Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 16

All’incontro ove nel principio sieno duri e rigidi, e crescano a poco
a poco, divenendo lunghi con dolor tollerabile, sarà buon segno; e
massimamente se crescendo riterranno quella durezza per qualche tempo.
5.º Ma se quei buboni duri avranno un certo cerchio intorno di vario
colore a guisa d’un’iride, come ancora se diventeranno lividi o neri,
sarà pessimo segno. Per altro l’infiammazione grave in essi non dee
spaventare il cerusico. 6.º Svanendo e ritirandosi essi al di dentro,
è spedito il malato, quando però svaniscano a precipizio e duri la
febbre, e la natura non si scarichi altrove. 7.º Se verranno presto
alla suppurazione, daranno indizio di salute; ed anche svanendo a
poco a poco senza alcuna suppurazione, purchè cessi la febbre, nulla
avrà da temersene. — E qui torno a ricordare che il Sydenham, il quale
tiene questi tumori per ascessi lodevoli tentati dalla natura, crede
pregiudiziali i sudoriferi allora che i buboni sono usciti fuori, quasi
che s’interrompa il corso preso dalla natura di scaricare gli umori o
spiriti peccanti pel tumore, e perciò retrocedano i buboni colla rovina
dell’infermo. Quantunque il Sydenham fosse di quelli che presero per
qualche tempo le Pillole dei Tre Avverbi, pure la considerazione sua
dee tenersi a mente dai medici per consultarla meglio colla sperienza,
avvertendo però che il medesimo autore non sembra dipoi fare gran caso
di questa paura, mentre tiene minor pericolo il promuovere i sudori
per 24 ore, che il tardi aspettare la legittima maturazione delle
aposteme, la quale in un affetto sì precipitoso suol riuscire molto
incerta e fallace. Per altro anch’egli praticò, e con felice successo,
i sudoriferi prima che nascessero tali tumori.
In tre maniere si fa la cura dei buboni pestilenziali. La prima,
che si chiama per discussione, e che non so se fosse meglio appellar
derivazione, vien lodata e insegnata da alcuni medici di gran nome;
ed è tale: Sotto dei tumori mettono essi due o tre ventose l’una
sotto l’altra, e nell’inferiore posto un vescicante, e svegliata
la vescica, di là procurano di tirar fuori la materia peccante,
applicando ai buboni degli emollienti caldi con pezza di lino, o
del decotto di betonica, isopo, malva, meliloto, aneto, camomilla,
e semi di comino e di fenicolo, applicandolo caldo al tumore con
piumacciuolo di stoppa sopra, mutando tutte ad ogni ora. Se dopo il
settimo giorno non isvaniscono i buboni, vengono poi ai suppuranti.
Altro non dirò di questo metodo, perchè quantunque sia buono, pure
dalla comune de’ medici savi non è creduto il migliore, e gioverà
fermarsi ove più importa. Il secondo metodo, appellato per diversione,
viene anch’esso commendato assaissimo da alcuni, e descritto nella
forma seguente: Nelle parti più lontane dal cuore e meno pericolose,
e specialmente in mezzo alle cosce, fanno un picciolo taglio della
cute, ove mettono dentro un pezzetto di pseudoelleboro, o sia veratro
nero, a cui sia levata la scorza, sovrapponendovi poi un empiastro
tenace; e custodiscono per 24 ore l’infermo colle mani e coi piedi
