Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 02

d’essi potessero produrre rimedj migliori e più efficaci di quelli che
anch’io ho saputo e potuto raccogliere. Più tosto potrebbe accadere
che alcuni d’essi, senza curarsi di edificar meglio, distruggessero
ancora quel poco ch’io colla scorta de’ più accreditati autori ho qui
esposto, giacchè questo è il costume d’oggidì, nè par difficile il
mettere nella medicina quasi ogni cosa in dubbio per farla conoscere
non men lei un’arte fallace e debolissima che i suoi medicamenti
dubbiosi e talvolta ancora nocivi, siccome fecero già il Carrara,
l’Agosti ed altri, ed hanno tentato ai dì nostri di mostrar nelle
opere loro il defunto Lionardo da Capova, e il vivente signor Anton
Francesco Bertini, medici rinomati, l’ultimo nondimeno dei quali l’ha
del pari difesa. E assai più sarebbe questo facile, trattandosi di
quel fierissimo morbo desolatore, in cui confessano tutti i medici savj
che l’arte loro va più che altrove a tentone, nè ha sistema sicuro, nè
medicamenti da fidarsene molto.
Ma comunque sia, penso io che troppo importi il non atterrire, nè far
disperare il popolo in tali congiunture con biasimargli e screditargli
tutto. E però avendo io composto il presente libro, non per desiderio
di gloria, ma per brama unicamente di giovare in ciò, per quanto
io posso, alla patria mia, e a chiunque non avrebbe altri migliori
aiuti, per regolarsi, almeno con qualche prudenza, nei pericoli e
nei tempi di tanta calamità, io mi auguro ch’essa riesca veramente
utile; ma di gran lunga più auguro a tutti che non se n’abbiano mai
a valere, se non per un mero divertimento della loro curiosità. Che
se pure avesse un giorno da arrivare ciò che nessuno di noi desidera
di vedere, probabilmente non si pentirà alcuno d’aver prima in questo
mio libro imparato alquanto a premunirsi col conoscere la faccia di
questo terribil nemico, e i disordini e gli strani suoi effetti. Pur
troppo ne abbiam mirato anche un picciolo abbozzo, ma però esempio
vivo, nella funestissima mortalità della spezie bovina, penetrata nel
prossimo passato settembre anche in varj siti del ducato di Modena,
Reggio, ecc. Da questo flagello si è già potuto apprendere non poco
qual cura più esatta si dovesse avere in pericoli di _contagio degli
uomini,_ per non restar delusi dalle guardie che si dicon fatte, ma
certo non bene; e per vietare a tempo i mercati e le fiere nostre e
l’adito alle straniere, benchè non apparisca entrato colà peranche il
malore, e con quai rigori e ripieghi si possa precedere per disputare a
passo a passo il terreno a questo male, facendo su i principj e finchè
la sciagura è fuori di casa, grandi strepiti, intimazioni rigorose,
visite frequenti ed improvvise, e quanto mai si può far concepire, se
pure è possibile, ai contadini e alle guardie, il pericolo che loro non
pare mai imminente, e il gravissimo danno di chi è colpito da simili
disavventure, il che non s’intende mai bene se non dappoichè non c’è
più tempo di rimedio.
Pensano alcuni che questa crudel _pestilenza dei buoi_ non solamente
si comunichi pel contatto delle bestie, o degli uomini che abbiano
conversato con bestie infette, ma ancora spontaneamente salti fuori in
alcune stalle, lontane talora più miglia dal paese infetto e custodite
con rigorose diligente. Lo stesso vien sovente e sospettato e creduto
anche nelle _pestilenze degli uomini_. Non voglio io mettermi qui a
negare assolutamente questa partita; ma dico bene che non è se non
difficilmente da credere, avendo noi veduto illese tante stalle, nelle
cui bestie sarebbe stato pronto e tosto si sarebbe acceso il fomite
del male, se queste avessero comunicato con altre infette. Per ogni
buon fine saggiamente si fa e si farà sempre in ogni peste, ad operare,
come se il morbo non si pigliasse mai se non per via di contagio.
Bisogna figurarsi che ancorchè non si sappia trovare, pure ci sarà
stata qualche persona o roba che avrà portato il veleno in quella casa.
