Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 13

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di Montepulciano, e ridussesi a Perugia in assai debole stato, e da’
Perugini mal provveduto, i quali per non ricominciare guerra passarono
la vergogna a chiusi occhi.

CAP. LXXVIII.
_Della morte del giovane marchese di Brandisborgo, conte di Tirolo, e
quello ch’appresso ne seguì._
Ancora ne piace un poco passare per le pellegrine storie; e per
fondarne una che in questi tempi occorse assai abominevole, alquanto
ne conviene addietro tirare per dare meglio a intendere il gran male:
e venendo al proposito, la contea di Tirolo situata è negli estremi
di terra tedesca sopra il Lago di Garda, e nel paese di Trento, e
possente, nobile e famosa, la quale, morta tutta la progenia masculina,
per successione era caduta in una fanciulla nome contessa......., la
quale per la nobiltà della dota da tutti i signori e baroni della
Magna era in matrimonio sollecitata, per avere in dota il gioiello
della detta contea di Tirolo; in fine la contessa prese in isposo....
figliuolo del re Giovanni di Boemia, e fratello di Carlo che poi fu
imperadore de’ Romani; e chiamatolo al matrimonio, e alla contea di
Tirolo, dopo alquanto tempo la contessa cortesemente lo ne rimandò
in suo paese, affermando che all’uso del matrimonio era impotente,
e che la contea desiderava erede. Carlo fratello del detto.....
recandosi in dispetto i modi della contessa, prestamente fè grande
esercito, ed entrò nel contado di Tirolo, il quale è aspro e per sito
fortissimo, e fece gran danni d’arsioni e di preda, e infra d’altre
terre arse Buzzano, e ciò fatto si tornò in suo paese minacciando
di fare peggio a tempo. Il perchè la contessa impaurita e spaventata
cercò sollecitamente possente in Alamagna a cui si potesse appoggiare,
e in quei tempi v’era grande Lodovico duca di Baviera della progenia
del duca Namo, l’uno de’ dodici conti Paladini che seguitarono Carlo
Magno a cacciare i saracini della Spagna, e pertanto poi quelli di
sua schiatta hanno una boce de’ dodici peri alla boce dell’imperio;
il quale Lodovico essendo creato imperadore de’ Romani contro volontà
di santa Chiesa passò in Italia, e gran cose fece, come scrive
Giovanni Villani nostro zio, e senza acquistare si tornò in Alamagna
col titolo del Bavaro. Costui in questi dì avea quattro figliuoli,
Lodovico, Stefano, Otto, e Romeo: Lodovico primogenito era marchese di
Brandisborgo. Costui la contessa al padre segretamente fè domandare in
marito, e il Bavaro vi diè l’orecchie, e volendo che ’l figliuolo la
prendesse, egli con orrore d’animo la ricusava, dicendo al padre che
ella avea altro marito, come noto era a tutta la Magna, e che secondo
i decreti di santa Chiesa ella non potea avere altro marito: il padre
lo sgridò, e gli osò dire ch’egli era un ribaldo, e che ’l contado di
Tirolo non era boccone da rifiutare, il perchè per riverenza del padre
Lodovico la prese per donna, velando il matrimonio con colore che
il primo era impotente a generare. Della detta contessa assai tosto
Lodovico ebbe un figliuolo maschio; ma perseverando il matrimonio,
la contessa per soverchia lussuria trascorse in errore di disonesta
vita, e in singolarità con un messer...... di Fraunberghe, che in
latino suona, dal Colle delle donne, ed era sì venuto il giuoco in
palese, che ogni uomo si maravigliava come il marchese la comportasse,
stimando molti che per forza di malia lo facesse. Occorse, che partendo
il marchese con lei e con tutta sua corte da Monaco di Baviera per
andare a Tirolo, esso marchese sotto boce osò dire: Se noi torniamo a
Monaco mai, noi ci vendicheremo di chi ne fa vergogna; ciò venne agli
orrecchi alla contessa, e al cavaliere che usava con lei, il quale era
de’ maggiori della corte, e conoscendo amendue che il marchese era di
grande animo e vendicativo, e che già fatto aveva aspre e rilevate
vendette a chi l’avesse fallato, strettosi al consiglio la donna e
’l cavaliere, temendo che il marchese non attenesse loro la promessa,
nel cammino l’avvelenarono in una terra che si dice Rotimberga. Morto
il marchese, rimase al figliuolo il paese ch’a lui s’appartenea in