legati, finito il qual tempo, dicono che tutto il veleno è tirato colà
dalla forza dell’elleboro, e che l’infermo è guarito da ogni pericolo.
Angelo Sala esalta sino alle stelle questa maniera di curare i buboni,
dicendo d’aver fatto dei miracoli colla radice dell’elleboro, ch’egli
tiene per dotato d’una incredibil forza magnetica ed attrattiva. Ma
dall’un canto noi non possiamo assicurarci che un tal rimedio faccia
sì meravigliosi effetti; e dall’altro è chiaro riuscire il medesimo
sì doloroso ai poveri infermi, ch’eglino sono vicini ad impazzire,
nè ci vuol meno d’una forte legatura per tenerli saldi in sì aspro
martirio ed ambascia. Il perchè non oserò io consigliare ad alcuno
questo barbaro ripiego, siccome nè pure l’applicar tali ventose agli
stessi buboni, cosa per altro lodata da alcuni riguardevoli professori
di medicina, e praticata anche da taluno in Roma nella peste del 1656,
perchè quantunque ciò non abbia contraria la ragione, ha però contraria
la sperienza, avendo altri insigni medici osservato con vari sperimenti
che tali ventose nessun buon effetto hanno prodotto, ma solamente hanno
dopo di sè lasciato negl’infermi maggiore l’inquietudine, più acerba la
febbre, e più smoderato il tormento del male. Si è anche avvertito non
ricavarsi frutto dalle sole ventose applicate alle parti più vicine ai
buboni, nè dall’applicar galline o colombi squarciati vivi ai buboni
tagliati; e riuscir troppo pericolosi e dolorosi tutti i tagli fatti
avanti che la materia delle aposteme e dei tumori sia venuta ad una
competente suppurazione. Racconta l’Alberti d’un contadino, il quale
si tagliò un bubone che gli dava intollerabil dolore all’anguinaia. Vi
trovò dentro materia bianca, tenace e grossa. Tentando di tirarla fuori
(nel qual tentativo sentiva eccessivo dolore) la ruppe in modo che
mezza restò dentro. Tuttavia essendo egli rimaso molto sollevato dal
solito cruccio, fatto buon animo, poco dipoi curò il resto, e rimase
come per miracolo libero del tutto dal tormento. Nettò egli poscia e
medicò da sè stesso la ferita, e serrato in pochi giorni il taglio,
si trovò affatto sano. Fo menzione di questo caso non per animare
alcuno a fare altrettanto, ma appunto per avvertire che questi sono
pericolosi eccessi, e cure sregolate da lasciare a chi vuole con gli
spasimi o affrettare, o tirarsi addosso la morte. Conchiudo colle sagge
parole d’Alessandro Massaria: _Sententiæ nostræ summa est, hos tumores
non admodum graviter ed aspere tractandos esse, tam incipientes, quam
declinantes; quum perpetuo nos oporteat operam dare, ut naturam juvemus
ac foveamus, at nullo pacto ut eam magis vexemus et labefaciamus: illa
namque sola et vera est morborum omnium medicatrix_.
La terza maniera dunque di curare i buboni si è quella della
suppurazione e maturazione, lodata e approvata da tutti, cioè di
applicarvi rimedi chiamati emollienti e maturanti, i quali aiutino
la concozione della materia trattenuta nel tumore, e dispongano il
medesimo al taglio. Ne rapporterò qua alcuni, e massimamente de’ più
facili per la povera gente.

