Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 22

che il difendere, conservare e soccorrere i proprj sudditi, è un
debito patente del loro grado, e un interesse premurosissimo della lor
potenza, e che non possono altronde sperar gloria più grande quanto
dal ben soddisfare a questo ufizio. Sanno che il Signor Iddio nel
costituirli sopra il popolo gli obbligò a procurare più la felicità di
questo popolo che la loro propria; e che appunto dalla conservazione e
felicità dei sùdditi dipende la maggiore lor felicità e riputazione.
Il perchè, quando s’odono le minacce, o si prova il flagello della
pestilenza, i buoni principi prima degli altri sottopongono sè stessi
alle leggi ed ai riguardi comuni, per tener lontano questo fiero
nemico, e non portare in seno ad alcuno la rovina. Non permettono che i
lor ministri, dazj e gabelle sieno d’impedimento alla preservazione del
popolo; anzi stimano gran guadagno le perdite loro, se queste possono
contribuire alla salute del pubblico. In una parola, siccome veri padri
del popolo, non perdonano a spesa, diligenza e premura alcuna, per
salvare e sovvenire in tanta calamità la gente, consegnata alla lor
prudenza e carità dalla provvidenza divina, come se fossero tanti loro
figliuoli.
E qui merita d’essere rammemorato uno dei principi italiani del secolo
prossimo passato, per le sue gloriose azioni in occasion di contagio,
cioè Ferdinando II, granduca di Toscana. Entrò la peste in Firenze
nel 1630, e quel caritativo principe mantenne sempre del suo ed anche
con suntuosità i tre lazzeretti allora costituiti. Non cessando poi
la strage, si venne finalmente al ripiego di mettere sul principio
dell’anno seguente in general quarantena tutta la città, e nello stesso
tempo ancora tutti i luoghi del suo distretto; risoluzione che da tutti
i saggi fu creduta e provata in fatti per l’unico antidoto che estinse
affatto il male. Descritti pertanto gli abitatori tutti colla loro età,
condizione e sesso, emanò un editto che chi avea bisogno di vitto dal
pubblico, stesse per 40 dì in casa (si allungò poi questo sequestro
sei altri giorni di più per arrivare al principio della quaresima) nè
potesse sotto qualsisia pretesto uscirne senza licenza de’ deputati. A
chi potea vivere a sue spese, era prescritto che un solo ben sano della
famiglia potesse, con licenza però del maestrato in iscritto, uscir
di casa una sola volta il dì al suono d’una campana, per provvedersi
di quello che bisognava, con poter anche andare ai cancelli fuori di
tre porte per comperarne dai rustici affatto esclusi. Per i bisognosi
erano preparati magazzini di vino, olio, grano, farina, ecc., a’
quali soprintendevano nobili, portandosi alle case d’essi poveri la
porzione, cioè per ciascuna persona, senza riguardo di sesso o di età,
due libbre di pane, una misura di vino e mezz’oncia di sale ogni dì,
mezza libbra di carne ogni tre dì della settimana, e negli altri giorni
due uova o talvolta due once di cacio, oltre a certa distribuzione di
olio, aceto, fascine, ecc., nel che quella città impiegò rilevantissime
somme di danaro. Dì e notte i soldati battevano la pattuglia, e due del
maestrato della sanità andavano ogni dì girando a cavallo per udire
il bisogno di tutti. Ora durante la suddetta quarantena il granduca
Ferdinando, non contento di tanti altri atti del suo amore, che qui
tralascio, verso il suo popolo, non lasciava giorno, quantunque la
stagion fosse rigida, che anch’egli non passeggiasse per le contrade,
consolando i mestissimi sudditi, ascoltando le lor necessità e
provvedendo a tutto; atto veramente eroico di un principe vero padre
del suo popolo.