I cani, le guardie, i medici stessi possono disavvedutamente portarlo
con seco; e dall’accuratissimo nostro signor Vallisnieri nel T. X dei
Giornali d’Italia è stato anche avvertito che fra le molte maniere
di propagarsi la peste de’ buoi c’è stata quella di condurli senza
precauzione alcuna a farli benedire con altri, o pure il permettere
che taluno andasse a benedire indifferentemente tutte le stalle. Quello
che più d’ogni altra cosa affligge e spaventa, si è il verificarsi in
questa mortalità de’ buoi ciò che già Virgilio nel fine del lib. III
della Georgica, ed altri osservarono in simili pestilenze d’animali,
e vien confermato nel suddetto tomo X de’ Giornali dell’anno 1712
dall’autorità di varj valentuomini, cioè che nessun rimedio può dirsi
fondatamente che vaglia; e se bene alcuni paiono talvolta giovevoli
(essendo guarita ancora in queste parti una porzione d’essi buoi
infetti), pure non servono poi a tanti altri; anzi voglia Dio che
talora alcun d’essi non affretti loro la morte, e non faccia perire
chi senza rimedi sarebbe risanato. Pur troppo avvien lo stesso anche
nelle _pestilenze degli uomini_. Perciò egli è cosa da savio il
non fissarsi mai tanto in alcune massime, precauzioni e rimedj, che
sopravvenendo lumi migliori, non si voglia più, nè si sappia mutar
registro. E più lumi per l’ordinario avrà una persona giudiziosa sul
fatto che un intero magistrato in lontananza. Ma veniamo finalmente a
trattare l’argomento nostro nel nome di quell’onnipotente Signore, la
cui giustizia dobbiam tutti temere, la cui misericordia dobbiam tutti
implorare, tanto nelle prosperità, quanto nelle tribolazioni.
Modena, 15 giugno 1714.


DEL GOVERNO POLITICO DELLA PESTE
LIBRO PRIMO.


CAPO I.
_Spiegazione della peste: origine e durata d’essa. Differenze fra
l’una peste e l’altre. Suo orribil danno ed aspetto. Obbligazione
e possibilità di difendere il paese da questo flagello. Diligenze
umane utili e necessarie_.

La peste, uno de’ più terribili mali che possano affliggere il genere
umano, benchè non sia propriamente lo stesso che il contagio, pure
suol avere fra noi il nome di contagio, perchè col toccare i corpi,
o l’aria degli appestati, o le merci, o robe loro, se ne infettano i
sani, con più forza e strage che non accade in altri morbi epidemici
e attaccaticci; dilatandosi la peste sino a spopolar le città, le
campagne e le province d’abitatori. Consiste la pestilenza in certi
spiriti velenosi e maligni, che, corrompendo il sangue o in altra
maniera offendendo gli umori, levano di vita le persone, spesso in
pochi, e talora in molti giorni, o pur all’improvviso. Quella che nasce
dalla totale infezion dell’aria, mai, o quasi mai non suol accadere,
benchè per accidente succeda che l’aria ambiente gli appestati
s’infetti anch’essa, e tanto più cresca tal infezione, quanto più
copioso e vicino è il numero di quegl’infermi. All’incontro bensì
frequentemente accade quella che è infezion di corpi contagiosa,
cioè, che s’attacca agli altri col contatto e che riesce maggiormente
pericolosa nelle città molto popolate e ristrette, e dove non soffiano
venti che purgano l’aria.