grande confusione, perchè molti voleano il governo del fanciullo,
e così stette il paese rotto per spazio di mesi diciotto. Alla fine
Stefano e Otto zii del garzone si recarono il governo alle mani, e
dirizzati i paesi, e passati cinque anni, il giovane era cresciuto
di bello aspetto, e facevasi valente, e per sua dibonarità e dolcezza
avea la grazia di tutti i sudditi suoi, ed essendo a Tirolo si volea
reggere e governare a suo piacere; e dispiacendoli assai i pochi onesti
costumi della madre, e un giorno venendo con lei in contesa, per sua
sciagura nell’irate parole uscì al giovane di bocca: Noi sapemo bene
quello che voi faceste a nostro padre. La crudel donna crudelmente
raccolse le semplici parlanze del giovane, e cominciò a pensare della
morte sua: il perchè un giorno il giovane avendo con gentili giovani
di sua età molto danzato, e per sè e per i compagni domandò da bere,
e fugliene dato, ma con veleno, del quale con quattro valenti giovani
suoi compagni si morì; gli altri che meno aveano bevuto si pelarono
tutti, e rimasono infermi. Il giovane marchese poco avventurato di
madre fu seppellito in Tirolo nel 1363 del mese di febbraio. Ciò si
dice che fè la dispietata madre per potere più liberamente lussuriare e
perseguire sua scellerata vita. Stefano e Otto figliuoli di Lodovico,
e zii del giovinetto morto, udito l’orribile malificio, e compreso
l’imperversato e fiero animo della femmina, la quale per uccidere il
figliuolo non guardò all’innocenza de’ giovinetti che ballavano con
lui (il quale recato con lei in comparazione a Medea, che fu gentile,
e questa cristiana, non è da porre in dubbio che questa non fosse assai
più spietata e crudele, verificandosi in lei il verso di Giovenale, il
quale delle femmine dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter
audent, che in volgare suona; Forte animo danno alle cose le quali
sozzamente ardiscono, cioè presumono di fare) richiesono tutti i loro
vassalli e feudatari, e accolsono d’amistà quanta gente poterono fare,
e grande oste apparecchiarono contro alla contessa per vendicare la
morte del fratello e del nipote, la quale spaventata e impaurita,
perseguitandola la coscienza degli orribili peccati, stava in gran
tremore, e non sapeva che si fare. In questa confusione Ridolfo duca
d’Osterich, uomo sagace e astuto, e cupido di nuovo acquisto, inteso
della morte del giovane, e dell’apparecchio che facevano Stefano e
Otto di Baviera, sconosciuto di presente se n’andò a Tirolo, e fu
colla contessa, e le disse dell’apparecchio di quelli di Baviera,
e li mostrò ch’erano atti e sofficienti a disfarla, e s’ella avea
concetta paura nell’animo la raddoppiò. Appresso le disse, ch’avea
ritrovate scritture antiche che conteneano, come gli antichi duchi
d’Osterich s’erano patteggiati e convenzionati con gli antichi conti di
Tirolo, che quale casa o famiglia di loro faltasse d’ereda legittimo
l’altra dovesse succedere, con offerirsi alla difesa della donna; e
da lei posta in tanta confusione, e credula, ottenne ch’ella il fè
capitano del contado di Tirolo, e nelle sue mani fè giurare tutto il
paese. Proseguendo il proposito loro quelli di Baviera cominciarono
la guerra, e corsono il contado di Tirolo, e presono e rubarono una
terra che si chiama Sterburgh, e più in avanti non poterono passare
per l’asprezza de’ luoghi e de’ forti passi provveduti alla difesa.
Ciò non ostante il duca d’Osterich cominciò a mettere nel capo alla
femmina che nel paese non stava sicura, e ch’era il suo migliore se
n’andasse in Osterich, tanto che le cose pigliassono assetto, e tanto
le seppe dire ch’ella v’andò. Dopo non molto tempo il duca la mise in
un munistero, dove miseramente morì. Alcuni dissono fu fatta morire,
e questo comunemente s’accettò per vero. Morta la contessa, il duca
Ridolfo con gran quantità di gente d’arme corse per lo contado di
Tirolo, e prese quattro nobili e gentili uomini, i quali come baroni
aveano giurisdizione di per sè, i quali non erano stati pronti ad
ubbidire, perch’aveano giurato alla casa di Baviera, e come tiranno,
e contro alla natura e la costuma degli Alamanni, di presente li fè
decapitare, onde in infamia e odio ne venne di tutta lingua tedesca.