È chiara l’obbligazion dei laici di soccorrersi l’un l’altro in tempi
di tanta miseria; ma molto più senza fallo dovranno allora accendersi
di carità e giovare al prossimo, gli ecclesiastici sì secolari, come
regolari. Parla da per sè questa verità, ed è superfluo il citare
autori. Per l’obbligo ch’essi hanno di dar buon esempio agli altri, e
per debito della lor professione, che è d’essere più virtuosi degli
altri, siccome entrati nella sorte ed eredità del Signore, questo
medesimo Dio richiede e aspetta da loro nelle calamità della pestilenza
ogni ufizio di carità fraterna. Chi può colla roba, dee soccorrere con
essa alla miseria del popolo; chi non può con questo, vegga di potere
colla persona o in altra forma. I vescovi spezialmente sono a ciò
obbligati dai sacri canoni e dai ss. Padri. E per conto della roba,
è da ricordarsi che se bene gli ecclesiastici che godono commende,
abbazie e benefizj, o semplici o curati, conceduti loro dalla Chiesa,
son tenuti in ogni tempo sotto pena di grave peccato a distribuire
in usi pii, e massimamente in benefizio de’ poveri, le rendite d’essi
beni, con potersi eglino solamente riservare quello che è necessario
all’onesto e non pomposo loro sostentamento, pure allorchè infierisce
la pestilenza, cresce questo obbligo, dovendo eglino vivere allora più
frugalmente che mai, e sottrar molto alle loro comodità, per rimediare
in quel che possono ai tanti incomodi ed affanni che il popolo è
costretto allora a sofferire. Le rendite della Chiesa, per comune
sentenza de’ concilj, de’ ss. Padri e de’ teologi, sono _Bona Christi,
Pauperum Patrimonia_. Quando mai è più proprio il tempo che i poveri
godano il frutto di questi lor patrimonj, che nelle estreme necessità
e sciagure d’una pestilenza? E quand’anche non ci fosse questa
obbligazion precisa, imposta dalla Chiesa, anzi, per così dire, dalla
natura stessa, a tutti i benefiziati di qualunque ordine e grado che
sieno, dovrebbe essere più che sufficiente a muovere gli ecclesiastici
che possono, all’altrui sovvenimento, l’aspetto e la considerazione di
tante miserie, nelle quali è allora involta l’infelice plebe, se pur
eglino han cuore in petto e si ricordano d’essere servi dichiarati di
Cristo, e ministri del vangelo e da chi eglino han ricevuto que’ beni
stessi. Ma che sarebbe poi, se taluno del clero, in vece di contribuire
le sue sostanze in sollievo de’ miseri, s’industriasse di far anche
guadagno sulle sciagure altrui, e facesse servire il suo contribuir
soccorsi spirituali al popolo per veicolo de’ proprj temporali
profitti?
Corre poi questa medesima considerazione anche per i luoghi pii e per
qualunque monistero, convento e comunità religiosa benestante, dovendo
anch’essi contribuire il loro superfluo, anzi assai più del superfluo,
con risparmiar quanto possono allora, per soccorrere quel popolo, onde
eglino una volta riceverono i beni temporali. Guglielmo, abate di S.
Benigno di Digione, o sia Divionense, uomo di santa memoria, nel secolo
XI tornato d’Italia, trovando che i suoi monaci aveano la dispensa e
il granaio pienissimo, e che contenti di dare ai poveri l’ordinaria
limosina, non soccorrevano ad essi come potevano, sdegnato sbalzò
su dalla sedia, e girando pel monastero non si saziava di replicare
o con alta o con bassa voce: _Ubi est charitas? Ubi est charitas?
