Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 26
mai abbastanza in casi di tanta necessità e interesse del pubblico?
L’esempio è notabilissimo, e tale da far di nuovo coraggio ai nostri
medesimi tempi e paesi, purchè oggidì si adoperino quelle sbarre che
saggiamente furono in altri tempi usate. Ma se si addormenterà chi
è obbligato ad abbondare in vigilanza, se non si metterà una forte
briglia all’ingordigia del privato interesse, se si vorrà lasciare
aperto il passo a merci straniere, benchè non necessarie, procedenti da
paese sospetto, affinchè le gabelle e dogane non patiscano danno; la
desolazione pur troppo verrà, cioè per non perdere un poco si perderà
tutto, e arriveremo a mirare quella grande scena che fa ora tanta
paura, e pure non par temuta abbastanza da chi potrebbe e dovrebbe far
molto per tenerla lontano, e forse nol fa.
Un’altra massima de’ medici che hanno operato in Marsiglia, è quella
di attribuire tanta rovina nel genere umano a varie altre cagioni,
_più tosto che al contagio_. E tali cagioni sono, secondo essi,
l’indisposizione de’ corpi e degli spiriti animali dell’uomo, cioè la
troppa copia o crudezza degli umori, le passioni dell’animo, _e sopra
tutto il terrore e la tristezza_. Incontrandosi in corpi e spiriti sì
mal disposti certi corpicciuoli e miasmi che escono da merci infette,
o dalle viscere della terra, o da qualche sorgente superiore (vorran
dire gli influssi delle stelle) e che volano per l’aria, o si mischiano
con gli alimenti, se ne produce, secondo essi, il terribilissimo morbo
e la morte di tanti, in guisa che più tosto all’indisposizione interna
degli uomini, che alla maligna attività di quei corpicciuoli s’hanno
da imputare questi mortiferi effetti. Primieramente si vuol rispondere
che l’attribuire la cagion della peste alle costellazioni (se pure
d’esse si parla), è sentenza oramai troppo rancida, conoscendosi
chiaramente che la forza delle stelle non fa all’improvviso uscir fuori
la vera peste in qualche paese, s’ella non vi è portata da un altro
già infetto. Nè può credersi che escano dalle viscere della terra i
corpicciuoli pestilenziali, siccome nè pure che entrino mischiati con
gli alimenti nell’uomo, perchè niuno in tal sistema sarebbe sicuro,
anche astenendosi dal praticar persone o robe infette; il che è
contrario alla sperienza e all’asserzione d’innumerabili autori che
si sono trovati a questo medesimo fuoco. Ed ultimamente il signor
Bartolomeo Corte, dottissimo medico di Milano, in una sua lettera quivi
stampata intorno alle _Cagioni della peste_ ha assai concludentemente
provato non poter venire la peste nè dall’aria, nè dai nutrimenti
cattivi.
Secondariamente godo io che que’ valenti medici rilevino e facciano ben
ravvisare i cattivi effetti del terrore, della tristezza e dell’altre
passioni dell’animo, allorachè la pestilenza arriva con mal talento
di spopolare le città. Imperocchè, abbattuti gli spiriti animali
nell’uomo e tolto l’equilibrio agli umori del corpo, riesce facile
al morbo l’entrare in una piazza sì mal difesa e l’atterrarla anche
prestissimo. Perciò colla scorta di moltissimi altri autori ho anch’io
nel Trattato del Governo della Peste sommamente raccomandato, e più
d’una volta, l’armarsi allora di fiducia, di coraggio, di persuasione
di non dover essere colto dal male, e di guardarsi con particular cura
dalla tristezza, dalla paura, dal terrore, dalla disperazione; poichè
questi abbattimenti d’animo fanno la strada all’abbattimento ancora
della vita del corpo. Quand’anche non fosse vera tale opinione, pure
non potendo essa dall’un canto nuocere, e potendo forse dall’altro
giovare assaissimo, ottimo consiglio sarà sempre il tenerla e
figurarsela per vera. E quantunque, presa che si sia la peste, non paia
che sia da attribuirsi, siccome vorrebbono i medici suddetti, la morte
delle persone alla funesta persuasione che il male sia incurabile, o
alla disperazione, o ad altre simili gagliarde passioni dell’animo,
essendochè il terrore, la malinconia, ed altre perniciose affezioni
sono effetti quasi inseparabili del morbo preso, che è micidiale, e non
già cagioni ch’esso morbo diventi micidiale; tuttavia gioverà ancora
sposare sì fatta opinione, perch’essa in fine può recare singolar
giovamento e non mai nocumento agl’infermi. Certo noi veggiamo che il
solo terrore, anche senza la peste, cagiona di gravissimi sconcerti
nella sanità delle persone; e l’abbandonarsi poi un malato a questa e
ad altre somiglianti passioni, può dare il tracollo a ogni speranza di
riaversi. All’incontro il coraggio serve a rinforzare i conati che fa
la natura per iscaricarsi del nemico interno. Servirà a ciò l’esempio
degli stessi medici che hanno operato in Marsiglia, i quali, ancorchè
continuamente conversassero con appestati e li maneggiassero, nè
usassero particolari preservativi, pure si son salvati in mezzo a sì
fiero conflitto; e ciò a cagione, per quanto essi sostengono, dello
sprezzo ch’essi facevano di quel male, e del coraggio che rinforzando i
loro spiriti, li rendeva abili a resistere agli spiriti pestilenziali,
e a non risentirne offesa. In somma, secondo tale opinione, avviene lo
stesso nel conflitto della peste che accade nella guerra; chi ha più
cuore e men paura d’ordinario non è vinto, e vince gli altri. Che se la
filosofia non sapesse ben trovarne la ragione, e movesse qui di grandi
difficoltà, poco importa; anzi sarà sempre meglio il fortificare, che
il tentare d’abbattere una sì fatta sentenza, perchè sentenza utile, e
non pregiudiziale ad alcuno.
In terzo luogo. Ma non si può, ne si dee già menar buono al signor
Chicoyneau ch’egli metta per più _nocivi che utili tutti i preservativi
che si costumano in tempo di peste_. Si esalti pure qual preservativo
gagliardo il suddetto coraggio; ma escludere poi _tutti_ gli altri,
questo è troppo; e una tal massima potrebbe tirarsi dietro delle
conseguenze sommamente funeste. Non v’ha dubbio, di tanti preservativi
per la peste, de’ quali è fatta menzione ne’ libri che trattano
di questo argomento, moltissimi saranno inutili, ed alcuni ancora
nocivi, siccome anch’io ho accennato nel Governo della Peste; ed
alcuni ancora utili, perchè usati troppo spesso, o in troppa quantità,
potranno divenir pregiudiziali alla salute. Ma non per questo s’hanno
da screditare e sconsigliare universalmente alla rinfusa. Con tutto
il nostro bel dire egli non è certo che il coraggio, la fidanza
e l’intrepidezza sieno bastevoli a difendere il corpo umano dagli
assalti di questo potentissimo e feroce avversario. Adunque esige la
prudenza che aggiugniamo a questo anche altri preservativi, o esterni
o interni, i quali maggiormente si trovino commendati dalla sperienza
e dai saggi, a fine di ottenere con più sicurezza il grande intento
di salvare la vita d’un uomo. Purchè sieno riconosciuti per incapaci
in sè stessi di nuocere, e si prendano colla dovuta moderazione, e
solo nella necessità; che male si farà a valersene, quando, per parer
d’altri e per fondate ragioni, si può credere o sperare che riescano
di giovamento? Troppo distruggono queste nuove opinioni; e il saggio
ha da adoperarle con discretezza, altrimenti è da temere che si paghi
caro, cioè con lasciarvi la vita, la troppo poca stima delle opinioni
de’ vecchi e dei preservativi innocenti in tante altre pesti adoperati,
e giudicati giovevoli. Meglio è fallare moltiplicando senza bisogno i
riguardi e i ripari, allorchè si tratta d’un sì poderoso nemico, che
trascurandoli o sprezzandoli tutti per bizzarria d’opinioni. E però sia
bensì l’intrepidezza uno de’ preservativi, ma non sia sola; e si ponga
mente anche ad altri mezzi che sempre più potranno custodire illesa
fra’ pericoli la salute del corpo.
