Donne e fanciulle - 10

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non sapevano essi medesimi che cosa.
— Certo, uno scandalo! — disse donna Eufrasia, mettendosi infine a
sedere per vigilar la nipote che pattinava. — Qualche cosa me lo faceva
presentire quando li ho visti ieri.... Oh per lui, se lo merita! Lei,
poverina, non ha colpa, se lo amava.... È sempre così; non si amano che
codesti birboni!
Poi soggiunse romanticamente:
— Amore e morte!
La corsa aveva riacquistato tutto il suo impeto e dopo la marcia era
venuto un valzer. Dalla vetrata traboccava come il giorno innanzi l'onda
rossastra del tramonto, e il rettangolo su cui correvano tanti piccoli
piedi ruotati, svolazzavano tante sottane, si faceva d'oro.
— Ma è bello! — susurrò a un tratto Lidia, uscendo da una lunga
meditazione. — La gioia, i divertimenti, l'automobile, un grande amore,
e poi una notte morire; addormentarsi, e non svegliarsi più, mai più!
— Taci! — disse Paolina con un brivido. — Pensavo io pure così!
E le due fanciulle si strinsero più forte, correndo; e di qui e di là, e
sul ginocchio destro e sul sinistro, e un passo stretto dietro un passo
stretto, oscillando come per una composta ebbrezza, come piegandosi ad
ascoltare or di qui, or di là....


LA MOGLIE INNAMORATA.

La causa era buona e difficile: si trattava di difendere la giovane
contessa Elena Uberti, la quale in un momento di gelosia e di passione
aveva piantato tre palle di rivoltella nel petto del marito conte
Stefano Uberti di San Guiscardo e di Bovolino, che era scampato per
miracolo, dopo tre mesi di malattia.
L'avvocato Pietro Quadrelli aveva accettato di difendere la contessa;
innanzi tutto perchè il processo era “brillante„, poi perchè la contessa
era ricca, bella e giovane. Ma la strada naturale per cui la difesa
doveva mettersi, cioè la dimostrazione della cattiva condotta del conte
Stefano e delle avventure di lui, s'era chiarita subito assai difficile.
In verità, non si avevano prove serie nè della cattiva condotta, nè
delle avventure; e i testimoni nicchiavano, dicevano e non dicevano,
lasciavan l'impressione di riferire cose udite, raccolte nei caffè,
pettegolezzi inconsistenti. Nulla di grave s'era potuto assodare; lo
scatto di gelosia che aveva armato la mano della contessa Elena appariva
quasi ingiustificabile e la situazione della giovane signora era andata
aggravandosi durante l'istruttoria, quantunque, se non si ammetteva la
gelosia, non si potesse incolparla d'alcun movente odioso o volgare.
L'avvocato Quadrelli disperava di poter formare al processo
quell'“ambiente morale„ che sarebbe valso a circondare d'antipatia e di
sospetto la figura del marito, e a gettare una luce benigna sulla
contessa Elena. Egli era andato a trovarla più volte nel carcere
giudiziario e aveva dovuto convenire con sè stesso che la dama,
acutamente sensibile, non aveva potuto macchiarsi d'un delitto se non
per qualche impulso irrefrenabile, di cui essa stessa non sapeva
rendersi conto.
Nulla era perciò più arduo che preparare la lista dei testimoni, i quali
dovevano essere scelti tra i pochi che avrebbero saputo non esagerare,
tenere di fronte alla contessa un linguaggio di stima senza enfasi, e di
fronte alla vittima di lei un contegno di riprovazione sobrio e grave.