Dove è la carità?_ Quindi fece chiamare i poveri e distribuir loro
quanto gli venne alle mani e ai monaci che voleano dipoi placarlo,
andavano pure rispondendo: _Ubi est charitas?_ Anzi nelle calamità
d’un contagio nè pure si hanno allora a lasciare in dietro i ricchi
arredi e i vasi sacri delle chiese; ma conviene, o è necessario il
convertirli in soccorso de’ poveri, qualor ne corra il bisogno. Non
solo non sarà disgradevole a Dio un impiego tale delle oblazioni a lui
fatte, ma anzi sarebbe a lui troppo disgradevole, se non si facesse
e se l’umano interesse, furtivamente ammantandosi delle vesti della
pietà e religione, trovasse colori e via per consigliare il non farlo.
Premono più senza fallo al Signore i poveri, cioè la sua famiglia,
e i tempj animati dello Spirito Santo, che gli ornamenti esterni del
tempio materiale, i quali sono bensì lodevoli e parte ancora necessarj,
ma senza che sia necessaria anche la lor ricchezza ed abbondanza. Io
potrei provare più diffusamente questa sentenza, se credessi che alcuno
ne avesse bisogno. Basterà pertanto il ricordare qui che S. Giovanni
Grisostomo, S. Girolamo, S. Bernardo ed altri SS. Padri non lasciano
dubitarne, da che eglino non hanno molto lodato chi fa servire senza
necessità al lusso dei sacri tempj ciò che sarebbe meglio impiegato in
soccorso delle necessità dei poveri. Ma più degli altri, parla chiaro
un altro dottore della chiesa, cioè S. Ambrosio nel lib. 2, cap. 28
_de officiis_, le cui parole furono poi riferite da Graziano nel c.
_Aurum_ 13, _Qu._ 2. Eccone alcuni sensi: _Hoc maximum incentivum
misericordiæ, ut compatiamur alienis calamitatibus; necessitates
aliorum, quantum possumus, juvemus, et plus interdum quam possumus,
etc. Aurum ecclesia habet, non ut servet, sed ut eroget, et subveniat
in necessitatibus. Quid opus est custodire, quod nihil adjuvat?
Nonne melius conflant sacerdotes propter alimoniam pauperum, si alia
subsidia desint? etc. Nonne dicturus est Dominus: Cur passus es tot
inopes fame mori? Et certe habebas aurum, ministrasses alimoniam. His
non posset responsum referri. Quid enim diceres: Timui ne templo Dei
ornatus deesset? Responderet: Aurum sacramenta non quærunt. Ornatus
sacramentorum redemtio captivorum est. Vere illa sunt vasa pretiosa,
quæ redimunt animas a morte, etc. Numquid dictum est S. Laurentio:
Non debuisti erogare thesauros ecclesiæ, vasa sacramentorum vendere?_
Veggasi il resto. Basterà qui a me in luogo d’ogni altro esempio quello
del B. Ricardo abate di S. Vitono di Verduno. Nell’orrenda mortalità
cagionata dalla fame nell’anno 1028 che desolava la città, quell’uomo
di Dio, per quanto narra Ugone Flaviniacense nella sua cronaca: _dopo
aver distribuito alla povera gente quanto aveva, non perdonò ai tesori
della sua chiesa; anzi vendute le cose più preziose d’essa a quella
di Rems, ne distribuì subito il prezzo ai poveri, de’ quali ancora
ritenne presso di sè un determinato numero per alimentarli. Inviò
ancora lettere e messi ai re, principi e vescovi suoi amici, chiedendo
soccorso di carità a tutti. Impegnò ancora i beni del monastero_ per
soccorrer pure in quante maniere poteva alla miseria del popolo. Questi
sono santi, questi esecutori veri della mente di quel buon Padre che
abbiamo in cielo.
