Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 04

ad ogni menomo aspetto della nostra mortalità, si sente cadere il cuore
a terra, dee starsene in casa ad aiutar con orazioni pie e con atti di
carità il prossimo suo. La vigilanza de’ magistrati, col non trascurar
nulla, e principalmente finchè è tempo, può far dei miracoli in tutte
le occasioni, ma spezialmente in questa; perchè in fine si tratta d’un
nemico, il quale non porta seco artiglierie per valicar colla forza
i confini d’uno stato, o superar le porte di una città. Oltre di che,
introdotto il morbo, le negligenze de’ magistrati il rendono sfrenato.
Certo in sì gravi pericoli, e in tanta necessità di conservare il
popolo, chi governa si potrà ben pentire di non aver fatto assai, ma
non mai d’aver fatto troppo. Non la mansuetudine e piacevolezza, ma
il rigore è qui necessario a chi governa; e ciò per maggior bene della
repubblica stessa, a cui si nocerebbe coll’indulgenza, e si può giovare
infinitamente col fare a puntino e irremissibilmente rispettare ed
eseguir le leggi. In tempi tali, secondo il parere dei savj, è maggiore
sopra i sudditi la podestà del principe e dei magistrati, potendosi
condannar le persone a varie pene per soli sospetti e senza processo,
e valersi delle lor case, poderi, danari, vettovaglie, ecc. qualora il
pubblico ne abbia bisogno.
Filippo Ingrascia, celebre medico di Sicilia, che scrisse un utile
trattato della peste, prescrive per principalissimi rimedj, espugnatori
di questo male i tre seguenti, cioè l’_oro_, il _fuoco_ e la _forca_.
Il primo pel mantenimento de’ poveri, e per tante altre spese che
occorrono allora; il secondo per l’espurgazion delle case, robe ed aria
e il terzo per l’osservanza delle buone leggi e regole da stabilirsi
in quel tempo. Può mancare il primo di questi rimedj; e in quanto
al terzo, si suol far piantare in più luoghi, entro e fuori della
città, esse forche, per punirvi prontamente certi gravissimi delitti
di disubbidienza dannosa al pubblico. Facciasi però il men che sia
possibile, potendosi con altri minori gastighi e col terrore tenere in
dovere i popoli, e massimamente in queste parti d’Italia ben diverse
nella focosità dai cervelli della Sicilia. Un esemplar gastigo dato
sulle prime gioverà assaissimo, siccome ancor il lasciar correre voce
che sieno stati immediatamente uccisi alcuni trasgressori degli ordini
della sanità. E se taluno si avesse a far morire per qualche delitto,
il divolgare che tal gastigo venga per la trasgressione suddetta,
metterebbe gran freno agli altri. Le città e terre preservate non hanno
riportato sì gran benefizio senza la morte di qualche disubbidiente
in cose gravi, quale è chi venendo da luogo appestato passa i confini
senza fedi, o con fedi false e simili trasgressori troppo nocivi;
per altro ai conservatori della sanità s’ha a dare in tali casi
un’assoluta balìa ed autorità di poter procedere _mori belli_ contra
i trasgressori; e, se la necessità il richiede, sarà carità verso il
pubblico il rigore verso qualche privato disubbidiente, e massimamente
nella guardia de’ confini e delle porte in sospetti di contagio. A
quattro prelati della congregazione della sanità di Roma nella peste
del 1656 fu data autorità di poter procedere anche contra le persone
ecclesiastiche e regolari a qualsivoglia pena ed esecuzion d’essa, sino
alla morte naturale exclusive per qualsivoglia delitto concernente la
sanità, _sola veritate inspecta, denegatis defensionibus, more belli_.
Così debbono fare anche i vescovi nelle altre diocesi. Il vuole il
diritto della natura. Anzi tiene il cardinale de Luca nel cap. 41 del
Principe che dai sudditi sani si possa negare l’ingresso e il commercio
al principe infetto, perchè l’esporre alla peste un luogo sano, non è
un operare da principe padre de’ popoli.
Un punto poi di grande importanza sarà, che i magistrati conservino ben
sè stessi per poter conservare gli altri. Perciò sia lor cura di far
circondare la casa dove abitano, o si adunano con rastrelli di legno,
ai quali niuno possa avvicinarsi se non in lontananza di quindici
passi. Tengano pochi servitori, e vietino loro il conversar fuori e
il vagare; e non sieno con esso loro donne, fanciulli, cani e gatti.
