Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 19
di Trento sess. 24, cap. 6, fu conceduta o conservata ai vescovi
e anche di delegarla ad altri. Chieda ancora per chi farà opere di
carità la licenza di eleggersi un confessore, benchè regolare, il
quale assolva da ogni caso e censura riservata. Di più procurerà
l’autorità di permutare l’uno d’alcuni legati pii in sollievo de’
poveri, potendo ciò essere necessario o utilissimo in quelle misere
contingenze e gratissimo a Dio, che che potesse parere ad alcuni, i
quali talvolta non sanno assai bene estimare le intenzioni pie dei
testatori e i privilegi della carità e necessità. Chieda eziandio di
poter adoperare, anche senza la permissione de’ loro superiori, que’
religiosi che volessero santamente dedicarsi al servigio de’ lazzeretti
e degli appestati; siccome ancora di poter costringere le persone
religiose ed altri ecclesiastici, o luoghi, esenti dalla giurisdizione
episcopale, a far ciò che richiederà la pubblica utilità durante il
tempo della peste. Di tutto poi si varrà il vescovo, caso che ne venga
il bisogno, secondo la sua prudenza. Finalmente egli è da sperare che
se si avvicinassero le minacce d’una pestilenza, si moverà di buon’ora
il piissimo zelo de’ sommi pontefici a concedere un Giubileo che potrà
essere efficacissimo mezzo a placare lo sdegno divino o ad incitar
maggiormente i popoli al timore di Dio, alla divozione e alle opere
sante.
CAPO II.
_Quanto sia necessario il coraggio ne’ tempi della pestilenza_.
_Fede e speranza, virtù divine e fonti d’intrepidezza e di
giubilo. Bontà e misericordia di Dio ricordate ai peccatori.
Rassegnazione a Dio, e darsi tutti a lui._
Allorchè la peste entra in qualche città per la prima volta e già
si scorge cominciare, vittoriosa d’ogni ostacolo, a mieter le vite
del popolo, pochi son quelli che spettatori di sì orribile, non mai
veduto e tanto pericoloso spettacolo, non s’empiano di terrore,
di costernazione ed anche di viltà. E benchè non pochi ripiglino
animo coll’andar più innanzi, simili a certi soldati, timorosi nella
prima battaglia, ma che poi vanno a poco a poco formando il coraggio
nell’avvezzarsi al fuoco; pure più son quelli che durante il contagio
pusillanimi sempre, sempre conservano il primiero orrore, temendo di
tutto, e da per tutto mirando dipinta nelle morti altrui la propria
morte. Ma se c’è tempo in cui sia necessaria la costanza dell’animo,
l’intrepidezza e il coraggio, quel della peste è sicuramente, e
più degli altri, tale. L’ho detto e il torno a ripetere: secondo la
conclusione di tutti i più saggi medici e di qualunque pratico di
sì funeste occasioni, uno dei gran preservativi della peste si è il
non aver paura della peste. Il coraggio, l’allegria, la tranquillità
dell’anima tenendo in un sano equilibrio e senza alterazione, gli
spiriti ed umori del corpo, tengono serrato in qualche guisa il passo
anche al veleno esterno della pestilenza. Non s’hanno a trascurare gli
altri mezzi e i rimedj per preservarsi; ma questo ha da essere uno
dei primi. L’apprensione, il terrore e la malinconia sono anch’essi
una peste ne’ tempi di peste, disordinando la fantasia e disponendo
la massa degli umori a facilmente ricevere e in certa guisa chiamar da
lontano il veleno regnante, siccome con infiniti casi ha fatto vedere
la sperienza. Necessarïssima dunque si è allora la fortezza e costanza
dell’animo per benefizio di cadauno in particolare; ma spezialmente ve
n’è estrema necessità, per benefizio del pubblico, nei maestrati, nei
sacerdoti e in qualunque altra persona, a cui sia appoggiato il governo
o spirituale o temporale del popolo in mezzo a sì fiera calamità.
Se questi son dominati dalla paura, se questi fuggono, lasciando di
regolare e di soccorrere con opportune provvisioni e colla lor presenza
il povero popolo, immenso è il disordine, somma la disperazione,
infinita la strage. Ma se questi, fortificato il lor cuore da un nobile
e savio coraggio, accenderanno in esso anche il fuoco della carità,
viscere d’amore paterno e cristiano, e nulla ommettendo per salute
della lor patria, non si può dire quanti metteranno in salvo, loro
mercè, la vita dell’anima, e quanti ancora quella del corpo.
Abbiamo altrove accennato alcune ragioni umane da far coraggio ne’
contagi; abbiam di più riferito que’ preservativi che giustamente
accrescono la speranza di esentarsi dal morbo in mezzo al morbo. Ora
aggiungiamo che nulla più può inspirare e rassodare negli uomini la
tranquillità e fortezza, quanto le massime della legge cristiana, cioè
la scuola del santo Vangelo. Allora dunque convien mettersi davanti
agli occhi la brevità e miseria di questa vita, la speranza della beata
eternità e la sommessione che dobbiam tutti al sommo nostro padrone
Iddio. Brevi sono i giorni dell’uomo: chi nol vede? e volere o non
volere, tutti andiamo a gran passi verso il nostro fine. Quand’anche
menassimo sino all’estrema vecchiaia i nostri giorni, pochissimo
sarebbe ancora questo tempo. Ora speriamo noi forse la nostra felicità
da pochi momenti di vita temporale? Troppo è caduca, troppo incerta,
piena troppo d’angustie e d’afflizioni si è questa misera terra; ognuno
il sa per prova. Il nostro Dio anche per questo ordinò che i mali
abitassero nel mondo, acciocchè ci andassimo ricordando che questa
non è la patria nostra, ma un esilio, ed esilio penoso, e qui non
abbiamo una città, in cui si possa fare lunga permanenza, ma cercarne
noi un’altra che ha da venire. Animo dunque: se si avrà a sloggiare,
facciamolo con franchezza, perchè già si ha a fare o presto o tardi,
e sempre si farà da un paese di miserie. Il rattristarsi, il darsi in
preda all’apprensione, al dolore sarebbe un dolore e un male di più,
e non già una via di fuggire la morte. Facciamo intrepidamente di
necessità virtù, e senza fermare il pensiero in que’ pochi beni, o veri
o apparenti, che ci dà questa vita terrena, pensiam più tosto a quei
tanti veri mali, onde essa abbonda, avendone noi provato in sì gran
copia finora o nell’animo o nel corpo nostro; e perciò prepariamci,
se così sarà volere dell’Altissimo, ad uscirne fuori con coraggio, con
rassegnazione e con giubilo.
E giubilo appunto proveremo, se ravvivando in noi la virtù della
fede per credere fermissimamente il regno dell’eternità e le sublimi
promesse lasciate a noi dal veracissimo e onnipotentissimo Dio, si
ecciterà in nostro cuore la speranza di que’ sommi ed infiniti beni
che non avranno mai fine. Speranza dolcissima, speranza confortatrice,
alla cui voce si rallegra tutto l’interno de’ veri fedeli, e il timore
di più non dover vivere si cangia in un vivo desiderio o almeno in
un saggio sprezzo di morire quaggiù per avere a regnare eternamente
con Dio. Ma perchè si oppone per lo più a così nobile speranza la
memoria de’ molti e moltissimi peccati nostri, dobbiamo allora di
nuovo rivolgerci a Dio con un forte e vero pentimento delle colpe
nostre, considerando più che mai, quanto grande, quanto costante sia
la sua divina misericordia. Non c’è alcuna sua dote, di cui ci abbia
egli dato più spesso, nè più ampiamente, idea e sicurezza, quanto
della sua immensa bontà e clemenza. Egli la replica, e tante volte
la replica nelle sacre carte, quasi questo buon Dio temesse che ce ne
dimenticassimo qualche volta o che ne avessimo da dubitare un giorno.