Ma il più eccellente atto di carità che possa farsi in tempo di peste
verso il prossimo, e per conseguenza verso Dio, da cui vien ricevuta
come fatta a sè ogni opera di misericordia che esercitiamo verso il
prossimo nostro, purchè accompagnata da essa carità e dall’intenzione
di piacere allo stesso Dio, si è l’esporre allora la propria vita
in soccorso degli appestati e spezialmente nei lazzeretti, o per
medicarli, governarli e cibarli o per aiutar l’anime loro alla
pazienza, ovvero al passaggio dell’eternità coi sacramenti e con
altri mezzi della pietà e carità cristiana. Certo che di un sommo
merito presso Dio si è ancora l’attendere con indefesso studio alla
preservazione dei sani e del povero popolo, e il sovvenir loro
con aiuti temporali o spirituali; e massimamente perchè ciò non
può farsi d’ordinario senza esporsi a molti rischi di lasciarvi un
giorno o l’altro la vita. Ma il vedere allora persone non solamente
ecclesiastiche, ma ancora secolari che volontariamente e senza obbligo,
rinunziano a tutte le speranze della vita terrena, e, lasciata al
Signore la cura della lor sorte, corrono piene d’allegrezza e di
coraggio, e accese del fuoco celeste della carità, al governo e
soccorso o temporale o spirituale degl’infetti; questo è uno spettacolo
degno degli occhi del paradiso, e che supera tutti gli altri, e che non
si può abbastanza lodare da noi, ma si saprà ben premiare infinitamente
ed eternamente da Dio. Quando anche la morte accada in così eroico
e santo ministero, il morire, quantunque non sia propriamente un
martirio, pure è una similitudine o spezie di martirio, siccome
il P. Teofilo Rinaldo mostra in un suo trattato. E S. Bernardino
coll’autorità delle Scritture prova in una delle sue prediche
quaresimali che se un assassino, un ladro o altro più gran peccatore,
corresse in soccorso di qualche appestato abbandonato dai suoi e in
pericolo di perdere per la disperazione il corpo e l’anima, a fine
di confortarlo e di aiutarlo a salvarsi, mosso a ciò da vera carità
cristiana, cioè da un eroico amore di Dio, e costui in sì pio ufizio
venisse colpito dalla peste, e tanto improvvisamente morisse che non
potesse pensare a’ suoi peccati, nè confessarsi, egli si salverebbe,
mercè di quell’atto coraggioso di santissima carità, tanto commendata
da Cristo, e contenente in sè virtualmente anche la contrizione.
Ed appunto in questa scuola di carità si segnalarono i cristiani
d’Alessandria a’ tempi di S. Dionisio, e in altre pestilenze e
mortalità S. Cipriano, S. Gregorio taumaturgo, S. Cutberto, S. Antonino
arcivescovo di Firenze, il venerabile Girolamo Emiliano, S. Gaetano, il
B. Luigi Gonzaga, e tanti altri vescovi e santi: in questa incominciò
Bernardino da Siena, giovane di venti anni, con dodici altri pii
giovanetti il noviziato della sua santità; in questa finalmente fece il
santo arcivescovo di Milano Carlo Borromeo sì mirabili azioni ch’elle
non si possono leggere nella sua vita senza lagrime di tenerezza. Così
in altre pesti si son veduti divoti e generosi secolari dell’uno e
dell’altro sesso, sacrificare al Signore ogni riguardo di questa vita
terrena, per servire e soccorrere i poveri infermi. E gli ecclesiastici
secolari, non meno che gli ordini religiosi, hanno spesse volte fatto a
gara nel contribuire (anche sopra le loro forze, e con tirarsi addosso
non pochi debiti) o aiuti spirituali, o pur grani, medicamenti ed
altri simili soccorsi della lor carità; essendosi in oltre quasi sempre
distinti nell’assistere o al governo, o alle confessioni della gente
infetta, i PP. cappuccini e i PP. della compagnia di Gesù con dare
molti di loro lietamente la vita per la salute del prossimo loro.
E non è già che tutti poi questi generosi servi del Signore sieno
mancati di vita in mezzo alle morti altrui. Di moltissimi ha accettato
il medesimo Dio la prontezza, ed offerta di morire nel Suo santo
servigio, ma gli ha voluti anche preservare sani e gli ha risanati
infermi. Tuttavia si mirano in Firenze appesi ad un altare nella chiesa
delle Carmelitane, per voto fatto a S. Maria Maddalena de’ Pazzi, gli
abiti che portava nella peste della nostra città l’anno 1630 il P.