_I. Empiastro per ammollire i buboni._
℞. _Butirro e trementina, e fanne mistura calda che stenderai sopra il
bubone, dappoichè l’avrai prima fomentato con acqua calda per un pezzo.
Tienlo poi ben coperto e caldo._
II. Ovvero ℞. _Mele crudo con fior di farina di frumento. Fanne
empiastro, che è buono per far maturare e rompere._
III. O pure. ℞. _Butirro ben rotto con due rossi d’uovo fresco. Sbatti
tutto per mezz’ora, e poi mettilo in catino grande, con acqua fresca,
e lava bene quella composizione, mutando l’acqua molte volte: Quindi
mettilo grosso sopra i buboni, e di sopra foglia di verze, o sia di
cavoli._

_IV. Altro empiastro._
℞. _Rosso d’uovo duro, cotto a lesso, e si mescoli con lievito acido
(levatore si chiama _fra noi altri_) di farina di frumento e sugna di
qualunque sorta (salata o non salata non importa), o pure in luogo di
sugna, si metta cipolla cotta, formandone empiastro in buona forma.
Oppure fa empiastro di rosso d’uovo, zucchero e zafferano che sarà
utilissimo. È anche sufficiente quello di rosso d’uovo e sale_.

_V. Altro empiastro per maturar buboni coperti di carne e duri._
℞. _Foglie di malva e di verze, e cipolle di gigli bianchi, e cuoci
tutto in acqua. Dappoichè saranno ben cotte e ben trite, unisci loro
sugna di porco vecchia, e tanto lievito acido di farina di frumento
quanto è la metà della sugna. Si ponga e mantenga caldo sopra il
tumore. È rimedio attissimo anche per gli altri buboni._

_VI. Altro empiastro per ammollire._
℞. _Radici di giglio bianco, cipolla bianca, fichi, malavischio, o sia
altea, lapazio, malva, scabbiosa parti eguali a discrezione. Con queste
cose cotte si metta farina di frumento; e con sugna, butirro e un poco
di triaca e di mitridato, si formi empiastro._

_VII. Empiastro maturante._
℞. _Radici di altea decott. lib. 1. Si tritino e si mescolino con
cerotto diachilò con gomma onc. 6; grasso d’oca, midolla d’ossa di
vitello, ana onc. 3; olio di camomilla, di aneto e di gigli bianchi,
ana quanto basta, e fanne empiastro._

_VIII. Altro empiastro del Cristini più gagliardo per ammollire que’
buboni che sembrano difficili a venire alla suppurazione._
℞. _Malva, scabbiosa, ana manipol. 1; cipolla detta squilla, radice di
narciso, ana onc., 2; radice d’iride mez. onc.; semi di senape, semi
di bombace, ana dram. 6; lumache senza guscio num. 10; sugna di porco
onc. 4; triaca, mitridato, ana onc. 1; zafferano dram. 1. Si formi
empiastro._

_IX. Altri empiastri suppuranti._
℞. _Radici d’altea onc. 3; fiori di malva, viole, di sonco, ana
manipol. 1. Fa bollir tutti,e dopo averli spremuti, aggiungi unguento
di altea, di mucilagine, butirro, sugna vecchia di porco e di gallina,
ana onc. 1 e mez. Mischia e fanne empiastro, adoperandolo caldo mattina
e sera._
X. Ovvero ℞. _Malva e radici, o cipolle di giglio bianco; e cotte bene,
e tritate, se ne metta in quantità sopra il tumore._
XI. O pure ℞. _sugna di porco la più vecchia che si trovi mezza libbra,
e mescolata con onc. 3 di lievito, si scaldi e si metta sopra il
bubone._

_XII. Empiastro emolliente ed attrattivo del Diemerbrochio._
℞. _Radici di gigli bianchi onc. 2; erbe ruta, malva, altea, ana
manipol 1; scabbiosa manipol. 1 e mez._ (quest’erba è lodatissima da
tutti per maturar buboni) _fiori di camomilla mez. manipol., fichi
secchi polputi num. 9; acqua comune quanto basta. Si cuocano seconda
l’arte, e si pestino minutissimamente nel mortaio, con aggiungervi
tre o quattro bulbi, o spicchj di cipolle, prima involti in carta
sorbitrice bagnata d’aceto e alquanto abbrustoliti sotto le ceneri. Poi
prendi polvere di radici d’altea mez. onc.; sterco di colombi onc. 2 e
mez.; lievito di pane onc. 1 e mez.; farina di frumento dram. 3. Unisci
queste cose alla colatura delle precedenti, e tutto mischiato si cuoca
alla forma de’ cataplasmi, a cui in fine aggiungi mele onc. 1; unguento
basilicon mez. onc.; sugna d’anitra, ovvero olio di scorpioni e butirro
onc. 1. I ricchi vi possono aggiungere talvolta anche un poco di triaca
d’Andromaco, e i poveri alquanto della triaca de’ rustici._