Egli sempre fa e sempre si ricorda che noi siam polvere, che noi siam
facili a cadere, e purchè ci vegga pentiti di cuore delle offese a lui
fatte e veracemente determinati a servirlo e a non offenderlo, ci corre
questo buon Padre incontro, ci cade sul collo con tenerezza inudita e
mette tutta in festa la sua real corte per la gioia d’aver ricuperato i
figliuoli che s’erano perduti. Adunque possiamo sperar tutto del nostro
benignissimo Dio, purchè ci presentiamo a lui con vero abborrimento
al peccato, e con filiale amore verso di lui che è il Dio della
misericordia. Ma che dissi possiamo? Anzi dobbiamo sperar tutto di
lui, perchè egli stesso ci comanda che speriamo, e c’inculca nelle sue
divine Scritture la celeste virtù della speranza; nè si dee mai partire
dal nostro cuore e dalla nostra bocca quella tanto vera e tanto dolce
sentenza: _Chi spera in lui non sarà confuso in eterno._
Finalmente si dee allora di continuo considerare l’obbligazione che
tutti abbiamo di fare la volontà di Dio. Siamo sue creature, suoi
servi, suoi figliuoli: adunque se il Creatore, se il Padrone, se il
Padre ci chiamerà a sè, dobbiamo ubbidirgli con tutta sommessione
e rassegnazione, e di buona voglia. Diciamo tuttodì nell’orazione
insegnataci dal suo divin Figliuolo che _venga il regno suo, che sia
fatta la volontà sua._ Non la vorremo noi fare allora? o pur la faremo
con ripugnanza ribelle e con un timore e dispetto a lui ingiurioso?
Ad ogni modo si ha da eseguire il volere santissimo di Dio: sarà una
deforme debolezza e una spezie di stoltizia il non far volentieri ciò
che per necessità si ha da fare. È amara la morte a quei soli che
han riposta ogni lor felicità in questa per altro fallace e misera
vita terrena, e non amano di sottomettere la propria volontà a quella
dell’amantissimo nostro padre Iddio. Tolga egli per la sua infinita
clemenza e colla sua potentissima grazia che noi siam di questi.
Se ci rifletteremo bene e non saremo accecati dalla passione, ci
apparirà chiaro che se mancheremo di vita in un contagio, mancheremo
in un tempo in cui più che in altri è facile alle anime cristiane il
passare da questa valle di miserie e di peccati, al beatissimo regno
del nostro gran Dio e Salvatore Gesù. In altri tempi suole arrivarci
addosso la morte all’improvviso, con trovarci mal preparati al viaggio
dell’eternità; ovvero, assalendoci le febbri ed altri mali, non ci
lasciano l’uso della ragione e dei sensi per poter saldare i conti
con Dio e col mondo, prima di metterci in cammino. Ma infierendo la
pestilenza, l’aspetto ed esempio altrui grida a gran voce che la morte
viene, e che ci convertiamo a Dio, potendosi perciò colla mente sana
disporre ciascuno ad agevolmente conseguire la gloria che ci aspetta
nell’altra vita. Oltre di che, la peste è un gran campo da esercitar le
virtù, e a darsi un ampio capitale di merito appresso il Padron della
morte e della vita. Lo stesso sofferir la morte di buon grado, con
intenzione d’ubbidire allora a Dio, sarà di un merito immenso presso
Dio. _Questa peste_, così diceva S. Cipriano di quella de’ suoi giorni
nel sermone della mortalità, _questo morbo che si mostra sì spaventoso
e mortifero, va investigando chi sia o non sia dabbene, ed esamina le
menti del genere umano; se i sani servano agl’infermi; se i parenti con
carità si amino insieme; se i padroni abbiano compassione de’ servitori
che languiscono; se i medici non abbandonino gl’infermi; se i crudeli
raffrenino la loro violenza; se i rapaci, almeno per paura della morte,
estinguano il continuo ed insaziabile ardore della furiosa avarizia; se
i superbi pieghino il collo; se gli scellerati depongano l’audacia; se
i ricchi, almeno dappoichè muoiono i lor cari e restano senza eredi, e
sono anch’essi vicini alla morte, donino alcuna cosa. Queste non sono
per noi disgrazie funeste, ma esercizi che porgono all’animo la gloria
della fortezza, e col dispregio della morte ci preparano alla corona._
Adunque il miglior partito in sì fatti tempi sarà il prepararsi, come
se si avesse infallibilmente a morire, e poi gittarsi tutto in braccio
alla Provvidenza divina; e, ciò fatto, attendere coraggiosamente a’
suoi affari, senza però trascurar le diligenze e cautele umane. Quindi
verrà confidenza ed allegria, quindi coraggio e costanza di cuore. Se
così piacerà a Dio, resteremo qui suoi; se no moriremo parimente suoi,
e con isperanza anche più grande che in altri tempi di passar tosto
o in breve all’immortalità beata. Eroico poi e degno d’invidia sarà
il coraggio di chi allora si sacrificherà tutto agli esercizj della
carità cristiana nella cura e nel soccorso del povero popolo. Ma di
questo a suo luogo. Chiudiamo il presente argomento con un ricordo
a coloro che non solamente ripongono allora tutta la speranza di
schivar l’infezione nelle sole diligenze umane, senza curar molto la
grazia e la protezione di Dio, ma ancora cercano più che mai lo sfogo
dei loro appetiti, nulla movendosi ad una delle maggiori prediche
che loro si possano fare nel mondo, cioè al terribilissimo aspetto
d’una peste. Sappiano essi avere eglino allora da temer più degli
altri che il potente braccio di quello stesso Dio gli arrivi. Non
mancheranno mezzi allo sdegno divino di deludere i loro aerei scampi
e consigli, e di colpirli quando meno sel penseranno. Durante la peste
di Milano del 1586, siccome narra il Giussano nella vita di S. Carlo,
s’erano ritirati alcuni nobili cittadini in un castello, per fuggire
il pericolo del contagio, e dandosi eglino falsamente a credere che
ottimo rimedio, per non prendere il mal della peste, fosse lo stare in
qualunque maniera allegri e il darsi di buon tempo, concertarono certi
trattenimenti profani ad imitazion del Boccaccio, formando una raunanza
con titolo di _Accademia d’amore_; ed ivi consumando tutto il giorno in
giuochi, novelle e trastulli, quasi affatto se ne stavano dimentichi di
Dio e della loro eterna salute. Ma mentre in questi spassi e diletti
pensavano d’essere sicuri da ogni pericolo di male per le diligenze
che usavano in guardare quel castello, ecco che tutto in un tratto si
scoprì loro addosso lo sdegno di Dio, entrando colà la pestilenza e
facendovi più strage che altrove. Un’allegria, ma cristiana, ma santa,
cioè fondata sopra una coraggiosa rassegnazione a Dio e sopra un vero
desiderio di piacere in tutto a lui, e nutrita dall’orazione e da altri
onesti esercizi, con pregar anche l’Altissimo che ci mantenga liberi
dall’apprensione e dal timore dei mali temporali e senza voler punto
scrutiniare i suoi profondi giudizj; quella sarà la vera allegria che
dee accompagnarsi con esso noi, e che principalmente contribuirà a
tenerci lontana la peste, ministra fedele dell’ira e provvidenza di
Dio.
CAPO III.