D. Vincenzo Maccanti fiorentino, cherico regolare teatino, il quale
intrepido sino al fin del contagio assistè agli appestati; cioè una
sopravveste e una sottanella ambedue di cuoio, una stola bianca, due
stivali e un’ombrella pure di cuoio, con altri arnesi. Mi contento
di questo solo esempio, perchè sono infiniti gli altri ecclesiastici,
medici, cerusici, serventi, ecc., che non risentirono infezione alcuna
dal praticare fra tanti infetti. Anzi parrà incredibile, e pure
viene attestato, come fatto patente e notissimo da Auberto Mireo,
dall’Elmonzio, da Antonio de Lions, che la pia confraternità di S.
Eligio instituita in Fiandra e in Normandia, prova una particolar
protezione da Dio per la lor carità verso gli appestati. Assistono
essi agl’infetti, ne toccano le piaghe, i cadaveri, e pure si
mantengono illesi in questo caritativo esercizio, e tornando alle lor
case non portano la rovina alle lor famiglie. Che che sia di questo,
so bene che per attestato del P. Marchino nella peste di Firenze
del 1631 i confratelli della misericordia, almeno in due per volta,
accompagnavano i morti alla sepoltura in una debita distanza con lumi
accesi, fermandosi poi fuori delle porte della città, nè si vide che
alcun d’essi morisse di peste. Qui nondimeno reputo io necessario il
ricordare, non doversi nè pure chi con una vocazione sì degna d’invidia
tutto allora si sacrifica a Dio, tralasciar le umane cautele, e i
riguardi e preservativi, per tener lungi da sè il morbo e la morte.
Il fare altramente, sarebbe un tentare Iddio, e uno scialacquare que’
giorni che la carità vorrebbe impiegati nel corso intrapreso per
benefizio del popolo. Perciò sarà loro cura di andar continuamente
premuniti con vesti incerate di tela Sangallo, o di seta, o di cuoio
sottile (il che è meglio) e con odori e profumi, e con aceto ed altri
alessifarmaci, e di guardarsi dall’affaticarsi in maniera da sudare
e da rendersi con ciò più atti a contrarre l’infezione, dovendosi
eglino conservare, se non a sè, almeno al prossimo, lasciando poi
che il celeste Padre disponga, come a lui parrà meglio, della loro
vita. Portino ancora berrette di cuoio, e giunti alle proprie stanze,
benchè non sudati, mutino spesso camicia e vesti, esponendo le altre
all’aria. Nel lazzeretto di Firenze per relazione del Rondinelli, i
PP. cappuccini che ne avevano cura, si governavano nella seguente
forma per non infettarsi. Pigliavano della bambagia rassodata, e
tuffandola nell’elisire, si turavano con essa le narici e le orecchie,
perchè il cattivo fiato degli appestati non penetrasse, o penetrando
restasse corretto dall’altro odore confortativo della testa. In bocca
tenevano incenso o solfo; e quando uscivano, si cavavano la bambagia e
lasciavano libera la bocca, bagnandosi tutto il capo con acquarello di
elisir-vite, perchè non è tanto potente. Avevano due abiti, l’uno, col
quale stavano nel lazzeretto, mutandolo la sera e facendolo profumare
con incenso, mentre il solfo dava loro troppo fastidio, e si mettevano
l’altro. Si lavavano di quando in quando la persona con aceto,
ovvero con qualche bagnuolo odorifero. E tale era la lor maniera per
difendersi.