_XIII. Altri empiastri suppuranti._
℞. _Ruta verde, rafano tagliato in fette, ana mez. manipol.; senape
un cucchiaio. Cadauna cosa separatamente si pesti, e poi mischiato il
tutto, si metta sopra il bubone._
XIV. Ovvero ℞. _Sterco di gallina mischiato con chiaro d’uovo in forma
di cataplasma. Forse è da scrivere rosso, o sia tuorlo d’uovo._
XV. O pure ℞. _Corteccia di mezzo del sambuco onc. 1; farina di avena
onc. 2; e fatto cuocer tutto in latte dolce a guisa di cataplasma,
applicandone alle aposteme, dicono che le fa maturar presto._
XVI. O pure ℞. _Lievito mez. onc., rafano onc. 1 e mez.; farina di semi
di senape dram. 1; cipolla cotta sotto le ceneri dram. 2 e mez.; aglio
cotto nella stessa forma dram. 1 e mez.; triaca dram 3. Mesci tutto nel
mortaio, e fanne empiastro._
XVII. Ovvero ℞. _Fichi secchi polputi dram. 3; polpa d’uve grosse,
gomma ammoniaca, ana mez. onc.; bdellio, sagapeno, ana dram. 2 e mez.;
sugo d’oppio onc. 2 e mez. Si disciolgano le gomme in aceto; poscia
tutto si mescoli nel mortaio, e di sei in sei ore si muti questo
empiastro._
XVIII. O pure. ℞. _Fichi secchi: cuocili e pestali, o pur cipolle sotto
le ceneri; poi mischia con esso loro un pochetto di butirro vecchio e
di triaca, che ancor questo ha giovato a molti._
Oltre a tanti empiastri che ho qui notato per tutti, e principalmente
per la povera gente, sappiasi ancora che le sole foglie di cavolo
rosso unte con olio di rape, bastano a maturare i buboni coll’andarle
mutando, e innumerabili in questa maniera furono ne’ tempi addietro
curati. Altri presa una cipolla e scavandola alquanto vi metteano
dentro un poco di triaca; poi fattala arrostire sotto le ceneri calde,
la pestavano ben bene e ridottala in forma d’empiastro e mischiatavi
sopra sugna di porco se ne servivano con felice successo a maturare
i buboni. Alcuni stimano meglio l’aggiungervi la triaca, dappoichè la
cipolla è cotta; siccome ancora credono meglio non arrostir molto la
cipolla affinchè non perda la miglior sua forza. Scrive il Foresti che
un chirurgo d’un lazzeretto si valea spezialmente di cipolle cotte e
tritate con senape bianca frescamente macinata, o in vece di senape
mischiava alquanto di triaca colle cipolle, e senz’altro spesse volte
in due o tre dì, e al più in quattro i buboni restavano maturati.
Non parlo qui del servirsi che fanno molti oltramontani di rimedj
mercuriali, o sia argento vivo, ovvero di rospi secchi per curare i
tumori pestilenziali, imperocchè il primo rimedio è stato trovato da
altri sommamente dannoso o pericoloso; e l’altro non porta seco un
carattere autentico che il lasci facilmente approvare. Chi volesse
qui fidarsi dei chimici e spargirici, troverà lodatissimi fra essi un
empiastro di Paracelso per maturar buboni, e un altro d’Angelo Sala,
e finalmente uno di Paolo Barbetta, decantato assaissimo. Io per me
non oserei riprovare, ma nè pur consigliare sì fatti rimedj sulla fede
sola dei loro per altro celebri autori, perchè le promesse e idee di
molti chimici o empirici non son diverse da quelle degli alchimisti.
Nulladimeno perchè il Barbetta è medico di gran credito e scrive di
non aver conosciuto empiastro più nobile ed utile del seguente, mentre
posto sopra i buboni, senza far crosta ne traeva sì egregiamente gli
umori maligni, che il bubone fra quattro o sei dì si levava affatto
via, io il riferirò qui. L’aveva egli preso dall’Agricola e vedremo che
Angelo Sala se ne era fatto bello anch’egli.