_Uffizio de’ vescovi venuto il contagio. Provvisione di ministri
e d’altri soccorsi temporali e spirituali. Lazzeretto per gli
ecclesiastici. Consolare e animare il popolo colla presenza e con
altri aiuti. Varie licenze da concedersi dal prelato. Messe ove
da dirsi. Prediche e processioni come da farsi. Quali regole in
tempo di generale quarantena._
Felici que’ popoli a’ quali il cielo comparte e principi, e maestrati,
e vescovi pieni in tutti i tempi d’amore paterno verso i sudditi, e
di nobilissimo zelo pel pubblico bene. Ma non mai si prova cotanto
che bel regalo del cielo sia questo come nella disgrazia d’una peste.
Sogliono allora i buoni pastori ecclesiastici fare un’offerta a Dio
di tutti sè stessi, promovendo poscia con vigilanza continua non meno
la felicità spirituale, che la politica delle loro pecorelle, con
aiutare il governo secolare a difenderle, per quanto mai si può, dalla
peste insieme e dalla fame, e con accudire a far curare gl’infermi,
e a consolare e rincorare il popolo afflitto. Sarà pertanto cura del
prelato, entrata che sia la peste, l’assistere ai maestrati, acciocchè
senza dilazione sieno messi in ordine, o fondati, se la possibilità
il permette, lazzeretti ben capaci per gl’infetti e sospetti, e
affinchè vengano essi ben provveduti di medici, cerusici, medicamenti,
serventi, balie, levatrici, capre, beccamorti, ed altri ministri, colla
distinzione degli uomini dalle donne, anzi con procurare eziandio,
se si potrà, che le maritate stieno segregate dalle fanciulle, il che
per vari riguardi vien consigliato dai saggi; e che non si permettano
visite, passaggi e colloqui sotto pretesto alcuno di parentela,
amicizia, o d’altro. Veglierà il vescovo, acciocchè ivi non abbia luogo
alcun altro scandalo, ma vi si eserciti la carità con esattezza, e
vi si promuova la pazienza e la divozione. Metterà ogni applicazione
per adunar sacerdoti, confessori, visitatori, ed altre persone tanto
ecclesiastiche quanto secolari, che assistano ai lazzeretti, ai
monasteri delle monache, e alla cura d’alcuni degl’infetti, ed altri
dei sani, e specialmente in sussidio dei parochi, pensando a tutto
quello che possa occorrere per l’amministrazione de’ sacramenti. A
questo fine sul principio convocherà gli ecclesiastici della città
e i capi degli ordini religiosi, e insinuerà, o farà loro insinuare,
quello essere il tempo da far conoscere a Dio e al mondo lo spirito
della loro pietà, carità e santa vocazione, coll’impiegarsi in servigio
specialmente spirituale del prossimo e de’ loro fratelli in Cristo. E
qui proseguirà adducendo i motivi più forti per esortarli ed animarli
a non mancare d’aiuto in sì estremo bisogno al popolo di Dio, ciascuno
secondo le sue forze, abilità ed inclinazioni, per farsi del merito
in cielo, e beneficare la patria. Per mezzo ancora de’ parochi, o de’
predicatori, o di qualche editto, o in altra guisa che si trovi più
praticabile, farà esporre questo medesimo invito ai secolari maschi
e femmine. Tutti quegli, sì laici, come ecclesiastici, che accesi del
fuoco dell’amore di Dio si offeriranno al servigio o dei lazzeretti, o
degl’infermi, o per altri ministerj caritativi, col nome di _oblati_,
si daranno in nota al vescovo, che ne terrà buon conto per distribuirli
a suo tempo, e secondo il bisogno, ne’ vari impieghi della carità
cristiana, avvertendoli poi di non ricevere cosa alcuna dalla gente
infetta o sospetta, affinchè non pregiudichino al proprio corpo, e
all’anima ancora, coll’esporsi all’evidente pericolo di contrarre
l’infezione anch’essi.
Fu praticato in Milano (e sarebbe desiderabile che potessero far lo
stesso altre città) di non mandare gli ecclesiastici al lazzeretto
comune degl’infetti; ma erettone un altro a posta per i medesimi, si
liberò il pubblico da questa cura, e si provvide con più comodità e
decenza al bisogno dei ministri di Dio, con obbligare l’università
degli ecclesiastici medesimi a somministrare quanto occorreva. In
questo luogo verranno ricoverati gl’infermi dell’uno e dell’altro
clero, con questa differenza nondimeno, cioè che per carità e senza
spesa alcuna saranno ivi accolti e mantenuti quegli ecclesiastici
tanto secolari quanto regolari che avessero preso il male nell’attuale
servigio dei lazzeretti o degl’infermi, o pure per la loro povertà non
potessero spendere; resteranno obbligati a pagare gli altri che non
faticano e possono pagare.
Quindi rivolga il prelato il suo studio a levare dagli animi del popolo
la costernazione e la stupidezza, che spesso allora assalisce quasi
tutti, ed impedisce non solamente l’esercizio de’ vari uffizi, ma
eziandio la buona cura di sè stesso, non che degli altri. Anch’egli
esorterà ciascuno alla costanza e al coraggio, dandone prima, per
quanto potrà, egli medesimo esempio a tutti. A ciò contribuirebbe
assaissimo s’egli potesse di quando in quando lasciarsi vedere per
le contrade e piazze della città a cavallo, come hanno costumato in
simili occasioni i cardinali S. Carlo e Federigo Borromei, arcivescovi
di Milano d’immortale memoria, Gianfrancesco di Sales vescovo di
Ginevra, successore e fratello degnissimo di S. Francesco, e tanti
altri cardinali, vescovi e principi. Non si può dire che consolazione e
che gioia inspiri ne’ cuori o mesti o abbattuti della gente, il poter
mirare allora dalle porte o dalle finestre, o pure a cielo aperto il
volto del loro sacro pastore, o di chi li governa. Quell’osservare
che personaggi tanto loro superiori non paventano la peste, è una
grande scuola di non paventare anche agli altri; e quel chiarirsi
che i governatori dati loro da Dio si prendono in persona tanta cura
d’essi, e si sforzano di rimediare alle loro miserie e pericoli,
accresce a tutti il conforto e il coraggio per non disperar da lì
innanzi, e per sopportare con più tolleranza gli incomodi di quella
misera congiuntura. Utilissimo pertanto al popolo e glorioso ai vescovi
e ad altri superiori sarebbe allora il portarsi sino alle porte dei
lazzeretti e il passeggiar talvolta per le contrade, informandosi
eglino stessi dello stato degli infermi e di qualunque altro bisognoso,
con ascoltarli o dalle finestre o in una convenevole lontananza,
tenendo poi registro di tutto per soccorrere, come si potrà il meglio,
alle necessità di cadauno. A questo atto d’eroica fortezza e d’insigne
carità cristiana, certo è che terranno dietro le benedizioni non
meno di tutto il popolo, che di Dio. Qualora non sia loro possibile
il farlo, almeno mandino i loro primari ministri o altre accreditate
persone, che in loro nome s’informino, e confortino, e rincorino chi ne
ha bisogno, soccorrendo poi con gli effetti alle indigenze altrui.