Finirò con accennare una particolarità degna di essere tenuta a
memoria, e registrata dal P. Teofilo Rinaldo della compagnia di
Gesù, in occasione di parlare della peste che afflisse Lione a’ suoi
tempi, cioè l’anno 1629. Dopo aver egli narrato in quante maniere
esercitassero allora i PP. Gesuiti la loro carità in pro del popolo,
aggiugne che quantunque molti d’essi religiosi stessero nella loro
chiesa quasi continuamente esposti a confessar la gente, pure niuno di
que’ confessori fu mai toccato dalla peste. Due soli, che non andavano
mai, o di rado andavano a quel santo ministero, e si credevano più
sicuri dal pericolo con lo star ritirati, morirono di pestilenza, ad
esempio nostro, che non si ha da mettere la speranza della sanità nella
ritirata, quando non assista Iddio, e che chi è assistito dalla sua
misericordia, può andar franco in mezzo a tutti i pericoli. Perirono in
quell’occasione anche molti sacerdoti secolari per aver data solenne
sepoltura ad alcuni morti, come non morti di peste, secondo le fedi
false dei medici, e per aver toccato danari ed altre robe loro date
dai penitenti. Del resto nota il medesimo scrittore essere stato
il popolo di quella numerosa città in mezzo alle terribili angosce
della pestilenza sì divoto, sì compunto e disposto a ricevere dalla
mano di Dio qualunque sorte, e con tal disprezzo delle cose caduche
di questo misero mondo, che parevano persone della primitiva Chiesa.
Chi potè colla roba, aiutò; chi era povero, colla fatica e con altri
atti di carità. Inspiri il Signore Iddio a tutti i popoli fedeli, e
massimamente al nostro, in tutti i tempi, e molto più quando egli
volesse visitare un giorno con mano più pesante i nostri peccati,
questo spirito di rassegnazione, penitenza e carità, per l’amore
ch’ei porta al suo dilettissimo figliuolo, Gesù, e faccia che i mali
temporali servano a noi d’incentivo a maggiormente temerlo ed amarlo, e
di scala a goderlo un dì nel regno della sua carità.


CAPO VII.
_Pietà e divozione quanto necessarie in tempo di pestilenza.
Malvagità d’alcuni, che diventano allora peggiori. Quali prediche
si convengano per costoro. Esercizi per accrescere e nutrire
la pietà. Lezione spirituale, orazioni vocali, meditazioni e
giaculatorie._

Sempre dovrebbe la pietà, o sia la divozione, essere il mestiere de’
cristiani, ma specialmente ha da essere nelle influenze pestilenziali.
Ognuno allora ha più che mai bisogno del potente soccorso di Dio
per preservarsi in vita. L’offenderlo, o l’essere in disgrazia
di lui, certo non è un mezzo proprio per prometterlo a sè stesso.
Ognuno conosce che stando allora la morte ai fianchi di tutti, v’ha
bisogno di sempre andar preparato pel gran viaggio dell’eternità,
e per conseguente d’intendersela bene con chi ha in suo pugno di
farci eternamente felici, o eternamente miseri. E pure, di che non è
capace la corrotta ed infelice natura degli uomini? Ho gran pena ad
accennarlo, ma pur si dee accennarlo per istruzione nostra. In quei
miserabili tempi, la sola relazione de’ quali, non che l’aspetto
effettivo, dovrebbe pur bastare per santamente atterrirci tutti e
condurci totalmente a Dio, in que’ tempi, dissi, non mancano persone
che non solo non diventano migliori, ma più che mai s’immergono ne’
peccati con temerario sprezzo di Dio, giudice onnipotentissimo, e con
pazza dimenticanza del grande interesse dell’anima loro. Alcuni pur
troppo intuonano il _Mangiamo e beviamo, che domani morremo_; ed altri
già descritti dalla divina Sapienza si fanno animo l’uno all’altro con
dire: _Godiamo dei beni finchè li abbiamo; coroniamoci di rose prima
che marciscano; nè ci sia prato per cui non passi la nostra lussuria_.
