Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 14

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terra, le raddoppiarono, il perchè niuno volea recare, volendo innanzi
stare a rischio del perderla: e ciò fu riputato a’ signori in singulare
fallo, levando l’abbondanza alla città e lasciando a’ nemici pastura.

CAP. LXXXV.
_Come messer Pandolfo passò nel Mugello colla gente da cavallo per
tenere stretti gl’Inghilesi._
Essendo gl’Inghilesi passati nel Mugello per mala provvedenza di
chi potea riparare, messer Pandolfo fu fermo nell’usato pensiero di
farsi signore, e disse di volere cavalcare nel Mugello con la gente
dell’arme che era nella città, ch’era nel torno di dodici centinaia
di barbute; gli otto della guerra gliele interdiceano facendogliene
espressa proibizione, e non senza cagione, avendo rispetto a’ modi per
lui altra volta tenuti, e veggendo la città in grave pericolo: egli per
pertinacia seguendo sua intenzione disse, o che cavalcherebbe, o che
rifiuterebbe l’uficio del capitanato. Gli otto stando pur fermi, per
la città ne surse mormorio e sollevamento di scandalo; onde stando il
popolo insollito sotto ombra di cittadinesca riotta, gli otto temendo
gli concedettono l’andata, e cavalcò con circa a mille barbute, e
in compagnia del conte Arrigo di Monforte, a cui imposto fu per gli
otto che cura all’operazioni di messer Pandolfo poco fidato al comune
avesse; giunti nel Mugello, il conte s’alloggiò nella Scarperia, e
messer Pandolfo nel borgo a san Lorenzo. Occorse in quei giorni, che
circa a trenta della brigata del conte per avventura si scontrarono in
cento o più Inghilesi, e per spazio di due ore insieme si combatterono:
un gentiluomo della brigata del conte nome Arrigo veggendo il soperchio
degl’Inghilesi discese a piede, e con una lancia in mano di sua persona
fè maraviglie, perocchè, secondo che avemmo da persona degna di fede
che si trovò al fatto, con la detta lancia spuose da cavallo da dieci
Inghilesi de’ quali due morirono, e per lo detto atto e per li compagni
che francamente lo seguirono gl’Inghilesi inviliti dierono le reni, e
di loro, massimamente di quelli ch’erano rimasi a piede, alquanti ne
furono presi, alquanti ne rimasono morti nella battaglia. Avemo con
piacere per tanto di ciò fatto ricordo, perchè ne’ nostri dì tanta
prodezza di rado è stata veduta, e per mostrare quanto di valore e di
cuore a un esercito presta non solo il valente capitano, ma eziandio
il valente cavaliere, e così il vile viltà. L’opere d’arme per tenere
gl’Inghilesi stretti erano del conte Arrigo e del conte Ridolfo, ch’era
chiamato il conte Menno, e di loro brigate, ch’altri poco se ne dava
travaglio.

CAP. LXXXVI.
_Come gl’Inghilesi si partirono del Mugello e tornarsi nel piano di
Pistoia._
Gl’Inghilesi essendosi assaggiati co’ Tedeschi e co’ paesani che aveano
cominciato a mostrare loro il volto e a volere de’ loro cavalli,
sentendo che il passare per lo Mugello a san Salvi per i molti
stretti passi era loro pericoloso, e quasi impossibile, e veggendo
il luogo dove s’erano condotti, incominciarono forte a dubitare, ed
era loro di mestiere, se avessono avuto chi avesse voluto attendere
a provvedere contro a loro, come dovea e potea, e tale ne portò mala
fama, massimamente perchè loro faltava la vita e per le bestie e per
le persone, onde loro convenne fuggire alle usate malizie, onde con
sollecitudine mostrarono di volersi alloggiare a san Michele del bosco,
afforzandosi di sbarre e palancati, con mettere pure in loro boce
che riposati alquanto farebbono il cammino di che aveano minacciato a
malgrado di chi non volesse, e ciò faceano per levare le poste alle vie
ond’erano venuti quelli che v’erano tratti a guardare, mostrando d’ire
innanzi non di tornare addietro, e così avvenne, che essendo quelle vie
non guardate, la notte di san Giorgio presono loro via per la valle di
Bisenzio e tornarsi nel piano di Pistoia.