Facciano buona provvisione di ciò che spetta al vitto, ed abbiano
seco sacerdote, medico e cerusico coi medicamenti per curare la peste.
Uscendo di casa, vadano a cavallo o in seggetta, parlino alle guardie
e all’altre persone solamente da lontano, incaricando ai servitori
il fare lo stesso; e tornati a casa, facciano lavare i cavalli de’
quali si saranno serviti. Finalmente mettano in opera tutti gli altri
preservativi generali e particolari che s’andranno accennando sì nella
pulizia della casa, come nella temperanza del vitto, nell’uso de’
profumi e in altre somiglianti cautele.
Non è men necessario l’eleggere per subordinati e deputati alle
guardie, al regolamento delle contrade, allo spurgo, alla distribuzion
del pane, alla cura de’ lazzeretti, ecc., altre persone fedeli, abili
e dabbene, nobili, cittadini, mercatanti, ecclesiastici e religiosi,
in numero nondimeno che non generi confusione, dando loro quella
autorità che conviene, con ordine di comunicare al magistrato supremo
tutto ciò che di rilevante andrà succedendo nella lor giurisdizione.
Chi di tali deputati, ufiziali e subalterni avrà da praticar con
infetti e sospetti, dovrà anch’egli contarsi nel numero de’ sospetti,
cioè dovrà astenersi dal commercio dei sani e portar segni visibili
d’essere sospetto; e la casa e famiglia sua non comunicherà coi sani.
Bene spesso terminerebbe presto la peste, se non vi fossero ufiziali
che volessero far la loro fortuna colle spoglie altrui: il che però
non viene lor fatto, perchè anch’essi muoiono, e sovente senza nè pure
aver tempo di accusare ai ministri di Dio le loro iniquità. Adunque per
quanto mai si può, convien cercare persone disinteressate e timorate
di Dio, con assegnare a ciascuna un competente salario. Nello spazio
di due mesi il P. Maurizio da Tolone cappuccino scacciò da una città
di Provenza la peste, non tanto co’ suoi profumi, quanto per la fedeltà
degli operai e dei prefetti delle cariche. Sempre poi gioverà per certi
ufizj di molta gelosia il deputare qualche ecclesiastico, o secolare,
o religioso, d’accreditata integrità che esercitando quel caritativo
impiego con fedeltà, sappia egualmente piacere a Dio ed aiutar la sua
patria. Pongasi anche mente alla necessità di deputare per cadauna
villa qualche persona d’abilità e buona fede, che invigili, visiti e
avvisi ogni caso di male, o altro disordine a uno de’ conservatori
destinato a posta per questo. Anche i parochi possono giovare
assaissimo. Qualor si difenda il territorio, egli è facile il salvar la
città.
Per conto de’ medici e cerusici, s’è ben di sopra chiamato giusto il
costringergli a non partir di città; ma non sarebbe già conforme alla
giustizia il forzargli ancora a medicar gli appestati. Dicono che le
leggi il vogliono; e in Sicilia fu fatto così; e lo stesso venne una
volta preteso in Padova, perchè nel prender ivi la laurea dottorale si
fossero obbligati i medici a servire anche in tempo di peste. Ma grida
la ragione che non son tenuti ad esporsi e non si debbono esporre per
forza all’evidente rischio della vita persone, la conservazion delle
quali è troppo necessaria alla repubblica. Non ci vuol poco a formare
un buon medico; e formato che sia è un grande interesse del pubblico
ch’egli non perisca. Oltre di che se i medici avessero per forza da
conversare con gli appestati, nulla farebbono di giovamento ai medesimi
per l’apprension della morte e per la rabbia e per l’abborrimento a
quell’impiego che parrebbe loro, e non immeritamente, una gran pena
e gastigo. Aggiungasi che più non potrebbono, dopo aver trattato
con gl’infetti, praticar coi sani; e infermandosi questi di qualche
malattia, chi dovrebbe poscia curarli? E se perissero i medici nella
cura degli appestati, chi avrebbe poi cura degli appestati e dei sani?