Per tema di questa impresa del duca d’Osterich non lasciò la casa di
Baviera di non volere riscattare sua giurisdizione, e di loro forza
e amistà ragunarono oltre a quattromila barbute di gente eletta, e
con molto ordine si mossono contro il duca d’Osterich, come contro
usurpatore delle loro ragioni. Il duca d’Osterich d’altra parte fè
adunata non di meno gente nè valorosa meno che quella degli avversari,
e amendue i detti eserciti assai vicini s’assembrarono insieme: e
per caso un giorno avvenne, che sopra il numero di duemila barbute
di quelle del duca d’Osterich dilungandosi dal campo casualmente si
scontrarono in altrettante o circa della gente del duca di Baviera, e
vennono alla battaglia, la quale fu fiera e pertinace, la quale durò
per spazio di più di sei ore, e nella fine quelli d’Osterich furono
sconfitti. I morti dall’una parte e d’altra in sul campo s’annumerarono
si trovarono più di cinquecento, e i feriti e magagnati furono assai,
e molti di quelli d’Osterich rimasono prigioni, e ciò avvenne nel 1364
d’ottobre, e qui l’ho posto per non rompere la storia. Il verno in
quelle parti duro e incorportabile a campeggiere l’una parte e l’altra
costrinse a tornarsi a sua magione, ma tutto che quietassono l’armi
non quitarono gli animi, perocchè l’una parte e l’altra eziandio con
spendio faceva sollecitamente ogni sforzo suo, e scritto e comandato
aveano a tutti i sudditi loro ch’erano in Italia al soldo che a loro
aiuto dovessono tornare, e tutti s’apparecchiarono a ubbidire, e così
grande apparecchio faceano per trovarsi in campo come prima potessero.
Carlo imperadore e Lodovico re d’Ungheria veggendo che ciò era di
grandissimo pericolo e guasto di tutta Alamagna s’intesono insieme, e
interposonsi per mezzani, e colla persona del savio e venerabile messer
Piero Corsini vescovo di Firenze, il quale per gravi faccende di santa
Chiesa allora era legato in Alamagna, il quale ricevendo sopra di sè il
peso di tanta faccenda, come ambasciadore di detti imperadore e re, e
mezzano e trattatore tra i detti signori cercò la concordia loro; e sì
saviamente seppe la cosa guidare, che di detto anno e mese di gennaio
pace si concluse tra loro, e per patto al duca d’Osterich rimase libera
la contea di Tirolo, e in compensarne di ciò il duca di Baviera ebbe
un’altra contea del duca d’Osterich, tutto che non a valore eguale
assai a quella di Tirolo. E così ebbe fine la diabolica vita e processo
dell’empia e spietata contessa di Tirolo, e la guerra che per le sue
prave operazioni era suta tra la nobiltà de’ baroni e signori della
Magna.

CAP. LXXIX.
_Come i Pisani ricondussono gl’Inghilesi._
Lasciando le forestiere storie, e tornando alle scaramucce e badalucchi
della tediosa guerra intra i Fiorentini e’ Pisani ci occorre, che
essendo gl’Inghilesi per fornire loro condotta, per due rispetti, l’una
perchè i Fiorentini non li conducessono, l’altra per trarlisi di casa,
e per li tempi che richiedesse la guerra, i Pisani del mese di gennaio
li ricondussono per sei mesi con soldo di centocinquanta migliaia di
fiorini, con patti che potessono fare cavalcate dove a loro piacesse,
salvo che alle terre loro sottoposte, raccomandate e collegate, tutti
gli altri loro soldati cassarono, e feciono loro capitano di guerra
Vanni Aguto Inghilese gran maestro di guerra, di natura a loro modo
volpigna e astuta, il suo soprannome in lingua inghilese era Hawkwood,
che in latino dice, Falcone di bosco, ovvero in bosco, perocchè essendo
la madre a un suo maniere per partorire, e non possendo, si fè portare
in uno suo boschetto, e quivi lui di presente partorì, e tutto che
non fosse di schiatta di nobili con dignità, il padre era gentiluomo
mercatante e antico borgese, e così i suoi antenati, e come Giovanni
venne in età di potere arme, essendo d’aspetto e di stificanza di farsi
in essa valente uomo, fu dato a un suo zio gran maestro di guerra,
il quale nelle guerre di Francia e d’Inghilterra avea fatto in arme e
pratiche di guerra belle e rilevate cose. I detti Inghilesi vernarono
in Pisa con gran danno e disagio de’ cittadini i quali a loro faceano
oltraggio, e intra gli altri delle donne loro, il perchè molti di loro
le ne mandarono a Genova e altrove in luoghi dove potessono onestamente
dormire.