CAP. LXXXVII.
_Come messer Pandolfo Malatesti si partì dal servigio del comune di
Firenze._
Stando messer Pandolfo al Borgo involto in su gli usati pensieri
favorati dal male stato de’ Fiorentini, li cadde nell’animo, ch’essendo
Firenze nel dubbioso e forte partito dove per allora parea che fosse
lo dovesse gareggiare e tenerlo per idolo; onde volendo tentare se il
suo pensiere rispondea col fatto, e per sua parte fè dire a’ signori
di Firenze e agli otto della guerra, che casi gravissimi e poderosi gli
erano occorsi nel suo paese pericolosi allo stato suo, e che a riparare
necessario era che sua persona vi fosse, e li fece pregare che loro
piacesse in tanto bisogno non doverli mancare per dodici o quindici dì
licenziarlo: i signori con gli otto ne tennono consiglio di richiesti,
nel quale muto di dicitori, Bindo di Bonaccio Guasconi disse, che
pensava che ’l gentiluomo, amico egli e sua casa del nostro comune,
dicesse il vero, e che essendo le cose gravi come ponea, non gli andava
per animo che in così breve spazio di tempo come domandava le potesse
spacciare, e che non solo per dodici o quindici dì si licenziasse, ma
per tutto il tempo che sua condotta durava, e che in suo luogo fosse
posto il conte Arrigo di Monforte, e così nel consiglio s’ottenne, e fu
eletto il detto Bindo a ire a messer Pandolfo con piacevole commiato.
Bindo v’andò, e da sè a lui aperto li mostrò tutti i suoi errori, i
quali dal popolo erano stati bene conosciuti, e che agevolmente potea
avvenire, che perseverando in cotali pensieri con opera, forse che un
giorno il popolo li farebbe un sozzo scherzo, al quale non potrebbono
porre riparo nè i signori nè gli otto. Veggendo messer Pandolfo che
questo avviso come gli altri gli era venuto fallito, e tornato in
vergogna, se ne venne a Firenze, e fu a’ signori, e loro disse, che non
ostante che ’l suo bisogno fosse grande, per lo presente vedea quello
del comune di Firenze era maggiore e pertanto e sè e la sua brigata
alle sue spese offeria al comune: di ciò fu ringraziato, e dettoli, che
’l comune non avea nè di lui nè di sua brigata bisogno, onde si partì a
sua posta senza onore di comune, o di privati cittadini.

CAP. LXXXVIII.
_Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi co’ guastatori de’ Pisani s’accamparono
a Sesto, e Colonnata, e santo Stefano in pane._
Gl’Inghilesi usciti del Mugello a salvamento insieme co’ Tedeschi
e guastatori s’accamparono a Sesto e Colonnata, e per le coste di
Montemorello, prendendo santo Stefano in pane, e tutte le pianure
d’intorno, dove soprastettono per alquanti giorni, sicchè i guastatori
de’ Pisani ebbono destro a fare male, e arsono palagi e ricchi abituri
e altri casamenti per lo piano, e per le coste di Montemorello per
lo spazio di tre miglia o circa intorno al campo, e riservando a
levare del campo i luoghi che per loro necessità aveano riserbati, e
stando quivi gualdane di loro passarono l’Uccellatoio e Starniano, ed
entrarono in Pescia luogo aspro e riposto, ove trovarono molta roba
rifuggita, oltre n’andarono infino a Calicarza, Montile, e Curliano,
paesi malagevoli assai a cavalcare, senza trovare alcuna contesa.