Parimente dovrà il vescovo concedere a tutti i confessori da sè
approvati, e specialmente ai parochi, e in caso di necessità anche ai
sacerdoti semplici (che si riputeranno approvati senza esame in caso
di necessità) la facoltà di assolvere non solamente gli appestati, ma
eziandio tutto il resto del popolo dai casi e dalle censure riservate
a loro, ed anche riservate al sommo pontefice, avendone prima ottenuta
la licenza dalla S. Sede. E perciocchè può accadere che in que’ sì
sconcertati tempi non possano i parochi, confessori e vicari foranei
facilmente ricorrere al prelato, concederà loro in tal caso le più
ampie facoltà, come sarebbe di potere, occorrendo il bisogno, ascoltare
le confessioni senza tutti i sacri riti esteriori che si usano in altri
tempi, purchè il facciano con pia decenza; e di sottoporre le parti
delle parrocchie di villa alle più comode ed intatte, qualora per i
passi levati non potessero accorrere alla propria parrocchiale, o l’una
parte fosse infetta e l’altra illesa; e di ommettere le denunzie per
contrarre matrimonio fra persone che in pericolo di morte volessero
appagar la loro coscienza e legittimare la prole. Darà ancora licenza
di poter celebrare messa in ogni chiesa, ed anche con altare di legno
fuori di chiesa, o nelle piazze e vie; e di poter soddisfare in essi
altari all’obbligazione di celebrare in altri; e di poter costituire
ed approvare confessori secondo il bisogno. Il Diana mette in dubbio
se il vescovo possa anche dar licenza di celebrare il santo sacrifizio
nelle case private. Dicono di sì il Marchino e il Pasqualigo; e alla
loro sentenza si può saggiamente aderire. Imperocchè non essendoci
più salutevol mezzo umano per isfuggire o non comunicare ad altrui la
peste, quanto lo star ritirato e consolato, non pare conveniente il
costringere le persone, e massimamente le nobili, ad uscir di casa, e
a portarsi con tanto loro ed altrui pericolo alle chiese o ai pubblici
luoghi per ascoltare la messa, quando si possa in altra più comoda
e sicura forma soddisfare alla loro divozione e pietà. Cessano qui i
motivi per cui non si concede tal grazia in altri tempi; e vi entra
il motivo di concederla pel pubblico e privato bene; anzi vi ha luogo
il riflesso della necessità, che, considerato dalla Chiesa, fa in
altri tempi accordare la licenza medesima. E quantunque non vi sia,
rigorosamente parlando, questa necessità, perchè allora non corre il
precetto di uscire di casa per portarsi ad udite la messa, tuttavia si
può chiamare in certa guisa necessario il consolare; per quanto si può,
la gente ivi ristretta, alla quale è fuor di dubbio che riesce allora
di una somma consolazione il poter assistere al divino sacrifizio
senza pericolo alcuno. E giacchè ai pastori ordinari non è vietato da
alcuna precisa legge il dare questa facoltà nei pericolosissimi casi
della peste, e la Chiesa tacitamente concede ai vescovi il provvedere
e dispensare in casi tali secondo il bisogno e l’utilità della loro
greggia, perciò è da preferire la sentenza dei teologi suddetti. Lo
stesso credo io che si possa tenere intorno al dar licenza di mangiar
carne per alcuni giorni di quaresima, cioè tre o quattro per settimana,
con ritener però l’obbligo del digiuno. Alcuni teologi l’insegnano.
Sarà eziandio cura dei vescovi il proibire anch’eglino allora, caso che
i magistrati ne facessero istanza, la pompa e ogni altra formalità di
funerali; e l’ordinare che niuno sia seppellito entro le chiese e ne’
cimiteri soliti, quantunque nè pur fosse stata la sua morte di peste,
a fine d’evitare ogni pericolo ed inganno, potendosi solo esentare
da tal divieto qualche persona di molta distinzione con permetterle
sepolcro solitario e in casse impiombate. Ordineranno ancora i vescovi
che la notte di Natale si canti la messa, ma a porte chiuse, e senza
ammettervi il popolo, con proibir parimente certi presepi o sepolcri,
ai quali si potesse fare un imprudente concorso di gente. Ho udito dire
che nella peste di Genova del 1656 l’essere corso il popolo ad un luogo
da dove si facevano sperar miracoli per preservarsi dal morbo, costò la
vita a molte migliaia di persone, che s’infettarono in pochi giorni.
Di troppa importanza si è il non permettere allora le grandi raunanze
in luogo alcuno, e per conseguente si dovrà andare con gran riguardo a
permetterle anche nelle stesse chiese, perciocchè sarebbe facilissimo
l’attaccare l’uno all’altro il contagio. Non si dee tentar Dio che
faccia dei miracoli per preservarci ne’ luoghi sacri dagli effetti
naturali di quel morbo. Il perchè è stato in uso in altre pesti, e
viene ancora approvato dal consiglio de’ teologi, il dirizzare altari
nelle piazze e in capo alle contrade, e far ivi celebrare la santa
messa, acciocchè le genti preventivamente avvisate dal suono delle
campane, e a certe ore determinate, possano assistervi, o stando alle
finestre e porte, o pure all’aperto, ma colla dovuta distanza fra loro.
Regolerà il prelato questa faccenda, e concederà le facoltà necessarie.
L’arcivescovo di Firenze nella peste del 1630 proibì il suonar campane
o campanelli per invitar gente all’accompagnamento del sacro Viatico,
essendosi provato molto nocivo un tale concorso. Così nella peste che
afflisse la città di Palermo negli anni 1624, 1625 e 1626 si lasciò
di mettere l’acqua santa nelle chiese, perchè si riconobbe pigliarsi
facilmente per mezzo d’essa il morbo. Altrettanto gioverà fare in
simili congiunture. Il levare poi affatto le prediche in tempi tali
non sembra conveniente, siccome soccorso che allora è più che mai
utile o necessario al popolo per far coraggio e concepire sentimenti
di vera penitenza e divozione, e prepararsi per tutti gli avvenimenti.
Osservisi dunque se si potesse predicare in diversi luoghi spaziosi
della città, e con dividere e diradare quanto più fosse possibile
gli uditori. In Firenze l’anno 1630 furono sospese le prediche,
giudicandosi questo il partito più sicuro.
Prima della peste lodano tutti l’implorare il soccorso divino
con pubbliche numerose processioni, avuto riguardo però che non
v’intervengano o concorrano persone le quali potessero portar seco
il malore. Venuta poi la peste, suole disputarsi se convenga fare
lo stesso. Certo ci assicurano le storie essersi osservata in varie
città e terre, anche anticamente, la diminuzione o cessazione della
pestilenza dopo sì fatte processioni, e il P. Teofilo Rinaldo ne
reca vari esempi. Ma, secondo altri, meglio sarà l’astenersene per
la ragione suddetta di non doversi esigere da Dio degli evidenti
miracoli, e per altri motivi che tralascio. Noi sappiamo che dappoichè
in Milano nel 1576 ne fu fatta una solennissima da S. Carlo, e
un’altra addì 13 giugno 1630 dal cardinale Federigo Borromeo, si
vide immediatamente aumentarsi il furore della pestilenza. Così per
attestato del P. Marchino addì 28 giugno del 1630 furono da Nonantola
con solenne processione portati a Modena i corpi de’ SS. Sinesio e
Teopompo (siccome per relazione del Sigonio fu anche fatto nell’anno
1006), ed esposti per due giorni nel duomo con gran concorso di popolo,
vennero finalmente ricondotti a Nonantola. Io non leggo che prima di
quel dì la peste fosse entrata nella nostra città; leggo bensì che da
lì a pochi giorni essa cominciò a farci strage. Perciò in Roma, cioè
in quella città che fu regolata con mirabile saviezza nel contagio
del 1656, non fu, per quanto io sappia, ordinata alcuna di queste sì
strepitose processioni nel bollor della peste. All’incontro in Firenze
nell’anno 1630 ne furono fatte alcune, ma dal solo arcivescovo e da
e anche di delegarla ad altri. Chieda ancora per chi farà opere di
carità la licenza di eleggersi un confessore, benchè regolare, il
quale assolva da ogni caso e censura riservata. Di più procurerà
l’autorità di permutare l’uno d’alcuni legati pii in sollievo de’
poveri, potendo ciò essere necessario o utilissimo in quelle misere
contingenze e gratissimo a Dio, che che potesse parere ad alcuni, i
quali talvolta non sanno assai bene estimare le intenzioni pie dei
testatori e i privilegi della carità e necessità. Chieda eziandio di
poter adoperare, anche senza la permissione de’ loro superiori, que’
religiosi che volessero santamente dedicarsi al servigio de’ lazzeretti
e degli appestati; siccome ancora di poter costringere le persone
religiose ed altri ecclesiastici, o luoghi, esenti dalla giurisdizione
episcopale, a far ciò che richiederà la pubblica utilità durante il
tempo della peste. Di tutto poi si varrà il vescovo, caso che ne venga
il bisogno, secondo la sua prudenza. Finalmente egli è da sperare che
se si avvicinassero le minacce d’una pestilenza, si moverà di buon’ora
il piissimo zelo de’ sommi pontefici a concedere un Giubileo che potrà
essere efficacissimo mezzo a placare lo sdegno divino o ad incitar
maggiormente i popoli al timore di Dio, alla divozione e alle opere
sante.