_Empiastro magnetico arsenicale._
℞. _Gomme sagapeno, armoniaco, galbano, magnete arsenicale, ana dram.
3; trementina di larice, cera, ana mez. onc.; olio di succino dram.
2; terra di vitriuolo dolcificata dram. 1. Disciogli le gomme in buon
aceto, e spremutele per panno di lino fa che bollendo insieme di nuovo
s’inspissiscano sino a prendere la prima consistenza. Poi separatamente
fa liquefare la cera e la trementina, e agita tutto fuori del fuoco,
finchè si riducano in forma d’unguento. Aggiungi poi le gomme, la
magnete e il resto degl’ingredienti, e avrai un empiastro efficacissimo
a tirar fuori ogni sorta di veleno_.
Come si faccia la magnete arsenicale, la quale manipolata che sia non
è più velenosa, per quanto dicono, potendone ognuno farne prova con
darne ai cani, l’impareremo più a basso da Angelo Sala. Venendo crosta
ai buboni, si leverà facilmente via (e questo importa assaissimo) con
una sola spatola dopo un giorno, o poco più, se unirai all’empiastro
suddetto un poco d’unguento basilicon o di triaca.
Allorchè si sarà continuato per qualche giorno sopra i buboni l’uso
de’ suddetti cataplasmi e cominceranno a maturarsi le materie, allora
si lascino stare gli attraenti, come sono lo sterco di colombi, il
lievito ecc., con adoperar poi soli maturanti. Il Diemerbrochio scrive
d’essersi spesse volte servito, e con felicità, del solo seguente
empiastro dal principio fino al fine della cura. ℞. _Gomma galbano
disciolta in aceto, empiastro oxicrocco, diachilò con gomma, ana
onc. 1, mischiando tutto_. Nota egli ancora di non aver medicato con
gagliardi attraenti i buboni nati presso alle orecchie per ischivare
il pericolo della soffocazione, avendo anche osservato che con
empiastri que’ tumori in poche ore crescevano a dismisura e portavano
poscia molti alla buca, e però medicava quelli con soli emollienti o
con leggieri attraenti. Con gli altri non occorreva tanto riguardo.
Maturati perfettamente i buboni, per lo più nè pure si rompono da per
sè stessi; e però bisogna allora tagliarli o romperli con un legnetto
acuto, se si può; se no, col ferro. Si facciano aprire non nella cima,
ma in fondo, e nella parte più bassa affinchè la marcia più facilmente
ne esca. I cauterj potenziali non son qui lodati. Consigliano alcuni
medici di tagliare i buboni maligni e pestilenziali prima che sieno
perfettamente maturi; e l’Ingrascia è di parere che quando coi buboni
va congiunto qualche grave accidente, o febbre, che minacci rovina,
allora sia meglio aprirli, benchè non maturi. Ma la sperienza ci
avvisa che per lo più a tentativi sì animosi succedono fieri dolori,
infiammazioni e cancrene; e però non s’ha per lo più a ricorrere, se
non con gran riguardo, a queste troppo sollecite operazioni. Nella
peste della nostra città del 1630 in un avvertimento pubblico fu
lodato il tagliar profondamente sul principio i buboni d’umor tenero
e liquido, curandoli poi con digestivi. Fu anche notificato che in
quei d’umore molle sì, ma non fluido, conveniva dopo il taglio coprir
le taste di corrosivi. Questi però non sono metodi da approvarsi
così alla cieca. Avvisavano bensì saviamente che i buboni duri come
ghiande non si doveano tagliare; altrimenti l’infermo se ne andava,
e che però conveniva ungerli con olio di giglio bianco più volte,
che così o si risolvevano in nulla, o si maturavano. Pare a me d’aver
suggerito empiastri più gagliardi a questo effetto. Tagliati i tumori,
e spremuta la marcia, si attende poi a curar la ferita, tenendovi tasta
con digestivo e sopra un qualche empiastro emolliente, ungendo intorno
con olio rosato. Si può far anche senza tasta, secondo il metodo
stimabilissimo del Magati, ultimamente illustrato dal dottore Dionisio
Andrea Sancassani, purchè la piaga stia aperta e si possa andar
purgando: il che in questo caso è più necessario che nelle piaghe non
pestilenti. Per un digestivo insigne vien commendato dal Diemerbrochio
il seguente