Aggiungasi per compimento di tutto, che pur troppo i medici non hanno
recipe alcuno specifico e sicuro per espugnare una peste; e però non
si può chiamare precisamente necessaria la loro visita personale
o assistenza agl’infetti, nè si dee pretendere ch’essi per forza
espongano la loro certa salute per l’incerta altrui, potendo essi in
altre guise e colla mano e voce d’altri sustituti, supplire il bisogno
e somministrar que’ rimedi che crederan più a proposito.
Ma, e non ci ha da essere, dirà taluno, medico per i miseri appestati
e per i lazzeretti? Debbono senza fallo i magistrati far tutto il
possibile per indurre a tal cura quei che occorrono, non già col duro
mezzo della forza e del comando, ma col dolce de’ premj e d’un buon
stipendio; e invitino ancora, se possibil fia, qualche straniero che
assuma tale incumbenza. Nè mancherà chi l’assuma: imperocchè, siccome
dirò in altro luogo, v’ha i suoi mezzi di preservarsi illeso fra
la gente appestata, e ciò spezialmente per i medici. Notisi ancora,
che più aiuto darà nei contagi un medico pratico ben mediocre o un
cerusico, il quale facendosi avanti senza timore, aiuti ed istruisca
gl’infermi, o porti loro cerotti ed empiastri o tagli ed operi, che non
sarà un gran medico pauroso. E il soprammentovato cappuccino che più
volte fu in mezzo ai contagi, asserisce non essere necessari i medici
ne’ lazzeretti, ma sì bene i cerusici, i quali veramente, allorchè il
male prorompe alla cute o con buboni o con carboni, possono salvar
molti dalla morte, e però sono sommamente utili e necessari e si
debbono salariar bene, acciocchè con puntualità e carità facciano il
loro uffizio in tali congiunture.
Intanto i medici debbono attendere a preservare i sani e a visitare
chiunque è infermo, ma non di contagio, per la città. Impiego loro
altresì ha da essere di assistere ai magistrati e di consultar con
essi e fra loro il metodo e i medicamenti che possono allora credersi
giovevoli o riconoscersi per nocivi. Prendano giornalmente quante
notizie possono dai cerusici intorno ai sintomi e accidenti del male
e al successo o utile o vano de’ metodi e dei medicamenti, con farne
sperimentar molti, e mutar di mano in mano secondo le osservazioni
e il bisogno. Che se nella visita degl’infermi s’abbatteranno contro
lor voglia a praticar con qualche appestato, allora dovranno per dieci
dì chiudersi in casa colla lor famiglia, siccome sospetti, in guisa
che alcuno non v’entri, o ne esca, restando nondimeno libero a tali
medici di uscire se vogliono, ma coi segnali de’ sospetti e senza
poter praticare liberamente co’ sani. In Ferrara, nel 1630 si videro
buoni effetti d’un proclama fatto, ove si astringeva ognuno a denunziar
quello che sapeva di pregiudiziale alla sanità. Altrettanto è da fare
altrove in simili casi; e riuscirà anche più utile, se oltre alle
pene si aggiungerà la proposizione de’ premj ed anche l’impunità ai
trascorsi altrui, quando fossero col solo onesto fin del ben pubblico
denunziati da persone onorate.


CAPO V.
_Peste comunicata pel contatto dell’aria, de’ corpi e delle
robe appestate. Come l’una parte del paese abbia da difendersi
dall’altra. Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non
occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera di opprimere la
pestilenza introdotta._

Egli è notissimo che dall’intrinseco veleno della peste viene l’uccider
ella sì facilmente gli uomini, e che dal suo contagio, cioè, dal
toccar l’aria o i corpi o le robe appestate vien poi l’ucciderne
ella tanti, e lo spopolar le città: il perchè contagio suol anche
appellarsi la peste. Il principal dunque e quasi infallibil rimedio
per guardarsi da così terribil nemico, non è altro che il guardarsi
dal toccamento di tutto ciò che può contenere e comunicare il veleno
pestilenziale. Gli altri rimedi son fallaci le più delle volte: questo
solo vien comprovato per sicuro dalla sperienza di tutti i tempi.