In quarto luogo merita d’essere e ricordata e lodata, siccome molto
ingegnosa, l’opinione d’alcuni dottissimi uomini dell’età nostra, che
son d’avviso consistere la peste, non meno de’ buoi che degli uomini,
in certi maligni sottilissimi vermicciuoli che corrompono il sangue e
gli umori del corpo, e che la propagano col moltiplicarsi e insinuarsi
ne’ panni e nelle persone di chi vi si accosta. Così hanno creduto, per
tacer d’altri, il celebre P. Kirchero e il vivente rinomatissimo signor
Vallisnieri; e non ha molto in Milano l’ha sostenuta il soprallodato
signor medico Corte in una sua lettera stampata intorno alle cagioni
della peste. Ma per quanto accennai nel lib. 2, cap. 10 del Governo
della Peste, è ben soggetta a molte difficoltà una tale sentenza.
Imperocchè traspirando pei fori della gente appestata corpicciuoli
atti ad infettar altre vicine persone, ed essendo anche portati per
l’aria, con restarne in qualche maniera impregnato l’ambiente degli
infetti, bisogna per conseguente ammettere una mirabil sottigliezza in
questi pretesi vermicciuoli, e farli volare per aria vivi e compiuti,
e dar loro quella mole stranamente minuta che noi diamo agli spiriti
che escono del corpo. Io vo’ mettere che non sia assurdo l’immaginare,
nè impossibile il trovare di questi per così dire atomi animali,
incomparabilmente minori degli acari, ma certo è difficilissimo
il provare o mostrare che esistano o sieno essi i promotori e
disseminatori della peste. Che se si trovano vermi ne’ corpi appestati,
forse non ne vanno senza gli umori del corpo anche fuori de’ tempi di
pestilenza, ed anche in sanità. E poscia sì fatti vermi dovrebbono
appellarsi effetti più tosto che cagioni d’esso morbo, e tanto più
perchè, osservati in qualche persona infetta, non saranno mai di quella
estrema mirabil minutezza che necessariamente bisogna supporre in essi,
se hanno da galleggiare, o sia nuotare e muoversi per l’aria. Oltre
di che se il sangue o altri fluidi sono il loro elemento, come poi ne
vivono fuori? Come si mantengono vivi in panni e merci per molto tempo?
E ciò sia detto col rispetto dovuto ai filosofi di tanto nome, e alla
loro, se non vera, certo giudiziosa sentenza, potendo essere ch’eglino
sapranno ben dileguare queste ed altre difficoltà che potrebbono farsi;
benchè in fine poco giovi e poco importi se sieno animati o inanimati
que’ sottilissimi corpicciuoli che van facendo tanta strage sulla
terra, perchè in tutti e due questi sistemi l’hanno fatta, e la faran
tuttavia.
Intanto verrò io dicendo che dovendo noi cercare non il nuovo, ma il
vero, sembra più probabile e fondata, e soggetta a men difficoltà,
l’opinione antica e corrente, cioè: altro non essere la peste che
corpicciuoli, effluvj, atomi e particelle sottili e velenose, le
quali, o sia, come anch’io credo, sempre vivo il loro seminario nei
vasti paesi dell’Asia e dell’Affrica, che ne vanno regalando talvolta
anche l’Europa, o sia che essi talvolta spuntino fuori per accidental
corruzione in qualche popolo, penetrano nelle interne parti dell’uomo,
ed ivi con subitanea ferocia sconvolgendo gli umori e atterrando
gli spiriti, cagionano quei tanti sintomi che sono descritti nella
Relazione di sopra, conducendo in tal guisa le persone a pagare con
gran fretta il tributo della natura, se pure non le aiuta il benefizio
degli emuntorj, a’ quali tenta naturalmente la massa del sangue
infetto di condurre il maligno fermento per isgravarsene. Non occorre
cercare se questi velenosi corpicciuoli sieno di arsenico o d’altra
sorta di veleno. Basta sapere che possono appellarsi veleno, da che
producono lo stesso effetto che il veleno; e può dirsi che fra tanti
veleni, tutti possenti ad atterrar l’uomo, la peste ne sia uno che
formi una sua specie particolare. Se crediamo al signor Chicoyneau,
la forza d’uccidere non è già in questi corpicciuoli, ma sì bene loro
la dà la mala disposizione de’ corpi umani, ne’ quali per avventura
abbiano essi l’adito. Non mi metterò io a negare risolutamente questa
partita; anzi dirò di giudicarla assai probabile, per non dir certa,
ma in forma differente da quello che crede il medico suddetto. Per
cattiva disposizione egli intende il trovarsi nel corpo umano troppa
copia di sangue o d’altri fluidi, o pure questi indigesti e crudi,
ovvero l’animo tutto sconvolto da qualche gagliarda passione. Io per
me tengo che un’altra più larga e a noi occulta disposizione d’umori e
di spiriti si richiegga nell’uomo, affinchè gli effluvj pestilenziali
possano ivi esercitare la loro attività. Perciocchè alcuni, anche
paurosi, anche melanconici, anche malsani, non risentono verun danno
dal praticare con appestati; e coloro che son colpiti una volta da
questo atrocissimo morbo, e ne guariscono, d’ordinario sono sicuri
di non provarlo più. Lo stesso avviene de’ vaiuoli, della rosolia, e
di simili morbi, che non cagionano i lor maligni effetti nel corpo
umano, se prima in esso corpo non trovano una disposizione che è
incomprensibile a noi ed occulta. E può osservarsi il medesimo arcano
in altri morbi epidemici, endemici e sporadici. Ora io crederei più
proprio e più fondato il dire che i corpicciuoli pestilenziali quei
sono che seco portano l’abilità e forza di sconcertare ed abbattere il
microcosmo umano, e non già che loro la somministri l’interna cattiva
disposizione dell’uomo, avvegnachè senza tal disposizione non sogliano
essi far uso della lor fierezza. Quello che più importa si è, che
dovendo ogni persona in tempi di peste dubitare e temere di portare
dentro di sè una disposizione a contraere questo terribil male, dee per
conseguenza camminar con riguardo, e molto più studiosamente cercare di
preservarsi, che non fa chi, non avendo mai provato i vaiuoli, desidera
anche di non provarli giammai.
Ma un’altra rilevantissima osservazione vo’ io qui aggiugnere,
accennata già nel Governo della Peste, non che io osi tenerla e
spacciarla per certa e indubitata, ma perchè a me sembra almeno
probabilissima, e da avervi particolar attenzione in tempi di tanta
miseria. Coloro che non hanno allora bisogno alcuno di trattar con
gente infetta o sospetta, stieno pure alla ritirata, abbondino in
preservativi anche inutili, e studino tutte le cautele anche superflue
e vane; che in fine meglio è, trattandosi d’un sì feroce nemico,
eccedere nella troppa che nella troppo poca difesa. Ma tanti altri ci
sono, che per necessità o del loro impiego caritativo, o del vitto,
non possono a meno di non conversare con appestati, e debbono toccarli
e maneggiarli: ora che preservativi debbono essi portare con seco?