Non è affatto improbabile che a differenza di altre epidemie, le quali
si generano e saltano fuori spontaneamente nei luoghi per cagion dei
cattivi alimenti, o degli aliti paludosi, o dei venti nocivi, o d’altri
simili seminarj di morbi, la peste sia un’epidemia stabile che vada
mantenendosi in giro pel mondo, e passando d’uno in altro paese, e
tornandovi dopo molti o pochi anni, secondo che la negligenza degli
uomini, la disposizion de’ corpi o altre circostanze le aprono la
porta, quantunque sia certo che la peste d’un tempo non sia simile
in tutti i suoi sintomi ed effetti a quelle degli altri tempi. E per
dir vero, la sperienza ha fatto veder troppo spesso che la peste non
nasce da per sè stessa in tanti paesi, ma o vi ripullula talvolta da
panni che ritengono il veleno della peste antecedente, o vi entra,
portatavi da altri paesi (e questo è frequente) col mezzo di persone, o
di merci, o di altre robe infette e senza che alle volte si penetri il
come. Chi potesse raccogliere sicure annue notizie di tante e sì varie
province dell’Asia, Affrica ed Europa, troverebbe che non c’è anno,
in cui la peste non vada desolando qualche paese, e dopo la strage
d’uno non passi nel vicino a sfogarsi colla stessa carnificina. Gli
stati massimamente suggetti al Turco, sono, sto per dire, un perpetuo
seminario dì peste, perchè quasi mai non se ne disparte ella, e
particolarmente si fa sentire spesso in Costantinopoli e nel gran Cairo
in Egitto, di modo che è pericoloso sempre ogni commercio con que’
paesi. E appunto le più recenti pesti dell’Italia e dell’Europa, o son
passate per trascuraggine d’alcuni dall’Affrica nelle isole cristiane
del Mediterraneo e poi entrate in terra ferma, o pure dall’oriente
penetrando nell’Ungheria, Dalmazia, Polonia ed altri confini del Turco,
hanno poi afflitto varie altre parti della nostra Europa. Non occorre
far qui menzione di tante pestilenze che di secolo in secolo hanno più
volte desolata la terra; ma non si vuol lasciar d’accennarne una delle
più terribili che si sieno mai provate, descritta da varj storici e
spezialmente dai Cortusi, dal Petrarca e da Matteo Villani. Si partì
questa nell’anno 1346 dalla Cina che anche allora era conosciuta, e
s’andò avanzando per le Indie Orientali sino alla Soria e Turchia,
all’Egitto, alla Grecia, all’Affrica, ecc. Alcune navi di cristiani
partite di levante nel 1347 la portarono in Sicilia, Pisa, Genova,
ecc. Nel 1348 giunse ad infettar tutta l’Italia, salvo che Milano e
certi paesi vicini all’Alpi che dividono l’Italia dalla Germania, ove
fece poco nocumento. Nel medesimo anno passò le montagne stendendosi
in Savoia, Provenza, Delfinato, Borgogna, Catalogna, Granata,
Castiglia, ecc. Nel 1349 prese l’Inghilterra, la Scozia, l’Irlanda e
la Fiandra, a riserva del Brabante, ove poco offese. Nel 1350 oppresse
l’Alemagna, l’Ungheria, la Danimarca ecc., continuando ad affligger
poscia altri paesi; e quindi tornò indietro di nuovo in Francia e
in Italia nell’anno 1361, ove desolò Milano, Avignone e Venezia con
levar di vita lo stesso doge Delfino e molti cardinali. Passò dipoi
un’altra volta a Firenze nel 1363 e vi morì il suddetto Villani. Ora
ecco come l’un paese infetti l’altro. Così nel 1393, siccome scrive S.
Giovanni da Capistrano nel suo Specchio della coscienza, da un infetto
fu portata a Bologna la peste, e dalla Romagna passò ella in barca a
Genova e Venezia, e un altro l’introdusse dipoi in Brescia, Verona,
ecc. Tuttavia con questi ed altri infiniti esempj che si potrebbono
recare, io tengo che la peste nasca talvolta da sè stessa, senza essere
portata altronde, cagionata o dalla cattiva costituzione dell’aria, o
dal fetore de’ cadaveri, o pure dai patimenti degli uomini per qualche
fame o guerra, o da altri simili disordini, e nata poi l’infezione
contagiosa, si attacchi ai vicini e si chiami contagio o peste, quando
essa ha certi sintomi e fa grande strage de’ popoli.
L’ordinaria permanenza della peste in una città suol essere di nove
in dodici mesi, dopo di che suol cedere. Ma in alcuni paesi ove si
vive con bestiale sprezzo o troppa familiarità di questo morbo, e
senza curarsi molto delle espurgazioni, e senza mettere in opera tanti
altri rimedj che si usano nelle savie città, vi ha fatto soggiorno
più anni, o pure vi è da lì a non molto ripullulata. Della suddetta
peste del 1348, narra il Villani che essa non durava più di cinque
mesi in ciascuna terra: i Cortusi dicono sei mesi. Nel 1630 la peste
che saccheggiò cotanto l’Italia, entrò anche nella nostra città di
Modena nel mese di Luglio, siccome appare dagli editti d’allora e cessò
il dì 13 di novembre di quello stesso anno, benchè si continuasse a
star senza commercio, e con tutti i riguardi sino al fine del gennaio
dell’anno seguente 1631, sì per attendere all’espurgazione, come ancora
per non praticare colla gente o sospetta o infetta del contado, essendo
anche dopo il dì suddetto di novembre succeduto in città qualche caso
di morte pestilenziale che fece proseguir le cautele. Nelle città
grandi e popolate non è sì facile che la peste ceda presto, perchè il
pascolo della morte è grande, e non bastano spesso tante diligenze e
spurghi in campo sì vasto. Gli esempj son chiari di Venezia, Milano,
Napoli, ecc. In questa ultima città si accese ella l’anno 1526, e
continuò del 27, 28 e 29, come narra il Summonte. Tuttavia, ove si
pratica esattezza singolare, la pertinacia del male resta vinta.
