,
coll'insegnamento, col largheggiare, si conciliò gli animi: e Dio ne
prosperava le fatiche.
La riverenza verso quel gran santo non ci terrà dal narrare come ivi
scoprisse moltissime streghe. Istituitone processo, ben centrenta
abjurarono: quelle che non vollero ravvedersi furono condannate, e prima
quattro, poi altrettante, poi tre, indi più altre vennero arse. Il
prevosto di quella terra Domenico Quattrino da undici testimonj era
stato visto, nella tregenda coi demonj, menar danze oscene in paramenti
da messa, e recando il santo crisma[111]: onde fu dannato al fuoco.
Sarebbero gettate le parole ch'io aggiungessi per compiangere che i
delirj del secolo prendessero anche anime illuminate e pie. Solo non
tacerò che i Grigioni si dolsero e protestarono contro abusi di
giurisdizione del Borromeo, ma nei loro atti non trovammo fiato di
lamento per queste procedure; tanto parevano regolari secondo i
tempi[112]. Il Borromeo nella Mesolcina all'ucciso curato surrogò
Giovanni Pietro Stoppano, autore del _tractatus de idolatria et magia_,
che poi fu messo all'Indice. Da poi il santo si mise per la val Calanca,
ove conobbe cinquanta famiglie cadute in eresia e ventidue maliarde. Pel
Lukmanier andò alla badia di Dissentis a confermar nella fede
quell'abate Castelberg, forse l'unico uom distinto che nella Rezia
zelasse la restaurazione del cattolicismo nel senso del concilio di
Trento.
Personaggio così famoso, che veniva a croce alzata, seguito da molti
ecclesiastici di virtù e di saper grande, che era incontrato
solennemente dalle autorità, che all'Ospizio dormì sulla paglia, che fe
il trasporto delle reliquie dei santi Sigisberto e Placido, dovette
lasciar viva impressione sopra quei terrazzani. Era sua mente drizzarsi
a Coira, indi nel ritorno visitare Chiavenna e la Valtellina. Per
impetrarne licenza mandò Bernardino Mora al beytag dei Grigioni: ma i
predicanti andavano spargendo sospetti sul suo conto: lui infine esser
nipote di quel Gian Giacomo Medeghino, il cui nome, dopo le acerbe
guerre lor recate sul lago e in Valtellina, era fra i Reti rimasto
terribile: vedessero quanto aveva operato in val Mesolcina, dove non
prima pose piede, che collocatosi in luogo forte, stabilì un
inquisitore, e fece ogni suo talento: assai tornerebbe sospetta ai loro
alleati Francesi la venuta del cardinale, tutto ligio alla Spagna[113].
E questi susurri trovarono ascolto; onde, non che escluderlo, i
predicanti commossero quei della val Pregalia a dare addosso ai
missionarj da lui mandati, e metterli a processo[114]. Adunque avvisato
voltò per Giornico e il Sangotardo[115] a Bellinzona. Quivi trovò folta
ignoranza delle cose di Dio, ed un vivere non punto meglio del credere;
matrimonj incestuosi, usure sfacciate, conculcati i diritti del clero,
sacerdoti simoniaci e viventi in pubblica disonestà. Ho letto omelie da
lui recitate colà, donde può trarsi argomento e dello stato di quel
paese e dello zelo che il santo vi adoprò, dimorandovi fino al 15
dicembre; ove eresse anche una prebenda per mantenere un maestro, lasciò
un catechismo, compilato a posta dal gesuita Adorno, ridusse a
compimento il collegio d'Ascona. Come avea fatto rinviare dal Governo di
Bellinzona il Beccaria e il Trontano, sperava fare di Mesocco il punto
d'appoggio del rinnovato cattolicismo nella Rezia, dicendo che, essendo
questo paese uno Stato sovrano, già feudo dei Trivulzj milanesi, ed or
liberamente collegato ai Grigioni, non andava sotto alle leggi di
questi. Dovea porvisi una stamperia cattolica, da opporre alla
protestante di Poschiavo; e il palazzo dei Trivulzj ridursi a collegio
de' Gesuiti.