Quanti ne possono, rispondo io, ed anche una carretta; ma insieme
aggiungo, inclinar io forte a credere che si debba ridurre, e si riduca
in fatti, ad un solo punto il gran segreto per preservarsi dalla peste
(anche trattando con chi ne è già tocco, anche stando in mezzo alle
città appestate), cioè al saper difendere dagli spiriti ed effluvj
pestilenziali le due porte della umana respirazione, voglio dire il
naso e la bocca. Il che dicendo, non escludo mai, anzi amo sempre in
compagnia di questo preservativo l’altro del coraggio e della fidanza,
con escludere que’ brutti ceffi del terrore e della malinconia. So che
la comune sentenza vuole che anche per la cute s’introduca la peste.
Ma ecco i motivi che io ho da dubitarne: e non sarà inutil cosa che
valenti filosofi e medici ne facciano un più accurato esame. Già abbiam
premesso come sentenza più probabile dell’altre che la peste consista
in corpicciuoli e spiriti sottilissimi e velenosi. La struttura del
corpo umano vivente è costituita in maniera che col calore e moto del
sangue e col vigore elastico dell’aria inchiusa ne’ vasi e respirata
continuamente sta in esso una tensione al di fuori; cioè per un
certo meccanismo gli spiriti ed umori sono in qualche forma spinti
e inclinati ad uscir fuori per tutta la circonferenza del corpo. In
effetto quasi sempre per li pori della cute vanno insensibilmente
uscendo spiriti e particelle dal corpo umano in tal guisa, che secondo
la statua del Santorio, una tal traspirazione ogni dì ascende a una
considerabile quantità.
Ciò posto, facilmente s’intende come entrati nell’uomo essi spiriti
velenosi, e introdotto nel sangue e negli altri umori un pessimo
fermento, ivi si formi una fierissima corruzione, per cui gli spiriti
ed umori prima sani, si rendono maligni ed omogenei al fermento
entrato, ed agitati forte scappano poi fuori anche per li pori, non
che pei soliti meati della respirazione, potendo essi per conseguenza
portar l’infezione ad altri non infetti. Ma sarà ben difficile il
provare che tali spiriti ed effluvj pestilenziali possano introdursi
per i fori della cute in un uomo, da che loro è chiuso l’adito e fatta
resistenza dagli altri spiriti ed umori che per l’interna pressione
traspirano o cercano di traspirare dal corpo d’ognuno. La forza che
dal di dentro spinge al di fuori, è evidente nella struttura degli
animali. Ma, giacchè l’attrazione è omai troppo screditata fra i
migliori medici, si penerà ad assegnare una forza al di fuori che possa
cacciar dentro per via de’ pori una torma di spiriti velenosi, e tale
da vincere l’opposta interna forza, che tende ad espellere; e tanto più
perchè l’accuratissimo Malpighi nel suo Trattato dell’Organo del Tatto
osservò formarsi della cuticola ne’ vasi escretorj del sudore una certa
pellicella convessa, che a guisa di valvula sembra impedire l’ingresso
ai fluidi esterni.
Si può forse dare che applicati con forza alla cute dell’uomo alcuni
corpi, come unzioni, liquori, empiastri, cataplasmi, ecc. possono
introdurre pei fori qualche lor particella sottile; benchè più
probabilmente sia da chiamar bene spesso un’illusione quel credere
con tanta facilità che tali corpi applicati al di fuori operino con
penetrare ne’ corpi per la cute, quando essi solamente giovano, se pur
giovano, o con difendere dall’aria nociva, o con fomentare il calore
nelle parti offese o pure con ammollire, cioè con rarefare i pori, pei
quali poi esce sottilizzata l’interna nociva materia; o finalmente col
penetrare, non già per la cute, ma per la bocca o pel naso, nel corpo
umano mercè delle particelle sottili ed odorose, nocive o giovevoli che
vanno da essi emanando. Non parlo dei caustici, perch’essi colle loro
particelle aguzze ed infiammatorie rompono la tessitura della cute,
applicate ad essa, e si fa sentire al di fuori la loro operazione.
Parimente non parlo nè delle cantaridi, nè del mercurio esteriormente
applicato nelle unzioni, perchè ne’ medesimi possono concorrere delle
ispezioni particolari.
La maniera con cui ne’ corpi viventi operano, o nocendo o giovando, gli
altri corpi, non rade volte si asconde anche agli occhi più acuti di
chi contempla la natura; e molte sentenze passano per vere solamente
perchè ci riposiamo sulla corrente degli scrittori e dell’uso, ma
non perchè un diligente esame ci abbia persuasi della loro verità e
certezza. Serva per esempio la torpedine. Tanti e tanti, sì antichi
come moderni, hanno insegnato avere in sè quel pesce la virtù
d’istupidire la mano che il piglia; e ciò appunto potrebbe rammentarsi
per provare che certi spiriti velenosi trovano benissimo l’adito per
penetrare dentro la cute dell’uomo. In fatti non è questa una favola,
avendone fatta la prova anche l’attentissimo Redi, il quale nondimeno
confessa che bisogna stringer forte la torpedine, se ha da cagionare
stupore e dolore nel braccio. Veggasi ancora il Willugby nella Storia
de’ Pesci. Ma il celebre Borelli avendo con più attenzione e con
esperimento più esatto esaminata questa faccenda, tiene non operar
la torpedine per qualche aura velenosa che da lei si tramandi, perchè
toccata e maneggiata quando essa riposa, ed anche prendendola stretta
colla mano nelle parti laterali, non nuoce. Allora dunque solamente
induce stupore e dolore quando la mano stringe il torace di lei vicino
alla spina, dove sono de’ nervi e muscoli in gran copia; perciocchè
insorgendo in quel pesce un tremore e uno scotimento gagliardo, questo
si comunica alla mano e al braccio, cagionando in essi una sensazione
molesta, anzi insoffribile. Che poi il preteso veleno della torpedine
passi all’uomo fino per l’asta o per le funi delle reti, questa è
una frottola secondo il suddetto Borelli. Lo stesso probabilmente è
da sospettare d’altre simili immaginazioni. Comunque nondimeno ciò
sia, quand’anche si ammettano corpi che introducano nell’uomo le lor
parti sottilissime, verisimilmente si troverà ancora che da qualche
vibrazione o forza esterna sono introdotte sì fatte particelle. Ma ciò
non appare già ne’ corpicciuoli pestilenziali, che, siccome sciolti,
leggieri, svolazzanti e non applicati con forza, sembra per conseguente
che sieno incapaci di entrare per li forellini della cute, nè son già
descritti per corrosivi da potersi fare strada per essa. Anzi quando
anche il corpo avesse piaghe o ferite, non perciò questo veleno sembra
atto a penetrare e infettare per quella parte, giacchè tanti e tanti
commendano i cauterj per preservativo della peste medesima, e la rogna
vien creduta giovevole in tal tempo: il che è sommamente da notare.