Peggio fanno altri, i quali, figurandosi di portar seco un’infallibile
salvaguardia, non credono che la peste abbia veleni per loro, e però
si danno a ladrerie e ad ogni altra sorta d’iniquità ed eccesso. Non
si crederebbono cose tanto stravaganti se la sperienza non le avesse
più volte fatto vedere, e non fosse ancora per rinnovarne gli esempi.
In somma è pur troppo vero ciò che anche il grande arcivescovo S.
Carlo diceva d’aver conosciuto per prova nella peste de’ suoi tempi,
cioè: _Che il buono si emenda sotto il flagello, e il cattivo sempre
peggiora_.
Ora contro tali pazzi ed empj egli è necessario che vegli e s’armi in
primo luogo la giustizia dei principi, gastigando immediatamente e con
qualche rigore certi delitti enormi, o pure pubblicamente scandalosi,
ove sia con loro mischiata la disubbidienza agli editti allora
pubblicati dal buon governo; e ciò per salutevol terrore ed esempio
degli altri. Benchè non sarà tanto facile il commetterne di questi,
ove si proceda con quelle provisioni e leggi che si sono proposte in
trattando del governo politico. Contro certi altri delitti che non
appartengono alla giustizia punitiva del fôro o per la loro qualità, o
per la loro segretezza, ma che senza fallo non fuggiranno gli occhi di
Dio, dee in quei tempi sfavillare più che mai lo zelo e l’eloquenza de’
predicatori e confessori, inculcando a questa gente cieca e dimentica
di sè stessa, ora con aspri ed ora con piacevoli modi, ma sempre con
paterna censura, il tremendo giudizio di Dio, la sua gran giustizia,
la sua immensa potenza in gastigare i figliuoli ribelli ed ostinati.
E conciossiachè a certe persone di scorza dura, e tali ordinariamente
non per altro se non perchè credono poco, essendo la divina virtù
della fede troppo languida in esse, non fanno gran forza, nè mettono
terrore certi esempi ed insegnamenti delle sacre Scritture, appunto
perch’esse credono poco, bisogna dar di piglio anche alle ragioni umane
e filosofiche, per levar loro di mente, se fia possibile, gl’incanti
delle loro passioni e la sciocchezza de’ loro consigli e raziocini.
Gioverà per tanto dilucidar loro questi inganni, e mettere in mostra
tutto il pericolo e l’orror della morte imminente che quegli infelici
mirano ben allora con gli occhi del corpo, ma non già con quei
dell’anima, e quindi passare a far conoscere quanto sia folle e nemico
di sè stesso chi in tempi tali va sì malamente spendendo i forse pochi
momenti che gli restano di vita e quanto sia terribile il cadere nelle
mani di Dio vivo e vero, giustissimo punitore delle offese e degli
strapazzi contro di lui usati, e usati con tanto sprezzo di lui, perchè
in tempi sì fatti; e quanto in fine sia necessaria a tutti la penitenza
e la divozione e pietà, per preservarsi allora dalla morte temporale, e
molto più dall’eterna. S. Gregorio il Grande, scrivendo appunto della
pestilenza a Domenico vescovo di Cartagine, nell’epist. 41 del lib. 8
già ci avvertì che _Inter flagella positos, flagellis digna committere,
contra ferientem est specialiter superbire, et sævientis acrius
iracundiam irritare_.
Ma per tali miscredenti ed iniqui, che finalmente poi, allorchè il
flagello di Dio fa una lesione cotanto sensibile ai peccatori, si
riducono a poco numero, pongasi mente di non atterrire la maggior parte
del popolo che o è buona da lungo tempo, o certo allora si dà di vero
cuore al pentimento de’ suoi peccati. A questi si ha da dire che non
si parla, ma sì bene a certi ostinati, per i quali hanno anzi tutti
gli altri veramente pentiti e compunti e tutti i buoni da implorar con
preghiere la divina misericordia che li muova e converta. Colla gente
già buona, o divenuta buona nelle calamità, io torno a ripeterlo, non
si ha allora da metter mano al terrore, ma sì bene alle consolazioni,
parlando della infinita clemenza di Dio verso chi daddovero ricorre a
lui, e inanimendo, e confortando chi fa profitto dei gastighi di lui.