CAPO II.
_Quanto sia necessario il coraggio ne’ tempi della pestilenza_.
_Fede e speranza, virtù divine e fonti d’intrepidezza e di
giubilo. Bontà e misericordia di Dio ricordate ai peccatori.
Rassegnazione a Dio, e darsi tutti a lui._
Allorchè la peste entra in qualche città per la prima volta e già
si scorge cominciare, vittoriosa d’ogni ostacolo, a mieter le vite
del popolo, pochi son quelli che spettatori di sì orribile, non mai
veduto e tanto pericoloso spettacolo, non s’empiano di terrore,
di costernazione ed anche di viltà. E benchè non pochi ripiglino
animo coll’andar più innanzi, simili a certi soldati, timorosi nella
prima battaglia, ma che poi vanno a poco a poco formando il coraggio
nell’avvezzarsi al fuoco; pure più son quelli che durante il contagio
pusillanimi sempre, sempre conservano il primiero orrore, temendo di
tutto, e da per tutto mirando dipinta nelle morti altrui la propria
morte. Ma se c’è tempo in cui sia necessaria la costanza dell’animo,
l’intrepidezza e il coraggio, quel della peste è sicuramente, e
più degli altri, tale. L’ho detto e il torno a ripetere: secondo la
conclusione di tutti i più saggi medici e di qualunque pratico di
sì funeste occasioni, uno dei gran preservativi della peste si è il
non aver paura della peste. Il coraggio, l’allegria, la tranquillità
dell’anima tenendo in un sano equilibrio e senza alterazione, gli
spiriti ed umori del corpo, tengono serrato in qualche guisa il passo
anche al veleno esterno della pestilenza. Non s’hanno a trascurare gli
altri mezzi e i rimedj per preservarsi; ma questo ha da essere uno
dei primi. L’apprensione, il terrore e la malinconia sono anch’essi
una peste ne’ tempi di peste, disordinando la fantasia e disponendo
la massa degli umori a facilmente ricevere e in certa guisa chiamar da
lontano il veleno regnante, siccome con infiniti casi ha fatto vedere
la sperienza. Necessarïssima dunque si è allora la fortezza e costanza
dell’animo per benefizio di cadauno in particolare; ma spezialmente ve
n’è estrema necessità, per benefizio del pubblico, nei maestrati, nei
sacerdoti e in qualunque altra persona, a cui sia appoggiato il governo
o spirituale o temporale del popolo in mezzo a sì fiera calamità.
Se questi son dominati dalla paura, se questi fuggono, lasciando di
regolare e di soccorrere con opportune provvisioni e colla lor presenza
il povero popolo, immenso è il disordine, somma la disperazione,
infinita la strage. Ma se questi, fortificato il lor cuore da un nobile
e savio coraggio, accenderanno in esso anche il fuoco della carità,
viscere d’amore paterno e cristiano, e nulla ommettendo per salute
della lor patria, non si può dire quanti metteranno in salvo, loro
mercè, la vita dell’anima, e quanti ancora quella del corpo.
Abbiamo altrove accennato alcune ragioni umane da far coraggio ne’
contagi; abbiam di più riferito que’ preservativi che giustamente
accrescono la speranza di esentarsi dal morbo in mezzo al morbo. Ora
aggiungiamo che nulla più può inspirare e rassodare negli uomini la
tranquillità e fortezza, quanto le massime della legge cristiana, cioè
la scuola del santo Vangelo. Allora dunque convien mettersi davanti
agli occhi la brevità e miseria di questa vita, la speranza della beata
eternità e la sommessione che dobbiam tutti al sommo nostro padrone
Iddio. Brevi sono i giorni dell’uomo: chi nol vede? e volere o non
volere, tutti andiamo a gran passi verso il nostro fine. Quand’anche
menassimo sino all’estrema vecchiaia i nostri giorni, pochissimo
sarebbe ancora questo tempo. Ora speriamo noi forse la nostra felicità
da pochi momenti di vita temporale? Troppo è caduca, troppo incerta,
piena troppo d’angustie e d’afflizioni si è questa misera terra; ognuno
il sa per prova. Il nostro Dio anche per questo ordinò che i mali
abitassero nel mondo, acciocchè ci andassimo ricordando che questa
non è la patria nostra, ma un esilio, ed esilio penoso, e qui non
abbiamo una città, in cui si possa fare lunga permanenza, ma cercarne
noi un’altra che ha da venire. Animo dunque: se si avrà a sloggiare,
facciamolo con franchezza, perchè già si ha a fare o presto o tardi,
e sempre si farà da un paese di miserie. Il rattristarsi, il darsi in
preda all’apprensione, al dolore sarebbe un dolore e un male di più,
e non già una via di fuggire la morte. Facciamo intrepidamente di
necessità virtù, e senza fermare il pensiero in que’ pochi beni, o veri
o apparenti, che ci dà questa vita terrena, pensiam più tosto a quei
tanti veri mali, onde essa abbonda, avendone noi provato in sì gran
copia finora o nell’animo o nel corpo nostro; e perciò prepariamci,
se così sarà volere dell’Altissimo, ad uscirne fuori con coraggio, con
rassegnazione e con giubilo.
E giubilo appunto proveremo, se ravvivando in noi la virtù della
fede per credere fermissimamente il regno dell’eternità e le sublimi
promesse lasciate a noi dal veracissimo e onnipotentissimo Dio, si
ecciterà in nostro cuore la speranza di que’ sommi ed infiniti beni
che non avranno mai fine. Speranza dolcissima, speranza confortatrice,
alla cui voce si rallegra tutto l’interno de’ veri fedeli, e il timore
di più non dover vivere si cangia in un vivo desiderio o almeno in
un saggio sprezzo di morire quaggiù per avere a regnare eternamente
con Dio. Ma perchè si oppone per lo più a così nobile speranza la
memoria de’ molti e moltissimi peccati nostri, dobbiamo allora di
nuovo rivolgerci a Dio con un forte e vero pentimento delle colpe
nostre, considerando più che mai, quanto grande, quanto costante sia
la sua divina misericordia. Non c’è alcuna sua dote, di cui ci abbia
egli dato più spesso, nè più ampiamente, idea e sicurezza, quanto
della sua immensa bontà e clemenza. Egli la replica, e tante volte
la replica nelle sacre carte, quasi questo buon Dio temesse che ce ne
dimenticassimo qualche volta o che ne avessimo da dubitare un giorno.
