Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 01
DEL GOVERNO
DELLA PESTE
E DELLA MANIERA DI GUARDARSENE
TRATTATO
DI L. A. MURATORI
DIVISO
IN POLITICO, MEDICO ED ECCLESIASTICO
CON AGGIUNTA
_DELLA RARISSIMA RELAZIONE_
DELLA PESTE DI MARSIGLIA
PUBBLICATA
DAI MEDICI CHE HANNO OPERATO IN ESSA
MILANO
PER GIOVANNI SILVESTRI
M. DCCC. XXXII.
BREVI CENNI
INTORNO ALLA VITA E ALLE OPERE DI L. A. MURATORI
Di umile schiatta nacque il dì 21 ottobre 1672 in Vignola, terra del
Modenese, ed ebbe in età fanciullesca un dozzinale maestro di rudimenti
di lingua latina da cui spesso distaccavasi volentieri per deliziarsi
nella lettura dei romanzi della francese Scudery. Si portò giovanetto
a Modena, dove vestì l’abito chericale, e dove sortir potè migliori
institutori, ch’egli seguitò con fervore. Iniziato già nelle leggi
e nella moral teologia, volealo il padre di nuovo in Vignola a fine
che tornasse utile alla bisognosa famiglia, ma preso avendo grande
affetto alla poesia, alla eloquenza ed alla conversazione di svegliati
ingegni, egli ottenne di non distaccarsi da una città che ben presto
riconobbe in lui un prodigio di spirito e d’ingegno. Il celebre P.
Benedetto Bacchini si prese singolar cura nel dirizzarlo a’ migliori
studi, come pur fatto avea col Maffei, sicchè potè quegli dirsi il
padre de’ due più grandi Italiani del suo secolo. La lettura delle
opere di Giusto Lipsio invaghì il Muratori dell’antica erudizione,
e, voglioso d’impadronirsi della lingua greca, seppe riuscirvi da
sè solo dopo ostinata fatica. La fortuna gli rise intanto propizia
nell’incontrare a mecenati il march. Gio. Gioseffo Orsi, bolognese,
e monsig. Anton Felice Marsigli, vescovo di Perugia, e col mezzo loro
potè esser invitato dal conte Carlo Borromeo di Milano a prender posto
nella famosa biblioteca Ambrosiana. Laureatosi prima in leggi con
istraordinario applauso, si recò subito a Milano alla fine dell’anno
1694, dov’ottenne titolo di dottore dell’Ambrosiana, e prima che
terminasse l’anno susseguente venne ordinato sacerdote. Primo e nobil
saggio del suo utile rovistare i codici della biblioteca furono gli
_Aneddoti latini_, a’ quali succedettero gli _Aneddoti greci_, e sì
agli uni come agli altri aggiunse illustrazioni di antichità cristiana,
e di disciplina ed erudizione ecclesiastica. Salì in rinomanza;
e non toccava ancora il suo vigesimoquinto anno, che già i primi
letterati italiani, un Noris, un Bianchini, un Ciampini, un Sergardi,
un Magliabecchi, un Salvini, e que’ di oltremonti, un Mabillon,
un Ruinart, un Montfaucon, un Gianningo, un du Pin, un Baillet, un
Papebrochio gli dimostravano grande benevolenza e considerazione.
Cinque interi anni si passarono da lui nell’Ambrosiana, frammischiando
a’ serj studi anche i più gentili, intervenendo alle accademie che
allora s’instituivano, e strignendo amicizie considerevoli, siccome
fu quella del valente numismatico Gio. Antonio Mezzabarba, e l’altra
del valoroso poeta Maggi, che mancato a’ vivi l’anno 1699, ebbe nel
Muratori lo scrittore della sua Vita.