Perciò abbiam lodato cotanto di sopra il fuggire, ed ora dobbiamo
maggiormente inculcare che la gran cura dei magistrati ha da consistere
nell’impedire affatto o nel regolar così bene il commercio che i
corpi sani si difendano dal malore degl’infetti. _Nullum praesentius
remedium adversus pestem comprobavit usus, quam sana corpora adiuvare,
ne inficiantur,_ così scrisse dopo la sperienza fattane il cardinal
Gastaldi.
Ora in due tempi e forme si dee levare il commercio delle persone e
robe; cioè o ne’ sospetti di peste o dopo aver già la peste invasa
la città. Per conto del primo le savie città, udito qualche sospetto
o romor d’infezione nelle circonvicine, non fidandosi (e con troppa
ragione) degli avvisi delle medesime, spediscono segretamente colà
qualche medico non conosciuto o altra persona accorta che s’informi
bene e ponderi ogni successo; e sulla relazione prendono poi le loro
misure e cautele. Poscia appena s’udirà grave sospetto o dichiarazion
chiara di peste in qualche popolo, che gli altri popoli sani, i
quali ragionevolmente possono temere di contrarre quel morbo, debbono
interrompere il commercio con esso, bandendolo con rigorosi editti,
e non accettando più, se non colla quarantena, persone, merci e robe
di colà procedenti, e nè pure ammettendole talvolta colla quarantena,
secondo la qualità o vicinanza del male. Questo è notissimo; e volesse
Dio che gli altri popoli imitassero in ciò la saggia e severa condotta
della repubblica veneta. Egli è facile, così facendo, lo schivar le
pesti, e però il poco fa citato cardinal Gastaldi formò queste due
verissime conclusioni: _Contagium negligere crebrior in pestilentiis
error a prudenti regimine magis cavendus. Pestis praevisa facile
vitari potest_. Poscia crescendo il pericolo, dee ogni terra e città
ordinare che ognuno denunzi qualunque malato all’ufizio della sanità.
Di cadauno sia fatta la visita attenta da qualche medico o chiamato da
essi o deputato dalla città, il quale fedelmente riferisca con fede
in iscritto la qualità di quel male, per poter passare ad ulteriori
ripari in caso di bisogno. Niuno, eccettochè il medico ed altre persone
necessarie, possa visitare infermi, ancorchè non si sia peranche
scoperta la peste. Anche i conventi de’ religiosi e delle religiose,
e i conservatorj saran tenuti alla stessa denunzia; e il medico e
cirusico d’essi luoghi dovrà anch’egli dare la relazione.
Ma qualora la peste, superati i confini d’uno stato, penetri in qualche
terra, castello o porzion del medesimo, i circonvicini e la città
capitale debbono bandirla e tagliare ogni commercio con quella parte
infetta, serrandola, mercè d’un cordone o d’altri ripieghi, tanto
che non comunichi il suo veleno alle parti intatte di quello stato o
distretto, ma senza mancare di prestar loro ogni possibile soccorso ed
istruzione in tanta calamità. Così l’un castello può e dee difendere
sè stesso e il territorio suo dall’infezione degli altri, levando
loro ogni commercio. Di più infettata la città capitale, non solamente
possono, ma debbono le altre città e terre bandirla; anzi il principe
o i magistrati debbono loro ordinarlo. Così fece ancora il nostro
duca Francesco I nel contagio del 1630, scrivendo a san Felice e ad
altre terre che mettessero sotto il bando la stessa città di Modena.
Altrettanto fu eseguito nel contagio di Roma del 1656, essendosi con
pubblico proclama ordinato che le terre e castella sane potessero
e dovessero bandire Roma infetta co’ suoi casali, vigne e case di
campagna. E certo una tal cautela e difesa delle parti sane è secondo
il gius della natura; e i principi e superiori peccherebbono contra
la giustizia a contra la carità, anzi contra il pubblico e proprio
interesse, ove non cercassero di salvare quanto si può dello stato loro
e volessero per la loro o negligenza o ostinazione involto tutto nel
comune naufragio.
