Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 20
alcuni ecclesiastici secolari e regolari diradati, stando intanto
il popolo alle finestre, o pure in orazione entro le loro case,
avvertito dall’invito generato delle campane. E questa appunto è una
via di mezzo che sembra la più lodevole e la più da praticarsi in
altre simili occasioni. In tal guisa potrebbero anche portarsi per
la città i sacri corpi de’ santi protettori, o altre insigni e più
venerate reliquie; e specialmente sarebbe da farsi qualche volta la
processione del santissimo Sacramento, conducendola ora per queste
ed ora per quelle contrade: il che tutto riuscirebbe d’incredibile
consolazione ed utilità al popolo in que’ miseri tempi. Il mandare
ancora sacerdoti, o secolari o religiosi, qualche volta a benedire
i cibi de’ poveri infermi o altre cose, calate giù dalle finestre
o esposte alle porte, è riuscito di gran conforto, ed ha inspirato
coraggio, allegria e divozione alla viva fede dei medesimi. Anzi
per tenere santamente allegra la gente, ottimo consiglio allora sarà
rinviare per ogni parocchia a certi tempi, e massimamente alle prime
ore della notte, senza bisogno che gli abitanti aprano allora le
finestre, un determinato numero di soli ecclesiastici, o secolari
o regolari, i quali per le strade cantino con voce divota le laudi
del Signore, o altre preghiere e componimenti di divozione in lingua
volgare, il più che si può intelligibili da tutti, ed approvate prima
dal vescovo, le quali inanimiscano il popolo, consolino ed inspirino
l’amore di Dio, la speranza in lui, la pazienza, e lo sprezzo del
mondo. Ma ci vuole il giudizio d’astenersi allora da quelle espressioni
che possono accrescere il terrore o la mestizia. Di queste due
micidiali passioni non v’è inopia in que’ tempi: v’è bensì penuria
di coraggio e d’ilarità, che pure sono potenti rimedi, non tanto per
preservarsi, quanto per risanare dall’infezione. A questo fine potrebbe
ancora giovare l’aver pronte e il far cantare in qualche divoto tuono
dal popolo certe preghiere a Gesù, prima d’ora stampate, potendo esse
servire di gran conforto nei continui bisogni, e massimamente nel
gravissimo della pestilenza. Così gioverà il prescrivere orazioni
da recitarsi privatamente, o pure da cantarsi pubblicamente circa
l’un’ora, o la mezz’ora di notte alle finestre pel popolo, invitato a
ciò dalla campana d’ogni parrocchiale.
E perciocchè può darsi il caso che s’abbia a mettere in quarantena
tutto il popolo, sequestrando, fuorchè le persone necessarie, tutti
gli altri nelle loro case per 40 giorni, il che fu fatto in Milano
dell’anno 1576, essendosi trovato questo ripiego veramente utile, da
che si vide che il morbo non cessava; e potendo essere il medesimo
utilissimo anche nei principj dell’altre pestilenze, gioverà a tutti
il sapere quali ordini prescrivesse allora S. Carlo, acciocchè in così
lungo ozio d’un popolo numeroso tutti santamente s’impiegassero nel
bene e schivassero il male, e fosse servito, non offeso Iddio. Pregò
egli i laici di confessarsi e comunicarsi tutti il giorno avanti che
entrassero in quarantena. Per gli esercizi spirituali di quel tempo,
ordinò prima che ciascuno sentisse messa divotamente ogni dì, al
qual fine fece ergere molti altari ai capi delle strade e a’ luoghi
cospicui della città, per dar comodità a tutti di assistere al santo
sacrifizio stando in casa propria, e trovò sacerdoti che vi celebravano
ogni giorno. Così provvide di confessori, i quali andavano con un
treppiede in braccio per sedervi sopra di porta in porta, confessando
tutto il popolo. Stava il penitente dentro, e il confessore sedeva di
fuori, servendo la porta chiusa per confessionale. La domenica poi si
comunicavano nel medesimo luogo con molta riverenza, perchè veniva il
curato col santissimo Sacramento, accompagnato da alcune persone pie
con lumi accesi, e da un cherico che il serviva, comunicando cadauno
alla porta della loro casa. Di maniera che quasi tutto il popolo facea
la sacra comunione ogni domenica a guisa di tante persone claustrali,
non potendosi spiegare la tenerezza con cui i buoni ricevevano in
quella forma il vero conforto dei tribolati. Ordinò che ogni vicinanza
facesse orazione sette volte tra il giorno e la notte a due cori, come
se fossero stati collegi di canonici. Cantavano salmi, litanie, laudi
ed altre orazioni accomodate ai bisogni di quel tempo; e l’ore erano
distribuite ordinatamente, dandosi il segno di ciascuna d’esse col
suono della campana più grossa del Duomo. Allora tutte le famiglie
andavano alle finestre, e un sacerdote o altra persona deputata dava
principio all’orazione, e tutti gli altri genuflessi rispondevano,
e seguitavano sino al fine, avendo ognuno il suo libro in mano,
stampato per tal effetto, come fanno i canonici in coro. Perciò era
cosa di stupore e che faceva intenerire ognuno il vedere o udire
quella gran città, numerosa di circa 200 mila persone, lodar Dio in un
tempo medesimo da ogni parte, e sentire un rimbombo d’infinite voci,
che chiamavano aiuto da tutto il cielo in quella pubblica calamità.
Certamente pareva allora Milano non solamente un miracoloso monistero
di claustrali dell’uno e del l’altro sesso, che servissero a Dio
rinchiusi nelle proprie celle, ma quasi un’altra Gerusalemme santa,
piena di gerarchie celesti. Pubblicò ancora il piissimo arcivescovo
una lettera pastorale, in cui insegnava ed esortava a fare certe altre
orazioni vocali e mentali, e leggere libri spirituali; ed egli stesso
mostrava i punti che s’aveano a meditare ogni giorno, stampati in essa
lettera; e in fine concedeva varie indulgenze per la facoltà apostolica
ch’egli aveva a tutti quelli che si esercitavano in queste pie
divozioni e pregavano Dio per gli appestati. Ed ecco un vivo esempio
e modello su cui si potranno regolare i vescovi in simili congiunture,
per promuovere allora più che mai l’unione delle anime a Dio, a cui dee
rassegnarsi totalmente ogni fedele per sua maggior quiete e conforto,
e in cui solo si dee sperare e confidare per preservarsi in mezzo ai
pericoli e alla confusione del contagio. A tal fine ancora dovranno
i vescovi in occasione di qualche editto proibire l’uso ingiurioso
a Dio e stolto di tutti i bullettini, anelli, ecc. e d’altri simili
preservativi superstiziosi che allora facilmente si mettono in campo o
dall’ignoranza, o dalla malizia.
CAPO IV.
_Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il
morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi
sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali
sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e
l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi._
Per conto de’ parochi, confessori ed altri sacerdoti, si ponga mente
alle seguenti cose. Appena si udirà avvicinarsi o essere già pervenuta
ai confini la peste, che dovrà ogni paroco di terre, castella e ville
ammonir per tempo tutti a confessarsi prima del morbo, predicare il
pericolo della morte, l’ira di Dio, l’emendazione della vita, i quattro
Novissimi, _ne præoccupati die mortis quærant spatium pœnitentiæ, et
illud nequeant invenire._ Dovrà pure sostituire anch’egli una solenne
e divota processione di penitenza, con digiuni, comunione generale,
ed altre opere di pietà, a fine di placare Dio e d’implorare il
suo santo aiuto. Da queste pubbliche e strepitose divozioni, tanto
della città quanto della diocesi, ne risulterà anche un vantaggio
temporale. Cioè i popoli si metteranno in maggior apprensione di quel
terribile ed imminente flagello; cosa utilissima, perchè così ognuno,
aperti gli occhi per tempo, si guarderà con più cura dal pericolo di
prendere, o d’introdurre il contagio. Non si può dire fin dove giunga
alle volte la zotica e supina disattenzione, o sciocca temerità della
gente rozza. Vanno alcuni senza pensarvi a cogliere la peste fuori
del loro distretto sano in territori infetti o sospetti, conversando
alla buona con persone appestate, o maneggiando robe, che portano poi
la morte ad essi e l’esterminio alla patria loro. Bisogna perciò che
anche la Chiesa con azioni vistose di pietà faccia avvertiti tutti del
suo e dell’altrui pericolo. Anzi debbono i predicatori e i parochi
dall’altare e in altre guise andar per tempo inculcando la miseria
della peste, il rischio che sovrasta, la necessità di guardarsi per
sè e per gli altri, e il peccato grave di chi trascura sè stesso, e
tradisce il suo prossimo, e disubbidisce al principe e alle leggi, e
in un affare di tanta conseguenza e rovina. Mostrino ancora al popolo,
finchè è tempo (che questo pure sarà un atto di carità), in quante
guise si possa contrarre e comunicare il veleno della pestilenza,
e come le buone cautele hanno forza di preservare e difendere le
popolazioni dall’infezione. Fatto uno sproposito, indarno si cercherà
il rimedio, e in vano si dirà: Bisognava governarsi in questa o in
quella maniera.
Che se la peste entrerà, allora i parochi vadano similmente ricordando,
come potranno il meglio, ai loro parochiani quanto gravemente pecchino
quelli che celano l’infezione contratta, non per altro che per
timore di qualche suo danno, perchè maggiore sarà sempre il danno che
recheranno non solamente agli altri con disseminarla e comunicarla,
ma anche alla propria vita, col non lasciarsi curare, e coll’esporsi
al pericolo d’una morte repentina, e senza tempo di sacramenti e
di contrizione. Gran conto dovrà rendere a Dio chi per sua colpa o
negligenza dilata il male e l’attacca agli altri che con buona fede
hanno commercio con esso lui, o colle robe di lui. Nel contagio di
Palermo del 1625 fu proibito sotto pena della vita che nessuno potesse
trasportar robe da una casa in un’altra, ed anche vi fu imposta la pena
della scomunica; e a certi tempi colle cerimonie solite della Chiesa
venivano dichiarati scomunicati i trasgressori: il che faceva grande
effetto per lo spavento che cagionavano tali cerimonie. Questo è un
rimedio troppo violento, e da non praticarsi così facilmente altrove,
benchè non sieno scomuniche _latæ sententiæ_, e perciò s’intimino
solamente a terrore. Si può provvedere in altre guise. Dovranno
al certo i ministri di Dio inculcare la grande obbligazione di non
trasportare, rubare o contrattar robe infette o sospette, e quella
altresì di denunziar subito ai deputati quei della sua famiglia, o gli
altri che vengano a scoprire infetti. Molto maggior obbligazione si
è quella di denunziare gl’infetti medesimi al paroco o al sacerdote
deputato per l’amministrazione dei sacramenti, affinchè niuno manchi
di vita senza i soccorsi spirituali della grazia di Dio. Nella nostra
città, allorchè la peste del 1630 ci prese piede, fu dai conservatori
della sanità con pubblico proclama ordinato che se alcuno o parente, o
coabitante nella casa di qualche infermo fosse ricercato da esso malato
di chiamare il confessore, e non vi andasse, costui cadesse in una
grave pena pecuniaria, da estendersi anche ad arbitrio sino alla galea.
Per maggiormente preservarsi i parochi ed altri sacerdoti nel dire la
messa, avranno cura di mettere cancelli, sbarre, o altro impedimento
intorno all’altare dove dovranno celebrare, affinchè niuno del popolo
vi si accosti, o la dicano essi in chiesa o fuori. Maggior cautela
sarebbe che cadauno avesse i suoi determinati paramenti, de’ quali
nessun altro allora si servisse. E tal cautela sarà poi necessaria
per chi abbia da praticare con ammorbati o sospetti. I sacerdoti
che dovranno amministrare i sacramenti saranno divisi in due classi,
cioè altri per i sani, ed altri per gl’infetti e sospetti, secondo la
disposizione e distribuzione che ne farà il vescovo. I primi, cioè
quei dei sani, che si appelleranno sacerdoti o confessori ordinari,
non potranno, se non in caso di estrema necessità, ministrare i
sacramenti a gente appestata o sospetta; e se per necessità, o pure
disavvedutamente, praticassero con infermi di questa fatta, o dessero
loro i sacramenti, non potranno eglino per alquanti giorni praticare
con sani, ma staranno ritirati, facendo una specie di contumacia in
casa propria. All’incontro i destinati per la gente infetta o sospetta,
che si chiameranno sacerdoti o confessori della carità, e saranno
anche essi divisi in due schiere, non potranno conversar con sani,
nè ministrare i sacramenti ad alcun sano, anzi nè pure a chi fosse
infermo d’altro male che di peste, qualora questi non si trovasse
in pericolo di vita e in necessità legittima del loro ministero. Per
assicurarsi meglio di non errare in questo, potrebbe praticarsi che
gl’infetti e sospetti ricavassero una fede del medico d’essere tali;
e allora sarebbe moralmente sicuro il sacerdote della carità di non
accostarsi ad infermi d’altro male. Così fu praticato nel contagio
della nostra città l’anno 1630. Per questo ancora la sacra pisside
destinata agli infetti dovrà tenersi non nelle chiese ove entrano i
sani, ma in luogo decente separato secondo che prescriverà il vescovo,
ove sia tabernacolo e lampana di continuo accesa. Non è lecito ai
principi l’impedire ai parochi o ad altri sacerdoti l’amministrazione
de’ sacramenti; ma sarà loro ben lecito l’impedire a quei che gli
amministrano ad infetti il commercio coi sani, passando in ciò
d’intelligenza coi vescovi, siccome stabiliscono il Marta, il Barbosa
e il Benzoni, con altri. E però di necessità si ha da dare uno o più
coadiutori al curato esposto al servigio degl’infetti, secondo il
_c. tua nos, de clerico ægrotante_. Avverto qui che i parochi non
sono allora tenuti ad assistere alla sepoltura dei defunti, nè ad
accompagnare verun cadavero; anzi se ci fosse chi volesse allora che
il paroco seppellisse alcuno de’ suoi in luogo sacro, quando occorresse
sospetto d’infezione, egli dovrà costantemente opporsi, e molto più poi
se avrà ordine dai superiori in contrario.
Sarà poi cura dei sagrestani ogni mattina e sera il far de’ profumi,
quando se ne conoscesse il bisogno, intorno agli altari ove si celebra
e nella sagrestie, e certo non tralascino di farlo ai confessionarj.
Anche intorno a questi sarà necessario mettere allora qualche sbarra
o steccato o altro impedimento con panche, sicchè si trattenga la
gente dall’accostarsi al confessore. Anzi allora dovranno star assai
radi fra loro e in una competente distanza dal sacerdote, al quale non
s’avvicineranno se non chiamati da lui. Oltre alle grate perforate di
ferro, il costume è di tenere ai confessionarj una membrana o sia una
carta pecorina, o almeno una carta ordinaria ben incollata, con telajo
che chiuda ben le fissure; perciocchè con essa benissimo s’ascoltano
i penitenti e restano difesi dal pericoloso lor fiato i confessori.