Ancora infra questo tempo combatterono la Petraia, ch’era loro sopra
capo, e aveanla armata e fornita alla difesa i figliuoli di Boccaccio
Brunelleschi: e nel vero fortemente sdegnavano che sopra tante migliaia
di gente d’arme pregiata e famosa signoreggiasse quella piccola
fortezza in dispregio loro, il perchè si deliberarono di vincerla,
e la prima battaglia colle schiere ordinate fu degl’Inghilesi, dove
con acquisto di vergogna alquanti ne furono morti e molti magagnati,
la seconda de’ Tedeschi in simile acquisto; ultimamente essendo
cresciuta l’onta e ’l dispetto, anzi il levare del campo Tedeschi e
Inghilesi insieme con aspro assalto la combatterono, e niente poterono
acquistare, se non al modo usato danno e vergogna. Di questo avemo
fatta memoria per mostrare, che i privati cittadini in que’ tempi più
erano accorti e valorosi a difendere loro fortezze, che i governatori
del comune quelle della città, e massimamente perchè confortati, che
nel rispetto ch’aveano da’ nemici, e poteanlo fare assai leggermente
nol vollono fare, onde ne risultò gran vergogna al comune. L’invidia e
’l mal talento col poco senno che allora occupava il governamento ogni
virtuoso operare impedia. In sul levare del campo i guastatori pisani
arsono tutti i casamenti che per loro ostellaggi aveano riserbati.

CAP. LXXXIX.
_Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi coi guastatori pisani presono il colle
di Montughi e di Fiesole, e combatterono i Fiorentini alla porta a san
Gallo, e fessi Anichino di Bongardo cavaliere._
L’ultimo dì d’aprile i nemici mutando campo presono il colle di
Montughi e di Fiesole, spargendosi per tutte le circostanze infino
a Rovezzano, e il primo dì di maggio per giorno nomato colle schiere
fatte se ne vennono sopra la costa della via di san Gallo di sotto al
podere d’Altopascio, dove erano fatti tre serragli, il primo sopra la
via che va a santo Antonio, l’altro sopra la via che va a san Gallo,
il terzo sopra le case poste sopra via che ne va lungo le mura, e
questo era di carri, dove era il conte Arrigo di Monforte con tutta
la gente da cavallo; a’ primi due serragli erano molti Fiorentini
usciti di volontà, i quali impedivano la buona gente dell’arme ch’erano
alla difesa, e ammoniti da messer Manno Donati, e da messer Bonifazio
Lupo, e da messer Giovanni Malatacca, e dagli altri valenti uomini,
che si tirassono addietro, e lasciassono fare la gente dell’arme, nol
vollono fare, il perchè furono cagione della perdita de’ serragli con
morte e presura di molti di loro. Nello scendere delle schiere un poco
davanti due notabili uomini e pregiati in arme, Averardo Tedesco e
Cocco Inghilese, a lento passo l’uno dall’un lato della via l’altro
dall’altra si calarono giù a’ serragli facendo rilevate prodezze;
seguendo appresso le schiere vinsono e gettarono in terra i detti
due serragli, con danni assai e di morti e di prigioni de’ vogliosi e
disordinati Fiorentini, che s’erano voluti mettere alla difesa contro
a’ buoni uomini d’arme, e contra loro volontà. Averardo passò in sulla
piazza di san Gallo, e con molti che appresso il seguivano infino al
piè delle case a fronte si fè al conte di Monforte, il quale stando
come una massa di ferro mai da’ nemici non fu tentato, tutto che le
frecce degli arcieri inghilesi che scendeano sopra l’altra brigata
sembrassono gragnuola. Dalla porta e antiporta e mura scoccavano le
balestra, e a tornio e a staffa, che il tuono del romore piuttosto
cresceano che facessono danno. Scese le schiere, fuoco fu messo in
sant’Antonio del vescovo, e per simile in molti altri casamenti. In
quel fuoco, in quel tumulto, in quelle grida Anichino di Bongardo
si fè cavaliere in sulla costa della via che vede la porta, con
tanti suoni, con tante grida, che parea che ’l cielo tonasse, ed
egli fè cavaliere messer Averardo e più altri, come se fatti fossero
in battaglia campale: e ciò fatto, fu sonato a ricolta, e tutti,