Egli sempre fa e sempre si ricorda che noi siam polvere, che noi siam
facili a cadere, e purchè ci vegga pentiti di cuore delle offese a lui
fatte e veracemente determinati a servirlo e a non offenderlo, ci corre
questo buon Padre incontro, ci cade sul collo con tenerezza inudita e
mette tutta in festa la sua real corte per la gioia d’aver ricuperato i
figliuoli che s’erano perduti. Adunque possiamo sperar tutto del nostro
benignissimo Dio, purchè ci presentiamo a lui con vero abborrimento
al peccato, e con filiale amore verso di lui che è il Dio della
misericordia. Ma che dissi possiamo? Anzi dobbiamo sperar tutto di
lui, perchè egli stesso ci comanda che speriamo, e c’inculca nelle sue
divine Scritture la celeste virtù della speranza; nè si dee mai partire
dal nostro cuore e dalla nostra bocca quella tanto vera e tanto dolce
sentenza: _Chi spera in lui non sarà confuso in eterno._
Finalmente si dee allora di continuo considerare l’obbligazione che
tutti abbiamo di fare la volontà di Dio. Siamo sue creature, suoi
servi, suoi figliuoli: adunque se il Creatore, se il Padrone, se il
Padre ci chiamerà a sè, dobbiamo ubbidirgli con tutta sommessione
e rassegnazione, e di buona voglia. Diciamo tuttodì nell’orazione
insegnataci dal suo divin Figliuolo che _venga il regno suo, che sia
fatta la volontà sua._ Non la vorremo noi fare allora? o pur la faremo
con ripugnanza ribelle e con un timore e dispetto a lui ingiurioso?
Ad ogni modo si ha da eseguire il volere santissimo di Dio: sarà una
deforme debolezza e una spezie di stoltizia il non far volentieri ciò
che per necessità si ha da fare. È amara la morte a quei soli che
han riposta ogni lor felicità in questa per altro fallace e misera
vita terrena, e non amano di sottomettere la propria volontà a quella
dell’amantissimo nostro padre Iddio. Tolga egli per la sua infinita
clemenza e colla sua potentissima grazia che noi siam di questi.
Se ci rifletteremo bene e non saremo accecati dalla passione, ci
apparirà chiaro che se mancheremo di vita in un contagio, mancheremo
in un tempo in cui più che in altri è facile alle anime cristiane il
passare da questa valle di miserie e di peccati, al beatissimo regno
del nostro gran Dio e Salvatore Gesù. In altri tempi suole arrivarci
addosso la morte all’improvviso, con trovarci mal preparati al viaggio
dell’eternità; ovvero, assalendoci le febbri ed altri mali, non ci
lasciano l’uso della ragione e dei sensi per poter saldare i conti
con Dio e col mondo, prima di metterci in cammino. Ma infierendo la
pestilenza, l’aspetto ed esempio altrui grida a gran voce che la morte
viene, e che ci convertiamo a Dio, potendosi perciò colla mente sana
disporre ciascuno ad agevolmente conseguire la gloria che ci aspetta
nell’altra vita. Oltre di che, la peste è un gran campo da esercitar le
virtù, e a darsi un ampio capitale di merito appresso il Padron della
morte e della vita. Lo stesso sofferir la morte di buon grado, con
intenzione d’ubbidire allora a Dio, sarà di un merito immenso presso
Dio. _Questa peste_, così diceva S. Cipriano di quella de’ suoi giorni
nel sermone della mortalità, _questo morbo che si mostra sì spaventoso
e mortifero, va investigando chi sia o non sia dabbene, ed esamina le
menti del genere umano; se i sani servano agl’infermi; se i parenti con
carità si amino insieme; se i padroni abbiano compassione de’ servitori
che languiscono; se i medici non abbandonino gl’infermi; se i crudeli
raffrenino la loro violenza; se i rapaci, almeno per paura della morte,
estinguano il continuo ed insaziabile ardore della furiosa avarizia; se
i superbi pieghino il collo; se gli scellerati depongano l’audacia; se
i ricchi, almeno dappoichè muoiono i lor cari e restano senza eredi, e
sono anch’essi vicini alla morte, donino alcuna cosa. Queste non sono
per noi disgrazie funeste, ma esercizi che porgono all’animo la gloria
della fortezza, e col dispregio della morte ci preparano alla corona._
Adunque il miglior partito in sì fatti tempi sarà il prepararsi, come
se si avesse infallibilmente a morire, e poi gittarsi tutto in braccio
alla Provvidenza divina; e, ciò fatto, attendere coraggiosamente a’
suoi affari, senza però trascurar le diligenze e cautele umane. Quindi
verrà confidenza ed allegria, quindi coraggio e costanza di cuore. Se
così piacerà a Dio, resteremo qui suoi; se no moriremo parimente suoi,
e con isperanza anche più grande che in altri tempi di passar tosto
o in breve all’immortalità beata. Eroico poi e degno d’invidia sarà
il coraggio di chi allora si sacrificherà tutto agli esercizj della
carità cristiana nella cura e nel soccorso del povero popolo. Ma di
questo a suo luogo. Chiudiamo il presente argomento con un ricordo
a coloro che non solamente ripongono allora tutta la speranza di
schivar l’infezione nelle sole diligenze umane, senza curar molto la
grazia e la protezione di Dio, ma ancora cercano più che mai lo sfogo
dei loro appetiti, nulla movendosi ad una delle maggiori prediche
che loro si possano fare nel mondo, cioè al terribilissimo aspetto
d’una peste. Sappiano essi avere eglino allora da temer più degli
altri che il potente braccio di quello stesso Dio gli arrivi. Non
mancheranno mezzi allo sdegno divino di deludere i loro aerei scampi
e consigli, e di colpirli quando meno sel penseranno. Durante la peste
di Milano del 1586, siccome narra il Giussano nella vita di S. Carlo,
s’erano ritirati alcuni nobili cittadini in un castello, per fuggire
il pericolo del contagio, e dandosi eglino falsamente a credere che
ottimo rimedio, per non prendere il mal della peste, fosse lo stare in
qualunque maniera allegri e il darsi di buon tempo, concertarono certi
trattenimenti profani ad imitazion del Boccaccio, formando una raunanza
con titolo di _Accademia d’amore_; ed ivi consumando tutto il giorno in
giuochi, novelle e trastulli, quasi affatto se ne stavano dimentichi di
Dio e della loro eterna salute. Ma mentre in questi spassi e diletti
pensavano d’essere sicuri da ogni pericolo di male per le diligenze
che usavano in guardare quel castello, ecco che tutto in un tratto si
scoprì loro addosso lo sdegno di Dio, entrando colà la pestilenza e
facendovi più strage che altrove. Un’allegria, ma cristiana, ma santa,
cioè fondata sopra una coraggiosa rassegnazione a Dio e sopra un vero
desiderio di piacere in tutto a lui, e nutrita dall’orazione e da altri
onesti esercizi, con pregar anche l’Altissimo che ci mantenga liberi
dall’apprensione e dal timore dei mali temporali e senza voler punto
scrutiniare i suoi profondi giudizj; quella sarà la vera allegria che
dee accompagnarsi con esso noi, e che principalmente contribuirà a
tenerci lontana la peste, ministra fedele dell’ira e provvidenza di
Dio.
CAPO III.