Gioverà il rimutare e profumare di quando in quando tali membrane.
Fuori del confessionale (il che facilmente allora può accadere e si
dee permettere dal vescovo) il confessore potrà ascoltare i penitenti
in distanza di tre o quattro braccia, badando che il sito non sia
esposto alle orecchie altrui. Tanto prescrisse S. Carlo ne’ suoi
piissimi e prudentissimi regolamenti intorno alla peste, pubblicati
nel concilio V provinciale di Milano. Per purificare le dita dopo
aver comunicato il popolo, si tenga aceto in cambio d’acqua; e i
sacerdoti che comunicano, si tengano il più che possono lontani dalle
persone che prendono il sacramento, procurando ancora di star sempre
in mezzo a due torce accese, acciocchè venga purificata l’aria. Non
diasi abluzione, non si metta tovaglia alcuna, siccome nè pure per
qualunque festa o funzion che si faccia, non si dovranno ornare con
paramenti le mura delle chiese. Anzi han praticato i saggi di levare
insin le panche da esse chiese e le portiere e simili altre robe che
possono facilmente pigliare infezione. Qualora abbiano i confessori
della carità da ascoltare infermi appestati, prima d’andarvi prendano
qualche antidoto preservativo interiore ed esteriore; e alquanto prima
d’entrar nelle stanze d’essi, facciano aprir le finestre, acciocchè
l’aria sventolando disperga quei cattivi effluvj, o per dir meglio,
facciano ben profumare, se si potrà, quella stanza. Ad ogni buon fine
però v’entrino essi sempre con un profumo davanti o pure abbiano
in mano una torcia accesa, che terranno fra la bocca loro e quella
dell’infermo. I beccamorti ed espurgatori entrando nelle case infette
sogliono coprirsi il naso e la bocca con un fazzoletto bagnato in
aceto, ove sia stato dell’aglio in infusione potranno i confessori
cautelarsi in altra somigliante maniera. In Firenze l’anno 1630
un sacerdote esposto, andando a sacramentare infetti, pigliava una
spugna divisa pel mezzo ed allacciatasela agli orecchj con due nastri,
bagnatala prima con aceto rosato fortissimo, l’accomodava in maniera
che pigliava tutta la bocca e le narici, correggendo così l’aria che
respirava; invenzione non men felice che ingegnosa, poich’egli si
conservò sempre senza male. L’esempio è da notarsi ed imitarsi. Se
poi si può senza intollerabil incomodo degl’infermi, il confessore li
faccia venire in luogo aperto o in un cortile, o alla porta, o alle
finestre della casa, o all’uscio della camera che potrà star chiuso e
ascoltarsi anche bene la confessione. Il P. Filiberto Marchino insegna
che potendo gl’infetti uscir di letto e venire all’aria aperta o tenere
altra via di confessarsi senza pericolo della vita del paroco, e non
volendolo fare, esso paroco non è tenuto ad entrare in lor casa per
ascoltarli. È interesse del pubblico e degli altri parrocchiani che i
pastori si conservino illesi. In Firenze si servivano tali confessori
di un certo strumento di legno o di ferro, atto a ripararsi dal fiato
pestifero degl’infetti. Nel portare il Viatico al malati, usino i
sacerdoti veste corta con cotta e stola, lasciando stare il piviale,
in cui vece terranno sopra la cotta una veste di tela incerata. Anzi
nè pur la cotta sarà necessaria e nè pure la stola secondo la sentenza
di Leandro; e il vescovo potrà dispensar da tal obbligo, massimamente
per i lazzeretti, ne’ quali i sacerdoti sogliono accostarsi agl’infermi
colla lor sola veste incerata e col Santissimo chiuso in una borsa con
piccola pisside, pendente dal collo e con ombrella di cuoio, la quale
anche per città si terrà nel portare il Viatico, bastando una o due
torce accese per accompagnamento del Signore, e senza far precedere
suono di campana o di campanello. Abbiano sempre seco una spugna
bagnata in aceto per purificarsi le dita.
Ma chi dei sacerdoti è obbligato ad amministrare i Sacramenti agli
appestati? E a che son tenuti allora i parochi? Regolarmente parlando,
i semplici sacerdoti, tanto secolari come regolari, cioè quelli che
non han cura d’anime, non sono tenuti a ciò per debito di giustizia.
Possono solamente venirvi obbligati da qualche caso d’estrema necessità
del prossimo, perchè allora entrano a comandarlo loro le leggi della
carità cristiana. La sentenza è comune. In quanto ai vescovi e parochi,
certo è ch’essi in tempo di peste hanno gravissima obbligazione di
risedere nella lor parrocchia e di non abbandonare per conto alcuno
la loro greggia. Veggasi il Barbosa con altri autori. Ma per quel che
riguarda l’amministrazione dei sacramenti alla gente infetta è stato
disputato fra i teologi, se i curati sieno a ciò eglino obbligati,
ancorchè con troppo verisimil pericolo della lor vita. Il Molfesio e
alcuni altri tengono di sì, stante la gran necessità d’essi sacramenti
per la salute del prossimo, e stante il diritto che hanno le pecorelle
di chiedere e d’ottenere il cibo dell’anima dai proprj pastori. Ma
il Marchino, il Diana ed altri esentano il paroco da obbligo tale,
a condizione però che vi sia altro sacerdote che in luogo di lui
supplisca al bisogno degl’infetti. E all’opinione loro può starsi,
perchè il Barbosa ed esso Diana sì nella Somma come nel tomo II delle
sue opere e il Tamburino citano le risposte date a S. Carlo dalla
sacra congregazione il dì 10 di dicembre del 1576, con approvazion
del Santissimo che sono del seguente tenore: _Parochi tempore pestis
teneantur omnino residere in suis ecclesiis parochialibus; et si
non resideant, agendum contra eos, etc. Ministrent vero parochianis
peste infectis sacramenta pœnitentiæ et baptismi per alios. Et hoc
ad commodum parochianorum, qui verisimiliter nollent conversari cum
parochis euntibus ad infirmos peste. Et licet Alciatus diceret, quod ex
duobus ultimis verbis videatur prohiberi, ne parochi, etiam volentes,
per se ipsos hæc duo Sacramenta ministrent: tamen tota congregatio
dixit, quod ista erat mens Sanctissimi in prohibendo hæc parochis ad
commodum parochianorum, qui sani essent; hi enim universaliter nollent
conversari cum parochis cuntibus ad infirmos peste._
Il Benzoni prova a lungo e seco s’accordano altri antichi teologi
che il vescovo e il paroco non pecchino fuggendo dal luogo della
peste, purchè provveggano il grege loro di un vicario o sostituto
sufficiente, e mancando questo, ne somministrino un altro o tornino
essi alla lor residenza. Ma stante il suddetto decreto non è più
da seguitare una tal sentenza. Anzi è da avvertire col Marchino