accortamente senza impaccio si ritrassono addietro chi a Montughi e
chi a Fiesole, e la notte con l’ordine dato tra loro feciono la festa
de’ cavalieri novelli, la quale fu in questa forma: che le brigate
a cento i più a venticinque i meno con fiaccole in mano si vedeano
danzare, e l’una brigata si scontrava con l’altra gittando talora le
fiaccole, e ricevendole in mano, e talora mettendole a giro, e a modo
d’armeggiatori seguendo l’un l’altro ordinatamente, e queste fiaccole
passavano le duemila, con gran gavazze di grida e stromenti; e per
quello che s’intese dalle brigate ch’erano nel piano vicino alle mura
dispettose parole usavano contra il comune di Firenze, e intra l’altre,
Guardia studia i collegi, manda pe’ richiesti, e simili parole usate
nel palagio de’ priori, le quali erano intese e da quelli che erano
in sulle mura e da quelli ch’erano da piè. E per dileggiare il popolo
di Firenze in sulle tre ore di notte quetamente mandarono un loro
trombettino e un tamburino in sul fosso delle mura della Porta alla
croce, i quali sonando come a stormo, il popolo di Firenze tutto si
commosse a romore, correndo boci per la terra che i nemici aveano prese
le mura dove le bertesche erano fatte, e che parte di loro n’erano
dentro discesi. La paura fu sopra modo, e i cittadini come smemoriati
correvano qua e là per la terra, e le femmine poneano le lucerne alle
finestre, e con lamenti l’armavano di pietre. La cosa nel suo aspetto
a vedere orribile era, ma saputo il vero, subitamente si racchetò il
bollore fatto in danno e vergogna come detto è. Il seguente dì 2 di
maggio schierati tutti passarono Arno di sotto alla Sardigna assai
presso alla città, e puosono campo a Verzaia stendendosi infino a
Giogoli e Pozzolatico e per Arcetri, ardendo tutto infino presso alle
mura; e sopra questo con le schiere fatte, e con le loro barbare strida
e suoni di stromenti da battaglia vennono verso la porta di san Friano
per combattere nella forma che fatto aveano a quella di san Gallo. I
nostri che ne’ giorni passati s’erano assaggiati con loro, e trovato
aveano ch’erano uomini e non leoni, aveano armato il casamento delle
monache da Verzaia, e quivi fatte le sbarre ricevettono francamente
il baldanzoso assalto, rispondendo loro co’ ferri in mano in modo e
forma che li ributtarono indietro con molti fediti e alcuni morti, il
perchè niente avanzando se non danno e vergogna si ritrassono al campo:
bene arsono allora sopra il ciglio della città Bellosguardo e molte
altre belle e ricche possessioni e palagi, e soprastati per alquanti
giorni, per dare agio ai fediti loro i quali passavano il numero di
duemila, veggendo che i Fiorentini s’ausavano all’arme, e andavano
a riguardo, sicchè poco con loro poteano avanzare, e che le brigate
che uscivano di notte sì de’ cittadini come de’ contadini, che erano
trafitti e aveano bisogno di ristorarsi, stando essi sparti baldanzosi,
e per dispetto quasi senza guardia veruna, e di prigioni e di cavalli
e d’uccisioni li danneggiavano forte, si partirono. Il lor viaggio fu
sopra san Miniato a monte, e sopra l’Ancisa passando per lo Valdarno,
e loro albergheria fu al Tartagliese, e il seguente dì feciono vista
di combattere la Terranuova, dove trovato la risposta, con alquanti
di loro morti e magagnati si partirono, e così mollemente tentarono
dell’altre terre del Valdarno, il perchè aperto s’intese che per
quella via gli avea volti il danaio: che usciti del contado di Firenze
in su quello d’Arezzo, e trovandolo sgombro, passarono su quello di
Cortona, e quindi in su quello di Siena facendo danno assai d’arsioni
prigioni e prede, infine voltisi per la Valdelsa e per la Valdinievole
si fermarono in su quello di Pisa a san Piero in campo. Quivi vollono
vedere la rassegna delle loro brigate, dal tempo ch’entrati erano in
sul Fiorentino, e trovarono che più di seicento buoni uomini d’arme
aveano perduti, e oltre a duemila n’erano fediti, de’ quali assai
poscia perirono.