Infine, come arma vera e propria, l'avvocato Quadrelli non aveva che
l'eloquenza, dalla quale sperava un effetto durevole sull'animo dei
giurati, sempre inclini a una certa simpatia per le donne giovani,
eleganti e timide. E che Elena fosse elegante e timida, l'avvocato
sapeva; gli occhi cilestri della contessa non avevano sopportato a lungo
lo sguardo di lui. Ella s'era schermita gentilmente ma fermamente
d'accusare troppo il marito, aveva rifiutato di spiegarsi intorno ai
quattro anni di vita passata a fianco del conte Stefano, temendo che
l'avvocato s'arrischiasse o fosse in diritto di rivolgerle domande
troppo intime; le sue mani eran bianche e sottili; le vesti scure, ma
perfette di taglio, e intorno al suo corpo ondeggiava un profumo
delizioso di mughetto. L'avvocato aveva indovinato, aveva sentito, che
la contessa Elena Uberti di San Guiscardo e di Bovolino, nata marchesa
Grotti di Lampreda, era un angelo, incapace di commettere la più piccola
bassezza. E, chiusa l'istruttoria, era andato a trovare quell'angelo nel
carcere giudiziario quante più volte aveva potuto, forse per aver luce
sulla causa, certamente per aver luce dagli occhi cilestri e per
aspirare il delizioso profumo che ondeggiava intorno alla testolina
della giovane.
La sua simpatia per la contessa non aveva riscontro che nell'antipatia
sorda contro il marito; un uomo il quale sciupava energie preziose in
una vita di disordini, e, l'istruttoria lo dimostrava, sapeva
destreggiarsi con tale abilità da non lasciare prove della sua mala
condotta.
L'avvocato Pietro Quadrelli fu, per tutte queste ragioni, spiacevolmente
sorpreso d'udirsi annunziare un mattino il conte Stefano Uberti.
Mancavano quindici giorni al processo, e l'intervento di quell'uomo non
poteva non essere pericoloso per l'accusata. L'avvocato diede ordine di
farlo passare immediatamente, e non appena se lo vide innanzi, strinse
in pugno un tagliacarte, per frenare un moto di dispetto.
Il conte era sulla quarantina; dritto come se i bagordi lo avessero
temprato: con lo sguardo “discendente„, che veniva dall'alto, sarcastico
e superbo; un poco acceso in volto, di quel colorito che gli uomini
prendono stando molto all'aria aperta, sotto il sole, sotto la pioggia,
al vento, alla polvere; alla prima occhiata, si sarebbe creduto ch'egli
fosse un ufficiale in abito borghese....
— A che cosa devo?... — chiese l'avvocato, accennando una sedia al
conte.
— A che cosa deve il piacere della mia visita? — ripetè Stefano,
sedendo. — Ecco qua: sono venuto, per quanto mi è possibile, ad aiutarla
nella sua opera.
L'avvocato strinse ancora una volta il tagliacarte; quell'uomo si
prendeva beffe di tutti, evidentemente; ma nell'interesse della giovane
accusata, Pietro Quadrelli si fece forza e stette ad ascoltare.
— Mi sembra, — disse Stefano, — che la posizione di Elena, di mia
moglie, sia molto penosa, e che al momento in cui parliamo, l'accusa
possa facilmente aver ragione.
— Lei s'inganna.... — interruppe l'avvocato.
Il conte Stefano Uberti sorrise con un sorriso che significava la
compassione e l'ironia e che fece salire al volto di Pietro Quadrelli
una vampa.
— Non m'inganno, — ribattè il conte. — Credo di essere bene informato. A
Lei, vede, mancano i testimoni. Io ho molta fiducia nell'eloquenza; ma
neanche Demostene, con quei testimoni, che Ella ha potuto trovare fino
ad oggi, riuscirebbe a dimostrare che Elena aveva qualche ragione di
fare ciò che ha fatto....
— Lei intende costituirsi parte civile? — domandò l'avvocato.
Stefano sorrise e si alzò.
— Non ci comprendiamo! — disse poi. — Ma se sono qui per aiutarla?
Fece alcuni passi nello studio, andò alla finestra che guardava in un
giardino, e stette un istante come assorto a veder le foglie tremolare a
un lieve fiato di vento. L'avvocato, immobile innanzi alla scrivania, lo
osservava con curiosità.