Le indagini genealogiche che allora per commissione dell’elettore
di Hannover si facevano a fine d’illustrare l’origine italica della
casa di Brunsvico derivata dal ceppo Estense, impegnarono il sovrano
di Modena, Rinaldo I, a richiamare il Muratori alla contrada nativa,
ed egli, rassegnato ad obbedire al suo signore, quantunque con pena
lasciasse gli amici di Milano, l’anno 1700 fu reduce a Modena, dove
si tenne costantemente fermo pel mezzo secolo che tuttavia visse,
rinunziando poi ad ogni offertaglisi più splendida fortuna, ed il più
bel fregio diventando della biblioteca Estense. Concepì in patria il
grandioso disegno dell’opera delle _Antichità Italiane del medio evo_,
libro immortale e senza cui non avremmo forse oggidì nè le storie
del Gibbon, nè quelle del Sismondi. Nacquero intanto in Italia piati
e puntigli per lo dominio di Ferrara e di Comacchio, e ’l nostro
Bibliotecario non poche scritture pubblicò, che ’l misero anche in
voga d’uno de’ più scienziati pubblicisti, ed in fatti riuscì tale da
rapir di mano la palma al Fontanini, bellicoso campione dei diritti
della corte romana. Da questa controversia nacque nel Muratori il
pensiero della famosa Raccolta degli _Scrittori delle cose d’Italia_,
che ordinò e rese ricca di cognizioni storiche risguardanti la gente
italiana dal secolo V al XV; e nel frattempo che sì sontuosa impresa
andava progredendo colle stampe in Milano, quasi per sollievo e diporto
compose il _Trattato della perfetta poesia_, in cui spiegò un sistema
conforme a’ pensamenti di Bacone da Verulamio. Di altro disegno fu
l’opera che colorì poco dopo del _Buon gusto_, o sia Riflessioni sopra
le scienze in genere; ed anche questo libro, dettato con facile stile,
e pieno, pe’ suoi tempi, di novità, ebbe alto grido, e collocò l’autore
tra que’ filosofi che precipuamente adopravansi all’incremento del
sapere italiano. Tra le amene sue distrazioni vanno ricordate le Vite
che scrisse del _Petrarca_, del _Castelvetro_, del _Sigonio_, del
_Tassoni_, del march. _Orsi_, del P. _Segneri juniore_. Era tale e
tanta la fecondità del suo ingegno, che due opere ad un tratto stava
per ordinario scrivendo, e non solo di erudizione o di critica, ma
attenenti eziandio alla teologia, all’ascetica, alla filosofia, alla
politica, e sin alla medicina, come il comprovano il suo _Trattato del
Governo della peste_[1], e la sua Dissertazione _De potu vini calidi_;
e tutto questo faceva senza mancar mai un istante all’adempimento
più scrupoloso de’ doveri del religioso suo stato. Egli era Proposto
della Pomposa in Modena con cura di anime, e con zelo vivo e indefesso
vi attendeva esemplarmente, rendendosi sino benemerito della umanità
colla filantropica instituzione di una così detta _Compagnia della
Carità_. Quanto fosse vivamente compreso di vero spirito di religione
può conoscersi dall’unico suo _Trattato della Carità Cristiana_, che
intitolò all’imp. Carlo VI, il quale lo regalò di ricca collana d’oro;
e quanto fosse maestro profondo in divinità scorgesi dalla sua opera
_De ingeniorum moderatione in religionis negotio_, opera che non
soltanto in Italia, ma in Germania ed in Francia ebbe assai credito. Ma
libri tanto frequenti e di genere sì disparato non poterono talvolta
non promovere opposizioni, dibattimenti, censure; il Muratori poi
niente inquieto di quelle che ad argomenti scientifici si riferivano,
con rigido occhio mirava soltanto le teologiche e le ecclesiastiche.