CAP. XC.
_Come il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini prese e arse
Livorno._
Nel paesare e nel raggiramento che messer Anichino di Bongardo faceano
in su quello d’Arezzo insieme con gl’Inghilesi, come abbiamo detto,
il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini, e con lui il
conte Giovanni e il conte Ridolfo colle brigate loro de’ Tedeschi,
ch’erano con quelli del conte Arrigo millecinquecento barbute, e
con l’altra gente di cavallo de’ Fiorentini ch’erano per le castella
alle frontiere, la quale fè adunare in san Miniato del Tedesco, e con
cinquecento balestrieri scelti, e più con assai Fiorentini a cavallo
e a piè che di volontà l’aveano voluto seguire, e col consiglio di
messer Manno Donati, e di certi degli altri provvisionati, de’ quali
di sopra facemmo menzione, fatto fornimento da vivere per quindici
giorni, venerdì mattina a dì 21 di Maggio 1364 si partì di san Miniato
del Tedesco, e la sera prese albergo su l’Era vicino al castello di
Gello, e il sabato mattina passando vicino di Pisa, e facendo quel
danno che fare si potea s’accampò a san Piero in Grado. E in quel
giorno vennono a Pisa di Lombardia millequattrocento uomini di cavallo
sotto nome di compagnia, i quali veniano per pigliare inviamento di
loro mestiere in Toscana. I Pisani vedendosi improvviso giugnere questa
ventura loro donarono duemila fiorini d’oro, ed elli coll’altra gente
loro che rimasa era in Pisa, come soperchio a’ Tedeschi e Inghilesi che
cavalcati erano in sul Fiorentino, e con parte del popolo andassono
a combattere co’ Fiorentini ch’erano accampati a san Piero in Grado,
e così promisono di fare, e preso rinfrescamento, con la gente e col
popolo uscirono di Pisa schierati, e a pian passo contro i nemici. Il
conte di Monforte sollecitato era molto da messer Manno che passasse
il ponte allo Stagno contro Livorno, ed egli dubitando forte stava
sospeso, e per conforto che fatto gli fosse non si attentava a passare
quello lagume, e non sapere dove, se non quando vidde il gran polverio
della gente ch’usciva di Pisa, quindi mosse passo, e di presente
messer Manno chiamò Filippone di Giachinotto Tanaglia, che quivi
appresso di lui era, e prese due scuri in mano tagliarono due pali in
su che si posava il ponte, e lo feciono nello stagno cadere, e a pena
aveano fornito il servigio che i Pisani sopraggiunsono e per acqua e
per terra. Messer Manno conoscea tutti i soldati che praticavano in
Lombardia, e pertanto domandò di volere parlare con alcuno di loro
caporali, e tantosto vennono parecchi, e con lieta accoglienza lo
viddono, rallegrandosi ch’aveano cessato materia di zuffa, e a lui
dissono, che aveano ricevuto duemila fiorini d’oro perchè commettessono
battaglia con loro, e che credeano che i Pisani attenderebbono a loro
persecuzione, ma che essi per suo amore lentamente procederebbono, e
da lui preso congio, a passi scarsi si tornarono verso Pisa. E in ciò
cadde perdimento di tempo a’ Pisani, utile e necessario alla gente de’
Fiorentini, come può qualunque intendente udendo il fatto comprendere,
perocchè deliberarono i Pisani che la detta gente cavalcasse a
Montescudaio, e togliesse il passo a’ Fiorentini, e se ciò fosse per
mala fortuna avvenuto, senza dubbio tutta la gente ch’era in quella
cavalcata era perduta. La detta gente la sera soprastette in Pisa,
e la mattina seguente persono tempo tra nell’armarsi e mettersi in
ordine. I Fiorentini in quel giorno che passarono il ponte allo Stagno
presono Porto pisano e Livorno, e trovaronlo sgombro, perocchè quelli
che dentro v’erano diffidandosi di poterlo tenere da tanto sforzo,
prestamente si diedono allo sgombrare fuggendo loro famiglie e cose,
e così le mercatanzie in mare in su le navi, che solo una balla di
panni e una ricca cortina nel fondaco trovato non fu, or non di manco
messo in preda quello che trovato vi fu, il conte fece ardere la terra.