In Roma entrò la peste l’anno 1656 sul principio di giugno; e verso
la metà di marzo nell’anno seguente 1657, mercè del buon governo si
cominciò ivi a goder buona salute. Ma succeduti dipoi nuovi casi, si
replicarono le diligenze finchè il male cessò affatto sul fine del
seguente luglio.
Più strage suol ordinariamente far la peste nei mesi caldi o negli
autunnali che nei freddi; ma non lascia ella d’infierir talvolta anche
più nel verno che nella state, forse perchè allora occorrono venti
caldi, o perchè cominciata la peste nell’autunno o nella state, il suo
maggior furore ed accrescimento viene a cadere nel verno. La peste del
1630 fu al sommo in Padova ne’ mesi di giugno e luglio, ma in Venezia
la stessa fece strage maggiore nell’ottobre, novembre e dicembre,
continuando poi quasi tutto l’anno seguente 1631 sempre diminuendo.
Nella Gheldria la peste del 1636 esercitò le maggiori sue forze dal
principio di maggio sino al fine d’ottobre. Gran varietà è in questo
punto; ma, come dissi, la state d’ordinario mette in maggior rabbia
questo perniciosissimo veleno, e il verno freddo o l’indebolisce o
l’estingue.
Un’altra diversità fra peste e peste suol appunto consistere nella
minore o maggior fierezza. Alcune son funestissime, ed empiono
la terra di strage; altre men crudeli si contentano di un tributo
più discreto di morti. Quella del 1348 che testè accennammo, levò
del mondo quasi le quattro delle cinque parti della gente europea
per attestato del Villani e d’altri scrittori. Nel medesimo secolo
altre non men fiere pestilenze portarono un’incredibil mortalità per
l’Italia, Germania, Francia e Spagna. Quella del 1564 sì rabbiosamente
infierì pel Lionese, per la Savoia con istendersi ne’ confini degli
Svizzeri e nel territorio de’ Grigioni, che in quelle bande uccise
poco meno dei quattro quinti. L’altra che nel 1575 e nei seguenti
afflisse alcune città d’Italia, fu di gran lunga più mite in Milano,
che un’altra ivi pur succeduta prima nel secolo stesso; e all’incontro
essa fu perniciosissima alla città di Venezia. L’altra del 1630 portò
un’orribil desolazione al suddetto Milano, nella qual città e diocesi
dal principio d’aprile, in cui si dichiarò per peste, fino alla
metà del prossimo settembre, ascese la mortalità a 122 mila persone,
continuandovi poi ancora per alcuni mesi. Si è anche osservato che
qualche peste ha infettato gli uomini di certe professioni o nazioni,
e lasciati intatti quei d’altra professione o nazione, benchè tutti
abitassero nel medesimo paese infetto.
Questa differenza di effetti deriva o dalla qualità della pestilenza
medesima, i cui spiriti sono ora più ora men velenosi; o pure dalla più
o meno esatta cautela e preservazione delle città, o dalla precedente
diversa disposizione dei corpi, delle stagioni e dell’aria. Nel 1628 fu
gran carestia nello stato di Milano e in altre parti della Lombardia,
accresciuta poi dalla guerra che sopraggiunse, di maniera che in
quello e nel seguente anno 1629 morì di fame e di stento in Milano
stesso non poca gente, e vi fu una sollevazione del popolo. Ora non è
da maravigliarsi se succedendo poi la peste da lì a poco, e trovando
sì mal nutrita e piena di mali umori la povera plebe della Lombardia,
ne levò tante centinaia di migliaia dal mondo. In Modena però e nel
suo contado noi sappiamo che il mal contagioso non infierì come in
altri paesi. Per altro non sono d’ordinario men sottoposte a perir di
peste le persone sane e ben nutrite, che le infermicce e mal nutrite,
anzi talvolta è accaduto che più quelle che queste sieno restate preda
del male. Un’altra differenza si può osservar fra alcune pesti, ed è
che le une porteran seco flussi di sangue, petecchie, dissenterie, ed
altre vomiti, frenesie, abbattimenti di forze e simili altri sintomi.