— Ecco qua, — riprese Stefano, tornando a sedersi. — Bisogna citare il
marchese Cutinelli. È un simpatico giovanotto. Due anni or sono, mentre
viaggiavo tra Napoli e Roma, e precisamente si stava facendo colazione
nel wagon-restaurant, egli si è incontrato con me. Io ero con una
signora giovanissima, dai capelli neri e dagli occhi castagni; quella
signora non era mia moglie.
S'interruppe, e guardando dritto in faccia l'avvocato, proseguì:
— Lei conosce bene mia moglie. Sa che ha gli occhi cilestri e la
carnagione bianca, dirò coi poeti “simile a un petalo di rosa„. Ora la
signora che viaggiava con me, aveva i capelli neri, gli occhi castagni e
la carnagione scura. Interroghi il marchese Cutinelli; ne saprà quanto
basta. Abita a Napoli.
L'avvocato scrisse il nome e l'indirizzo sopra un taccuino, e si chiese:
— È matto? A che giuoco vuol giuocare?
— Un altro testimonio prezioso per Lei, — seguitò tranquillamente
Stefano, — sarà Emilio Balanda. Povero Emilio! È un seccatore
involontario: mi càpita sempre tra i piedi quando vorrei viaggiare in
incognito; ma è discretissimo, e per farlo parlare, lei dovrà insistere
molto. Alla fine parlerà, non dubiti. Gli dica che si tratta di salvare
Elena; non so se abbia una grande simpatia per Elena; è possibile; ma
quello che è certo, si è che la sua anima borghese e piccola dev'essere
molto scandalizzata per la mia condotta. Alla cicala bisogna grattare il
ventre per farla cantare, dicono; e lei gratti!...
Fece una pausa, si cercò in tasca, estrasse un astuccio:
— Permette? — chiese. — Io non posso stare un'ora senza fumare.
— Anzi, anzi! — disse Pietro Quadrelli, accendendo un fiammifero e
offrendolo. — Allora, Emilio Balanda?...
— Emilio, — riprese il conte, dopo aver tratto dalla sigaretta una
boccata di fumo, — Emilio ha avuto la fortuna di trovarmi a Milano,
l'anno scorso, al Grand Hôtel. Ero al Grand Hôtel con una signora, la
quale assomiglia un poco a Elena.... Non si spaventi per questa
difficoltà.... La signora non parlava che il russo e il francese....
Ecco quanto basta per rilevare che non si trattava di mia moglie.... E
fumava come una locomotiva, mentre Elena non può tollerare nemmeno il
fumo di una sigaretta.... Ma il più bello è questo; otto giorni dopo,
quel caro Emilio m'incontrava ancora a Parigi, al restaurant....
S'interruppe di nuovo, e come avesse dato un ordine al conduttore d'un
taxi, soggiunse: — _Restaurant Maurice, rue Drouot, au coin de la rue de
Provence...._ Anche là non ero solo. Accompagnavo una signora; e non era
la signora del Grand Hôtel.... La signora del restaurant Maurice era
alta, sottile, tutta vestita di nero, con una “cappottina„ da cui
sfuggivano alcuni riccioli, e che le incorniciava il volto pallido....
Dunque, a distanza di otto giorni, avevo cambiato due amanti.... L'amico
Emilio abita a Milano, via Alessandro Manzoni, N. 10. Ha scritto?
L'avvocato scrisse, rialzò il capo, e stette ad ascoltare.