Messer Manno udito il generale avviso della gente dell’arme che s’era
data a servire a’ Pisani, come uomo avvisato e pratico de’ casi che
sogliono ne’ fatti dell’arme avvenire, subito gli corse in pensiero,
che i Pisani non rivolgessono quella gente in Maremma a tor loro il
passo di Montescudaio, e cominciò forte a dubitare, e avvisonne il
capitano, e vennono presto a’ rimedi, perocchè messasi innanzi la gente
da piè, perchè del camminare avessono più agio, e rinfrescato alquanto
i loro cavalli, alle tre ore di notte presono viaggio, e dirizzaronsi
verso Montescudaio per vie montuose e aspre e malagevoli, e tutta
quella notte senza arresto cavalcarono, e il seguente dì con dare poco
d’agio alle bestie e a loro misono in cavalcare come fossono in fuga, e
alle tre ore di notte uscirono del passo di Montescudaio, e ridussonsi
in su quello di Volterra in luogo sicuro, trovandosi avere camminato in
ventiquattro ore miglia trentotto di pessima via. E in quella medesima
notte circa alle sette ore la gente de’ Pisani giunse a Montescudaio
per torre il passo, e trovando che i Fiorentini erano passati, dello
scorno che loro parea avere ricevuto presono cordoglio. Emmi stato
piacere particolarmente narrare questa particella di storia per
dimostrare quello che può e fa la fortuna nelle maledette confusioni
delle guerre. Ben furono di quelli che vollono dire, che la cavalcata
era stata di coscienza de’ Pisani, perchè pace si potesse cercare, e
se vero fu, alla Pisanesca bel tratto faceano, avendo il caso fortuito
loro prestato la gente dell’arme, colla quale stimarono poterlo fare, e
assai presso vi furono.

CAP. XCI.
_Come il corpo del re Giovanni di Francia fu trasportato di Londra a
Parigi, e come onorato._
Per tramezzare alquanto la continuanza delle scritture nella guerra
tra’ Fiorentini e’ Pisani ne occorre di scrivere, che ’l dì primo di
maggio il corpo del re Giovanni di Francia di Londra ne fu portato a
santo Antonio presso a Parigi la sera, e quivi per onorarlo e farne
l’esequie reale stette quattro giorni, e a dì 5 detto mese ne fu
portato a nostra Donna di Parigi accompagnato da tutte le processioni
delle chiese e regole di Parigi, e da tre suoi figliuoli, ciò furono,
Carlo primogenito delfino di Vienna e duca di Normandia, Luigi duca
d’Angiò, Filippo duca di Torenna lo più giovane di tutti, e fuvvi lo
re di Cipri, Giovanni duca di Berrì era in Inghilterra: e portarono il
corpo del detto re quelli di parlamento secondo loro uso; e ciò è di
ragione, perchè elli rappresentano la giustizia in luogo del re: e a dì
6 si disse la messa, e subito il corpo ne fu portato a santo Dionigi,
seguendo appresso d’esso i suoi tre figliuoli Carlo Luigi e Filippo, e
il re di Cipro, e sopra i franchi della villa, poi montati a cavallo
infino a santo Dionigi, e a dì 7 si fè l’esequio a santo Dionigi. E
seppellito il detto corpo con grande onore, tantosto appresso Carlo suo
primogenito se n’andò in un pratello, e appoggiato ad un fico ricevette
più omaggi da’ peri di Francia e da’ grandi baroni, e a dì 9 si partì
per andare a Rems a prendere la corona.