Sogliono nulladimeno tutte le vere pesti generar carboni e buboni, del
che ragioneremo a suo luogo.
Mi terrò io lontano dal voler qui atterrire i lettori coll’immagine
orribile di qualche peste, esposta secondo la relazione di coloro che
ne furono miseri spettatori, perchè piuttosto mio intento sarà di
preparare e consigliar coraggio in sì funeste occasioni. Tuttavia,
affinchè le persone, e massimamente i magistrati, considerando per
tempo, e serbando viva davanti agli occhi l’eccessiva miseria di questo
gran flagello, mettano in opera qualunque possibil mezzo e diligenza
per preservarsi e per tenerlo lungi, stimo necessario di ricordare
che fra i mali che possono affliggere un pubblico, non c’è il più
orrido, nè il più miserabile della peste, sì per quei che soccombono
alla sua fierezza morendo, come per quei che si van conservando in
vita. Chi mira una città sana in questo punto e vi figura poi entrato
il contagio, può senza timor di fallare dire fra sè stesso: Ecco di
tante migliaia di persone robuste e sane, di tanti artefici ed operai,
di tanti cittadini onorati, dabbene, utili, alcuni miei parenti o
amici, e tutti fratelli in Cristo, tanti e tanti non ci saran più,
e fra pochi mesi; e una gran mano d’essi morrà quasi all’improvviso,
benchè sanissima dianzi, parte barbaramente abbandonata da’ figliuoli,
da’ fratelli, dai mariti, da’ parenti o dai suoi più cari, parte di
stento e per difetto o di soccorso o d’alimenti; e ciò ne’ lazzeretti
medesimi che pure sono inventati principalmente per la salute de’
poveri appestati; e talvolta senza sacramenti e senza chi assista
a quel gran passaggio, e con total disperazione, siccome fuggita o
derelitta da tutti. Al prender poi vigore la peste è incredibile che
terrore assalisca chi non è provveduto di buon coraggio (e questi sono
i più del popolo) al mirarsi circondato di morti, all’udire il suono
o al vedere il brutto aspetto delle carrette che asportano ammontati
l’un sopra l’altro i cadaveri degli estinti, e al temere continuamente
che da un’ora all’altra possa intervenire lo stesso a chi ora si sente
benissimo di sanità. Il solo doversi tener rinchiuso per settimane
o per mesi in casa (e tanto più se per ordine del magistrato) è una
penosissima prigionia, aggiunti tanti bisogni che occorrono, e il non
potersi allora far molto capitale d’amici, o di parenti o dei suoi
contadini, per la difficoltà o impossibilità del commercio, talmente
che al vedersi attorniati da tanti suoi ed altrui mali, alcuni
diventano come stolidi, ed altri si muoiono anche senza essere tocchi
dalla peste. E siccome i principi perdono in tal occasione il nerbo
maggiore del loro dominio, cioè tanti sudditi, e la maggior parte
delle gabelle e dei tributi, e ciò per molti anni appresso, essendo
di più anch’eglino costretti a digerire non pochi disagi e pericoli,
durante il contagio, e dipoi, giacchè i principi stessi, al pari
dell’infimo de’ sudditi, son sottoposti agli assalti e alle ferite di
questo tirannico male: così i sudditi si trovano allora per la maggior
parte privi delle proprie rendite e del traffico, e però sottoposti a
diversi altri gravosissimi incomodi delle lor case. Nè colla peste suol
finire il danno della peste, mirandosi per lo più venirle dietro la
carestia per mancanza di chi lavori le campagne, e non trovarsi se non
difficilmente i necessarj artefici, operai e servitori, e doversi pagar
carissimo tutte le manifatture dimestiche e le robe forestiere, senza
rimettersi o mai più, o se non dopo lungo tempo, nello stato di prima
l’abbattuta e desolata terra o città.