Nè l’Elmonzio è un autore di tanto credito che s’abbia a riposare
sulla sua fede, allorchè narra che, capitata a certuno una lettera
scritta da città appestata, appena apertala, cominciò costui a sentirsi
nelle dita un dolore come di punture d’aghi, e appresso a tremare con
tutto il corpo; del che egli morì fra pochi giorni. O la storia non
sussiste, o se sussiste, può attribuirsi l’infezione di costui all’aver
egli bevuto gli spiriti pestilenziali chiusi nella carta col tirare
del fiato. Nè un altro simile esempio, poco però verisimile, recato
dal Diemerbrochio, può fare stato, perciocchè infiniti altri hanno
maneggiato e maneggiano corpi e robe infette senza provare puntura
veruna alle mani; il che parimente avvien tutto dì a coloro che toccano
altri veleni e materie mortifere, le quali se non entrano o per ferita
fatta, o pei canali del respiro, nessun danno recano alle persone. Nè
alcuno dei tanti medici i quali hanno conversato con sì gran numero di
appestati, e ci han lasciato le loro osservazioni su questo morbo, ha
mai accennato che l’accesso del medesimo si risentisse alla cute o per
qualche dolore, o anche per semplice prurito; siccome nè pure ciò si
osserva nella comunicazione de’ vaiuoli e d’altri malanni epidemici,
simili nel corso, benchè diversi nella ferocia dalla vera peste.
All’incontro una via certa e indubitata per nuocere all’uomo, l’hanno
i corpicciuoli pestilenziali, ed è quella del respiro; e questa è la
facile per introdurre il nemico in casa, e per portar tosto a dirittura
l’incendio nelle viscere e nel sangue; e questa è la confessata da
chiunque ha scritto di questo fierissimo morbo; nulla importando se
non ben sappiamo tutte le vie per le quali l’aria respirata si comunica
ad esso sangue, perchè basta sapere che si comunica. Dal corpo infetto
non v’ha dubbio che si fa una copiosa emanazione di effluvj per i pori
della cute e per la respirazione. Si diffondono per l’aria questi atomi
o spiriti maligni fino a quella distanza ove può giugnere la maggiore
o minore vibrazione che si fa dal calore che li spinge fuori, o pure
più lungi, se l’aria impregnata d’essi viene per avventura mossa da
altro corpo. Osservisi nondimeno che se l’aria commossa giugnerà a
segregare e diradare la massa di questi corpicciuoli micidiali, tanto
meno sarà da temer d’essi; e può essa facilmente disperderli in maniera
che quand’anche alcun d’essi si bevesse col respiro, pure non avrà
assai forza per nuocere. Chi dunque si troverà nell’ambiente di un
corpo appestato vivo (poichè de’ non viventi, quantunque appestati,
cioè de’ cadaveri, è cosa dubbiosa se s’abbia a temere) costui, se non
istà in guardia, in tirando il fiato, di leggieri si tirerà addosso
anche l’infezione, perciocchè verrà insieme coll’aria a tracannare
quegli spiriti maligni. Nè qui sta tutto il pericolo. Siccome accade
a chi maneggia corpi odorosi o sta loro vicino, e massimamente se
qualche calore o percossa mette in moto gli spiriti odorosi di quel
corpo, che le sue vesti e mani ed altre membra portino via con seco
di quelle particelle odorifere; così ai panni e ad altre robe degli
infetti e di qualunque altra persona che entri nell’ambiente dell’aria
da loro respirata e degli spiriti venefici emananti dal corpo loro,
insensibilmente si attaccano particelle pestilenziali, le quali
asportate possono lungi di là essere tirate col fiato da altri sani, e
comunicar loro l’infezione e la morte. E questa medesima, s’io mal non
m’oppongo, è l’economia con cui anche tanti altri malanni epidemici,
ma non così feroci e micidiali come la peste, cioè i vaiuoli, la
rosolia, i flussi di sangue, certe febbri maligne o petecchiali, ecc.,
si dilatano talvolta pel popolo, con cagionare pericolose malattie, e
morti non poche.
Ora posto questo sistema, il quale mi contento che nol creda vero chi
in occasione sì funesta può custodirsi col ritiro, dico che chiunque
è in necessità di praticar gente infetta o sospetta di peste, dee
farsi coraggio, e non figurarsi che il vedere un infermo di questo
terribil morbo, e il doversegli accostare e toccar lui e le robe sue,
abbia tosto a far cadere lui pure infermo o morto. Lasciata anche
stare quella natural disposizione che alcuni godono, e probabilmente
altri formano in sè stessi mediante l’intrepidezza, per resistere
agli spiriti micidiali della peste, purchè si studino essi di ben
difendere le suddette due porte della respirazione, hanno quasi
da tenersi in pugno la loro salvezza, anche trattando con persone
appestate. Tanti medici e cerusici ed ecclesiastici, ed altri che
hanno toccato e curato essi infermi o maneggiate le robe loro, ne sono
usciti illesi; non per altro, a mio credere, se non perchè seppero
custodirsi in maniera che non entrò col respiro nel petto loro effluvio
alcuno, procedente da corpo o robe infette; o se vi entrò, entrò
corretto, mortificato, o mutato da altri effluvj antipestilenziali
e preservanti. È un bell’esempio quello del sacerdote fiorentino che
con la spugna inzuppata o spruzzata di buon aceto (sarebbe lo stesso
di un fazzoletto) si preservò sempre in mezzo agl’infetti siccome si
raccoglie dalle Giunte che ho fatto al mio Governo della Peste. Ma
si può dire lo stesso di tant’altri che si sono salvati, dovendosi
per l’ordinario attribuire la lor salute a questa buona difesa. Che
se attestano i medici di Mompellieri che non venne loro danno alcuno
dal luogo lor conversare con tanti appestati di Marsiglia, quantunque
scrivano di non aver usato preservativo alcuno fuorchè quello del
coraggio, quanto più poi dovrà sperare di passarsela netta chi al
coraggio e all’intrepidezza aggiugnerà eziandio que’ preservativi che
possono impedire l’introduzione de’ corpicciuoli velenosi pei canali
del fiato, cioè per quella probabilmente unica via ch’eglino hanno per
nuocere?
Io so che anche riducendo a questo il pericolo d’infettarsi, non si
toglie perciò ch’esso pericolo non sia grandissimo. Ma da che si sa
da qual parte il nemico o il ladro ha da tentare l’entrata, egli non
è tanto difficile il mettersi in difesa. Già nel suddetto Governo
della Peste colla scorta dei migliori ho rapportato gran copia di
profumi e d’altri corpi odorosi, che per la maggior parte son atti o
a tener lontani, o a correggere in guisa gli effluvj pestilenziali,
che o non passino nelle persone, o passino senza ritener più la
possanza di nuocere. Dee ognuno studiarsi secondo la sua prudenza di
valersene, e con ricordarsi sempre di difendere sè stesso non solo
dagli altrui, ma anche da’ propri panni, con profumarli dipoi, qualora
si sia conversato con infetti o sospetti, ma senza sottilizzarla
tanto che si apprenda in ogni oggetto e movimento la propria morte.
Giungono alcuni a temere che fin le mosche ed altri insetti possono
apportar loro da qualche luogo infetto il congedo per l’altro mondo;
e chi credesse ad altri buoni scrittori di questo argomento, udirebbe
simili casi strani intorno alla maniera di prendere il morbo, e che
gli spiriti pestilenziali si conservano per anni e anni ne’ panni,
nelle funi, e infin nelle tele di ragno, con altre avventure che
fan battere forte il cuore a chi è figliuolo della paura. Ma oltre
a tanti rimedi e preservativi inutili e vani per la peste che si
leggono in certi libri di cerretani, vi ha ancora non poche favole
o immaginazioni alle quali non dee punto fermarsi l’uomo saggio e
coraggioso. Similmente dee deporsi la credenza che la peste venga
dall’aria corrotta, essendo ciò falso a riserva di quella che attornia
i corpi e le robe infette. Ed ogni minimo venticello, purchè possa
L’esempio è notabilissimo, e tale da far di nuovo coraggio ai nostri
medesimi tempi e paesi, purchè oggidì si adoperino quelle sbarre che
saggiamente furono in altri tempi usate. Ma se si addormenterà chi
è obbligato ad abbondare in vigilanza, se non si metterà una forte
briglia all’ingordigia del privato interesse, se si vorrà lasciare
aperto il passo a merci straniere, benchè non necessarie, procedenti da
paese sospetto, affinchè le gabelle e dogane non patiscano danno; la
desolazione pur troppo verrà, cioè per non perdere un poco si perderà
tutto, e arriveremo a mirare quella grande scena che fa ora tanta
paura, e pure non par temuta abbastanza da chi potrebbe e dovrebbe far
molto per tenerla lontano, e forse nol fa.