_Empiastro digestivo per i buboni tagliati._
℞. _Scordio sottilissimamente polverizzato dram. 2; rosso d’un uovo,
trementina di Venezia, mele, unguento degli apostoli, ana mez. onc.
Mesci tutto._
E Silvio de le Boe scrive d’aver adoperato con buon esito, per guarire
in breve essi buboni aperti il balsamo di zolfo trementinato e anisato,
insieme con unguento basilicon e triaca, mettendo di più sopra esso
medicamento l’empiastro _diapompholygos_ o altro simile.
Resta ch’io dica qualche cosa dell’uso dei vescicanti nella cura dei
buboni. Alcuni li riprovano con varj raziocinj; ma Ercole Sassonia,
e meglio ancora di lui altri valorosi medici, hanno diffusamente
risposto a tali difficoltà; e noi abbiam qui la sperienza anche del
soprammentovato Diemerbrochio, il quale ha osservato mille volte che i
vescicanti, purchè applicati nel primo apparir dei buboni, son riusciti
di un notabilissimo giovamento, di modo che scaricandosi per la loro
ferita il maligno umore a molti sono da per sè svanite quelle velenose
aposteme. Il suo metodo perciò era questo. Subito che apparivano essi
buboni egli applicava un vescicante alla lor parte inferiore talmente
che toccasse la lor durezza. Svegliata nello spazio di otto o dieci ore
la vescica, e levatala via, metteva sopra la piaga una foglia di cavolo
rosso o di bieta unta con butirro vecchio o con olio di rape, acciocchè
restando aperto il luogo si potessero per colà evacuare i cattivi
umori. Noi abbiamo nelle nostre spezierie il cerotto vescicante.
Tuttavia aggiungerò altre ricette.

_I. Vescicante._
℞. _Radici di piretro, semi di senape bianca, ana mez. dram.; cantaridi
scrup. 1 e mez., o pure scrup. 2; mele dram. 1; lievito di pane acido
dram. 1 e mez. o dram. 2; aceto rosato quanto basta. Se ne formi pasta
vescicatoria._

_II. Altro vescicante._
℞. _Semi di senape bianca, di euforbio, ana dram. 1; radici di piretro
mez. dram.; cantaridi dram. 2; ragia di pino, cera quanto basta. Si
faccia pasta._

_III. Vescicante del Mercuriale._
℞. _Cantaridi preparate dram. 3; lievito mez. onc.; un poco d’aceto
fortissimo, e mischia._

_IV. Vescicante del Pareo._
℞. _Cantaridi, pepe, euforbio, piretro, ana mez. dram.; lievito dram.
2; semi di senape dram. 1; un poco d’aceto, e mischia._
Silvio de le Boe scrive di non aver mai potuto avvertire qual buon
effetto succeda dai vescicanti; ma giacchè non dice d’averlo veduto nè
pur cattivo in tempo di peste, e gli altri ne contano molti vantaggi,
pare che sia bene il valersene. Altri poi hanno usato di applicare
i vescicatorj lontano dai tumori, per esempio a mezza la coscia, se
questi erano all’anguinaia; ma un tal metodo non è approvato da altri
intendenti che il pretendono o inutile o nocivo. Se il vescicatorio non
eccita secondo il suo costume la vescica, è quasi inevitabile la morte;
e ciò sia detto della cura dei buboni.