Quel solo che qui è da avvertire si è che il distretto suburbano e le
ville poste nel contorno della città si debbono ben difendere colle
possibili diligenze dal contrarre il morbo penetrato nella città; ma
non possono elle, nè debbono con rigoroso bando segregarsi da essa
città: altrimenti affamerebbono i cittadini padroni d’esso territorio;
e inutile ancora riuscirebbe un tal rigore, ove tali ville fossero
anch’elle infette. Sicchè la cura che i rustici di queste terre e i
cittadini hanno d’avere, sarà quella di ben regolare il commercio de’
viveri e delle persone, in guisa che i sani non prendano l’infezione
dei malati e seguiti a concorrere alla città quel soccorso di
vettovaglie che le occorre e le è dovuto. Anzi, siccome vedremo, si
può ordinar bene il commercio dei viveri, che annona e grascia vengono
appellati, tra una città o terra infetta e bandita, e le altre sane,
senza che si comunichi o si riceva il veleno pestilenziale; e perciò
le terre e castella sane che abbiano bandita la città, debbono poi
permettere il trasporto delle grascie ad essa città colle cautele
decretate.
Allorchè la peste s’è finalmente spinta ed ha preso possesso in qualche
città, o popolazione, s’ha da attendere a vietare il commercio, per
quanto si può, fra il popolo infetto o sospetto e il tuttavia sano
ed illeso. Qui è il difficile e qui ha da essere lo studio più acuto
e la maggior attenzione e vigilanza dei magistrati; imperocchè il
nemico feroce è in casa e la maggior parte del popolo costretta dalla
necessità a fermarsi ivi, non gli può abbandonare il campo. Ove dunque
ci sia modo di mettere su quel principio in quarantena tutto il popolo,
riuscirà, siccome dicemmo, assai facile il liberar la terra o città in
poche settimane dal male, non essendoci più efficace maniera d’impedir
la comunicazione, non che la dilatazione d’una pestilenza, e di poter
purgare in breve tutta la città che questo imprigionamento e questo
levare affatto il commercio. Ma perciocchè a molte città mancheranno i
mezzi per istituire e sostenere questa rigorosa universal quarantena
o pure per negligenza o frode d’alcuni non se ne caverà il profitto
che pure se n’avrebbe a sperare: convien sapere e mettere in opera
gli altri consigli e mezzi finora praticati dal saggi magistrati per
impedire o per ben regolare il commercio e salvarsi in mezzo alla peste
e fra la gente appestata o sospetta.
In tre maniere si può ricevere il veleno della pestilenza, cioè
toccando i corpi umani appestati o le robe e gli animali da loro
maneggiati e toccati ovvero l’aria respirata da essi o contigua. Gli
spiriti velenosi di questo fierissimo morbo, oltre all’uccidere con
facilità quelle persone, in cui si cacciano, agitati dal respiro e dal
calor febbrile ed interno; si spargono ancora per l’aria a una debita
distanza dal corpo infetto; e s’attaccano alle merci, a’ panni e ad
altre robe e agli animali e agli altri corpi umani, co’ quali esso
corpo infetto ha comunicazione col contatto. Per questo i sani debbono
guardarsi dal commercio e contatto non men delle persone infette che
delle robe e dell’aria loro. Io tratterò in primo luogo del commercio
delle persone.
E qui avanti ad ogni altra cosa si dee osservare, qualmente scoperto,
che la peste sia contagiosa ed abbia già avuto adito nello stato o
nella città, si fa un solenne sproposito a volerla tenere occulta,
per timore di perdere il traffico e commercio coi vicini. Questa è la
via di lasciarle ben prendere piede e dilatarla, senza più speranza di
espugnarla e con danno gravissimo sì de’ cittadini che dei forestieri,
i quali praticando alla buona e non usando le debite cautele, perchè
non avvisati del male, s’infettano e portano a’ vicini e a’ lontani
la rovina. Bisogna dunque subito scoprirla e combatterla e avvisare
del pericolo il popolo tutto e chiunque dianzi praticava con libertà.
Per sentimento del Rondinelli, se quando in una città il contagio
comincia, si potesse far tosto crederlo tale a tutti e farlo temere
per quel mostro divoratore ch’egli è, il male non farebbe tanto
progresso nè si vedrebbe nelle case l’esterminio che molte volte
accade. Appresso è sommamente da avvertire che in sospetti di peste
hanno i medici da stare attentissimi ad ogni accidente o malattia,
per avvertirne i magistrati e discernere se vi sia caso di peste.