Un’altra massima de’ medici che hanno operato in Marsiglia, è quella
di attribuire tanta rovina nel genere umano a varie altre cagioni,
_più tosto che al contagio_. E tali cagioni sono, secondo essi,
l’indisposizione de’ corpi e degli spiriti animali dell’uomo, cioè la
troppa copia o crudezza degli umori, le passioni dell’animo, _e sopra
tutto il terrore e la tristezza_. Incontrandosi in corpi e spiriti sì
mal disposti certi corpicciuoli e miasmi che escono da merci infette,
o dalle viscere della terra, o da qualche sorgente superiore (vorran
dire gli influssi delle stelle) e che volano per l’aria, o si mischiano
con gli alimenti, se ne produce, secondo essi, il terribilissimo morbo
e la morte di tanti, in guisa che più tosto all’indisposizione interna
degli uomini, che alla maligna attività di quei corpicciuoli s’hanno
da imputare questi mortiferi effetti. Primieramente si vuol rispondere
che l’attribuire la cagion della peste alle costellazioni (se pure
d’esse si parla), è sentenza oramai troppo rancida, conoscendosi
chiaramente che la forza delle stelle non fa all’improvviso uscir fuori
la vera peste in qualche paese, s’ella non vi è portata da un altro
già infetto. Nè può credersi che escano dalle viscere della terra i
corpicciuoli pestilenziali, siccome nè pure che entrino mischiati con
gli alimenti nell’uomo, perchè niuno in tal sistema sarebbe sicuro,
anche astenendosi dal praticar persone o robe infette; il che è
contrario alla sperienza e all’asserzione d’innumerabili autori che
si sono trovati a questo medesimo fuoco. Ed ultimamente il signor
Bartolomeo Corte, dottissimo medico di Milano, in una sua lettera quivi
stampata intorno alle _Cagioni della peste_ ha assai concludentemente
provato non poter venire la peste nè dall’aria, nè dai nutrimenti
cattivi.
Secondariamente godo io che que’ valenti medici rilevino e facciano ben
ravvisare i cattivi effetti del terrore, della tristezza e dell’altre
passioni dell’animo, allorachè la pestilenza arriva con mal talento
di spopolare le città. Imperocchè, abbattuti gli spiriti animali
nell’uomo e tolto l’equilibrio agli umori del corpo, riesce facile
al morbo l’entrare in una piazza sì mal difesa e l’atterrarla anche
prestissimo. Perciò colla scorta di moltissimi altri autori ho anch’io
nel Trattato del Governo della Peste sommamente raccomandato, e più
d’una volta, l’armarsi allora di fiducia, di coraggio, di persuasione
di non dover essere colto dal male, e di guardarsi con particular cura
dalla tristezza, dalla paura, dal terrore, dalla disperazione; poichè
questi abbattimenti d’animo fanno la strada all’abbattimento ancora
della vita del corpo. Quand’anche non fosse vera tale opinione, pure
non potendo essa dall’un canto nuocere, e potendo forse dall’altro
giovare assaissimo, ottimo consiglio sarà sempre il tenerla e
figurarsela per vera. E quantunque, presa che si sia la peste, non paia
che sia da attribuirsi, siccome vorrebbono i medici suddetti, la morte
delle persone alla funesta persuasione che il male sia incurabile, o
alla disperazione, o ad altre simili gagliarde passioni dell’animo,
essendochè il terrore, la malinconia, ed altre perniciose affezioni
sono effetti quasi inseparabili del morbo preso, che è micidiale, e non
già cagioni ch’esso morbo diventi micidiale; tuttavia gioverà ancora
sposare sì fatta opinione, perch’essa in fine può recare singolar
giovamento e non mai nocumento agl’infermi. Certo noi veggiamo che il
solo terrore, anche senza la peste, cagiona di gravissimi sconcerti
nella sanità delle persone; e l’abbandonarsi poi un malato a questa e
ad altre somiglianti passioni, può dare il tracollo a ogni speranza di
riaversi. All’incontro il coraggio serve a rinforzare i conati che fa
la natura per iscaricarsi del nemico interno. Servirà a ciò l’esempio
degli stessi medici che hanno operato in Marsiglia, i quali, ancorchè
continuamente conversassero con appestati e li maneggiassero, nè
usassero particolari preservativi, pure si son salvati in mezzo a sì
fiero conflitto; e ciò a cagione, per quanto essi sostengono, dello
sprezzo ch’essi facevano di quel male, e del coraggio che rinforzando i
loro spiriti, li rendeva abili a resistere agli spiriti pestilenziali,
e a non risentirne offesa. In somma, secondo tale opinione, avviene lo
stesso nel conflitto della peste che accade nella guerra; chi ha più
cuore e men paura d’ordinario non è vinto, e vince gli altri. Che se la
filosofia non sapesse ben trovarne la ragione, e movesse qui di grandi
difficoltà, poco importa; anzi sarà sempre meglio il fortificare, che
il tentare d’abbattere una sì fatta sentenza, perchè sentenza utile, e
non pregiudiziale ad alcuno.
In terzo luogo. Ma non si può, ne si dee già menar buono al signor
Chicoyneau ch’egli metta per più _nocivi che utili tutti i preservativi
che si costumano in tempo di peste_. Si esalti pure qual preservativo
gagliardo il suddetto coraggio; ma escludere poi _tutti_ gli altri,
questo è troppo; e una tal massima potrebbe tirarsi dietro delle
conseguenze sommamente funeste. Non v’ha dubbio, di tanti preservativi
per la peste, de’ quali è fatta menzione ne’ libri che trattano
di questo argomento, moltissimi saranno inutili, ed alcuni ancora
nocivi, siccome anch’io ho accennato nel Governo della Peste; ed
alcuni ancora utili, perchè usati troppo spesso, o in troppa quantità,
potranno divenir pregiudiziali alla salute. Ma non per questo s’hanno
da screditare e sconsigliare universalmente alla rinfusa. Con tutto
il nostro bel dire egli non è certo che il coraggio, la fidanza
e l’intrepidezza sieno bastevoli a difendere il corpo umano dagli
assalti di questo potentissimo e feroce avversario. Adunque esige la
prudenza che aggiugniamo a questo anche altri preservativi, o esterni
o interni, i quali maggiormente si trovino commendati dalla sperienza
e dai saggi, a fine di ottenere con più sicurezza il grande intento
di salvare la vita d’un uomo. Purchè sieno riconosciuti per incapaci
in sè stessi di nuocere, e si prendano colla dovuta moderazione, e
solo nella necessità; che male si farà a valersene, quando, per parer
d’altri e per fondate ragioni, si può credere o sperare che riescano
di giovamento? Troppo distruggono queste nuove opinioni; e il saggio
ha da adoperarle con discretezza, altrimenti è da temere che si paghi
caro, cioè con lasciarvi la vita, la troppo poca stima delle opinioni
de’ vecchi e dei preservativi innocenti in tante altre pesti adoperati,
e giudicati giovevoli. Meglio è fallare moltiplicando senza bisogno i
riguardi e i ripari, allorchè si tratta d’un sì poderoso nemico, che
trascurandoli o sprezzandoli tutti per bizzarria d’opinioni. E però sia
bensì l’intrepidezza uno de’ preservativi, ma non sia sola; e si ponga
mente anche ad altri mezzi che sempre più potranno custodire illesa
fra’ pericoli la salute del corpo.