CAPO IX.
_Carboni pestilenziali. Pronostici intorno ad essi. Varj metodi
per curarli poco lodevoli. Maturarli e separarli, maniera più
commendata dell’altre. Varj medicamenti per questo effetto, ed
altri per levar via l’escara._

Più perniciosi delle finora descritte aposteme pestilenziali sono i
carboni, chiamati antraci dai Greci, e formati anch’essi dal veleno
della peste, il quale venendo probabilmente spinto dalla natura alla
cute per via dell’arterie e della circolazione del sangue disciolto,
ed ivi arrestandosi per qualche stagnazione o fissazione d’esso
sangue, forma in varie parti esterne ed anche interne del corpo
delle vesciche e pustole dolorosissime e infiammate che mortificando,
cioè rendendo morta la carne, a poco a poco diventano dure, livide
o nere. Talvolta si son vedute insino a trenta di queste fierissime
pustole in un solo appestato, nascendo esse nel petto, collo, schiena,
braccia, cosce, diti, ecc, ed anche internamente nelle tuniche del
ventricolo e in altre viscere: nel qual ultimo caso è spedita la
vita degl’infermi. Notinsi le seguenti osservazioni fatte da medici
accurati: I. Se nascono carboni nelle glandule emuntorie in luogo
di buboni, ciò è mortalissimo. II. Quei che vengono o nel principio
del male, o poco dopo, in siti carnosi, sono lodevoli o tollerabili.
III. All’incontro i nati nelle dita de’ piedi e delle mani e sopra
la spina del dorso e sopra nervi, danno campo di pessimi augurj; e
però questi debbono eccettuarsi dalla regola d’alcuni medici, i quali
stimano tanto men pericolosi i carboncelli, quanto più escono lontani
dal cuore. IV. Se hanno una certa coda, o pure se nascono tardi, è
cattivo indizio; pessimo se prorompono in molta quantità, essendo ciò
un effetto di maggiore e più grave copia di veleno. Il Mercuriale con
altri tiene diversamente; ma il Sennerio, il Riverio, il Barbetta
ed altri assaissimi confermano con troppe sperienze l’osservazione
suddetta; potendosi nondimeno immaginare che tal diversità di pareri
sia proceduta dal diverso carattere delle medesime pesti. V. carboni
biancheggianti senza diminuzion di febbre, levano la speranza di
guarire; ma se fra due o tre dì fanno un cerchio rosso all’intorno, più
facilmente e più presto degli altri guariscono. VI. Se diventano molto
larghi e di gran mole, come talvolta accade, riescono difficilissimi
a curarsi, anzi mortalissimi se spuntano sopra qualche parte
nervosa. VII. Qualora nel principio si fermano e quasi spariscono,
o pure restando in vigore la febbre si seccano, predicono la rovina
dell’infermo. Nella peste, che in questi medesimi giorni affligge
Vienna ed altri paesi, escono buboni, ma non già carboni, segno non
essere quella epidemia di gran malignità, e perciò doversene sperare la
fine con la venuta del verno. Ivi il maggior benefizio si è ottenuto
finora dai sudori provvocati sul principio del male coll’uso delle
seguenti