Fin tra le cure che ponevangli assedio negli ultimi suoi giorni, il
Borromeo s'occupava d'ottenere, se non pace, almeno tregua ai Cattolici
di colà; e teneva corrispondenza con re Filippo II d'affari sì intimi,
che non si affidavano alle carte, ma comunicavansi a voce col Terranova,
allora governator del Milanese.
Dal 1578 in poi, un nunzio pontificio risedette sempre nella Svizzera,
per quanto se ne adombrassero le potenze alleate: si fondarono scuole di
Cappuccini ad Altorf per le classi inferiori, e di Gesuiti per le
superiori a Lucerna, ai quali Gregorio XIII assegnò seicento zecchini
annui, oltre gli allievi che manteneansi ne' collegi di Milano e di
Roma. Anzi, Lega borromea o Lega d'oro fu detta quella che i Cantoni
cattolici strinsero col re di Spagna per conservar la Chiesa e la pace;
e i membri di essa obbligavansi «di vivere e morire nella sola vera e
antica fede cattolica, apostolica, romana, essi e l'_eterna_ loro
posterità».
Anche il cardinale Federico Borromeo s'adoprò a tener in fede la
Mesolcina, e vi mandava sempre sacerdoti e maestri. Nel 1609 vi erano
pretore Simeon De Negri, e cancelliere un Sanvico, i quali, ricordandosi
che un tempo vi sedeva un ministro protestante, anche allora lo
chiamarono. Il popolo se ne indispettisce, eccitato anche da Antonio
Gioerio, e irrompendo ove quello celebrava, abbattono la campana,
insozzano il tempio, bruciano i sedili.

Come i Grigioni, così neppur Ginevra era allora membro della
Confederazione Elvetica, ma solo confederata. Questo paese formava parte
dell'impero germanico ed era spartito, siccome il resto della Svizzera,
fra molti baroni, spesso in lotta fra loro e col vescovo; coi conti del
Genevese, che allegavano il diritto imperiale; coi duchi della vicina
Savoja, che guatavanli colla cupidigia del forte. I vescovi
signoreggiavano come principi e vi batteano moneta: ma ne impugnava i
diritti la città, che pretendeasi imperiale, cioè libera, e nominava un
consiglio e quattro sindaci per amministrare insieme col vescovo. I
conti di Savoja tentarono spodestare il vescovo; di che Gregorio XI nel
1370 movea lamento ad Amedeo VI. Amedeo VIII, che fu antipapa col nome
di Felice V, tenne in Ginevra la sede del suo pontificato, dove rimasero
gli atti di esso, finchè nel 1754 quella repubblica li regalò a Carlo
Emanuele III.
Nel 1401 Villars, conte del Genevese, cedette al duca di Savoja questa
contea, e con essa i suoi diritti sulla bella città del Lemano, che così
trovossi divisa fra tre poteri; il vescovo, il duca, il municipio. Il
vescovo, proposto dal popolo, eletto dai canonici, godeva di molte
regalie, e giudicava le cause in appello. Il popolo, cioè i capicasa,
eleggevano il sindaco e il consiglio, annuali; ricevevano dal vescovo e
dal conte il giuramento di conservare le franchigie. Il duca teneva
assessori laici per eseguire ciò che i consiglieri avessero deliberato
intorno ad affari temporali; col titolo di visdomino giurava fedeltà al
vescovo e al Comune; nel suo forte, detto il Gagliardo, faceva giustizia
de' condannati dai sindaci, impiccandoli a Champel, terreno del vescovo;
teneva le prigioni nel castello dell'Isola, che aveva ricevuta dai
vescovi per ipoteca di denaro dovutogli, e più non volle restituire.