e con altri essere tenuti alla residenza in tempi tali ancora i
confessori di monache, gli abati, i priori, guardiani ed altri capi
di case religiose. Dal suddetto decreto parimente si ricava che ogni
qual volta il paroco abbia o pure il vescovo deputi (siccome egli
ha da fare e fu fatto anche nel contagio di Modena del 1630) altri
sacerdoti che amministrino i sacramenti ai parrocchiani appestati,
egli sarà esente da tale obbligazione, e dovrà allora attendere alla
cura dei soli sani o infermi, ma non di peste, cioè ai più della
sua parrocchia. Nulladimeno accadendo che manchino tali sacerdoti
sussidiarj, allora esso paroco sarà tenuto egli in persona, ancora
con pericolo della vita, a soccorrere gl’infetti, non solamente per
debito di carità, stante la necessità delle sue pecorelle, ma ancora
per obbligo di giustizia a cagione del carico ch’egli ha come pastore;
poichè in tal caso non mancherà via agli altri parrocchiani non
infetti di ricevere i sacramenti da altra mano, non essendo questi
in eguale necessità, potendosi più facilmente trovar sacerdoti che
soddisfacciano al bisogno del popolo intatto dalla peste. Di più il
paroco è tenuto a ricercare chi stia in pericolo o articolo di morte e
se abbia bisogno di confessarsi. Che se mancassero ministri idonei per
l’amministrazione de’ sacramenti, sarà tenuto il vescovo a provvederne
anche con sua grave spesa. Così tengono S. Tommaso, il Bagnez, il Sa,
il Benzoni. Dovranno però anche i parochi contribuire una porzione
delle rendite loro, e non bastando nè il vescovo nè i parochi a tale
spesa, i parrocchiani dovrebbono somministrar dell’aiuto. Avvertasi
col Marchino e con altri autori, non esser bene che il vescovo vieti
la fuga ai parochi sotto pena della scomunica, ma bastare che intimi
pene pecuniarie, perdite di frutti o la privazione del benefizio,
benchè per altro non sia lecito al paroco in tempo di pestilenza nè
pure il rinunziare alla sua chiesa. Io non ho veduto, ma so esserci un
libricciuolo di Francesco Lazzaroni _de privilegiis parochorum tempore
pestis_, stampato in Venezia dell’anno 1631 in ottavo. Il Benzoni col
Turrecremata, in caso che non si trovassero sostituti, stimerebbono
bene che il vescovo tirasse a sorte tre o quattro parochi, i quali
assistessero agl’infetti, restando gli altri al servigio de’ sani,
e mancando i primi, succedessero gli altri. Parimente nelle terre e
castella ove non sia che un solo sacerdote, il vescovo dovrà mandare
almeno un altro coadiutore, acciocchè l’uno attenda ai sani e l’altro
agli appestati, e se il coadiutore non vorrà per carità ministrare
i sacramenti ad essi infetti, allora questo carico apparterrà per
giustizia al curato. Mancando i parochi, sarebbe di dovere il subito
conferire la lor chiesa al sostituto che avesse con generosa carità
preso a servire agl’infetti; anzi potrebbe il vescovo per tempo
ricercare dal sommo pontefice la facoltà di stabilire una spezie di
coadiutori, a’ quali si conferisse tosto la chiesa, accaduta la morte
del paroco, meritando tal grazia il pio coraggio di simili sacerdoti.
Che se il curato o altro prete fosse solo, allora potrà egli più
discretamente governarsi nel ministrare i sacramenti, affinchè mancando
lui, non manchi l’aiuto spirituale a tanti altri che possono averne
bisogno, essendo egli in parità di circostanze tenuto più ai molti che
ai pochi. Ma non si credesse alcuno esentato dall’obbligo di confessare
gl’infetti per quella sola ragione che da taluno è stata addotta, cioè
perchè essi possono fare un atto di contrizione, e salvarsi senza
l’attual confessione ed assoluzione del ministro di Dio. Imperocchè
tal sentenza è troppo pericolosa, lasciando esposti i peccatori ad un
evidente rischio di non pentirsi come debbono, e perciò di dannarsi.
Per altro chi infermo di peste non ha confessore, è tenuto a formare un
atto di contrizione, e potendo aver confessore è tenuto a non differire
di confessarsi.
Appresso è da notare che il ministrare l’Estrema Unzione agli appestati
sarà sempre bene, e si dee procurar loro, per quanto si potrà, questo
spirituale aiuto e conforto; tuttavia non essendo esso un sacramento
necessario alla salute, dicono i teologi che non è obbligato il
paroco sotto rigoroso precetto ad amministrarlo allora. Il che però
secondo il Diana ed altri si dee intendere quando l’appestato si sia
prima confessato ed abbia ricevuta l’assoluzione; altrimenti s’egli
non avesse potuto confessarsi per aver perduta la favella, converrà
dargli almeno questo sacramento. Per altro essendo da amministrare,
per quanto si può ancora questo sacramento, si avverta per parere del
Chapeavilla, Silvio, Layman, Diana ed altri essere lecito l’ungere
una sola parte del corpo, e fare una sola unzione, unendo poi nella
forma delle parole l’udito, la vista e gli altri sensi dell’uomo. Per
sentenza ancora de’ suddetti teologi, del Marchino, Suarez, Barbosa
ed altri sarà lecito ungere gli appestati con una lunga bacchetta, in
cima alla quale sia bombace intinto nell’olio sacro che dovrà subito o
almen poco dopo bruciarsi. In oltre tengono il Filiarco, il Marchino,
il Tamburino ed altri, appoggiati anche al suddetto decreto, che
purchè l’infetto sia legittimamente confessato, non son obbligati i
parochi a ministrargli con tanto lor pericolo il Viatico, siccome non
necessario alla salute; e nè pure il sacramento della Penitenza, quando
si fosse moralmente certo che l’infermo non avesse peccati mortali.
Così ancora tiene il Benzoni vescovo di Recanati. Avvertasi però che
questo ultimo non si dee presumere senza gravissime ragioni. Vedi
il Molfesio e il Diana alla parola Communionis minister e parochus.
E per conto del Viatico bisogna far quanto si può per ministrarlo;
essendo poi non solo lecito, ma obbligo di non darlo, quando il paroco
fosse solo e la sua morte potesse ridondare in danno di tanti altri.
Mancando i sacerdoti o non volendo essi dare l’Eucaristia, per comune
sentenza potranno ministrarla i diaconi. In caso poi che nel distribuir
le sacre particole mancasse all’improvviso di peste il sacerdote, le
altre particole si hanno non già da bruciare, ma da conservare o pur
debbono distribuirsi a persone infette o assumersi da qualche sacerdote
esposto. Qualora sovrasti pericolo di morte a molti appestati, basterà
che ciascuno dica qualche peccato al confessore, acciocch’egli possa
assolverli di tutti. Così insegnano il Coninco, Diana, Suarez, ecc.