_Pillole antipestilenziali d’Emanuele, chiamate anche di Gesù e del
general Cusani._
℞. _Aloè epatico purissimo onc. 1; zafferano, mirra, ana dram. 1;
zedoaria, genziana, ana scrup. 1; rabarbaro scelto dram. 2; agarico
bianco dram. 1; triaca d’Andromaco, quanto una noce. Si polverizzino
separatamente, poscia si mescolino in mortaio e se ne facciano pillole
della grossezza d’un pisello. Per la preservativa se ne prende una
ciascun giorno; per la curativa 8 o 10 in acqua, e il malato ben
coperto sudi. Non è necessario l’agarico nè il rabarbaro._
In quanto alla cura de’ carboni, il cardinal Gastaldi scrive che nel
contagio di Roma del 1656 nessun rimedio era più giovevole, quanto
l’adoperare la scarificazione, cioè il tagliar loro d’intorno, con
separare la carne morta dalla viva, e lo scarificarli anch’essi e cavar
via molta copia di sangue, ungendoli poscia con unguento egiziaco,
triaca ed olio di scorpioni, e finalmente ungendo l’escara, o sia
la crosta, con sugna, o butirro, finch’essa cadeva. Essendosi prima
trovati inutili altri rimedj, questo in fine parve il metodo più utile
per curare i carboni ed anche i buboni. Nell’avvertimento stampato in
Modena pel contagio del 1630 si legge che i carboni si medicavano con
refrigeranti d’intorno e con empiastri in mezzo; tanto che separati
dalla carne buona, si cavassero con la molletta, applicando poi in que’
fori gli ordinarj digestivi delle ferite. Oribasio, Egineta ed altri
antichi e moderni consigliano anch’essi lo scarificare profondamente,
ovvero il tagliarli sino alle radici con un rasoio; imperocchè temono
che sia rimedio troppo debole e lento quello degli empiastri.
Il perchè secondo altri si può tagliar la crosta del carbonchio in
croce, o in più tagli (quanti più se ne fanno, tanto dicono che sia
meglio) profondandoli sino a toccar del vivo, ma non penetrando nel
vivo per timore d’arterie, vene, nervi, ecc. Indi si ha da procurar
l’uscita al sangue, sbruffandolo d’acqua salsa calda, o fomentando
il luogo con ispugna bagnata nell’acqua suddetta, ma avvertendo di
far uscire il sangue in quantità discreta e non troppa. Poscia si
dee asciugar bene la ferita, e far entrare nei tagli zucchero candido
fatto sottilissimo come fior di farina, mettendovi poi sopra qualche
empiastro.
Un’altra via di debellare il carbone, è scottarlo con ferro infocato,
come sarebbe testa di chiodo grande; e sarà bene aver prima levato via
della grossezza della crosta ciò che si potrà levare senza dar dolore
al paziente. Dee la scottatura essere tanto larga, che tutto intorno
tocchi del vivo; potendosi anche scottarlo in diverse volte con ferro
picciolo a parte a parte. Così ci son molti che nelle parti carnose li
separano dalla carne buona con ferro tagliente, e dipoi li spiccano,
operando in più volte un poco per giorno, affinchè il dolore riesca più
tollerabile. Fanno il taglio in maniera che si veda la carne buona,
mettendo, finchè si finisca di spiccarli, tra il buono e il cattivo
della carne o zucchero candido ben sottilizzato, o rosso d’uovo con
sale ben polverizzato, o pure rosso d’uovo con trementina, ovvero fili
asciutti. Se vi resta del cattivo, convien porvi qualche corrosivo, o
pure tagliare quel che resta sino a toccar del vivo, facendo uscire
il sangue con acqua calda. Che se il carboncello è duro, alcuni lo
scarnano tutto intorno assai profondamente in una o più volte; poscia
legatolo bene con uno spago o simile legatura, il cavano con una pronta
strappata, sicchè talvolta resta la carne netta di sotto, e talvolta
ancora vi resta qualche bisogno di mondificare. Altri ancora adoperano
vescicatorj e acqua forte, e altri simili aspri rimedi.
Ma si avverta che tutti i metodi finora accennati sono da lasciarsi
il più che si può, non solo perchè portano degl’intollerabili dolori
agl’infermi, con accrescer loro anche la febbre e la vigilia, ma
ancora perchè moltissimi altri medici hanno osservato che questi sì
precipitosi tagli, o rimedi crudeli, poco o nulla giovano, e conducono
bene spesso più velocemente alla morte i miseri infermi. Siccome
per lo contrario la sperienza ha mostrato che i carboni quanto più
piacevolmente sono trattati, tanto più presto sono guariti, Tommaso
Cornelio, celebre medico, in un suo Dialogo favoloso, composto alla
guisa di quei di Luciano, consiglia il lasciare più tosto alla natura
che il dare in mano ai medici i malati di peste; perocchè, dice egli,
i medici adoperano facilmente rimedi perniciosi, facendo essi ciò che
talvolta non giungerebbe a fare il morbo medesimo. Può essere che il
Cornelio parli da burla; ma può anche essere che burlando egli colpisca