In quarto luogo merita d’essere e ricordata e lodata, siccome molto
ingegnosa, l’opinione d’alcuni dottissimi uomini dell’età nostra, che
son d’avviso consistere la peste, non meno de’ buoi che degli uomini,
in certi maligni sottilissimi vermicciuoli che corrompono il sangue e
gli umori del corpo, e che la propagano col moltiplicarsi e insinuarsi
ne’ panni e nelle persone di chi vi si accosta. Così hanno creduto, per
tacer d’altri, il celebre P. Kirchero e il vivente rinomatissimo signor
Vallisnieri; e non ha molto in Milano l’ha sostenuta il soprallodato
signor medico Corte in una sua lettera stampata intorno alle cagioni
della peste. Ma per quanto accennai nel lib. 2, cap. 10 del Governo
della Peste, è ben soggetta a molte difficoltà una tale sentenza.
Imperocchè traspirando pei fori della gente appestata corpicciuoli
atti ad infettar altre vicine persone, ed essendo anche portati per
l’aria, con restarne in qualche maniera impregnato l’ambiente degli
infetti, bisogna per conseguente ammettere una mirabil sottigliezza in
questi pretesi vermicciuoli, e farli volare per aria vivi e compiuti,
e dar loro quella mole stranamente minuta che noi diamo agli spiriti
che escono del corpo. Io vo’ mettere che non sia assurdo l’immaginare,
nè impossibile il trovare di questi per così dire atomi animali,
incomparabilmente minori degli acari, ma certo è difficilissimo
il provare o mostrare che esistano o sieno essi i promotori e
disseminatori della peste. Che se si trovano vermi ne’ corpi appestati,
forse non ne vanno senza gli umori del corpo anche fuori de’ tempi di
pestilenza, ed anche in sanità. E poscia sì fatti vermi dovrebbono
appellarsi effetti più tosto che cagioni d’esso morbo, e tanto più
perchè, osservati in qualche persona infetta, non saranno mai di quella
estrema mirabil minutezza che necessariamente bisogna supporre in essi,
se hanno da galleggiare, o sia nuotare e muoversi per l’aria. Oltre
di che se il sangue o altri fluidi sono il loro elemento, come poi ne
vivono fuori? Come si mantengono vivi in panni e merci per molto tempo?
E ciò sia detto col rispetto dovuto ai filosofi di tanto nome, e alla
loro, se non vera, certo giudiziosa sentenza, potendo essere ch’eglino
sapranno ben dileguare queste ed altre difficoltà che potrebbono farsi;
benchè in fine poco giovi e poco importi se sieno animati o inanimati
que’ sottilissimi corpicciuoli che van facendo tanta strage sulla
terra, perchè in tutti e due questi sistemi l’hanno fatta, e la faran
tuttavia.
Intanto verrò io dicendo che dovendo noi cercare non il nuovo, ma il
vero, sembra più probabile e fondata, e soggetta a men difficoltà,
l’opinione antica e corrente, cioè: altro non essere la peste che
corpicciuoli, effluvj, atomi e particelle sottili e velenose, le
quali, o sia, come anch’io credo, sempre vivo il loro seminario nei
vasti paesi dell’Asia e dell’Affrica, che ne vanno regalando talvolta
anche l’Europa, o sia che essi talvolta spuntino fuori per accidental
corruzione in qualche popolo, penetrano nelle interne parti dell’uomo,
ed ivi con subitanea ferocia sconvolgendo gli umori e atterrando
gli spiriti, cagionano quei tanti sintomi che sono descritti nella
Relazione di sopra, conducendo in tal guisa le persone a pagare con
gran fretta il tributo della natura, se pure non le aiuta il benefizio
degli emuntorj, a’ quali tenta naturalmente la massa del sangue
infetto di condurre il maligno fermento per isgravarsene. Non occorre
cercare se questi velenosi corpicciuoli sieno di arsenico o d’altra
sorta di veleno. Basta sapere che possono appellarsi veleno, da che
producono lo stesso effetto che il veleno; e può dirsi che fra tanti
veleni, tutti possenti ad atterrar l’uomo, la peste ne sia uno che
formi una sua specie particolare. Se crediamo al signor Chicoyneau,
la forza d’uccidere non è già in questi corpicciuoli, ma sì bene loro
la dà la mala disposizione de’ corpi umani, ne’ quali per avventura
abbiano essi l’adito. Non mi metterò io a negare risolutamente questa
partita; anzi dirò di giudicarla assai probabile, per non dir certa,
ma in forma differente da quello che crede il medico suddetto. Per
cattiva disposizione egli intende il trovarsi nel corpo umano troppa
copia di sangue o d’altri fluidi, o pure questi indigesti e crudi,
ovvero l’animo tutto sconvolto da qualche gagliarda passione. Io per
me tengo che un’altra più larga e a noi occulta disposizione d’umori e
di spiriti si richiegga nell’uomo, affinchè gli effluvj pestilenziali
possano ivi esercitare la loro attività. Perciocchè alcuni, anche
paurosi, anche melanconici, anche malsani, non risentono verun danno
dal praticare con appestati; e coloro che son colpiti una volta da
questo atrocissimo morbo, e ne guariscono, d’ordinario sono sicuri
di non provarlo più. Lo stesso avviene de’ vaiuoli, della rosolia, e
di simili morbi, che non cagionano i lor maligni effetti nel corpo
umano, se prima in esso corpo non trovano una disposizione che è
incomprensibile a noi ed occulta. E può osservarsi il medesimo arcano
in altri morbi epidemici, endemici e sporadici. Ora io crederei più
proprio e più fondato il dire che i corpicciuoli pestilenziali quei
sono che seco portano l’abilità e forza di sconcertare ed abbattere il
microcosmo umano, e non già che loro la somministri l’interna cattiva
disposizione dell’uomo, avvegnachè senza tal disposizione non sogliano
essi far uso della lor fierezza. Quello che più importa si è, che
dovendo ogni persona in tempi di peste dubitare e temere di portare
dentro di sè una disposizione a contraere questo terribil male, dee per
conseguenza camminar con riguardo, e molto più studiosamente cercare di
preservarsi, che non fa chi, non avendo mai provato i vaiuoli, desidera
anche di non provarli giammai.
Ma un’altra rilevantissima osservazione vo’ io qui aggiugnere,
accennata già nel Governo della Peste, non che io osi tenerla e
spacciarla per certa e indubitata, ma perchè a me sembra almeno
probabilissima, e da avervi particolar attenzione in tempi di tanta
miseria. Coloro che non hanno allora bisogno alcuno di trattar con
gente infetta o sospetta, stieno pure alla ritirata, abbondino in
preservativi anche inutili, e studino tutte le cautele anche superflue
e vane; che in fine meglio è, trattandosi d’un sì feroce nemico,
eccedere nella troppa che nella troppo poca difesa. Ma tanti altri ci
sono, che per necessità o del loro impiego caritativo, o del vitto,
non possono a meno di non conversare con appestati, e debbono toccarli
e maneggiarli: ora che preservativi debbono essi portare con seco?