— Per ultimo, — disse Stefano, deponendo sul portacenere il resto della
sigaretta, — le indicherò il mio amico Cesare di San Sebastiano. Egli mi
ha incontrato a Torino, una sera sotto i portici; v'era folla, io
accompagnavo una signora, ed egli salutò. Questo disgraziato Cesare di
San Sebastiano è molto miope, e perchè abitavamo allo stesso albergo,
l'indomani mi chiese di potere salutare mia moglie. Ho dovuto dirgli, —
veda a che cosa conduce la miopia.... degli altri! — che la signora con
cui vivevo all'albergo non era mia moglie, ed egli ne fu molto confuso,
più confuso di me, certamente. Ora, è bene sapere, che quella signora
non aveva nulla di comune nè con la signora di Napoli, nè con quella del
Grand Hôtel di Milano, nè con l'altra del _Restaurant Maurice_. Lo dica
pure con tutta franchezza; nessuno potrà smentirla.... Cesare di San
Sebastiano abita a Torino, via Lagrange, 12. Vede che ora lei ha un
materiale prezioso, e l'assoluzione di Elena è assicurata.... Perchè, se
tante sono le avventure che ebbero testimoni certi e insospettabili,
quante saranno, mio Dio, quelle che passarono inosservate?
Sì alzò sorridendo, e andò ancora a dare un'occhiata alle foglie che
tremolavan nel giardino.
L'avvocato Pietro Quadrelli era stupefatto e girava e rigirava tra le
mani il lapis con cui avevo scritto gli indirizzi.
— Devo rendere omaggio alla sua lealtà, — disse infine. — Lei ha voluto
illuminare la giustizia con suo personale sacrificio....
Il conte si rivolse di botto e diede in una risata:
— La giustizia?... Ma lei crede alla giustizia, lei che è avvocato? —
interruppe.
— In ogni modo ha dato prova della grande affezione che la lega alla
contessa.
— No. Io non l'amo! — affermò Stefano seccamente. — Non l'amo punto.
— E allora?... Perchè da questo processo risulterà certo la scusante
della contessa, ma lei sarà perduto....
— Le pare? — interrogò Stefano con quel sorriso ironico che metteva
tanto freddo nell'espressione del suo volto maschio. — Le pare che un
uomo il quale è infedele a sua moglie e cambia l'amante ogni otto
giorni, sia perduto nell'opinione pubblica? Ma non si tratta di questo.
Lei si domanda perchè io sia venuto a salvare una donna che non amo, e a
svelare alcuni fatti delicati della mia vita intima? Lei dimentica che
intorno al nome della famiglia Uberti di San Guiscardo s'è fatto
abbastanza chiasso, e io voglio, io devo impedire che questo nome si
trasformi in un numero d'un reclusorio femminile. Do prova di devozione
alla mia famiglia, non alla contessa. E la prego di dirlo a Elena; che
non s'illuda; non ho per lei nè amore, nè pietà; uscita dal carcere, non
la vedrò più. Glielo dica, la prego. Non la vedrò più. Siamo intesi?
L'avvocato rispose con un'espressione quasi solenne:
— Non la vedrà più. Siamo intesi!
Vi fu un silenzio, breve, ma che parve eterno ai due uomini; in capo al
quale, il conte si mosse, andò vicino all'avvocato Quadrelli e lo toccò
leggermente sopra una spalla.
— Lei ha molte illusioni intorno a Elena, — disse con freddezza.
— Io? — ribattè l'avvocato, quasi fosse stato tocco da una scarica
elettrica. — La prego, conte!...
— Lei ha molte illusioni intorno a Elena, — ripetè Stefano, come non
avesse udito. — Lei crede che Elena sia una vittima; e ignora che io
sarei stato il migliore dei mariti, se...; e che, mentre ho citato
alcuni testimoni terribili contro di me, avrei potuto citarne un numero
infinito di terribilissimi contro Elena. Per esempio, il direttore della
Biblioteca Nazionale di Roma, il direttore del Museo di Cluny, il
direttore della Collezione Grandidier al Louvre, e altri, i quali sanno
che mi son dovuto mettere a lavorare da qualche tempo, non per mantenere
le mie amanti, le quali appartengono alla categoria delle donne che non
si mantengono; ma per.... per altre ragioni.... Elena sarebbe stata
perduta; dieci anni di reclusione, a occhio e croce.
Accese ancora una sigaretta, e concluse:
— Lei ha molte illusioni intorno a Elena!