Ma si tengano essi lontani da quelle strane dispute che son talvolta
succedute ne’ principj del male, cioè se sia o non sia pestilenziale,
sostenendo ciascuno per impegno l’opinione sua, ma con incredibil
danno della città, che su questo dubbio non si risolve agli ultimi
rigorosi spedienti e rimedj. Nel 1576 la pestilenza prese gran piede
in Venezia, con farvi poi un’orribilissima strage, perchè non si
dichiarò, se non troppo tardi che era peste vera; e ciò per colpa de’
medici che non finirono mai di disputare se fosse o non fosse. Per
quanto narra nelle sue storie Natal Conti, furono chiamati da Padova
a Venezia Girolamo Mercuriale e Girolamo Capovacca, celebri medici,
i quali sostennero quelle non essere infermità pestilenziali e si
esibirono alla lor cura. Così continuando il commercio cominciò a
morir tanta gente e a dilatarsi cotanto la furia del male, che i due
medici suddetti conoscendo scaduta la loro riputazione ed in pericolo
d’oltraggi la loro persona, si ritornarono a Padova mal soddisfatti
di sè medesimi. Altrettanto avvenne in Firenze per la peste del 1630,
altrettanto in Malta per quella del 1675. Altri esempi ce ne sono
stati; ma pur troppo ce ne darà degli altri il tempo avvenire, perchè
le teste umane saran quelle di sempre. Meglio è in tali casi ingannarsi
col prendere per effettivo contagio quello che non è, e provveder per
tempo, benchè senza bisogno, che il trascurare gli opportuni ripari
per volerla far da accurato filosofo nel riconoscere la vera essenza
e le qualità del male. Se a questo si fosse badato meglio dai medici
di Vienna, non avrebbe nel presente anno 1713 preso tanto possesso in
quella imperial città l’epidemia contagiosa che vi regna o almeno si
sarebbero facilmente preservate da sì dannosa influenza altre province
confinanti all’Austria, le quali gemono anch’esse sotto questo flagello
con pericolo ancor dell’Italia.
Ho detto di sopra che la città di Ferrara si preservò illesa nel 1630
dal contagio, quantunque fosse attorniata dal medesimo, e succedesse
entro la stessa qualche caso di peste. Ora debbo aggiungere potersi
attribuire una sì mirabil preservazione a varie cagioni sì naturali,
come soprannaturali, come sarebbe l’essersi finalmente appigliato quel
magistrato al rigore di non lasciar entrare in città persone, tuttochè
procedenti da luoghi sani, senza una particolare ispezione, e di
negare affatto l’ingresso a qualsivoglia mercatanzia, di cui anche vi
fosse stato bisogno, con lasciare che i mercatanti gridassero, e con
escludere insino le suppellettili degli stessi Ferraresi che aveano
villeggiato, e con altre esecuzioni d’austerità contro i trasgressori
delle leggi, ladri di robe infette, ecc. Ma forse il più utile dei
ripari fu la sollecitudine ed esattezza nel pubblicare ed estinguere
il male nascente. Altre città, come Verona, Milano, Parma fecero
quanto poterono per occultar l’infezione già presa, o sia perchè ivi
troppo si disputasse, secondo il solito, se fosse o non fosse male di
peste, o sia perchè ad ognuno rincresce d’essere bandito e privato del
commercio co’ vicini. E perciocchè tali città dai vicini più attenti
vennero bandite, non s’udivano che querele, ascrivendosi tali bandi
a precipizj e a passioni, benchè poi simili prevenzioni de’ vicini
restarono comprovate giuste dalla peste che giunse da lì a poco a non
potersi negare. I savi magistrati di Ferrara non si guidarono così,
come si ha dalle lor memorie stampate. Appena addì 13 di maggio fu
scoperto il male del Veronese di sopra accennato che, tuttochè non
fosse se non dubbioso quello essere tocco di pestilenza, fu risoluto di
pubblicarlo come veramente pestilenziale, con trasportare di bel mezzo
giorno al lazzaretto tutti gli abitanti della casa ove morì costui,
colle robe loro, e sequestrando chi aveva conversato con esso lui,
credendo meglio i Ferraresi il perdere, siccome avvenne, per tal rumore
il commercio co’ vicini, che l’esporre la patria al pericolo d’un
danno incomparabilmente maggiore. In fatti gli abitanti d’essa casa,
al numero di sette, morirono successivamente di poi, e parte d’essi