CAP. XCII.
_Come messer Beltramo de Cloachin sconfisse il luogotenente del re di
Navarra in Normandia._
Nel detto anno a dì 16 dì Maggio, messer Beltramo de Cloachin si
combattè davanti Choncel presso alla Croce di san Leffon contra al
Captal del Comuff luogotenente del re di Navarra in Normandia, e fu il
detto Captal sconfitto e preso, e la maggior parte di sua gente morta
e presa; e per avere il detto Captal lo re di Francia diede al detto
messer Beltramo tutta la Longavilla e la Giusfort ch’erano state del re
di Navarra. E lo re di Francia ec.
_Qui manca il fine di questo capitolo con tre altri capitoli delle
rubriche che erano così intitolati._

CAP. XCIII.
_Come Carlo primogenito del re di Francia fu consegrato a Rems a re di
Francia._

CAP. XCIV.
_Come si combatterono messer Carlo di Bos duca di Brettagna, e messer
Gianni di Monforte._

CAP. XCV.
_Come i Fiorentini con la forza del danaio ruppono la compagnia de’
Tedeschi e Inghilesi, e levaronla da provvisione de’ Pisani._
_Per supplire in parte a ciò che manca in questo luogo nel codice
Ricci, ecco ciò che ne fornisce l’Epitome dell’Istorie dei tre Villani
di Domenico Boninsegni, che poco addietro ho citato._
«Essendo le genti de’ Pisani a san Piero in campo, e i Fiorentini
vedendosi mancare la speranza della Compagnia della Stella, per
operazione di messer Galeazzo, e della gente della Magna, cercarono
accordo con gl’Inghilesi e’ Tedeschi ch’erano presso alla fine di loro
condotta, e i Pisani cercavano di riconducerli, pure vinsero l’opere
de’ Fiorentini, che già segretamente avevano dato ad Anichino novemila
fiorini quando erano in sul contado di Firenze, e alla sua brigata
ne donarono trentacinque migliaia, e agl’Inghilesi settantamila, e
tutti si partirono dal servigio de’ Pisani, eccetto Giovanni Aguto con
milledugento Inghilesi: e anche in segreto feciono patto con messer Ugo
della Zucca e altri Inghilesi. I patti con queste compagnie in sostanza
furono, che per cinque mesi non sarebbono contro il nostro comune, o
suoi sudditi o accomandati in alcun modo; anzi tutti n’andarono in su
quello di Siena a predare e ardere, per merito di quello feciono alla
Compagnia del cappelletto soldati nostri.»

CAP. XCVI.