E basterà ancora, quando non si possa far di meglio, che mostrino
segni di penitenza a fine di poterli assolvere. Parimente tengono
non pochi teologi, cioè Zambrana, Granado, Laiman, Conioco, Hurtado,
Turriano, Suarez, Diana, ecc., che si possa assolvere l’appestato
colla confessione non intiera, quando il confessore probabilmente
tema d’infettarsi anch’egli, come sarebbe o pel troppo fetore, o per
la troppa dimora dell’infermo, con assicurare il malato che una tal
confessione è sufficiente, restando nondimeno l’obbligazione, guarito
che sia, di confessarsi di quei che tralascia. Queste sentenze sembrano
anche a me tutte ragionevoli e da osservarsi in pratica. Che poi i
semplici sacerdoti non approvati per le confessioni possano in tempo
di peste confessare e assolvere dai peccati i sani, è sentenza del
Marchino, del Corneo, di Polidoro Ripa e dell’Homobono, perchè, dicono
il popolo alle finestre, o pure in orazione entro le loro case,
avvertito dall’invito generato delle campane. E questa appunto è una
via di mezzo che sembra la più lodevole e la più da praticarsi in
altre simili occasioni. In tal guisa potrebbero anche portarsi per
la città i sacri corpi de’ santi protettori, o altre insigni e più
venerate reliquie; e specialmente sarebbe da farsi qualche volta la
processione del santissimo Sacramento, conducendola ora per queste
ed ora per quelle contrade: il che tutto riuscirebbe d’incredibile
consolazione ed utilità al popolo in que’ miseri tempi. Il mandare
ancora sacerdoti, o secolari o religiosi, qualche volta a benedire
i cibi de’ poveri infermi o altre cose, calate giù dalle finestre
o esposte alle porte, è riuscito di gran conforto, ed ha inspirato
coraggio, allegria e divozione alla viva fede dei medesimi. Anzi
per tenere santamente allegra la gente, ottimo consiglio allora sarà
rinviare per ogni parocchia a certi tempi, e massimamente alle prime
ore della notte, senza bisogno che gli abitanti aprano allora le
finestre, un determinato numero di soli ecclesiastici, o secolari
o regolari, i quali per le strade cantino con voce divota le laudi
del Signore, o altre preghiere e componimenti di divozione in lingua
volgare, il più che si può intelligibili da tutti, ed approvate prima
dal vescovo, le quali inanimiscano il popolo, consolino ed inspirino
l’amore di Dio, la speranza in lui, la pazienza, e lo sprezzo del
mondo. Ma ci vuole il giudizio d’astenersi allora da quelle espressioni
che possono accrescere il terrore o la mestizia. Di queste due
micidiali passioni non v’è inopia in que’ tempi: v’è bensì penuria
di coraggio e d’ilarità, che pure sono potenti rimedi, non tanto per
preservarsi, quanto per risanare dall’infezione. A questo fine potrebbe
ancora giovare l’aver pronte e il far cantare in qualche divoto tuono
dal popolo certe preghiere a Gesù, prima d’ora stampate, potendo esse
servire di gran conforto nei continui bisogni, e massimamente nel
gravissimo della pestilenza. Così gioverà il prescrivere orazioni
da recitarsi privatamente, o pure da cantarsi pubblicamente circa
l’un’ora, o la mezz’ora di notte alle finestre pel popolo, invitato a
ciò dalla campana d’ogni parrocchiale.
E perciocchè può darsi il caso che s’abbia a mettere in quarantena
tutto il popolo, sequestrando, fuorchè le persone necessarie, tutti
gli altri nelle loro case per 40 giorni, il che fu fatto in Milano
dell’anno 1576, essendosi trovato questo ripiego veramente utile, da
che si vide che il morbo non cessava; e potendo essere il medesimo
utilissimo anche nei principj dell’altre pestilenze, gioverà a tutti
il sapere quali ordini prescrivesse allora S. Carlo, acciocchè in così
lungo ozio d’un popolo numeroso tutti santamente s’impiegassero nel
bene e schivassero il male, e fosse servito, non offeso Iddio. Pregò
egli i laici di confessarsi e comunicarsi tutti il giorno avanti che
entrassero in quarantena. Per gli esercizi spirituali di quel tempo,
ordinò prima che ciascuno sentisse messa divotamente ogni dì, al
qual fine fece ergere molti altari ai capi delle strade e a’ luoghi
cospicui della città, per dar comodità a tutti di assistere al santo
sacrifizio stando in casa propria, e trovò sacerdoti che vi celebravano
ogni giorno. Così provvide di confessori, i quali andavano con un
treppiede in braccio per sedervi sopra di porta in porta, confessando
tutto il popolo. Stava il penitente dentro, e il confessore sedeva di
fuori, servendo la porta chiusa per confessionale. La domenica poi si
comunicavano nel medesimo luogo con molta riverenza, perchè veniva il
curato col santissimo Sacramento, accompagnato da alcune persone pie
con lumi accesi, e da un cherico che il serviva, comunicando cadauno
alla porta della loro casa. Di maniera che quasi tutto il popolo facea
la sacra comunione ogni domenica a guisa di tante persone claustrali,
non potendosi spiegare la tenerezza con cui i buoni ricevevano in
quella forma il vero conforto dei tribolati. Ordinò che ogni vicinanza
facesse orazione sette volte tra il giorno e la notte a due cori, come
se fossero stati collegi di canonici. Cantavano salmi, litanie, laudi
ed altre orazioni accomodate ai bisogni di quel tempo; e l’ore erano
distribuite ordinatamente, dandosi il segno di ciascuna d’esse col
suono della campana più grossa del Duomo. Allora tutte le famiglie
andavano alle finestre, e un sacerdote o altra persona deputata dava
principio all’orazione, e tutti gli altri genuflessi rispondevano,
e seguitavano sino al fine, avendo ognuno il suo libro in mano,
stampato per tal effetto, come fanno i canonici in coro. Perciò era
cosa di stupore e che faceva intenerire ognuno il vedere o udire
quella gran città, numerosa di circa 200 mila persone, lodar Dio in un
tempo medesimo da ogni parte, e sentire un rimbombo d’infinite voci,
che chiamavano aiuto da tutto il cielo in quella pubblica calamità.
Certamente pareva allora Milano non solamente un miracoloso monistero
di claustrali dell’uno e del l’altro sesso, che servissero a Dio
rinchiusi nelle proprie celle, ma quasi un’altra Gerusalemme santa,
piena di gerarchie celesti. Pubblicò ancora il piissimo arcivescovo
una lettera pastorale, in cui insegnava ed esortava a fare certe altre
orazioni vocali e mentali, e leggere libri spirituali; ed egli stesso
mostrava i punti che s’aveano a meditare ogni giorno, stampati in essa
lettera; e in fine concedeva varie indulgenze per la facoltà apostolica
ch’egli aveva a tutti quelli che si esercitavano in queste pie
divozioni e pregavano Dio per gli appestati. Ed ecco un vivo esempio
e modello su cui si potranno regolare i vescovi in simili congiunture,
per promuovere allora più che mai l’unione delle anime a Dio, a cui dee
rassegnarsi totalmente ogni fedele per sua maggior quiete e conforto,
e in cui solo si dee sperare e confidare per preservarsi in mezzo ai
pericoli e alla confusione del contagio. A tal fine ancora dovranno
i vescovi in occasione di qualche editto proibire l’uso ingiurioso
a Dio e stolto di tutti i bullettini, anelli, ecc. e d’altri simili
preservativi superstiziosi che allora facilmente si mettono in campo o
dall’ignoranza, o dalla malizia.
CAPO IV.
_Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il
morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi
sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali
sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e
l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi._
Per conto de’ parochi, confessori ed altri sacerdoti, si ponga mente
alle seguenti cose. Appena si udirà avvicinarsi o essere già pervenuta
ai confini la peste, che dovrà ogni paroco di terre, castella e ville
ammonir per tempo tutti a confessarsi prima del morbo, predicare il
pericolo della morte, l’ira di Dio, l’emendazione della vita, i quattro
Novissimi, _ne præoccupati die mortis quærant spatium pœnitentiæ, et
illud nequeant invenire._ Dovrà pure sostituire anch’egli una solenne
e divota processione di penitenza, con digiuni, comunione generale,
ed altre opere di pietà, a fine di placare Dio e d’implorare il
suo santo aiuto. Da queste pubbliche e strepitose divozioni, tanto
della città quanto della diocesi, ne risulterà anche un vantaggio
temporale. Cioè i popoli si metteranno in maggior apprensione di quel
terribile ed imminente flagello; cosa utilissima, perchè così ognuno,
aperti gli occhi per tempo, si guarderà con più cura dal pericolo di
prendere, o d’introdurre il contagio. Non si può dire fin dove giunga
alle volte la zotica e supina disattenzione, o sciocca temerità della
gente rozza. Vanno alcuni senza pensarvi a cogliere la peste fuori
del loro distretto sano in territori infetti o sospetti, conversando
alla buona con persone appestate, o maneggiando robe, che portano poi
la morte ad essi e l’esterminio alla patria loro. Bisogna perciò che
anche la Chiesa con azioni vistose di pietà faccia avvertiti tutti del
suo e dell’altrui pericolo. Anzi debbono i predicatori e i parochi
dall’altare e in altre guise andar per tempo inculcando la miseria
della peste, il rischio che sovrasta, la necessità di guardarsi per
sè e per gli altri, e il peccato grave di chi trascura sè stesso, e
tradisce il suo prossimo, e disubbidisce al principe e alle leggi, e
in un affare di tanta conseguenza e rovina. Mostrino ancora al popolo,
finchè è tempo (che questo pure sarà un atto di carità), in quante
guise si possa contrarre e comunicare il veleno della pestilenza,
e come le buone cautele hanno forza di preservare e difendere le
popolazioni dall’infezione. Fatto uno sproposito, indarno si cercherà
il rimedio, e in vano si dirà: Bisognava governarsi in questa o in
quella maniera.
Che se la peste entrerà, allora i parochi vadano similmente ricordando,
come potranno il meglio, ai loro parochiani quanto gravemente pecchino
quelli che celano l’infezione contratta, non per altro che per
timore di qualche suo danno, perchè maggiore sarà sempre il danno che
recheranno non solamente agli altri con disseminarla e comunicarla,
ma anche alla propria vita, col non lasciarsi curare, e coll’esporsi
al pericolo d’una morte repentina, e senza tempo di sacramenti e
di contrizione. Gran conto dovrà rendere a Dio chi per sua colpa o
negligenza dilata il male e l’attacca agli altri che con buona fede
hanno commercio con esso lui, o colle robe di lui. Nel contagio di
Palermo del 1625 fu proibito sotto pena della vita che nessuno potesse
trasportar robe da una casa in un’altra, ed anche vi fu imposta la pena
della scomunica; e a certi tempi colle cerimonie solite della Chiesa
venivano dichiarati scomunicati i trasgressori: il che faceva grande
effetto per lo spavento che cagionavano tali cerimonie. Questo è un
rimedio troppo violento, e da non praticarsi così facilmente altrove,
benchè non sieno scomuniche _latæ sententiæ_, e perciò s’intimino
solamente a terrore. Si può provvedere in altre guise. Dovranno
al certo i ministri di Dio inculcare la grande obbligazione di non
trasportare, rubare o contrattar robe infette o sospette, e quella
altresì di denunziar subito ai deputati quei della sua famiglia, o gli
altri che vengano a scoprire infetti. Molto maggior obbligazione si
è quella di denunziare gl’infetti medesimi al paroco o al sacerdote
deputato per l’amministrazione dei sacramenti, affinchè niuno manchi
di vita senza i soccorsi spirituali della grazia di Dio. Nella nostra
città, allorchè la peste del 1630 ci prese piede, fu dai conservatori
della sanità con pubblico proclama ordinato che se alcuno o parente, o
coabitante nella casa di qualche infermo fosse ricercato da esso malato
di chiamare il confessore, e non vi andasse, costui cadesse in una
grave pena pecuniaria, da estendersi anche ad arbitrio sino alla galea.
Per maggiormente preservarsi i parochi ed altri sacerdoti nel dire la
messa, avranno cura di mettere cancelli, sbarre, o altro impedimento
intorno all’altare dove dovranno celebrare, affinchè niuno del popolo
vi si accosti, o la dicano essi in chiesa o fuori. Maggior cautela
sarebbe che cadauno avesse i suoi determinati paramenti, de’ quali
nessun altro allora si servisse. E tal cautela sarà poi necessaria
per chi abbia da praticare con ammorbati o sospetti. I sacerdoti
che dovranno amministrare i sacramenti saranno divisi in due classi,
cioè altri per i sani, ed altri per gl’infetti e sospetti, secondo la
disposizione e distribuzione che ne farà il vescovo. I primi, cioè
quei dei sani, che si appelleranno sacerdoti o confessori ordinari,
non potranno, se non in caso di estrema necessità, ministrare i
sacramenti a gente appestata o sospetta; e se per necessità, o pure
disavvedutamente, praticassero con infermi di questa fatta, o dessero
loro i sacramenti, non potranno eglino per alquanti giorni praticare
con sani, ma staranno ritirati, facendo una specie di contumacia in
casa propria. All’incontro i destinati per la gente infetta o sospetta,
che si chiameranno sacerdoti o confessori della carità, e saranno
anche essi divisi in due schiere, non potranno conversar con sani,
nè ministrare i sacramenti ad alcun sano, anzi nè pure a chi fosse
infermo d’altro male che di peste, qualora questi non si trovasse
in pericolo di vita e in necessità legittima del loro ministero. Per
assicurarsi meglio di non errare in questo, potrebbe praticarsi che
gl’infetti e sospetti ricavassero una fede del medico d’essere tali;
e allora sarebbe moralmente sicuro il sacerdote della carità di non
accostarsi ad infermi d’altro male. Così fu praticato nel contagio
della nostra città l’anno 1630. Per questo ancora la sacra pisside
destinata agli infetti dovrà tenersi non nelle chiese ove entrano i
sani, ma in luogo decente separato secondo che prescriverà il vescovo,
ove sia tabernacolo e lampana di continuo accesa. Non è lecito ai
principi l’impedire ai parochi o ad altri sacerdoti l’amministrazione
de’ sacramenti; ma sarà loro ben lecito l’impedire a quei che gli
amministrano ad infetti il commercio coi sani, passando in ciò
d’intelligenza coi vescovi, siccome stabiliscono il Marta, il Barbosa
e il Benzoni, con altri. E però di necessità si ha da dare uno o più
coadiutori al curato esposto al servigio degl’infetti, secondo il
_c. tua nos, de clerico ægrotante_. Avverto qui che i parochi non
sono allora tenuti ad assistere alla sepoltura dei defunti, nè ad
accompagnare verun cadavero; anzi se ci fosse chi volesse allora che
il paroco seppellisse alcuno de’ suoi in luogo sacro, quando occorresse
sospetto d’infezione, egli dovrà costantemente opporsi, e molto più poi
se avrà ordine dai superiori in contrario.
Sarà poi cura dei sagrestani ogni mattina e sera il far de’ profumi,
quando se ne conoscesse il bisogno, intorno agli altari ove si celebra
e nella sagrestie, e certo non tralascino di farlo ai confessionarj.
Anche intorno a questi sarà necessario mettere allora qualche sbarra
o steccato o altro impedimento con panche, sicchè si trattenga la
gente dall’accostarsi al confessore. Anzi allora dovranno star assai
radi fra loro e in una competente distanza dal sacerdote, al quale non
s’avvicineranno se non chiamati da lui. Oltre alle grate perforate di
ferro, il costume è di tenere ai confessionarj una membrana o sia una
carta pecorina, o almeno una carta ordinaria ben incollata, con telajo
che chiuda ben le fissure; perciocchè con essa benissimo s’ascoltano
i penitenti e restano difesi dal pericoloso lor fiato i confessori.