con buboni e carboni evidenti. Altri casi di chi morì chiaramente di
peste succedettero in quello stesso anno nella città medesima; ma colla
pronta provvisione si troncarono tutte le conseguenze pregiudiziali. In
una parola, dopo il primo caso si stabilì e fu conosciuta necessaria,
non che utilissima, quella gran massima di sempre interpretare per
peste ogni accidente indicante indifferentemente peste e non peste;
e quantunque alcune volte (furono nondimeno esse ben poche) forse
non si accertasse ivi nel giudicare, tuttavia si accertò sempre in
assicurar la patria, essendosi apertamente veduto che in sette o otto
casi almeno dentro la città e in altri nel territorio restò oppresso
il male vero e reale, senza lasciargli campo a dilatarsi. In effetto
molte terre di quel distretto, contuttochè circondate dal morbo,
seppero così ben difendersi col rigore e colla diligenza, o opprimere
il male introdotto, specialmente col confinar esso, e con lo starsene
le persone ritirate, che la passarono netta. Gioverà ad ognuno l’avere
sempre mai presenti simili rilevanti esempj, per non dormire e per
non disperarsi quando mai venissero que’ miseri tempi. Il perdere
il commercio de’ vicini, il penuriar di molte mercatanzie e d’altri
comodi della vita, certo è un male; ma questo male può dirsi un nulla
in paragone del fuoco divoratore della peste; anzi la perdita di esso
commercio, benchè mal veduta, può chiamarsi un gran bene, perchè serve
anch’essa a impedire la comunicazione del contagio. In somma ebbero,
secondo me, ragione i Ferraresi di conchiudere nelle lor memorie poter
eglino _certificare agli altri che il pubblicare prontamente il male,
e il tenere per contagioso ogni caso che sia capace di sospetto, è
l’unico rimedio all’estinzione del medesimo male_.


CAPO VI.
_Commercio fra le persone come da regolarsi, qualora non si possa
opprimere la peste. Lazzeretti e sequestri, e attenzione agli
infermi. Provvisione per li mendicanti. Cimiteri pubblici fuori
della città. Regole per li medici, cerusici, confessori, e loro
segni. Sequestro de’ fanciulli e delle donne. Provvisioni per li
beccamorti. Commercio fra’ cittadini e contadini._

Qualora poi sembri o vicino o inevitabile il malore, s’hanno allora
da preparar lazzeretti con tutta sollecitudine, quando non se ne
avessero dei già preparati, e quando abbiano le comunità nerbo per così
dispendiose provvisioni. Potendosi mettere sui principj in quarantena
la terra o città, si elegga per ogni contrada un capostrada, uffizio
di cui sarà il far portare alla gente rinchiusa della contrada a
lui commessa le cose bisognevoli, consegnando ad ognuno entro una
cesta, che verrà calata dalle finestre, la porzione competente alla
sua famiglia, e tenendo sempre buona nota di cadauna persona d’essa
contrada, e de’ malati e morti, che ogni giorno si darà al suo
commissario, e da questo al magistrato. Se alcuno si ammalasse di
peste, converrà senza dimora trasferirlo al lazzeretto, e gli altri
della famiglia, siccome sospetti d’aver contratto il male, al luogo del
sospetto, di cui parleremo a suo tempo. Si segni immediatamente quella
casa, acciocchè subito sia purgata coi profumi, e renduta abitabile
nell’avvenire, notando poi con altro segno che quella è purificata.
Non potendosi tentare l’utilissimo rimedio della general quarantena,
di mano in mano si manderanno gl’infetti di peste al lazzeretto; e
chi si trova aver praticato con esso loro, al luogo del sospetto,
espurgando e purificando immediatamente le case e robe loro. Quando
non si possano aver lazzeretti e luoghi del sospetto, bisognerà fare
come si può; cioè sequestrare nelle loro case le famiglie infette
o sospette, le quali con profumi purgando tanto le camere ove sono
stati infermi, quanto le robe loro, oppure con segregarsi affatto
da quelle stanze e robe appestate, dovranno cercar di salvarsi; e
scoprendosi sane dopo almeno venti giorni, si potranno con licenza de’
deputati rimettere alla libertà del commercio, purchè prima sia seguita
l’espurgazione legittima delle loro case e robe. Ogni quartiere della