Ho detto molte, e pure non ho detto assai per far ben intendere i
gran danni, terrori e miserie che reca seco la pestilenza. Ma si
può facilmente immaginare il resto, e questo ancora è di troppo, per
discendere ad una importantissima riflessione, cioè alla necessità
che hanno tutti i principi, magistrati e capi de’ popoli, d’impiegare
quanto mai possono sì d’ingegno e di attenzione, come di premura e
spesa, per impedire alla peste l’adito nei lor paesi, e per tenerla
lontana o scacciarla presto introdotta che sia. Bisogna pertanto
persuadersi che le diligenze umane, purchè non vadano disgiunte da un
fedele ricorso a Dio, possono preservare e preservano dal contagio
i paesi, e per conseguenza che il non usarle per quanto si può e a
tempo, questa è una solenne e miserabil pazzia, o pure una negligenza
difficilmente degna di perdono sì presso agli uomini come presso a Dio.
Nè pretendesse alcuno di esentarsi da tale obbligazione, o di sfuggire
tal sentenza con dire che quando Dio vuol flagellare una città, a nulla
servono le diligenze umane; perciocchè quantunque sia certissima questa
conclusione, pure non tocca a noi ciechi mortali il voler entrare ne’
gabinetti dell’alta provvidenza di Dio; ma bensì a noi s’appartiene il
far quanto prescrive l’umana prudenza per preservar noi e il prossimo
nostro dalle infermità, morti e miserie, implorando nel medesimo tempo
dal misericordiosissimo nostro Dio il perdono delle colpe e il soccorso
nelle necessità. Ai soli Turchi si lascia il non provvedere, quando
pur si possa ai mali o presenti o avvenire, quasi ciò sia un temerario
o superfluo operare contra i decreti del cielo. Il cristiano ha da
venerare in tutto i santi e sempre giusti e saggi voleri di Dio, certo
superiori a tutti gli sforzi degli uomini; ma non crede egli quel fato,
o destino che insegnarono i gentili: e sa che la divina provvidenza
non confonde il corso della natura e delle cagioni seconde, nè toglie
la libertà agli uomini, anzi comanda loro l’uso della prudenza negli
affari e nella custodia e conservazione di questa vita terrena. Però in
infinite altre occorrenze, e nel guardarsi da tanti altri mali, anche i
più dotti e santi non debbono ommettere, nè ommettono diligenza veruna,
e spezialmente ciò fa e dee fare la cristiana repubblica ne’ pericoli
de’ contagi.
Si può anche opporre che poco frutto s’abbia in fine da sperare in
molti paesi da sì fatte diligenze, considerata la mancanza di tante
cose e massimamente di vettovaglie, per provveder le quali dovendosi
necessariamente commerciar co’ vicini, troppo riesce difficile il non
partecipar della loro sciagura. Ma si risponde esserci regole e maniere
d’aver commercio infin co’ paesi infetti o sospetti in tempo di peste
per trarne vettovaglie, senza che per questo se ne tragga ancora la
peste. Le accenneremo a suo luogo. Il punto sta che tali regole non
si fanno osservare, nè son bene spesso osservate, con restare perciò
inutili tutte le antecedenti diligenze; e però qui ha da essere lo
studio e l’attenzione più premurosa de’ magistrati, acciocchè nessun
vi manchi per frode, interesse o negligenza non perdonando per questo
oggetto nè a premj, nè a pene, nè a vigilanze, nè a spese.