Era già il Muratori alla sessagenaria età pervenuto; nè potendo più
reggere alle parrocchiali fatiche per la indebolita salute, rinunziò
alla propositura della Pomposa, attendendo soltanto con perseveranza
a comporre e pubblicare opere sempre nuove. Deonsi a quest’epoca
i suoi _Compendj in lingua italiana delle Dissertazioni delle
Antichità d’Italia del medio evo_; la _seconda parte delle Antichità
Estensi_; il _Nuovo Tesoro delle iscrizioni_, ed i libri di brieve
mole, ma non men rilevanti, _della Morale Filosofia_; delle _Forze
dell’intendimento umano_; della _Forza della fantasia_; dei _Difetti
della Giurisprudenza_, e quelli risguardanti antichità profane, come la
_Dissertazione de’ Servi e Liberti_; quella de’ _Fanciulli alimentarj
di Trajano_, e quella dell’_Obelisco di Campo Marzo_. All’erudizione
sacra ed a materie ecclesiastiche spettano i volumi che scrisse
contro l’inglese _Burnet_; le _Missioni del Paraguay_; l’_Antica
Liturgia romana_, e sopra tutto il classico _Trattato della Regolata
divozione_[2], con cui volendo estirpare certe pratiche superstiziose
volgarmente in corso, erasi proposto di assuefar meglio i fedeli al
culto interiore. Il cardinale Gerdil chiama _aureo_ il suo _Trattato
della Pubblica Felicità_, e dice essere la _voce del cigno_, perchè
lo scrisse un anno prima della sua morte. Anche i celebratissimi
_Annali d’Italia_ sono un frutto di sua vecchiaja, e di essi ne diede
un ponderato giudizio il valente ultimo biografo del Muratori il ch.
Francesco Reina.
Egli già già toccava l’anno settantesimosettimo della sua vita quando
dopo avere languito per lunga malattia, ed essere sin rimaso privo
della luce degli occhi, per colpo di paralisia passò da questa a più
gloriosa e durevole vita il dì 23 gennaio 1750.
PREFAZIONE E DEDICAZIONE
AGL’ILLUSTRISSIMI SIGNORI CONSERVATORI DELLA CITTÀ E SANITÀ DI MODENA.
Grande apprensione e paura, o illustrissimi signori Conservatori della
città e sanità di Modena, se vogliam confessarla schietta, ci han
recato nel prossimo passato anno 1713 i romori di peste. Inoltratasi
ella dall’Ungheria nell’Austria, e quindi in Praga, in Ratisbona e
in altri paesi, e nello stesso tempo svegliatasene un’altra, ch’io
suppongo diversa, in Amburgo, aveva un tal malore col miserabile
scempio di que’ popoli spinto il terrore anche in tutti i vicini. Già i
men coraggiosi quasi la miravano passeggiar per le contrade d’Italia e
andavano divisando le maniere di scamparne; anzi non lasciavano i più
saggi di dubitarne anch’essi sul riflesso di varie circostanze che si
adunavano a rendere fondato il dubbio, e non irragionevole il sospetto.
Imperocchè gran tempo è corso che l’Italia non ha provato questa, che
alcuni chiamano _guerra divina_; ed essendosi dall’una parte osservato
nel corso di tanti secoli addietro, che dopo il periodo ora di molti,
ed ora di pochi anni, ma non già quasi mai aspettando un secolo, suol
tornare la peste a visitar i popoli; e dall’altra parte, costando che
dal 1630 e 1631 fino all’anno 1713 ne avea goduto la Lombardia una
totale esenzione, poteva probabilmente temersi che tal disavventura
omai venisse spedita anche a noi dall’adorabil Provvidenza di Dio, e
massimamente considerando le colpe nostre, degne di questo e di peggio.
Aggiungevasi aver noi in pochi anni provato tanti mali, ora di guerre,
ora di carestie, ora di freddi acerbissimi con seccamenti di viti e
d’altri alberi, ed ora di spaventose inondazioni che in altri tempi
si sarebbe facilmente creduto vicino il giudizio finale. Quando si
cominciano ad infilare l’un dietro l’altro i malanni, sembra che non
ne finisca il corso e la catena sì tosto, e che anzi il compimento di
tutti gli altri soglia essere il terribile del _contagio_.