_Uffizio de’ vescovi venuto il contagio. Provvisione di ministri
e d’altri soccorsi temporali e spirituali. Lazzeretto per gli
ecclesiastici. Consolare e animare il popolo colla presenza e con
altri aiuti. Varie licenze da concedersi dal prelato. Messe ove
da dirsi. Prediche e processioni come da farsi. Quali regole in
tempo di generale quarantena._
Felici que’ popoli a’ quali il cielo comparte e principi, e maestrati,
e vescovi pieni in tutti i tempi d’amore paterno verso i sudditi, e
di nobilissimo zelo pel pubblico bene. Ma non mai si prova cotanto
che bel regalo del cielo sia questo come nella disgrazia d’una peste.
Sogliono allora i buoni pastori ecclesiastici fare un’offerta a Dio
di tutti sè stessi, promovendo poscia con vigilanza continua non meno
la felicità spirituale, che la politica delle loro pecorelle, con
aiutare il governo secolare a difenderle, per quanto mai si può, dalla
peste insieme e dalla fame, e con accudire a far curare gl’infermi,
e a consolare e rincorare il popolo afflitto. Sarà pertanto cura del
prelato, entrata che sia la peste, l’assistere ai maestrati, acciocchè
senza dilazione sieno messi in ordine, o fondati, se la possibilità
il permette, lazzeretti ben capaci per gl’infetti e sospetti, e
affinchè vengano essi ben provveduti di medici, cerusici, medicamenti,
serventi, balie, levatrici, capre, beccamorti, ed altri ministri, colla
distinzione degli uomini dalle donne, anzi con procurare eziandio,
se si potrà, che le maritate stieno segregate dalle fanciulle, il che
per vari riguardi vien consigliato dai saggi; e che non si permettano
visite, passaggi e colloqui sotto pretesto alcuno di parentela,
amicizia, o d’altro. Veglierà il vescovo, acciocchè ivi non abbia luogo
alcun altro scandalo, ma vi si eserciti la carità con esattezza, e
vi si promuova la pazienza e la divozione. Metterà ogni applicazione
per adunar sacerdoti, confessori, visitatori, ed altre persone tanto
ecclesiastiche quanto secolari, che assistano ai lazzeretti, ai
monasteri delle monache, e alla cura d’alcuni degl’infetti, ed altri
dei sani, e specialmente in sussidio dei parochi, pensando a tutto
quello che possa occorrere per l’amministrazione de’ sacramenti. A
questo fine sul principio convocherà gli ecclesiastici della città
e i capi degli ordini religiosi, e insinuerà, o farà loro insinuare,
quello essere il tempo da far conoscere a Dio e al mondo lo spirito
della loro pietà, carità e santa vocazione, coll’impiegarsi in servigio
specialmente spirituale del prossimo e de’ loro fratelli in Cristo. E
qui proseguirà adducendo i motivi più forti per esortarli ed animarli
a non mancare d’aiuto in sì estremo bisogno al popolo di Dio, ciascuno
secondo le sue forze, abilità ed inclinazioni, per farsi del merito
in cielo, e beneficare la patria. Per mezzo ancora de’ parochi, o de’
predicatori, o di qualche editto, o in altra guisa che si trovi più
praticabile, farà esporre questo medesimo invito ai secolari maschi
e femmine. Tutti quegli, sì laici, come ecclesiastici, che accesi del
fuoco dell’amore di Dio si offeriranno al servigio o dei lazzeretti, o
degl’infermi, o per altri ministerj caritativi, col nome di _oblati_,
si daranno in nota al vescovo, che ne terrà buon conto per distribuirli
a suo tempo, e secondo il bisogno, ne’ vari impieghi della carità
cristiana, avvertendoli poi di non ricevere cosa alcuna dalla gente
infetta o sospetta, affinchè non pregiudichino al proprio corpo, e
all’anima ancora, coll’esporsi all’evidente pericolo di contrarre
l’infezione anch’essi.
Fu praticato in Milano (e sarebbe desiderabile che potessero far lo
stesso altre città) di non mandare gli ecclesiastici al lazzeretto
comune degl’infetti; ma erettone un altro a posta per i medesimi, si
liberò il pubblico da questa cura, e si provvide con più comodità e
decenza al bisogno dei ministri di Dio, con obbligare l’università
degli ecclesiastici medesimi a somministrare quanto occorreva. In
questo luogo verranno ricoverati gl’infermi dell’uno e dell’altro
clero, con questa differenza nondimeno, cioè che per carità e senza
spesa alcuna saranno ivi accolti e mantenuti quegli ecclesiastici
tanto secolari quanto regolari che avessero preso il male nell’attuale
servigio dei lazzeretti o degl’infermi, o pure per la loro povertà non
potessero spendere; resteranno obbligati a pagare gli altri che non
faticano e possono pagare.
Quindi rivolga il prelato il suo studio a levare dagli animi del popolo
la costernazione e la stupidezza, che spesso allora assalisce quasi
tutti, ed impedisce non solamente l’esercizio de’ vari uffizi, ma
eziandio la buona cura di sè stesso, non che degli altri. Anch’egli
esorterà ciascuno alla costanza e al coraggio, dandone prima, per
quanto potrà, egli medesimo esempio a tutti. A ciò contribuirebbe
assaissimo s’egli potesse di quando in quando lasciarsi vedere per
le contrade e piazze della città a cavallo, come hanno costumato in
simili occasioni i cardinali S. Carlo e Federigo Borromei, arcivescovi
di Milano d’immortale memoria, Gianfrancesco di Sales vescovo di
Ginevra, successore e fratello degnissimo di S. Francesco, e tanti
altri cardinali, vescovi e principi. Non si può dire che consolazione e
che gioia inspiri ne’ cuori o mesti o abbattuti della gente, il poter
mirare allora dalle porte o dalle finestre, o pure a cielo aperto il
volto del loro sacro pastore, o di chi li governa. Quell’osservare
che personaggi tanto loro superiori non paventano la peste, è una
grande scuola di non paventare anche agli altri; e quel chiarirsi
che i governatori dati loro da Dio si prendono in persona tanta cura
d’essi, e si sforzano di rimediare alle loro miserie e pericoli,
accresce a tutti il conforto e il coraggio per non disperar da lì
innanzi, e per sopportare con più tolleranza gli incomodi di quella
misera congiuntura. Utilissimo pertanto al popolo e glorioso ai vescovi
e ad altri superiori sarebbe allora il portarsi sino alle porte dei
lazzeretti e il passeggiar talvolta per le contrade, informandosi
eglino stessi dello stato degli infermi e di qualunque altro bisognoso,
con ascoltarli o dalle finestre o in una convenevole lontananza,
tenendo poi registro di tutto per soccorrere, come si potrà il meglio,
alle necessità di cadauno. A questo atto d’eroica fortezza e d’insigne
carità cristiana, certo è che terranno dietro le benedizioni non
meno di tutto il popolo, che di Dio. Qualora non sia loro possibile
il farlo, almeno mandino i loro primari ministri o altre accreditate
persone, che in loro nome s’informino, e confortino, e rincorino chi ne
ha bisogno, soccorrendo poi con gli effetti alle indigenze altrui.