Corrono bene; non bisogna avvilirli nel corso, servendo già loro di
sprone la terribil faccia della stessa pestilenza.
Appresso è da promuovere la pietà nel popolo, in guisa però che non
si contravvenga alle sagge regole del governo politico con adunanze
pericolose, o pure con disubbidienze che dispiacerebbono al medesimo
Dio. Prescriverà dunque il vescovo certe regole di vita cristiana,
orazioni vocali, meditazioni, ed altri simili esercizi di vera
pietà; o pure, non facendolo il vescovo, ognuno si aiuterà da sè
stesso, e potrà essere aiutato dai confessori e predicatori. Gioverà
pertanto leggere allora più che mai libri divoti che trattino delle
tribolazioni, per imparare da essi la maniera cristiana di tollerarle;
ed altri che insegnino la vita divota e la perfezione, per unirsi
bene a Dio, e rassegnarsi al suo santo volere. Alcuni consigliano il
leggere, oltre ad alcune omilie da me accennate di sopra, l’operetta di
Tertulliano intorno alla pazienza, il Trattato del Disprezzo del Mondo
d’Innocenzo III, il Tesoro della Misericordia di Gabriello del Toro, il
Cacciaguerra della Tribolazione, il Conforto degli Afflitti di Gasparo
Loarte, alcuni Sermoni di Gabriello Biele e del Busto in materia di
peste, le Opere del P. Bartolomeo da Saluzzo, il Conforto degl’Infermi
del P. Stefano Binetti. Io per me consiglierei tutti a leggere allora
in primo luogo, per chi può, i divini libri, specialmente del nuovo
Testamento; e secondariamente le vite dei santi o beati, scegliendo
anche i più caritativi, sieno martiri, sieno confessori e vergini,
purchè scritte da autori approvati, e con semplicità di stile, e
con verità di storia. Quelle dei santi e beati degli ultimi secoli,
siccome più diffuse, e per lo più composte o tradotte in volgare,
riusciranno maggiormente comode ed utili al popolo. S. Filippo
Neri, gran maestro di spirito, raccomandava più che gli altri libri
di divozione la lettura di queste vite, perchè sapeva che ivi nel
medesimo tempo s’imparano le massime della santità, e si mira la
santità posta in esercizio, restando chi legge egualmente istruito e
spronato dall’esempio altrui. In terzo luogo essendo facilissimo l’aver
seco o il trovare l’aureo libro dell’Imitazione di Cristo di Tommaso
da Kempis, o sia dell’abate Giovanni Gersen, e tutte le sugose ed
eccellenti opere del P. Luigi Granata e di S. Teresa, e quelle ancora
di S. Francesco di Sales, io persuaderei tutti ad attenersi ben forte
più alla loro lettura piena di santa unzione, che a quella d’alcuni
altri libri, i quali non toccano bene spesso il cuore, benchè parlino
o insegnino tanto. Chi potesse anche leggere il Trattato dei Travagli
di Gesù del P. Tommaso di Gesù agostiniano, e l’Erario della Vita
Cristiana del P. Giambatista Sangiurè della compagnia di Gesù, e le
Opere Ascetiche del piissimo cardinale Giovanni Bona, e del P. Lorenzo
Scupoli, cherico regolare teatino, per tacer d’altri autori, ne speri
gran soccorso e consolazione spirituale.
Quindi si potrà e dovrà esercitare la divozione in orazioni vocali e
mentali, che ognuno sceglierà secondo la capacità sua, o pure secondo
la direzione del vescovo o del confessore. Il basso popolo, che non