Parimente dava e poteva dar moto ai timori d’alcuno la fierissima e
compassionevole mortalità de’ buoi, che, non ancor ben estinta da tre
anni in qua, è andata e va desolando la misera Lombardia con tanti
altri paesi, fino a temere alcune città ne’ lor territorj il totale
eccidio di bestie sì necessarie all’uomo. Non è già che a simili
epidemie tenga sempre dietro quella degli uomini; imperocchè d’una
peste de’ buoi accaduta nel 1514 fa menzione il Fracastoro nel suo
Trattato del Contagio; e pure ella non venne seguitata dalla strage del
genere umano. D’un’altra preceduta dalla sterilità delle viti lasciò
memoria il Poeta Sassone all’anno 809 con tali parole:
............ _Sævior omni_
_Hoste nefanda. Lues pecudum genus omne peremit_, ec.
Ma nè pure allora passò sopra gli uomini il micidiale influsso. Così
per attestato di Rolandino storico nell’anno 1238: _Fuit hyems aspera
et horribilis, ita quod nivis et frigoris superfluitate insolita,
mortuæ sunt vinæ, olivæ, ficus et aliæ multæ arbores fructiferæ_
(altrettanto noi provammo nel principio del 1709). _Et post illam
pestem eodem anno pestis sequuta est avium, et præcipue gallinarum,
boum et multarum utilium bestiarum_. Ma non si legge accaduto lo stesso
agli uomini ne’ seguenti anni.
Contuttociò non mancavano giusti fondamenti al timore, mentre, per
sentimento di celebri autori, l’infezione del genere umano non rade
volte è stata preceduta da quella dei bruti; ed eccone gli esempi.
Infin l’antichissimo Omero, narrando nel lib. I dell’Iliade la peste
(vera o finta, non importa) che fu scagliata dall’arco d’Apollo, cioè
dal soverchio calore del sole, nell’esercito de’ Greci, scrisse che
prima ella fece strage delle bestie, e poscia penetrò negli uomini:
_Assalì prima e muli e cani, e quindi_
_Scagliò le sue mortifere saette_
_Contra gli uomini stessi._
Livio nel lib. 41 delle sue Storie fa menzione d’un’altra con queste
parole: _Delectus consulibus eo difficilior erat, quod pestilentia,
quæ priore anno in boves ingruerat, eo verterat in hominum morbos_, ec.
Così Ovidio, descrivendo una peste nel lib. VII delle Metamorfosi, la
dice prima toccata anche ai buoi:
_Strage canum primo, volucrumque, aviumque, boumque,_
_Inque feris, subiti deprehensa potentia morbi est_, ec.
_Pervenit ad miseros, damno graviore, colonos_
_Pestis, et in magnæ dominatur mœnibus urbis._
Ammiano Marcellino nella sua Storia attribuisce a’ vapori corrotti che
escono dalla terra le pestilenze, inferendone perciò prima la morte
de’ bestiami che pascono l’erba, e poi quella degli uomini. _Affirmant
alii_, dice egli, _terrarum halitu densiore crassatum aera, emittendis
corporum spiraminibus resistentem, necare nonnullos. Qua caussa,
animalia præter homines cetera, jugiter prona, Homero auctore, et
experimentis deinceps multis, quum tales incessunt labes, ante novimus
interire_. Così Claudiano nel lib. I contra Ruffino:
_Ac velut infecto morbus crudescere cœlo_
_Incipiens, primo pecudum depascitur artus,_
_Mox populos, urbesque rapit._
E l’antico medico Paolo da Egina nel lib. II, cap. 36, lasciò scritto
che _la morte degli animali reca una gagliarda coniettura di una futura
pestilenza anche degli uomini_.