_Come i Fiorentini presono in capitano di guerra messer Galeotto
Malatesti._
«Fatto l’accordo che di sopra è detto, parve a’ governatori di Firenze
necessario d’avere un capitano italiano, e procacciando messer Galeotto
Malatesti, secondo si disse, per cancellare la disgrazia con la quale
s’era partito il suo nipote, infine l’ottenne, e fu eletto nostro
capitano, con assai ammirazione di molti agli scherni ricevuti dal
nipote, e venne in Firenze a dì 17 di luglio a ore ventuna per i
consigli d’astrolagi. E innanzi che scendesse da cavallo appiè della
porta del palagio de’ priori con le usate solennità prese il bastone e
l’insegne, e lui diè quella de’ feditori al conte Arrigo di Monforte,
e fecelo vece capitano; la reale diè a messer Andrea de’ Bardi, e
altre ad altri cittadini, e senza arresto uscì di Firenze, e posate
l’insegne in Verzaia tornò in Firenze, e per intendersi co’ signori
e altri uficiali dell’informazione della guerra, e soprastette alcuni
dì, perchè voleva piena balìa di potere dare a sua volontà a’ soldati
paga doppia e mese compiuto.» Alla fine essendo fuori le insegne, ed
egli stando pertinace, per lo meno male e meno vergogna di comune
la sua domanda fu messa a esecuzione, la quale i sottili venditori
non ebbono per meno che domandare giurisdizione di sangue. Avuto suo
intendimento, mosse a dì 23 del mese di giugno, accompagnato infra gli
altri da trecento cittadini ben montati e riccamente armati, i quali
spontaneamente vi cavalcavano per vendicare l’ingiurie de’ Pisani
novellamente fatte al loro comune.

CAP. XCVII.
_Battaglia tra’ Fiorentini e’ Pisani fatta nel borgo di Cascina, nella
quale i Fiorentini furono vincitori._
Domenica, a dì 29 di luglio anni 1364, rivolto l’anno che nel
medesimo giorno i Pisani aveano corso il palio al ponte a Rifredi,
fatti cavalieri, battuta moneta, impiccati asini, e fatte molte altre
derisioni e scherne a’ Fiorentini, messer Galeotto Malatesti capitano
de’ Fiorentini, movendo la notte dinanzi campo da Peccioli, la mattina
s’accampò ne’ borghi di Cascina presso di Pisa a sei grosse miglia,
ma di via piana e spedita, e infra il giorno per lo smisurato caldo
le tre parti e più dell’oste, che erano oltre di quattromila uomini
di cavallo che di soldo, che d’amistà, e che de’ Fiorentini, che per
onorare loro patria di volontà erano cavalcati, e di undicimila pedoni,
s’era disarmata, e quale si bagnava in Arno, quale si sciorinava al
meriggio, e chi disarmandosi in altro modo prendea rinfrescamento.
E il capitano, sì perchè molto era attempato, sì perchè del tutto
ancora libero non era della terzana, se n’era ito nel letto a riposare
senza avere considerazione quanto fosse vicino all’astuta volpe, e
al volpone vecchio Giovanni dell’Aguto, e tutto che al campo fossono
fatti serragli, deboli erano, e cura sufficiente non era data a chi
li guardasse; il perchè avvenne, che il valente cavaliere messer
Manno Donati, come colui a cui toccava la faccenda nell’onore, andando
provveggendo il campo e i modi che la gente dell’arme tenea, conosciuto
il gran pericolo in che il campo stava, e temendo che nel fatto non
giocasse malizia, e dove no, quello che ragionevolmente secondo uso
e costume di guerra ne dovea e potea avvenire, e tantosto n’avvenne,
mosso da fervente zelo incominciò a destare il campo, e dire, noi
siamo perduti, e con queste parole se n’andò al capitano, e lo mosse
a commettere in messer Bonifazio Lupo e in altri tre e in lui la cura
del campo; ciò fatto messer Manno di subito corse al più pericoloso
luogo, e donde l’offesa più grave e più pronta potea venire, cioè alla
bocca della strada che si dirizzava a san Savino e quindi a Pisa, e
il serraglio il quale era debole fece fortificare, e alloggiovvi alla
guardia i fanti aretini con alquanti pregiati Fiorentini, e con loro i
fanti de’ Conti di Casentino; e perchè nel capo li bolliva per diversi
e ragionevoli rispetti quello che di presente ne seguì, aggiunse
alla guardia messer Riccieri Grimaldi con quattrocento balestrieri
genovesi. I Pisani avendo per loro spie e dai luoghi vicini al campo,
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