— Interrogherò subito quei testimoni, — disse l'avvocato Quadrelli. — E
andrò a recare la buona notizia alla contessa.
— Vada, vada! — mormorò il conte Stefano, sorridendo.
Strinse la mano all'avvocato, s'inchinò leggermente, e uscì.
Non appena egli si fu allontanato, Pietro Quadrelli uscì a sua volta,
prese una vettura, e si fece condurre di corsa al carcere giudiziario.
Era felice; teneva in pugno non soltanto la libertà materiale di Elena
dagli occhi cilestri, ma quanto bastava per darle un'aureola più
duratura del delizioso profumo che ondeggiava intorno alla testolina di
lei. Aveva un bel dire il conte; l'opinione pubblica lo avrebbe
stritolato, decretando il trionfo alla giovane e timida contessa. Non si
violano impunemente le convenienze come aveva fatto Stefano; il pubblico
si rivolta e condanna.
Nella sua cella a pagamento, la contessa Elena, agile e sottile, stava
seduta leggendo, presso la tavola su cui erano ancora i piatti e le
posate della colazione; udendo schiudere l'uscio, la giovane si alzò, e
sorrise a Pietro Quadrelli, che entrava.
— Mi pare molto contento, avvocato! — ella disse con la sua bella voce
morbida.
— Contento? Sono felice, e per buoni motivi, — rispose l'avvocato.
E sedendo vicino a lei, presso la tavola, le raccontò con molti
particolari la visita del conte Stefano e le notizie che ne aveva
raccolto. Egli s'aspettava di vedere il bel viso dal carnato “simile a
un petalo di rosa„ illuminarsi di gioia, e fu stupito, quasi sgomento,
vedendo che a mano a mano ch'egli procedeva nel racconto, il visetto si
faceva buio, la fronte s'aggrondava, l'espressione diventava cupa e
chiusa.
— Ebbene? — disse Pietro Quadrelli. — Non ho ragione d'essere felice? È
il trionfo, la vittoria sicura, la sua assoluzione....
Elena lo guardò in faccia, poi disse freddamente:
— Non ha capito?
— Io? Che cosa dovevo capire?
La giovane ebbe un sorriso breve, una specie di ghigno disdegnoso: poi
dichiarò:
— Sono testimoni falsi!
L'avvocato Quadrelli trasalì, fissandola a sua volta sbalordito:
— Come dice? — interrogò.
— Dico che sono testimoni falsi, — ripetè Elena. — _Falsi!_ Li conosco
tutti; amici intimi di Stefano, pel quale andrebbero nel fuoco. Non una
parola di ciò che racconteranno è vera; egli li ha pregati di aiutarlo a
salvarmi per l'onore del nome, ed essi mi salveranno, giurando il falso
e raccontando il falso.... Ne vuole una prova? Al Grand Hôtel, a Milano,
ero io con lui!
— Ma, allora, contessa, non capisco?... — interruppe l'avvocato.
— Non capisce? È semplicissimo. Mio marito si vendica; ciascuno si
vendica a modo proprio. Stefano si vendica, schiacciandomi con la
generosità.... Non posso certo smentire i suoi testimoni. E con quali
prove del resto? E qual è l'imputato che smentisce i testi venuti per
liberarlo? Io tacerò, le menzogne passeranno, e il giuoco sarà fatto.
Ella sembrava in preda a una viva agitazione e le sue piccole mani si
serravano nervosamente. Rimase un istante in silenzio, poi riprese:
— Mio marito deve averle detto ancora qualche cosa. Che cosa le ha
detto?
Pietro Quadrelli esitò. Come riferirle le parole dure e crudeli, che
Stefano aveva pronunziato contro di lei? La vide esile, timida,
delicata, e temette che quelle parole dovessero rovesciarla a terra.
— Dunque? — insistette Elena.
— Dunque, — riprese l'avvocato, — il conte mi ha incaricato di dirle....