Andarono unite nell’anno 820 molte disgrazie mentovate negli Annali
Fuldensi, perciocchè _hominum et boum pestilentia longe lateque ita
grassata est, ut vix ulla pars regni Francorum ab hac peste immunis
posset inveniri. Fruges quoque vel colligi non poterant, vel collectæ
putruerunt; vinum etiam propter caloris inopiam acerbum et insuave
fiebat._ Così per attestato di Matteo Paris nella Storia Anglicana
all’anno 1103: _Pestifera mortalitas animalium maxima quoque hominum
hoc tempore fuit_. Aggiungasi Ermanno Contratto, il quale nella sua
Cronaca scrive che dell’anno 1044: _Maxima pestis pecudum et hyems
satis dura et nivosa magnam vinearum partem frigore perdidit, et
frugum sterilitas famem non modicam effecit_. Poscia all’anno 1046
aggiunge, che _magna mortalitas multos passim extinxit_. Anche nelle
Memorie stampate dalla città di Ferrara per la preservazion dalla
peste del 1630, si legge che nel marzo di quell’anno fu replicata la
proibizione di mangiar carni di bestie morte da sè, perchè in quelle
parti _si cominciava a sentir la mortalità nelle bestie bovine, non
cagionata, come pensavano alcuni, dall’inondazione di tre anni avanti
del Po nella Diamantina, ma sì bene da contagio speziale comunicato
dalle bestie bovine del Mantovano, rifuggite nel Ferrarese, come si
conobbe evidentemente_. Ma io non so dire se questo contagio precedesse
quello degli uomini. Dirò bensì che il cardinal Gastaldi nel suo
Trattato della Peste accenna anch’egli qualche mortalità d’animali
e nominatamente de’ buoi, la qual precedette la pestilenza del 1656.
Che più? S. Ambrosio nel lib. _de Noe et Arca_, cap. 10, così scrive:
_Si quando est pestilentia corrupto cœli tractu, prius ea quæ sunt
irrationabilia lues dira contaminat, et maxime canes, equos, boves;
atque ea inficit, quæ cum hominibus conversari videntur. Sic morbi vis
etiam genus humanum implicat_. E nella sposizione sopra S. Luca nel
lib. X: _Quæ omnium fames, lues pariter boum, atque hominum, ceterique
pecoris, ut etiam qui bellum non pertulimus, debellatis tamen nos pares
fecerit pestilentia?_ E però il Quercetano ed altri, in ragionando
della peste riposero tra i segni che minacciano il contagio agli uomini
il precedente dei buoi, avendolo probabilmente imparato anch’eglino
dalla sperienza. Alcuni sono d’avviso che gli aliti pestilenziali de’
buoi o de’ lor cadaveri infetti, sieno finalmente cagione che anche
gli uomini contraggano il morbo. Verisimilmente ciò non sussiste,
veggendo noi e sapendo da tanti altri esempi che la peste d’una spezie
d’animali d’ordinario non passa nell’altre. Ma senza questo, perchè
potevasi dubitare che da alcuni anni in qua fosse corrotta in qualche
maniera l’aria o pure il sugo stesso della terra, mentre non solamente
si mirava il suddetto luttuosissimo morbo de’ bestiami, ma di più
una fiera ed insolita copia di vermi, che rodevano i grani in erba,
e qualche, per dir così, inclinazione del terreno alla sterilità o a
produrre assai loglio con tante altre immondezze, e a non istagionar
più i frutti che sì facilmente poi marcivano (colpa forse tutta delle
stagioni sconcertate); certo non pareva sprezzabil coniettura che di
qui ancora potesse venir danno agli alimenti e agli uomini de’ corpi
umani, ed essersi potuto formare o disporre qualche fomite anche per
la loro pestilenza. Maggiore ancora poteva temersi questo pregiudizio,
mancati quegli animali che guadagnano il pane all’uomo, e il cibano
colle lor carni e coi lor latticinj, riconoscendosi che una tal
disavventura poteva tirar seco delle peggiori conseguenze.