E i vescovi erano l'unico ostacolo perchè quella popolazione
avveniticcia, mista di Svizzeri, Italiani, Francesi, non cadesse in
servaggio dei duchi di Savoja. Questi dunque cercavano metter su quella
sede parenti loro, che faceano nominare da Roma, in onta ai privilegi
municipali. Tal fu Giovanni, bastardo di Savoja, eletto da Giulio II, e
che già aveva cospirato per annettere Ginevra al ducato de' suoi. Tale
Pietro de la Beaume, che gli succedette giurando non intaccare le
libertà. Ma poichè Carlo III agognava trasformare l'autorità delegata in
sovranità assoluta, la lotta fra lui e i borghesi fe nascere i partiti
de' Confederati (_Eidgenossen_ donde Ugonotti) e dei Mamelucchi; quelli
cercando, questi respingendo l'alleanza con Berna. Prevalsero i primi, e
fecero trattato di conborghesia con Friburgo il 6 febbrajo 1518, onde
schermirsi dall'usurpatore[116]. Il duca infellonito fa uccidere quanti
Ginevrini si trovano a Torino, e sorprende Ginevra; ma non potè impedire
che i confederati stringessero lega con Berna il 20 febbrajo 1526. I
Bernesi, ch'eransi fatti protestanti, vennero con lance e cannoni, per
via spezzando le immagini, e abbeverando i cavalli nelle pile
dell'acquasanta; dispersero in Ginevra i tanti monumenti del primiero
culto; vinsero i vescovi e i duchi, e per mezzo di Guglielmo Farel
introdussero la Riforma. Il gran consiglio della città, sforzatosi
invano a conservare il cattolicismo, dovette tollerare i Riformati, che
subito prevalsero, e cacciarono i Cattolici e il vescovo, il quale si
collocò ad Annecy. Poi al 27 agosto 1535 fu ordinato non ci fossero se
non Protestanti, onde i Cattolici migrarono.
Il duca di Savoja ricoverava i perseguitati, e minacciava voler ridurre
Ginevra pari a un villaggio di Savoja. Il papa gli consentiva di levar
le decime sugli ecclesiastici e gli argenti dalle chiese onde far armi,
ed esortava i principi cattolici ad essergli in ajuto. Carlo in fatti si
mosse, tenne assediata per un anno Ginevra, ma questa ebbe soccorsi più
effettivi dai Bernesi, che, oltre liberarla, tolsero al duca il
Sciablese, Gex, il paese di Vaud, e dopo sacrifizj e martirj, lo
costrinsero a firmar la pace di San Giuliano, impegnandosi a rispettare
i privilegi di Ginevra.
Così Ginevra, spinta alla Riforma per amore della libertà politica, avea
fatto due rivoluzioni; coll'una liberandosi dai duchi di Savoja,
coll'altra introducendo la Riforma. Questa fu opera di Calvino, siccome
dicemmo, il quale, mentre il protestantismo non avea che distrutto,
cercò riedificare. Spoglio di poesia e d'entusiasmo, magro, malaticcio,
a fronte di Lutero gaudente, beone, beffardo; inasprito anche
dall'abitudine della controversia, governava con una logica implacabile
e con una rigida pietà, che non perdonava nè a sè nè agli altri; fra
quel fervore ragionacchiante, quella abnegazione senza slancio, non
piegavasi mai per sensibilità; lontanissimo dalla tolleranza, cioè dal
rispettare i diritti dell'anima[117].
Allora dapertutto era considerato come il maggior dei delitti l'eresia:
solo variavasi nel giudicare eresia quello ch'era antico o quel ch'era
nuovo. Calvino, carattere inflessibile, non potea che considerare come
empio chi reclamasse la libertà della coscienza; genio organizzatore,
pretendeva l'obbedienza, e trovava legittime le ordinanze pubblicate
anteriormente contro l'eresia; nè una penalità che potea spingersi fino
al supplizio, repugnava alla sua logica austera[118]. Non si fece egli
dunque riguardo d'imprigionare, di espellere, e arrivò più in là con
Michele Serveto, medico aragonese, allievo della scuola di Padova,
ostinantesi a negare la trinità delle persone divine. L'Aleandro da
Ratisbona scriveva al Sanga il 17 aprile 1532, essersi mandato alla
Dieta un libro di Michele Serveto _De Erroribus Trinitatis_, dove «quel
traditor con ogni suo ingegno si sforza mostrar che lo Spirito Santo non
sit tertia persona in divinis, et che questo nome di Trinità sii cosa
falsa e vana, ecc. Ha ventisei anni e grandissimo ingegno, ma la
cognizione che mostra della sacra scrittura fa supporre non ci abbia
messo di suo che il nome». Esso Aleandro pensa dunque farlo condannare
da una congregazione di teologi, e «scriver in Spagna che si faccia
proclamo et incendj di quel libro et de la statua dell'eretico al modo
di Spagna....... Altro non si potrà far per hora: saria il dover che
questi eretici di Germania, dovunque quel Spagnuolo si ritrova,
mostrassero impugnarlo, se sono veri cristiani ed evangelici come si
gloriano, perchè lui è pur non meno contrario alla profession loro che
alli Cattolici, ecc. [119]».