Gioverà il rimutare e profumare di quando in quando tali membrane.
Fuori del confessionale (il che facilmente allora può accadere e si
dee permettere dal vescovo) il confessore potrà ascoltare i penitenti
in distanza di tre o quattro braccia, badando che il sito non sia
esposto alle orecchie altrui. Tanto prescrisse S. Carlo ne’ suoi
piissimi e prudentissimi regolamenti intorno alla peste, pubblicati
nel concilio V provinciale di Milano. Per purificare le dita dopo
aver comunicato il popolo, si tenga aceto in cambio d’acqua; e i
sacerdoti che comunicano, si tengano il più che possono lontani dalle
persone che prendono il sacramento, procurando ancora di star sempre
in mezzo a due torce accese, acciocchè venga purificata l’aria. Non
diasi abluzione, non si metta tovaglia alcuna, siccome nè pure per
qualunque festa o funzion che si faccia, non si dovranno ornare con
paramenti le mura delle chiese. Anzi han praticato i saggi di levare
insin le panche da esse chiese e le portiere e simili altre robe che
possono facilmente pigliare infezione. Qualora abbiano i confessori
della carità da ascoltare infermi appestati, prima d’andarvi prendano
qualche antidoto preservativo interiore ed esteriore; e alquanto prima
d’entrar nelle stanze d’essi, facciano aprir le finestre, acciocchè
l’aria sventolando disperga quei cattivi effluvj, o per dir meglio,
facciano ben profumare, se si potrà, quella stanza. Ad ogni buon fine
però v’entrino essi sempre con un profumo davanti o pure abbiano
in mano una torcia accesa, che terranno fra la bocca loro e quella
dell’infermo. I beccamorti ed espurgatori entrando nelle case infette
sogliono coprirsi il naso e la bocca con un fazzoletto bagnato in
aceto, ove sia stato dell’aglio in infusione potranno i confessori
cautelarsi in altra somigliante maniera. In Firenze l’anno 1630
un sacerdote esposto, andando a sacramentare infetti, pigliava una
spugna divisa pel mezzo ed allacciatasela agli orecchj con due nastri,
bagnatala prima con aceto rosato fortissimo, l’accomodava in maniera
che pigliava tutta la bocca e le narici, correggendo così l’aria che
respirava; invenzione non men felice che ingegnosa, poich’egli si
conservò sempre senza male. L’esempio è da notarsi ed imitarsi. Se
poi si può senza intollerabil incomodo degl’infermi, il confessore li
faccia venire in luogo aperto o in un cortile, o alla porta, o alle
finestre della casa, o all’uscio della camera che potrà star chiuso e
ascoltarsi anche bene la confessione. Il P. Filiberto Marchino insegna
che potendo gl’infetti uscir di letto e venire all’aria aperta o tenere
altra via di confessarsi senza pericolo della vita del paroco, e non
volendolo fare, esso paroco non è tenuto ad entrare in lor casa per
ascoltarli. È interesse del pubblico e degli altri parrocchiani che i
pastori si conservino illesi. In Firenze si servivano tali confessori
di un certo strumento di legno o di ferro, atto a ripararsi dal fiato
pestifero degl’infetti. Nel portare il Viatico al malati, usino i
sacerdoti veste corta con cotta e stola, lasciando stare il piviale,
in cui vece terranno sopra la cotta una veste di tela incerata. Anzi
nè pur la cotta sarà necessaria e nè pure la stola secondo la sentenza
di Leandro; e il vescovo potrà dispensar da tal obbligo, massimamente
per i lazzeretti, ne’ quali i sacerdoti sogliono accostarsi agl’infermi
colla lor sola veste incerata e col Santissimo chiuso in una borsa con
piccola pisside, pendente dal collo e con ombrella di cuoio, la quale
anche per città si terrà nel portare il Viatico, bastando una o due
torce accese per accompagnamento del Signore, e senza far precedere
suono di campana o di campanello. Abbiano sempre seco una spugna
bagnata in aceto per purificarsi le dita.
Ma chi dei sacerdoti è obbligato ad amministrare i Sacramenti agli
appestati? E a che son tenuti allora i parochi? Regolarmente parlando,
i semplici sacerdoti, tanto secolari come regolari, cioè quelli che
non han cura d’anime, non sono tenuti a ciò per debito di giustizia.
Possono solamente venirvi obbligati da qualche caso d’estrema necessità
del prossimo, perchè allora entrano a comandarlo loro le leggi della
carità cristiana. La sentenza è comune. In quanto ai vescovi e parochi,
certo è ch’essi in tempo di peste hanno gravissima obbligazione di
risedere nella lor parrocchia e di non abbandonare per conto alcuno
la loro greggia. Veggasi il Barbosa con altri autori. Ma per quel che
riguarda l’amministrazione dei sacramenti alla gente infetta è stato
disputato fra i teologi, se i curati sieno a ciò eglino obbligati,
ancorchè con troppo verisimil pericolo della lor vita. Il Molfesio e
alcuni altri tengono di sì, stante la gran necessità d’essi sacramenti
per la salute del prossimo, e stante il diritto che hanno le pecorelle
di chiedere e d’ottenere il cibo dell’anima dai proprj pastori. Ma
il Marchino, il Diana ed altri esentano il paroco da obbligo tale,
a condizione però che vi sia altro sacerdote che in luogo di lui
supplisca al bisogno degl’infetti. E all’opinione loro può starsi,
perchè il Barbosa ed esso Diana sì nella Somma come nel tomo II delle
sue opere e il Tamburino citano le risposte date a S. Carlo dalla
sacra congregazione il dì 10 di dicembre del 1576, con approvazion
del Santissimo che sono del seguente tenore: _Parochi tempore pestis
teneantur omnino residere in suis ecclesiis parochialibus; et si
non resideant, agendum contra eos, etc. Ministrent vero parochianis
peste infectis sacramenta pœnitentiæ et baptismi per alios. Et hoc
ad commodum parochianorum, qui verisimiliter nollent conversari cum
parochis euntibus ad infirmos peste. Et licet Alciatus diceret, quod ex
duobus ultimis verbis videatur prohiberi, ne parochi, etiam volentes,
per se ipsos hæc duo Sacramenta ministrent: tamen tota congregatio
dixit, quod ista erat mens Sanctissimi in prohibendo hæc parochis ad
commodum parochianorum, qui sani essent; hi enim universaliter nollent
conversari cum parochis cuntibus ad infirmos peste._
Il Benzoni prova a lungo e seco s’accordano altri antichi teologi
che il vescovo e il paroco non pecchino fuggendo dal luogo della
peste, purchè provveggano il grege loro di un vicario o sostituto
sufficiente, e mancando questo, ne somministrino un altro o tornino
essi alla lor residenza. Ma stante il suddetto decreto non è più
da seguitare una tal sentenza. Anzi è da avvertire col Marchino
e con altri essere tenuti alla residenza in tempi tali ancora i
confessori di monache, gli abati, i priori, guardiani ed altri capi
di case religiose. Dal suddetto decreto parimente si ricava che ogni
qual volta il paroco abbia o pure il vescovo deputi (siccome egli
ha da fare e fu fatto anche nel contagio di Modena del 1630) altri
sacerdoti che amministrino i sacramenti ai parrocchiani appestati,
egli sarà esente da tale obbligazione, e dovrà allora attendere alla
cura dei soli sani o infermi, ma non di peste, cioè ai più della
sua parrocchia. Nulladimeno accadendo che manchino tali sacerdoti
sussidiarj, allora esso paroco sarà tenuto egli in persona, ancora
con pericolo della vita, a soccorrere gl’infetti, non solamente per
debito di carità, stante la necessità delle sue pecorelle, ma ancora
per obbligo di giustizia a cagione del carico ch’egli ha come pastore;
poichè in tal caso non mancherà via agli altri parrocchiani non
infetti di ricevere i sacramenti da altra mano, non essendo questi
in eguale necessità, potendosi più facilmente trovar sacerdoti che
soddisfacciano al bisogno del popolo intatto dalla peste. Di più il
paroco è tenuto a ricercare chi stia in pericolo o articolo di morte e