Parimente dovrà il vescovo concedere a tutti i confessori da sè
approvati, e specialmente ai parochi, e in caso di necessità anche ai
sacerdoti semplici (che si riputeranno approvati senza esame in caso
di necessità) la facoltà di assolvere non solamente gli appestati, ma
eziandio tutto il resto del popolo dai casi e dalle censure riservate
a loro, ed anche riservate al sommo pontefice, avendone prima ottenuta
la licenza dalla S. Sede. E perciocchè può accadere che in que’ sì
sconcertati tempi non possano i parochi, confessori e vicari foranei
facilmente ricorrere al prelato, concederà loro in tal caso le più
ampie facoltà, come sarebbe di potere, occorrendo il bisogno, ascoltare
le confessioni senza tutti i sacri riti esteriori che si usano in altri
tempi, purchè il facciano con pia decenza; e di sottoporre le parti
delle parrocchie di villa alle più comode ed intatte, qualora per i
passi levati non potessero accorrere alla propria parrocchiale, o l’una
parte fosse infetta e l’altra illesa; e di ommettere le denunzie per
contrarre matrimonio fra persone che in pericolo di morte volessero
appagar la loro coscienza e legittimare la prole. Darà ancora licenza
di poter celebrare messa in ogni chiesa, ed anche con altare di legno
fuori di chiesa, o nelle piazze e vie; e di poter soddisfare in essi
altari all’obbligazione di celebrare in altri; e di poter costituire
ed approvare confessori secondo il bisogno. Il Diana mette in dubbio
se il vescovo possa anche dar licenza di celebrare il santo sacrifizio
nelle case private. Dicono di sì il Marchino e il Pasqualigo; e alla
loro sentenza si può saggiamente aderire. Imperocchè non essendoci
più salutevol mezzo umano per isfuggire o non comunicare ad altrui la
peste, quanto lo star ritirato e consolato, non pare conveniente il
costringere le persone, e massimamente le nobili, ad uscir di casa, e
a portarsi con tanto loro ed altrui pericolo alle chiese o ai pubblici
luoghi per ascoltare la messa, quando si possa in altra più comoda
e sicura forma soddisfare alla loro divozione e pietà. Cessano qui i
motivi per cui non si concede tal grazia in altri tempi; e vi entra
il motivo di concederla pel pubblico e privato bene; anzi vi ha luogo
il riflesso della necessità, che, considerato dalla Chiesa, fa in
altri tempi accordare la licenza medesima. E quantunque non vi sia,
rigorosamente parlando, questa necessità, perchè allora non corre il
precetto di uscire di casa per portarsi ad udite la messa, tuttavia si
può chiamare in certa guisa necessario il consolare; per quanto si può,
la gente ivi ristretta, alla quale è fuor di dubbio che riesce allora
di una somma consolazione il poter assistere al divino sacrifizio
senza pericolo alcuno. E giacchè ai pastori ordinari non è vietato da
alcuna precisa legge il dare questa facoltà nei pericolosissimi casi
della peste, e la Chiesa tacitamente concede ai vescovi il provvedere
e dispensare in casi tali secondo il bisogno e l’utilità della loro
greggia, perciò è da preferire la sentenza dei teologi suddetti. Lo
stesso credo io che si possa tenere intorno al dar licenza di mangiar
carne per alcuni giorni di quaresima, cioè tre o quattro per settimana,
con ritener però l’obbligo del digiuno. Alcuni teologi l’insegnano.
Sarà eziandio cura dei vescovi il proibire anch’eglino allora, caso che
i magistrati ne facessero istanza, la pompa e ogni altra formalità di
funerali; e l’ordinare che niuno sia seppellito entro le chiese e ne’
cimiteri soliti, quantunque nè pur fosse stata la sua morte di peste,
a fine d’evitare ogni pericolo ed inganno, potendosi solo esentare
da tal divieto qualche persona di molta distinzione con permetterle
sepolcro solitario e in casse impiombate. Ordineranno ancora i vescovi
che la notte di Natale si canti la messa, ma a porte chiuse, e senza
ammettervi il popolo, con proibir parimente certi presepi o sepolcri,
ai quali si potesse fare un imprudente concorso di gente. Ho udito dire
che nella peste di Genova del 1656 l’essere corso il popolo ad un luogo
da dove si facevano sperar miracoli per preservarsi dal morbo, costò la
vita a molte migliaia di persone, che s’infettarono in pochi giorni.
Di troppa importanza si è il non permettere allora le grandi raunanze
in luogo alcuno, e per conseguente si dovrà andare con gran riguardo a
permetterle anche nelle stesse chiese, perciocchè sarebbe facilissimo
l’attaccare l’uno all’altro il contagio. Non si dee tentar Dio che
faccia dei miracoli per preservarci ne’ luoghi sacri dagli effetti
naturali di quel morbo. Il perchè è stato in uso in altre pesti, e
viene ancora approvato dal consiglio de’ teologi, il dirizzare altari
nelle piazze e in capo alle contrade, e far ivi celebrare la santa
messa, acciocchè le genti preventivamente avvisate dal suono delle
campane, e a certe ore determinate, possano assistervi, o stando alle
finestre e porte, o pure all’aperto, ma colla dovuta distanza fra loro.
Regolerà il prelato questa faccenda, e concederà le facoltà necessarie.
L’arcivescovo di Firenze nella peste del 1630 proibì il suonar campane
o campanelli per invitar gente all’accompagnamento del sacro Viatico,
essendosi provato molto nocivo un tale concorso. Così nella peste che
afflisse la città di Palermo negli anni 1624, 1625 e 1626 si lasciò
di mettere l’acqua santa nelle chiese, perchè si riconobbe pigliarsi
facilmente per mezzo d’essa il morbo. Altrettanto gioverà fare in
simili congiunture. Il levare poi affatto le prediche in tempi tali
non sembra conveniente, siccome soccorso che allora è più che mai
utile o necessario al popolo per far coraggio e concepire sentimenti
di vera penitenza e divozione, e prepararsi per tutti gli avvenimenti.
Osservisi dunque se si potesse predicare in diversi luoghi spaziosi
della città, e con dividere e diradare quanto più fosse possibile
gli uditori. In Firenze l’anno 1630 furono sospese le prediche,
giudicandosi questo il partito più sicuro.
Prima della peste lodano tutti l’implorare il soccorso divino
con pubbliche numerose processioni, avuto riguardo però che non
v’intervengano o concorrano persone le quali potessero portar seco
il malore. Venuta poi la peste, suole disputarsi se convenga fare
lo stesso. Certo ci assicurano le storie essersi osservata in varie
città e terre, anche anticamente, la diminuzione o cessazione della
pestilenza dopo sì fatte processioni, e il P. Teofilo Rinaldo ne
reca vari esempi. Ma, secondo altri, meglio sarà l’astenersene per
la ragione suddetta di non doversi esigere da Dio degli evidenti
miracoli, e per altri motivi che tralascio. Noi sappiamo che dappoichè
in Milano nel 1576 ne fu fatta una solennissima da S. Carlo, e
un’altra addì 13 giugno 1630 dal cardinale Federigo Borromeo, si
vide immediatamente aumentarsi il furore della pestilenza. Così per
attestato del P. Marchino addì 28 giugno del 1630 furono da Nonantola
con solenne processione portati a Modena i corpi de’ SS. Sinesio e
Teopompo (siccome per relazione del Sigonio fu anche fatto nell’anno
1006), ed esposti per due giorni nel duomo con gran concorso di popolo,
vennero finalmente ricondotti a Nonantola. Io non leggo che prima di
quel dì la peste fosse entrata nella nostra città; leggo bensì che da
lì a pochi giorni essa cominciò a farci strage. Perciò in Roma, cioè
in quella città che fu regolata con mirabile saviezza nel contagio
del 1656, non fu, per quanto io sappia, ordinata alcuna di queste sì
strepitose processioni nel bollor della peste. All’incontro in Firenze
nell’anno 1630 ne furono fatte alcune, ma dal solo arcivescovo e da
- Parts
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 01
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 02
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 03
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 04
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 05
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 06
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 07
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 08
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 09
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 10
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 11
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 12
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 13
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 14
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 15
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 16
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 17
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 18
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 19
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 20
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 21
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 22
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 23
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 24
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 25
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 26
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 27