Ma perciocchè a convincere che una cosa può facilmente farsi,
non c’è il più palpabile argomento che il mostrarlo facilmente ed
effettivamente fatto in tante altre congiunture: cito qui la memoria di
molti a ricordarsi di quante pestilenze sono accadute a’ suoi giorni,
o sono a lui note per altra via; e in ognuna d’esse troverà egli che
la peste si lascia porre degli argini, e non s’inoltra dapertutto,
ma si ferma ai confini, e alle porte di chi vi s’oppone con prudenti
e rigorose cautele. Pochi anni passano, che non s’oda regnar la
peste o in Costantinopoli, o alle Smirne, o in Grecia, Bossina ed
altre province del Turco, confinanti al dominio Veneto; e pure non
penetra ella d’ordinario più innanzi, stante la gran precauzione di
quell’inclita repubblica, la quale può appellarsi maestra di tutti
anche nella diligenza e prudenza di tener lungi questo terribil
flagello. Pochi anni sono, la Polonia, l’Ungheria, la Prussia, la
Danimarca ed altre province settentrionali furono gravemente infestate
dal contagio; ma questo non passò già a maltrattare le contrade
confinanti. Si vide il medesimo regnar in Vienna d’Austria a’ tempi
di Leopoldo I, ma fu così ben posto argine alla sua furia che non si
stese per tanti altri paesi. Così la città di Conversano nel regno
di Napoli a’ tempi della sede vacante d’Alessandro VIII ne restò
fieramente afflitta, ma mercè d’un cordone di separazione dagli altri
paesi sani, non comunicò il suo malore ai vicini. Nell’anno 1576 furono
oppresse dalla peste le città di Milano, Mantova, Padova, Venezia ed
altri luoghi; ma la maggior parte dell’altre città della Lombardia si
difesero; e fu osservato dal Cavitelli che nel Cremonese non si godè
mai sì buona salute, come allora, quantunque Parma e Piacenza avessero
bandita quella città per sospetto ch’ella non potesse esentarsi dal
commercio con Milano. Infierì essa peste allora anche nella Sicilia,
e nella Calabria e Puglia, e pure la città di Napoli tante diligenze e
strettezze usò che seppe preservarsi, e ciò contuttochè per attestato
del Summonte vi penetrassero di nascosto alcuni appestati, i quali
occultamente furono curati senza danno degli altri. Nel 1656, Roma,
Napoli, Genova ed alcune poche altre città soggiacquero alla peste;
ma senza che se ne comunicasse il veleno al di qua dall’Appennino, nè
alla Toscana, nè a tanti altri paesi confinanti. Anzi Castel Gandolfo,
benchè vicino a quel di Marino e ad altre terre infette, si preservò
per cagion delle diligenze ivi adoperate.
Ma per venire alla peste del 1630, funestissima in tutta la Lombardia,
e di cui dura puranche memoria nella nostra città, egli è certo che la
città di Treviso, avvegnachè assediata d’ogn’intorno dal male, restò
illesa. Ferrara anch’ella si preservò; e pure, come diremo, entro
d’essa accadde qualche caso di peste. La città di Faenza fu quella
che col mantenersi sana tagliò i progressi al morbo, che da Bologna
si sarebbe inoltrato nella Romagna. E ciò avvenne, perchè poste dai
Faentini le guardie ad un fiume che scorre poco lungi dalla città,
un degno prelato ch’era allora al governo e alla custodia d’esso,
indefesso di giorno e notte, quando manco si pensava, compariva a
cavallo a riveder le guardie e i passi del fiume più facili; e tenendo
le forche in piedi fuori della città, non risparmiava nè terrore, nè
gastighi ai disubbidienti. Così la città di Reggio, benchè posta fra
Modena e Parma, ambedue città infette, lungamente si mantenne sana, e
forse ne sarebbe andata esente, se il male non vi fosse stato portato
disavvedutamente da chi era di sopra alle leggi. E in quella medesima
peste del 1630, egli è noto fra noi che nel ducato di Modena le terre
di Vignola, Guiglia, e tante altre castella della collina e della
montagna, quantunque confinanti ad altre infette dalla pestilenza o
circondate da essa, pure col mezzo delle guardie e diligenze usate
schivarono così terribil disavventura.
All’incontro quasi tutte le terre e città invase dalla peste, sanno e
saprebbono dire, onde sia proceduto il principio della loro infezione,
cioè dall’aver trascurate le debite diligenze, e dal non aver fatto
osservare le leggi prudentemente stabilite in somiglianti pericoli
e disordini. Io non parlerò qui se non di Roma e Padova. Infierendo
l’anno 1656 la peste in Napoli (che v’era penetrata dalla Sardegna)
furono asportate molte vesti e panni, che maneggiati da persone
appestate aveano contratta la semenza del male; e questi introdotti in
Civitavecchia e Nettuno, passarono anche furtivamente entro di Roma
stessa, accendendo poscia in tutti que’ luoghi il fuoco contagioso
che a poco a poco si dilatò ne’ contorni. Penetrò la peste in Padova
nell’anno 1630, perchè furono poste le guardie a’ confini del Vicentino
infetto; ma queste erano malamente tenute con far anche supplire i
ragazzi, e trovarsi talvolta gente ai passi, a cui bastava mostrare
qualche bulletta per passar oltre. Persone potenti da un’altra parte
entravano per forza nel distretto padovano, essendo in qualche paese
le leggi, come le tele di ragno che fermano le mosche, ma cedono tosto
a chi ha l’ali più vigorose. L’interruzion del commercio avea ridotta