Così fecero: Calvino volle averne il parere de' credenti, e tutte le
Chiese elvetiche risposero egualmente che bisognava impedire si
propagasse lo scandalo delle empie sue dottrine, e vietare che gli
errori e le sette fossero seminate nella Chiesa di Cristo: sicchè lo
condannarono alla morte e al fuoco. Il Serveto domandò d'esser
rilasciato perchè trattavasi d'eresia, delitto che non appartiene al
poter civile, così avendo stabilito anche Costantino a proposito di
Ario. Non ebbe ascolto. Calvino, da lui implorato di perdono, glielo
negò, consigliandolo a volgersi al Dio, che avea bestemmiato. Dal famoso
Farel esortato a disdirsi, e così impetrar misericordia, il morituro
rispose: «Non ho meritato la morte, e prego Dio di perdonare a' miei
persecutori; ma non ricomprerò la vita con una ritrattazione che ripugna
alla mia coscienza». Farel l'accompagnò tutta la via, pregandolo,
minacciandolo, blandendolo, insultandolo: sulla deliziosa collina di
Champel, tra una folla immensa, che pregava per lui, fu legato a un
palo, col libro suo, e in capo una corona di fronde, spolverata di
solfo, e messovi il fuoco, l'anima di lui comparve davanti
all'Altissimo.
Molti fremettero alla fiera esecuzione, e Calvino li sfolgorava co'
termini più bassi, e sosteneva il diritto, anzi il dovere di punire
colla spada gli eretici. Par che anche la nostra Renata di Ferrara
gliene facesse appunto, ed esso le rispondeva: «Avendovi io allegato che
David col suo esempio ci istruisce di odiar i nemici di Dio, voi
rispondete che era ancora sotto la legge di rigore. Ma questa glossa, o
signora, sovvertirebbe la Scrittura, e perciò bisogna fuggirla come
peste..... Per troncar il filo d'ogni disputa contentiamoci che san
Paolo applicò a tutti i fedeli quel passo, che lo zelo della casa di Dio
ci deve consumare. Laonde Nostro Signor Gesù Cristo riprendendo i suoi
discepoli quando il richiesero di far cadere il fulmine su quei che lo
ripudiavano, come avea fatto Elia, non allega loro che or non si è più
sotto la legge di rigore, ma solo rimostra che non sono mossi da sì viva
affezione quale il profeta. Anche san Giovanni, del quale voi riteneste
solo la parola di carità, mostra che noi non dobbiamo, sotto ombra
dell'amor degli uomini, raffreddarci sopra l'onor di Dio e la
conservazione della sua Chiesa, giacchè ci vieta perfino di salutare
quelli che ci sviano dalla pura dottrina».
Come del Serveto dicea, _Si venerit, modo valeat mea auctoritas, vivum
exire non patiar_, così d'un nostro rifuggito italiano: _J'eusse voulu
qu'il fust pourry en quelque fosse, si ce eût été à mon souhait; et sa
venue me réjouit autant comme qui m'eust navré le cœur d'un poignart...
Et vous assure, s'il ne fust si tost eschappé, que, pour m'acquitter de
mon debvoir, il n'eust pas tenu à moy qu'il ne fust passé par le feu._
Trovati alcuni scritti di quel Gruet che avea mandato a morte, li fa
bruciare dal boja, e l'autore chiama _adhérent d'une secte infecte et
plus que diabolique... degorgeant telles exécrations dont les cheveux
doibvent dresser en la teste à tous, et qui sont infections si puantes
pour rendre un pays mauldict, tellement que toutes gens ayant conscience
doibvent réquerir pardon à Dieu de ce que son nom a été ainsi blasphémé
entre eux._
Tal era dunque la tolleranza calvinica, alla quale potremmo opporre la
benignità del Sadoleto, vescovo di Avignone, benevole anche coi
caporioni della Riforma [120]. Allorquando il vicelegato Campeggi menava
l'esercito contro dei Valdesi, il Sadoleto li ricoverò nel suo
vescovado, scrisse loro una lettera, in cui, dopo riprovate le loro
dottrine, aggiungeva in francese: «Desidero il vostro bene, e sarei
amareggiato se si venisse a distruggervi, come si cominciò. Perchè
meglio intendiate l'amicizia che vi porto, il tal giorno mi troverò
presso Cabrières, e là potrete venire pochi o tanti, senza che vi si
faccia alcun disturbo, e là vi avvertirò di quel che vi sia di salute e
profitto».