Quel nondimeno che, prescindendo anche dalla considerazione de’
nostri peccati e delle circostanze accennate, solo bastava a porgere
giustissimo fondamento di timore agl’italiani, si era il vivo e
strepitoso _contagio della Germania_ ch’io di sopra accennai. Non
s’intenderebbe punto di _peste_ chi non sapesse qual gran facilità
ella s’abbia d’innoltrarsi e di far conquiste nuove qualora non le
sia posto argine. Per tacere di tanti altri tempi, l’anno 1630, in cui
avvenne l’ultimo contagio della Lombardia, ben trovò maniera il veleno
pestilenziale di penetrar per l’Alpi e d’infettar poi e di desolare
assaissime città d’Italia. Molto più poi ragion di temere c’era in
questi tempi, durando la scarsezza de’ viveri e la guerra, e tanti
altri sconcerti del mondo che la sperienza ha fatto conoscere, non dirò
solo per forieri, ma per mirabili disseminatori e veicoli de’ contagi.
Quindi pertanto nell’anno prossimo passato si credette obbligata
a tante diligenze e a tanti rigori, la prudenza di molti principi
d’Italia e massimamente della sereniss. Repubblica di Venezia, sempre
acuta in prevedere e sempre attenta a provvedere, per quanto possono
le forze umane, acciocchè non passino nel suo dominio mali stranieri.
Quindi medesimamente venne il gravoso interrompimento di commercio fra
tante città con tanti stabilimenti di guardie, di cancelli, di fedi,
cose tutte che andavano dicendo che si temeva e si doveva temere.
Ma finalmente in Vienna, in Praga, in Ratisbona e in altre città
e contrade della Germania è terminata col benefizio del freddo la
terribile e minacciosa influenza, di maniera che sembra estinta col
male anche ogni ragione di non paventarlo più per ora in Italia. Già
è restituito il sospirato commercio fra le città della Lombardia; ed
essendo spuntata in questi tempi anche la pace a consolare i popoli
cattolici, moltiplicate ragioni abbiam tutti di dar lode e di render
grazie immortali all’onnipotente Dio che ci vuol far sentire in varie
guise gli effetti della sua misericordia. Ora in tal congiuntura due
cose abbiam potuto imparare, meritevoli di somma attenzione. L’una
è che il temere ed anche l’eccedere in timore, ove nascano sospetti
di contagio, suol conferire assaissimo a preservarsi dal contagio
medesimo. Imperciocchè allora si moltiplicano i ripari e si mettono
in opera que’ ripieghi sì spirituali come temporali che la religione
e l’umana prudenza suggeriscono per fermare il corso a un sì poderoso
nemico. Certo che non alle diligenze degli uomini, ma alla provvidenza
benefica di Dio si dee attribuire il gran benefizio di conservarsi
immune dalle pestilenze e da altri flagelli. Contuttociò, essendo
anche certo, piacere a Dio che le creature ragionevoli operino dal
canto loro ciò che si conviene alla natural preservazione, valendosi
egli dell’operar nostro per effettuare i suoi incomprensibili disegni;
perciò utile e necessaria cosa è, e sempre sarà, il non perdonare
in casi tali a precauzione e industria alcuna, di cui sia capace
l’intendimento del saggio. A certe persone di mezzana comprensione
pare un augurio di peste il solo udir parlare di peste, e ad altri poi
compariscono facilmente eccessivi i timori e i rigori che nei sospetti
delle pestilenze si usano da alcuni principi ne’ loro stati. Ma in fine
ci vuol poco a capire che il ragionarne, il paventare e il provvedere,
per quanto mai si può, in pericoli sì fatti e per precauzione
dell’avvenire, non è quello che metta l’ali alla pestilenza e la faccia
calare dai paesi stranieri o confinanti. Certo altresì ha da essere,
che il non aver paura, o l’occultarla, questo sarebbe uno spedirle
solenne ambasciata, invitandola a venirci a visitare il più presto
che ella può. E perciò ogni ragion consiglia l’imitare in altre simili
congiunture più tosto i rigori, benchè forse superflui ed anche molto
dispendiosi, ultimamente praticati da parecchie città della Germania e
dell’Italia, che l’uso di altri popoli men paurosi o meno guardinghi.