se abbia bisogno di confessarsi. Che se mancassero ministri idonei per
l’amministrazione de’ sacramenti, sarà tenuto il vescovo a provvederne
anche con sua grave spesa. Così tengono S. Tommaso, il Bagnez, il Sa,
il Benzoni. Dovranno però anche i parochi contribuire una porzione
delle rendite loro, e non bastando nè il vescovo nè i parochi a tale
spesa, i parrocchiani dovrebbono somministrar dell’aiuto. Avvertasi
col Marchino e con altri autori, non esser bene che il vescovo vieti
la fuga ai parochi sotto pena della scomunica, ma bastare che intimi
pene pecuniarie, perdite di frutti o la privazione del benefizio,
benchè per altro non sia lecito al paroco in tempo di pestilenza nè
pure il rinunziare alla sua chiesa. Io non ho veduto, ma so esserci un
libricciuolo di Francesco Lazzaroni _de privilegiis parochorum tempore
pestis_, stampato in Venezia dell’anno 1631 in ottavo. Il Benzoni col
Turrecremata, in caso che non si trovassero sostituti, stimerebbono
bene che il vescovo tirasse a sorte tre o quattro parochi, i quali
assistessero agl’infetti, restando gli altri al servigio de’ sani,
e mancando i primi, succedessero gli altri. Parimente nelle terre e
castella ove non sia che un solo sacerdote, il vescovo dovrà mandare
almeno un altro coadiutore, acciocchè l’uno attenda ai sani e l’altro
agli appestati, e se il coadiutore non vorrà per carità ministrare
i sacramenti ad essi infetti, allora questo carico apparterrà per
giustizia al curato. Mancando i parochi, sarebbe di dovere il subito
conferire la lor chiesa al sostituto che avesse con generosa carità
preso a servire agl’infetti; anzi potrebbe il vescovo per tempo
ricercare dal sommo pontefice la facoltà di stabilire una spezie di
coadiutori, a’ quali si conferisse tosto la chiesa, accaduta la morte
del paroco, meritando tal grazia il pio coraggio di simili sacerdoti.
Che se il curato o altro prete fosse solo, allora potrà egli più
discretamente governarsi nel ministrare i sacramenti, affinchè mancando
lui, non manchi l’aiuto spirituale a tanti altri che possono averne
bisogno, essendo egli in parità di circostanze tenuto più ai molti che
ai pochi. Ma non si credesse alcuno esentato dall’obbligo di confessare
gl’infetti per quella sola ragione che da taluno è stata addotta, cioè
perchè essi possono fare un atto di contrizione, e salvarsi senza
l’attual confessione ed assoluzione del ministro di Dio. Imperocchè
tal sentenza è troppo pericolosa, lasciando esposti i peccatori ad un
evidente rischio di non pentirsi come debbono, e perciò di dannarsi.
Per altro chi infermo di peste non ha confessore, è tenuto a formare un
atto di contrizione, e potendo aver confessore è tenuto a non differire
di confessarsi.
Appresso è da notare che il ministrare l’Estrema Unzione agli appestati
sarà sempre bene, e si dee procurar loro, per quanto si potrà, questo
spirituale aiuto e conforto; tuttavia non essendo esso un sacramento
necessario alla salute, dicono i teologi che non è obbligato il
paroco sotto rigoroso precetto ad amministrarlo allora. Il che però
secondo il Diana ed altri si dee intendere quando l’appestato si sia
prima confessato ed abbia ricevuta l’assoluzione; altrimenti s’egli
non avesse potuto confessarsi per aver perduta la favella, converrà
dargli almeno questo sacramento. Per altro essendo da amministrare,
per quanto si può ancora questo sacramento, si avverta per parere del
Chapeavilla, Silvio, Layman, Diana ed altri essere lecito l’ungere
una sola parte del corpo, e fare una sola unzione, unendo poi nella
forma delle parole l’udito, la vista e gli altri sensi dell’uomo. Per
sentenza ancora de’ suddetti teologi, del Marchino, Suarez, Barbosa
ed altri sarà lecito ungere gli appestati con una lunga bacchetta, in
cima alla quale sia bombace intinto nell’olio sacro che dovrà subito o
almen poco dopo bruciarsi. In oltre tengono il Filiarco, il Marchino,
il Tamburino ed altri, appoggiati anche al suddetto decreto, che
purchè l’infetto sia legittimamente confessato, non son obbligati i
parochi a ministrargli con tanto lor pericolo il Viatico, siccome non
necessario alla salute; e nè pure il sacramento della Penitenza, quando
si fosse moralmente certo che l’infermo non avesse peccati mortali.
Così ancora tiene il Benzoni vescovo di Recanati. Avvertasi però che
questo ultimo non si dee presumere senza gravissime ragioni. Vedi
il Molfesio e il Diana alla parola Communionis minister e parochus.
E per conto del Viatico bisogna far quanto si può per ministrarlo;
essendo poi non solo lecito, ma obbligo di non darlo, quando il paroco
fosse solo e la sua morte potesse ridondare in danno di tanti altri.
Mancando i sacerdoti o non volendo essi dare l’Eucaristia, per comune
sentenza potranno ministrarla i diaconi. In caso poi che nel distribuir
le sacre particole mancasse all’improvviso di peste il sacerdote, le
altre particole si hanno non già da bruciare, ma da conservare o pur
debbono distribuirsi a persone infette o assumersi da qualche sacerdote
esposto. Qualora sovrasti pericolo di morte a molti appestati, basterà
che ciascuno dica qualche peccato al confessore, acciocch’egli possa
assolverli di tutti. Così insegnano il Coninco, Diana, Suarez, ecc.
E basterà ancora, quando non si possa far di meglio, che mostrino
segni di penitenza a fine di poterli assolvere. Parimente tengono
non pochi teologi, cioè Zambrana, Granado, Laiman, Conioco, Hurtado,
Turriano, Suarez, Diana, ecc., che si possa assolvere l’appestato
colla confessione non intiera, quando il confessore probabilmente
tema d’infettarsi anch’egli, come sarebbe o pel troppo fetore, o per
la troppa dimora dell’infermo, con assicurare il malato che una tal
confessione è sufficiente, restando nondimeno l’obbligazione, guarito
che sia, di confessarsi di quei che tralascia. Queste sentenze sembrano
anche a me tutte ragionevoli e da osservarsi in pratica. Che poi i
semplici sacerdoti non approvati per le confessioni possano in tempo
di peste confessare e assolvere dai peccati i sani, è sentenza del
Marchino, del Corneo, di Polidoro Ripa e dell’Homobono, perchè, dicono
- Parts
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 01
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 02
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 03
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 04
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 05
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 06
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 07
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 08
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 09
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 10
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 11
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 12
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 13
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 14
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 15
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 16
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 17
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 18
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 19
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 20
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 21
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 22
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 23
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 24
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 25
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 26
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 27