Paolo III indicò conferenze a Lione, alle quali convennero il vescovo di
Ginevra, il cardinale di Tournon, gli arcivescovi di Lione, di Torino,
di Vienne, di Besançon, i vescovi di Langres e di Losanna e il Sadoleto;
molto disputarono sui modi di ristabilire il cattolicismo a Ginevra,
infine dovettero limitarsi a una lettera che il Sadoleto scriverebbe.
L'abbiamo, ed è mentosto una polemica che un'effusione di cuore paterno,
dove s'associano l'elevazione del pensiero alla tenerezza morale del
vangelo, così diversa dall'aridità a cui Calvino abituava i Ginevrini.
Insiste principalmente sul punto che commoveva i distruttori d'allora,
la perennità di questa Chiesa, con una sequela di dottori, di martiri,
di pontefici, purificata al fuoco della persecuzione, vigile a condurre
i fedeli, amorosa a correggerli, inesausta in tesori di perdono. E
quando il rigido metodismo non aveva assiderato i cuori dovea far
effetto quel suo mostrar quanto i dogmi abbiano di consolante pel cuore,
i conforti della preghiera: e lo stesso Beza nella vita di questo
confessa che, _nisi peregrino sermone scriptæ fuissent, magnum civitati
in eorum statu damnum daturæ fuisse videantur_.
I caporioni di Ginevra stettero in gran pensiero a chi affidar la
risposta, e trovarono non poterla fare se non Calvino, benchè allora
fosse allontanato dalla città. La stese egli infatto, tripla di
lunghezza, superiore in energia, poco inferiore di eleganza, come retore
consumato che era e versato ne' classici; loda la virtù e il sapere di
lui, egli sempre così acre contro i suoi avversarj, ma lo imputa di
malafede e di trascorrere fino alla villana licenza del calunniare[121].
Principalmente quanto alle tante sette, suscitatesi fra' Riformati,
riflette che, se questa fosse colpa, ne andrebbe imputato l'intero
cristianesimo fra cui tante ne nacquero; doversi anzi lodar di zelo i
Calvinisti che le combatterono mentre i Cattolici dormivano oziosi.
Quasi la Chiesa non respingesse le sette coll'autorità sua propria
inerrabile; quasi fosse merito combatter l'errore coll'errore! Finisce
professando che non vi è bene maggiore dell'unione ecclesiastica, e
invocando Cristo a riunir tutti nella società del suo corpo, per modo
che, colla sola sua parola e il suo spirito, siam congiunti in un cuore
e in un pensiero.
La risposta di Calvino è citata tuttodì come un modello di bellezza e
forza di stile; noi cattolici e italiani abbiamo dimentica affatto la
lettera del Sadoleto, che in nulla le cede.
Accennammo come fondatore della Chiesa italiana di Ginevra l'Ochino
(Vol. II, p. 62). Con esso era fuggito da Siena Latanzio Ragnoni, che
venuto a Ginevra nel 1551, fu il primo che vi prese uffizio di
catechista; poi morto il Martinengo, a' 24 ottobre 1557 fu fatto
ministro di quella Chiesa italiana, e vi morì il 16 febbrajo 1559[122].
Dapprima si adunavano gli Italiani per la preghiera comune nella sala
del vecchio collegio. Cresciuti di numero si diedero forma di Chiesa:
nel 1552 la dirigeva un pastore; nel 1556 si compose il concistoro,
formato del pastore, ch'era il Martinengo, quattro anziani e quattro
diaconi; e capo degli anziani fu il marchese Galeazzo Caracciolo per
trentun anno, in tal qualità vigilando a quanto accadesse alla Chiesa e
prendendo cura de' poveri. Egli provide ad assodarla, e dal magistrato
ottenne uno statuto che del ministro determinava venticinque incombenze.