Sarà, anche molto più da desiderare che occorrendo tali sconcerti, a
niuna delle città d’Italia venga impedito dalla positura de’ suoi siti
ed affari il camminar concorde con le altre, a fine di tener lungi con
egual diligenza un malore che minaccia tutti, ma che però suol portare
rispetto a chi rigorosamente si oppone ai suoi passi.
L’altra verità che abbiamo imparato in questa occasione, si è, che
accadendo sospetti o rischi di pestilenza, allora si mirano in gran
confusione ed imbroglio non solamente le private persone, ma gli stessi
pubblici magistrati di molte città, mentre tutti in quel frangente
vorrebbono pur sapere come abbiano da governar sè stessi e gli altri,
ma senza per lo più poter rinvenire chi abbastanza gl’illumini.
Non mancano libri, è vero, che hanno trattato questo argomento; ma
i più del popolo ne patiscono inopia, e moltissimi nè pure un solo
possono mostrarne, siccome opere che non si leggono mai volentieri, e
che, finito il bisogno, si lasciano alla polvere o a’ pescivendoli,
cercandosi poi esse indarno ove ritorni a fischiare questo pesante
flagello. Che se non mancano libri tali ad alcuni studiosi, tuttavia
suol avvenire che in man loro non si trovino anche tutti i migliori,
che pure più degli altri sono da consultare in simili e in altre
occasioni. Ora pensando io a questa non lieve necessità de’ privati
e del pubblico, fattaci pur troppo avvertire dal grave pericolo che
ultimamente ci sovrastava, mi applicai fin l’autunno prossimo passato
a leggere quanti antichi e moderni potei ritrovare che maneggiassero
questa materia; e col notare ciò che mi compariva più utile a sapersi,
venni stendendo il presente Trattato del _governo della peste_,
con isperanza che il mio studio privato potesse tornare in qualche
benefizio e comodo ancora del pubblico, e spezialmente della patria
mia, sì per preservarsi, e sì per sapersi regolare in casi di tanta
sciagura. E l’intenzione mia è stata di fare un trattato popolare,
cioè utile e intelligibile ai più del popolo, avendo io perciò fuggito
le quistioni spinose e scolastiche e insino i termini astrusi, con
cui alcuni professori della medicina cercano di farsi credito con
poca spesa presso i meno intendenti. Per altro col fiero influsso che
è passato, parrà, il so, passato ancora il bisogno; ma non è così,
perciocchè i posteri nostri, anzi la nostra medesima età, avran sempre
da temere di provare un dì quello che è piaciuto alla divina Clemenza
di non far sentire ai presenti giorni. Non convien aspettare che sia
giunto il nemico per istudiar poi allora la maniera del difendersi; ma
s’hanno da aver sempre l’armi preparate e pronte. Gli altri, finita
la peste, sono stati soliti a scrivere e pubblicar libri intorno la
stessa; ed io altresì suggerirò quel che può essere più a proposito,
affinchè essa mai non cominci, o pure acciocchè s’abbia con facilità
il migliore regolamento, qualora ne tornasse mai più il bisogno.