Si fermò ancora; bisognava compiere l'incarico; del resto Elena ne
avrebbe forse avuto piacere.
— E così? — domandò Elena con una voce in cui fremevano già l'impero e
l'impazienza.
— Mi ha incaricato di dirle, — seguitò Pietro Quadrelli, — che egli non
ha per lei nè amore, nè pietà; che quando ella avrà riacquistato la sua
libertà, tutto sarà finito, e lei non lo vedrà più....
Elena fece un balzo, un balzo agile di tigre contro l'avvocato.
— Ha detto così? — esclamò con voce sibilante, stendendo le piccole mani
che tremavano. — Lei non s'inganna?
— Come potrei ingannarmi?
Elena gli volse le spalle e passeggiò febbrilmente per la cella. Agli
occhi dell'avvocato, era irriconoscibile; i suoi occhi cilestri
scintillavano e i piccoli denti mordicchiavano le labbra sanguigne; un
furore chiuso e gagliardo sembrava scuotere l'anima e il corpo sottile
della giovane.
— Mi odia! — ella esclamò, quasi parlando con sè stessa. — Mi odia e mi
disprezza; mi getta l'àncora, e poi mi scaccia. Non può essere così.
Si fermò, guardò l'avvocato, e come avesse avuto bisogno di lasciar
traboccare la piena della sua passione, gli disse:
— Io sono stata infedele a mio marito. Non lo amavo. Era troppo buono.
Spendevo pazzamente, per la mia vanità, ed egli era costretto a
lavorare. È verissimo ch'egli ha lavorato; ha fatto uno studio sulle
maioliche, che in Francia e in Inghilterra fu tradotto e pagato
carissimo. Egli lavorava e mi adorava, e io non gli volevo bene. Un
giorno gli sono stata infedele.... Egli mi sorprese mentre scrivevo;
volle la lettera, mi colpì al viso, io ho perduta la testa, e ho sparato
contro di lui.... Questa è la verità....
Aveva pronunziato quelle parole confusamente, in furia, con gli occhi
accesi da un fuoco interno che illuminava tutto il volto. Proseguì
rapidamente:
— Bisogna che lei mi faccia assolvere! Sono pentita: voglio essere
buona. Egli non mi ama più.... Lo amo io, lo voglio io, mi ha vinta. Lo
riprenderò; non saprà sfuggirmi....
Pietro Quadrelli lanciò involontariamente uno sguardo a quel corpo
sottile di tigretta e indovinò le promesse di voluttà feroce ch'eran
chiuse nella minaccia: “non saprà sfuggirmi!„
— Io lo amo, lo amo, lo amo! — proruppe Elena, coprendosi il volto con
le mani e scoppiando in singhiozzi violenti. — So che mi disprezza, ma
sarò tanto buona, striscerò ai suoi piedi, sarò la sua schiava. No, non
saprà sfuggirmi, non mi lascerà morire!... Bisogna che lei, avvocato, mi
faccia assolvere! Voglio mio marito ancora, perchè lo amo, e lo renderò
felice....
L'avvocato Pietro Quadrelli si alzò e si avvicinò alla giovane:
— Non dubiti — disse. — La sua assoluzione è certa....
— Sì, non è vero? — esclamò Elena, scoprendo il viso inondato di lagrime
e afferrando le mani dell'avvocato.
Questi si morse le labbra; a sentirsela così vicina, divorata da una
fiamma di passione, egli ebbe la tentazione di serrarla tra le braccia,
e chiuse un istante gli occhi per resistere. Ella parve comprendere,
sciolse le mani, e disse con voce secca:
— La ringrazio; conto su di lei....
— Ora stia tranquilla, contessa. Cerchi di riposare! — consigliò Pietro
Quadrelli. — Ha bisogno di riposare; stia tranquilla, contessa....
E, accorgendosi che diceva delle sciocchezze, prese il suo cappello, il
portafoglio di cuoio, e s'inchinò. Elena gli stese la mano, sorridendo
con gli occhi ancora umidi di lagrime.