La prima era di cominciare l'adunanza coll'invocare l'assistenza di Dio,
e finire col rendergli grazie. La seconda, di far tutto con ordine,
modestia, semplicità, carità, senza discordia nè contese. Tutti i membri
della Chiesa italiana una volta l'anno si univano in generale assemblea
per conferire sul regolamento delle famiglie, e sull'accettare nuovi
membri: locchè manteneva la moralità, tanto più che non accoglieva alla
Cena chi ne fosse immeritevole. I fedeli erano visitati di tempo in
tempo dagli anziani, e i figliuoli istruiti accuratamente. Fin dal 1551
a Nicolò Fogliato di Cremona e Amedeo Varro piemontese erasi affidata la
cura de' poveri per soccorrerli con somme raccolte. Nel 1555 il
magistrato, vedendo ben ordinata quella Chiesa, e attenta ai precetti
del Vangelo, concesse a suo uso il tempio della Maddalena, dove
amministrar la Cena alle otto di mattina della domenica dopo quella che
se n'era valsa la Chiesa francese. Per residenza del pastore fu data
un'abitazione nel chiostro di San Pietro.
Alla professione di fede ginevrina troviamo si soscrissero, degli
Italiani, Celso e Massimiliano Martinengo bresciani, Galeazzo
Caracciolo, Bernardino Ochino, i conti Giulio Stefanelli e Antonio Tiene
di Vicenza, Marco Pinelli genovese, Pompeo Avanzi veneziano, G. B.
Natan, divenutovi poi predicante, Nicolò Gioffredo di Crema, Cesare
Bollani e Pompeo Diodati di Lucca, Onofrio Marini napoletano, Carlo
Federici e Paolo Alberti romani, Pietro Muti toscano, Paolo Lazise
veronese, Matteo Gribaldi, Giorgio Blandrata e Carlo Alciati milanesi,
Bartolomeo Polentani, Agostino Fogliani, Orazio Chiavelli, Santo
Mellini, Giacomo Verna, Sigismondo Pigna, Giovanni Fecato, Andrea
Cotogni, e molti vulgari; e «preti e frati rifuggiti non per altro in
Ginevra se non perchè stracchi del rigore del chiostro e del breviario,
e trovando buono di godere il resto de' loro giorni in libertà con una
moglie in seno. Almeno così ne scrivono gli autori cattolici, e così ne
parlano i Protestanti che vogliono spacciarsi per galantuomini».
Sono parole d'un altro eretico d'età più tarda, Gregorio Leti, il quale,
nella _Historia ginevrina_[123] soggiunge che sette Italiani ricusarono
sottoscrivere, e si ritirarono dalla città; fra i quali Andrea Osselani,
Marco Pizzi, Valentino Gentile, che poi vi s'indussero; nè però
quest'ultimo desistette dal sostenere proposizioni ariane, sinchè fu
cacciato. Accenna altri che ricoveravano a Ginevra, tra' quali
Margherita Pepoli di Bologna, fuggita con un amante, bastardo de'
Bentivoglio, e colà resasi calvinista.
Altrove[124] colla abituale sua prolissità e gonfiezza declama contro
l'intolleranza di Ginevra. «Dio ne guardi che pigliasse la fantasia al
re di Francia di trattar gl'infelici Ugonotti con una particella di quel
rigore, col quale li Ginevrini trattarono nel 1536 li Cattolici a
Geneva. Dio ne guardi, dico un'altra volta: almeno il re di Francia sono
già tanti anni che li va distruggendo, togliendoli oggidì una cosa,
dimane un'altra senza sangue e senza violenza considerabile, e sono
stati minacciati prima d'esser ruinati: e se gli è lasciato il tempo
pian piano di pensare a' casi loro.... Ma i Ginevrini, subito che si
videro in mano il governo, non diedero tempo un momento ai Cattolici:
cito, cito, cito: la sentenza e l'esecuzione in un momento, e non