Così in Firenze si va oggidì ristampando la Relazion del Contagio
del 1630 fatta dal Rondinelli, perchè ultimamente è stato avvertito
ch’esse era divenuta stranamente rara, e vuolsi perciò provveder
meglio all’avvenire. Così la peste che nel 1679 fece le sue prodezze
in Vienna, in Sassonia e in altre parti, con grande apprensione anche
allora dei popoli italiani, diede motivo al saggio maestrato della
sanità di Ferrara di pubblicare nel 1680, per prudente precauzione
de’ tempi venturi, un’opera molto utile, ove son registrate _le
regole da osservarsi ne’ sospetti di contagio_. Altrettanto dunque
ho risoluto anch’io di fare, o illustrissimi signori, acciocchè voi
e il popolo nostro abbiate e un attestato dell’ossequio mio, e quel
soccorso di più, quando mai accadessero que’ miseri tempi, ch’io
desidero lontani sempre dagli stati di ciascuno e massimamente da
quei della sereniss. Casa d’Este e della patria nostra. Ho pertanto
divisa la materia _del governo della peste_ in tre parti, cioè in
_politica, medica_ ed _ecclesiastica_, immaginandomi che maggiore con
ciò possa anche riuscire il benefizio. Imperocchè gran copia di libri
può ben qui mostrarci l’arte medica per quello che a lei s’aspetta;
ma scarsissimo ne è il _governo politico_ e l’_ecclesiastico_. Oltre a
ciò, non solendo trovarsi uniti insieme tutti e tre i suddetti governi,
sembra a me d’avere a moltissimi risparmiata la fatica di pescare
qua e là ciò che per lor servigio si troverà qui raccolto in un solo
trattato. Chi più degli altri avrà maneggiato e letto libri intorno
a quest’argomento, quegli sarà più atto a comprendere l’utilità e il
comodo che può venire al pubblico e al privato dall’operetta, qualunque
sia, che io ora vi presento.
In questa impresa dunque mi son io regolato sulle notizie ed
osservazioni degli antecedenti scrittori, con ponderare, scegliere,
disporre ed aggiugnere, secondochè è paruto meglio al mio corto
intendimento e giudizio. Che se talun chiedesse, come io, che
medico non sono di professione e nè pure mi son trovato giammai a
quel terribile incendio, abbia preso un tale assunto con fidanza di
potervi competentemente soddisfare, risponderò, che se non ne posso
io parlar di vista, ho ben potuto io parlarne con tanti morti che
furono spettatori delle pestilenze, e che ce le hanno lasciate in
tanti libri descritte. E se non son io medico, studiarono ben medicina
per me e la praticarono in tempi di contagio quegli scrittori ch’io
citerò, di maniera che non l’autorità mia, ma quella dei professori
di quest’arte potrà dar credito al mio Trattato, il quale in oltre
non uscirà alla luce senza l’approvazione de’ migliori filosofi e
medici che si abbia la nostra città. Per altro confesso anch’io che
la parte medica potrebbe promettersi maggiori chiarezze e più lustro e
più ordine nella divisione dei medicamenti, ove la trattassero medici
insigni tra i moderni. E spezialmente si avrebbe a sperare questo
vantaggio dalla mano di que’ valentuomini che oggidì illustrano cotanto
con le loro opere, stampate ugualmente, le lettere e il dominio della
serenissima Casa d’Este, cioè i signori _Bernardino Ramazzini_, gloria
di Carpi, e _Antonio Vallisnieri_, decoro di Reggio, che nella famosa
Università di Padova empiono le prime due cattedre della medicina;
e il signor _Francesco Torti_, splendore di Modena, medico del mio
padron serenissimo, e pubblico lettore anch’esso nella patria; e il
signor _Antonio Pacchioni_ reggiano, che in Roma fa risplendere il suo
sapere in pro della medicina; siccome ancora molto potrebbe sperarsi
dal signor _Dionisio Andrea Sancassani_ da Sassuolo, medico primario di
Comacchio, dalle cui fatiche riconosce molte utilità la cirugia. Mi sia
lecito nondimeno di dire che quantunque ingegni grandi si applicassero
a trattar questa materia, pure non sarebbe subito da sperare che molti
- Parts
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 01
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 02
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 03
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 04
- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 05
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- Del governo della peste e della maniera di guardarsene - 07
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