Quanti ne possono, rispondo io, ed anche una carretta; ma insieme
aggiungo, inclinar io forte a credere che si debba ridurre, e si riduca
in fatti, ad un solo punto il gran segreto per preservarsi dalla peste
(anche trattando con chi ne è già tocco, anche stando in mezzo alle
città appestate), cioè al saper difendere dagli spiriti ed effluvj
pestilenziali le due porte della umana respirazione, voglio dire il
naso e la bocca. Il che dicendo, non escludo mai, anzi amo sempre in
compagnia di questo preservativo l’altro del coraggio e della fidanza,
con escludere que’ brutti ceffi del terrore e della malinconia. So che
la comune sentenza vuole che anche per la cute s’introduca la peste.
Ma ecco i motivi che io ho da dubitarne: e non sarà inutil cosa che
valenti filosofi e medici ne facciano un più accurato esame. Già abbiam
premesso come sentenza più probabile dell’altre che la peste consista
in corpicciuoli e spiriti sottilissimi e velenosi. La struttura del
corpo umano vivente è costituita in maniera che col calore e moto del
sangue e col vigore elastico dell’aria inchiusa ne’ vasi e respirata
continuamente sta in esso una tensione al di fuori; cioè per un
certo meccanismo gli spiriti ed umori sono in qualche forma spinti
e inclinati ad uscir fuori per tutta la circonferenza del corpo. In
effetto quasi sempre per li pori della cute vanno insensibilmente
uscendo spiriti e particelle dal corpo umano in tal guisa, che secondo
la statua del Santorio, una tal traspirazione ogni dì ascende a una
considerabile quantità.
Ciò posto, facilmente s’intende come entrati nell’uomo essi spiriti
velenosi, e introdotto nel sangue e negli altri umori un pessimo
fermento, ivi si formi una fierissima corruzione, per cui gli spiriti
ed umori prima sani, si rendono maligni ed omogenei al fermento
entrato, ed agitati forte scappano poi fuori anche per li pori, non
che pei soliti meati della respirazione, potendo essi per conseguenza
portar l’infezione ad altri non infetti. Ma sarà ben difficile il
provare che tali spiriti ed effluvj pestilenziali possano introdursi
per i fori della cute in un uomo, da che loro è chiuso l’adito e fatta
resistenza dagli altri spiriti ed umori che per l’interna pressione
traspirano o cercano di traspirare dal corpo d’ognuno. La forza che
dal di dentro spinge al di fuori, è evidente nella struttura degli
animali. Ma, giacchè l’attrazione è omai troppo screditata fra i
migliori medici, si penerà ad assegnare una forza al di fuori che possa
cacciar dentro per via de’ pori una torma di spiriti velenosi, e tale
da vincere l’opposta interna forza, che tende ad espellere; e tanto più
perchè l’accuratissimo Malpighi nel suo Trattato dell’Organo del Tatto
osservò formarsi della cuticola ne’ vasi escretorj del sudore una certa
pellicella convessa, che a guisa di valvula sembra impedire l’ingresso
ai fluidi esterni.
Si può forse dare che applicati con forza alla cute dell’uomo alcuni
corpi, come unzioni, liquori, empiastri, cataplasmi, ecc. possono
introdurre pei fori qualche lor particella sottile; benchè più
probabilmente sia da chiamar bene spesso un’illusione quel credere
con tanta facilità che tali corpi applicati al di fuori operino con
penetrare ne’ corpi per la cute, quando essi solamente giovano, se pur
giovano, o con difendere dall’aria nociva, o con fomentare il calore
nelle parti offese o pure con ammollire, cioè con rarefare i pori, pei
quali poi esce sottilizzata l’interna nociva materia; o finalmente col
penetrare, non già per la cute, ma per la bocca o pel naso, nel corpo
umano mercè delle particelle sottili ed odorose, nocive o giovevoli che
vanno da essi emanando. Non parlo dei caustici, perch’essi colle loro
particelle aguzze ed infiammatorie rompono la tessitura della cute,
applicate ad essa, e si fa sentire al di fuori la loro operazione.
Parimente non parlo nè delle cantaridi, nè del mercurio esteriormente
applicato nelle unzioni, perchè ne’ medesimi possono concorrere delle
ispezioni particolari.
La maniera con cui ne’ corpi viventi operano, o nocendo o giovando, gli
altri corpi, non rade volte si asconde anche agli occhi più acuti di
chi contempla la natura; e molte sentenze passano per vere solamente
perchè ci riposiamo sulla corrente degli scrittori e dell’uso, ma
non perchè un diligente esame ci abbia persuasi della loro verità e
certezza. Serva per esempio la torpedine. Tanti e tanti, sì antichi
come moderni, hanno insegnato avere in sè quel pesce la virtù
d’istupidire la mano che il piglia; e ciò appunto potrebbe rammentarsi
per provare che certi spiriti velenosi trovano benissimo l’adito per
penetrare dentro la cute dell’uomo. In fatti non è questa una favola,
avendone fatta la prova anche l’attentissimo Redi, il quale nondimeno
confessa che bisogna stringer forte la torpedine, se ha da cagionare
stupore e dolore nel braccio. Veggasi ancora il Willugby nella Storia
de’ Pesci. Ma il celebre Borelli avendo con più attenzione e con
esperimento più esatto esaminata questa faccenda, tiene non operar
la torpedine per qualche aura velenosa che da lei si tramandi, perchè
toccata e maneggiata quando essa riposa, ed anche prendendola stretta
colla mano nelle parti laterali, non nuoce. Allora dunque solamente
induce stupore e dolore quando la mano stringe il torace di lei vicino
alla spina, dove sono de’ nervi e muscoli in gran copia; perciocchè
insorgendo in quel pesce un tremore e uno scotimento gagliardo, questo
si comunica alla mano e al braccio, cagionando in essi una sensazione
molesta, anzi insoffribile. Che poi il preteso veleno della torpedine
passi all’uomo fino per l’asta o per le funi delle reti, questa è
una frottola secondo il suddetto Borelli. Lo stesso probabilmente è
da sospettare d’altre simili immaginazioni. Comunque nondimeno ciò
sia, quand’anche si ammettano corpi che introducano nell’uomo le lor
parti sottilissime, verisimilmente si troverà ancora che da qualche
vibrazione o forza esterna sono introdotte sì fatte particelle. Ma ciò
non appare già ne’ corpicciuoli pestilenziali, che, siccome sciolti,
leggieri, svolazzanti e non applicati con forza, sembra per conseguente
che sieno incapaci di entrare per li forellini della cute, nè son già
descritti per corrosivi da potersi fare strada per essa. Anzi quando
anche il corpo avesse piaghe o ferite, non perciò questo veleno sembra
atto a penetrare e infettare per quella parte, giacchè tanti e tanti
commendano i cauterj per preservativo della peste medesima, e la rogna
vien creduta giovevole in tal tempo: il che è sommamente da notare.