Quando fu in carrozza, avviato al suo studio, Pietro Quadrelli cercò di
raccogliere le idee e di definire le sue impressioni; d'un tratto si
mise a ridere, da solo.
— E andate dunque ad amare le donne! — egli pensò. — Ecco un marito che
adorava la moglie, e lavorava per lei, e aveva fatto di lei il suo
mondo. La moglie lo tradiva. Ecco il marito che le dichiara ben
chiaramente il suo disprezzo, che la scaccia, che non vuol più vederla.
E la moglie lo adora.... Che cosa preferiscono le donne? Le carezze o le
frustate?
S'inchinò innanzi a guardare il cavallo grigio, che procedeva assai
pigramente, e concluse ad alta voce:
— Frustate!
Il cocchiere frustò; il cavallo prese un buon trotto allegro e sicuro.
— Non c'è altro! — borbottò l'avvocato Pietro Quadrelli, stendendosi
beatamente nella vettura.


COLMÀR.

Il treno si fermò sotto la tettoia della stazione, e il viaggiatore
sporse la testa, guardandosi intorno. La stazione era ampia e bene
illuminata, con le scalèe di marmo bianco, che menavano ai
sottopassaggi. Un conduttore, che aveva sul petto assicurata da cinghie
la lanterna accesa, passò lungo la vettura, e il viaggiatore gli
domandò:
— _Wo sind wir?_
— Colmàr! — rispose l'altro, senza alzare il capo. — Colmàr!
Il viaggiatore, Francesco Rusconi, osservò l'uomo: con quella lanterna
accesa sul petto sembrava un grosso animale illuminato da un fuoco
interno. E Francesco pensò che se si fossero obbligati i ferrovieri
italiani a legarsi al collo quella lanterna, sarebbe avvenuta una
rivoluzione. Ma ogni popolo ha i suoi gusti e le sue abitudini.
Francesco chiamò un facchino, gli consegnò le valigie, lo scialle, e
discese. Eran le nove di sera e piovigginava; preceduto dal facchino, il
viaggiatore uscì sul piazzale, vide l'omnibus elegante dell'albergo che
sorge nella Rufacherstrasse, e vi fece deporre le sue robe.
Chi gli avesse detto il giorno innanzi che egli si sarebbe fermato a
Colmàr, avrebbe fatto ridere Francesco Rusconi. Era partito per recarsi
a Metz. A Metz si sarebbe incontrato con una giovane e graziosa signora,
con la quale aveva una semplice amicizia; egli s'era offerto di
accompagnarla in Italia, e, bizzarra, indipendente, audace, ella aveva
accettato. Da quella amicizia, mutata nella dimestichezza che nasce tra
due viaggiatori, e, meglio, avvivata dalle impressioni che la signora
avrebbe ricevuto vedendo la prima volta l'Italia, da quell'amicizia,
pensava Francesco Rusconi, sarebbe scaturito l'amore. E non per altro se
non per aver l'amore della graziosa donna che gli piaceva, egli s'era
messo in viaggio.
Ma era stato colto in treno da una malattia crudele e impreveduta: la
malattia dei ricordi. Tutta la linea, da Milano a Como, da Como a
Lugano, da Lugano a Lucerna, n'era seminata; qua un capriccio, là
un'avventura, più su una passione; qui aveva sorriso, là aveva mentito,
più su aveva amato e sofferto. E rivedendo quei luoghi, Francesco s'era
accorto con spavento che non sentiva più nulla. Inutilmente un paese gli
metteva innanzi il pallido viso di Giuliana; invano da quella città gli
veniva ancora l'eco della voce vellutata con cui Emma lo salutava;
invano un albergo, di cui sfolgorava sotto il sole la dicitura in
lettere d'oro, gli rammentava le carezze di Claudia. Invano, invano
tutto; pericoli e timori, lagrime e speranze, emozioni e vittorie, gioie
segrete e audacie mortali, gli si facevano incontro come rottami di un
grande naufragio, senz'altro significato che di cose spente, e il suo
cuore era freddo, non dava un palpito più del consueto.