Nè l’Elmonzio è un autore di tanto credito che s’abbia a riposare
sulla sua fede, allorchè narra che, capitata a certuno una lettera
scritta da città appestata, appena apertala, cominciò costui a sentirsi
nelle dita un dolore come di punture d’aghi, e appresso a tremare con
tutto il corpo; del che egli morì fra pochi giorni. O la storia non
sussiste, o se sussiste, può attribuirsi l’infezione di costui all’aver
egli bevuto gli spiriti pestilenziali chiusi nella carta col tirare
del fiato. Nè un altro simile esempio, poco però verisimile, recato
dal Diemerbrochio, può fare stato, perciocchè infiniti altri hanno
maneggiato e maneggiano corpi e robe infette senza provare puntura
veruna alle mani; il che parimente avvien tutto dì a coloro che toccano
altri veleni e materie mortifere, le quali se non entrano o per ferita
fatta, o pei canali del respiro, nessun danno recano alle persone. Nè
alcuno dei tanti medici i quali hanno conversato con sì gran numero di
appestati, e ci han lasciato le loro osservazioni su questo morbo, ha
mai accennato che l’accesso del medesimo si risentisse alla cute o per
qualche dolore, o anche per semplice prurito; siccome nè pure ciò si
osserva nella comunicazione de’ vaiuoli e d’altri malanni epidemici,
simili nel corso, benchè diversi nella ferocia dalla vera peste.
All’incontro una via certa e indubitata per nuocere all’uomo, l’hanno
i corpicciuoli pestilenziali, ed è quella del respiro; e questa è la
facile per introdurre il nemico in casa, e per portar tosto a dirittura
l’incendio nelle viscere e nel sangue; e questa è la confessata da
chiunque ha scritto di questo fierissimo morbo; nulla importando se
non ben sappiamo tutte le vie per le quali l’aria respirata si comunica
ad esso sangue, perchè basta sapere che si comunica. Dal corpo infetto
non v’ha dubbio che si fa una copiosa emanazione di effluvj per i pori
della cute e per la respirazione. Si diffondono per l’aria questi atomi
o spiriti maligni fino a quella distanza ove può giugnere la maggiore
o minore vibrazione che si fa dal calore che li spinge fuori, o pure
più lungi, se l’aria impregnata d’essi viene per avventura mossa da
altro corpo. Osservisi nondimeno che se l’aria commossa giugnerà a
segregare e diradare la massa di questi corpicciuoli micidiali, tanto
meno sarà da temer d’essi; e può essa facilmente disperderli in maniera
che quand’anche alcun d’essi si bevesse col respiro, pure non avrà
assai forza per nuocere. Chi dunque si troverà nell’ambiente di un
corpo appestato vivo (poichè de’ non viventi, quantunque appestati,
cioè de’ cadaveri, è cosa dubbiosa se s’abbia a temere) costui, se non
istà in guardia, in tirando il fiato, di leggieri si tirerà addosso
anche l’infezione, perciocchè verrà insieme coll’aria a tracannare
quegli spiriti maligni. Nè qui sta tutto il pericolo. Siccome accade
a chi maneggia corpi odorosi o sta loro vicino, e massimamente se
qualche calore o percossa mette in moto gli spiriti odorosi di quel
corpo, che le sue vesti e mani ed altre membra portino via con seco
di quelle particelle odorifere; così ai panni e ad altre robe degli
infetti e di qualunque altra persona che entri nell’ambiente dell’aria
da loro respirata e degli spiriti venefici emananti dal corpo loro,
insensibilmente si attaccano particelle pestilenziali, le quali
asportate possono lungi di là essere tirate col fiato da altri sani, e
comunicar loro l’infezione e la morte. E questa medesima, s’io mal non
m’oppongo, è l’economia con cui anche tanti altri malanni epidemici,
ma non così feroci e micidiali come la peste, cioè i vaiuoli, la
rosolia, i flussi di sangue, certe febbri maligne o petecchiali, ecc.,
si dilatano talvolta pel popolo, con cagionare pericolose malattie, e
morti non poche.
Ora posto questo sistema, il quale mi contento che nol creda vero chi
in occasione sì funesta può custodirsi col ritiro, dico che chiunque
è in necessità di praticar gente infetta o sospetta di peste, dee
farsi coraggio, e non figurarsi che il vedere un infermo di questo
terribil morbo, e il doversegli accostare e toccar lui e le robe sue,
abbia tosto a far cadere lui pure infermo o morto. Lasciata anche
stare quella natural disposizione che alcuni godono, e probabilmente
altri formano in sè stessi mediante l’intrepidezza, per resistere
agli spiriti micidiali della peste, purchè si studino essi di ben
difendere le suddette due porte della respirazione, hanno quasi
da tenersi in pugno la loro salvezza, anche trattando con persone
appestate. Tanti medici e cerusici ed ecclesiastici, ed altri che
hanno toccato e curato essi infermi o maneggiate le robe loro, ne sono
usciti illesi; non per altro, a mio credere, se non perchè seppero
custodirsi in maniera che non entrò col respiro nel petto loro effluvio
alcuno, procedente da corpo o robe infette; o se vi entrò, entrò
corretto, mortificato, o mutato da altri effluvj antipestilenziali
e preservanti. È un bell’esempio quello del sacerdote fiorentino che
con la spugna inzuppata o spruzzata di buon aceto (sarebbe lo stesso
di un fazzoletto) si preservò sempre in mezzo agl’infetti siccome si
raccoglie dalle Giunte che ho fatto al mio Governo della Peste. Ma
si può dire lo stesso di tant’altri che si sono salvati, dovendosi
per l’ordinario attribuire la lor salute a questa buona difesa. Che
se attestano i medici di Mompellieri che non venne loro danno alcuno
dal luogo lor conversare con tanti appestati di Marsiglia, quantunque
scrivano di non aver usato preservativo alcuno fuorchè quello del
coraggio, quanto più poi dovrà sperare di passarsela netta chi al
coraggio e all’intrepidezza aggiugnerà eziandio que’ preservativi che
possono impedire l’introduzione de’ corpicciuoli velenosi pei canali
del fiato, cioè per quella probabilmente unica via ch’eglino hanno per
nuocere?
Io so che anche riducendo a questo il pericolo d’infettarsi, non si
toglie perciò ch’esso pericolo non sia grandissimo. Ma da che si sa
da qual parte il nemico o il ladro ha da tentare l’entrata, egli non
è tanto difficile il mettersi in difesa. Già nel suddetto Governo
della Peste colla scorta dei migliori ho rapportato gran copia di
profumi e d’altri corpi odorosi, che per la maggior parte son atti o
a tener lontani, o a correggere in guisa gli effluvj pestilenziali,
che o non passino nelle persone, o passino senza ritener più la
possanza di nuocere. Dee ognuno studiarsi secondo la sua prudenza di
valersene, e con ricordarsi sempre di difendere sè stesso non solo
dagli altrui, ma anche da’ propri panni, con profumarli dipoi, qualora
si sia conversato con infetti o sospetti, ma senza sottilizzarla
tanto che si apprenda in ogni oggetto e movimento la propria morte.
Giungono alcuni a temere che fin le mosche ed altri insetti possono
apportar loro da qualche luogo infetto il congedo per l’altro mondo;
e chi credesse ad altri buoni scrittori di questo argomento, udirebbe
simili casi strani intorno alla maniera di prendere il morbo, e che
gli spiriti pestilenziali si conservano per anni e anni ne’ panni,
nelle funi, e infin nelle tele di ragno, con altre avventure che
fan battere forte il cuore a chi è figliuolo della paura. Ma oltre
a tanti rimedi e preservativi inutili e vani per la peste che si
leggono in certi libri di cerretani, vi ha ancora non poche favole
o immaginazioni alle quali non dee punto fermarsi l’uomo saggio e
coraggioso. Similmente dee deporsi la credenza che la peste venga
dall’aria corrotta, essendo ciò falso a riserva di quella che attornia
i corpi e le robe infette. Ed ogni minimo venticello, purchè possa
- Parts
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 01
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 02
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 03
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 04
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 05
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 06
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 07
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 08
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 09
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 10
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 11
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 12
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 13
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 14
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- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 16
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 17
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 18
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 19
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