A Basilea, cambiato il treno, salì in una vettura tedesca illuminata da
lampadari che diffondevano un mare di luce. Si guardò nello specchio, si
vide coi capelli folti ma bianchi e il volto istoriato da rughe
sottilissime. D'improvviso, si sentì vecchio, non tanto per quel suo
aspetto fisico, in cui vibrava ancora un'energia pronta e tenace, quanto
per l'insensibilità del cuore. Gli occhi dallo sguardo limpido dicevano
che i capelli bianchi e le rughe non attestavano se non forse la
precocità d'una vita ardente, forse una raffica di dolori; ma il cuore
diceva d'essere stanco, d'aver palpitato abbastanza, di voler riposare.
— Non ci vado! — esclamò ad alta voce.
Nella vettura di prima classe era solo; sedette al suo posto, formato
come una poltrona dal velluto rosso fiammante, e si raccolse a meditare.
Che stupida idea era mai stata quella d'andare da Roma a Metz, di
traversare mezza Europa, di ritraversarla in senso opposto, solo per
avere una donna, per guastare una buona e fiduciosa amicizia e per
arrivare poi alla sazietà, all'abbandono, all'oblio? Lavorare tanto per
gettare sulle acque un altro rottame del naufragio a aggiungere Metz
alla lunga litania dei nomi, che avrebbero dovuto dirgli e non gli
dicevano più niente?
— Non ci vado! — ripetè ad alta voce.
A Mülhausen ebbe la prima tentazione di scendere, ma resistette; cercava
ancora una ragione per non cedere e non mancare al convegno. Tra
Mülhausen e Colmàr la noia gli diventò insopportabile. Al pensiero gli
si affacciò la certezza ch'egli non sapeva più, non poteva più amare,
perchè il cuore era spento.
— Vecchio imbecille! — borbottò quasi con rabbia. — Che cosa vai a dire
e a fare, se amore non t'interessa ormai più d'una nuvola? Non senti che
l'esitazione è la prova della tua incapacità d'amare? Tu discuti con te
stesso; sei morto! Quando si ama o si vuole amare, non si ragiona.
Ed era disceso a Colmàr, aveva scelto all'albergo una bella camera in
faccia alla piazza Rapp, e aveva dormito saporitamente come si fosse
trovato a casa sua, nel suo letto.
L'indomani mattina spedì un telegramma alla signora di Metz:
un lutto improvviso lo obbligava a tornare in patria. Non pensò
all'inverosimiglianza della scusa, perchè la notizia del lutto non
poteva averlo raggiunto in treno; pensò ch'era incapace d'amare, che
l'amore era morto per lui.
— Faccio una buona azione, — egli si disse, — e risparmio un disinganno
a questa povera amica.
Ed entrò in un elegante negozio della Rufacherstrasse a comperare le
sigarette.
Era dietro il banco una giovane, abbigliata di nero, col grembialetto
candido; aveva diciotto o vent'anni al più, e non si poteva dir bella;
esile di forme e bianca in volto, coi capelli castagni, la bocca
piuttosto grande, gli occhi color d'avana e mobilissimi di sguardo,
faceva pensare che la sua vita fosse un diuturno sforzo, una fatica
quotidiana per dominare i nervi, e ch'ella dovesse avere una sensibilità
esagerata e quasi dolorosa.
Francesco Rusconi le chiese, senza nemmen guardarla, delle sigarette; ed
ella gliene espose sul banco un intero emporio; Francesco le domandò
quali fossero le migliori e le più ricercate, e indugiò un poco a
discutere; ma dall'accento di lui e forse da qualche frase, ch'era
piuttosto della grammatica che della lingua parlata, la fanciulla intuì,
esitò un poco, e poi interrogò con titubanza:
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