CAP. LXXX.
_D’una saetta che cadde sul campanile di santa Maria Novella._
Nel detto anno a dì primo di febbraio, essendo il tempo sereno e bello,
e senza avere o da lunga o da presso alcuno segno di nuvole, tonò
smisurato più volte, e caddono in Firenze più saette, fra le quali una
ne percosse nel campanile de’ frati predicatori, e quello in più parti
sdrucì, e più segni fè per la cappella maggiore d’inarsicciati. Di ciò
è fatta menzione per la disgrazia del detto campanile spesso tocco
dalle saette, appresso per la novità del tonare sì spossatamente al
sereno nel pieno del verno.

CAP. LXXXI.
_Cavalcate fatte per gl’Inghilesi nel pieno del verno._
Poichè gl’Inghilesi si viddono ricondotti, come uomini vaghi di preda e
vogliosi di zuffa, a dì 2 di febbraio in numero di mille lance, i quali
si facevano tre per lancia di gente a cavallo (ed eglino furono i primi
che recarono in Italia il conducere la gente di cavallo sotto nome di
lance, che in prima si conduceano sotto nome di barbute e a bandiere) e
in numero di duemila a piè, essendo il freddo fuori di misura, e venute
più nevi sopra nevi, si partirono dalle frontiere dove pochi dì dinanzi
s’erano ridotti, e passando la notte per Valdinievole se ne vennono
a Vinci e Lampolecchio, luoghi fertili e abbondevoli di vittuaglia
per gli uomini e per i cavalli, e trovarono il paese non sgombro per
la pertinacia de’ nostri contadini, che non vogliono per bando o per
minacce a’ loro signori ubbidire. Giugnendo nel pieno della notte molti
paesani presono nelle letta, e posono il campo fermo nelle villate di
Vinci stendendosi in più di mille case, e il seguente dì cavalcarono
infino a Signa e Carmignano. Il tempo disusato e sconcio a cavalcare
gente d’arme, e massimamente di notte, ne presta materia di scrivere
de’ modi e reggimenti de’ detti Inghilesi nel presente capitolo senza
farne altra distinzione: e in prima, essi aveano in consuetudine di
guerreggiare così il verno come di state, che a’ Romani, di cui è
scritto, Fortia agere, et pati, Romanum, che in volgare suona, forti
cose fare, e patire, romana cosa è, non fu in uso, e sempre il verno
faceano feria dando alla guerra riposo, se per forza non fussono
tratti a battaglia. E come si trova ne’ veraci storiografi, Annibale
uomo di ferro nel mezzo del verno passò gli altissimi gioghi delle
montagne che surgono per lo mezzo d’Italia, e passano da monte Veso
infino sopra il faro di Messina, le quali alpi poi per la detta cagione
sempre nominate furono le Alpi pennine, perocchè gli Affricani sono
chiamati Penni, e sceso il verno si combattè a Pavia con Scipione e
lo vinse, poi dirizzandosi verso Roma con un solo elefante che rimaso
gli era, per lo freddo perdè un occhio, e procedendo sopra il Lago di
Perugia tra Montegeti e Passignano si combattè con Flaminio consolo
e lo vinse, usando astuzia, perocchè essendo per lo gran freddo le
membra de’ cavalieri arrudate e spossate, avanti che venisse alla
battaglia Annibale fè fare gran fuochi, e scaldare i suoi cavalieri,
e ugnere con olio. Tornando a nostra materia, per antico ricordo non
era che fosse stato il freddo sì aspro e pungente, che quasi per tutto
dicembre fino al marzo non erano cessate le nevi, e il ghiaccio per i
venti freddi fu grosso, e a passare per i cavalli quasi impossibile,
e massimamente in certi pendenti di vie che non si poteano schifare.
Costoro tutti giovani, e per la maggior parte nati e accresciuti
nelle lunghe guerre tra’ Franceschi e Inghilesi, caldi e vogliosi,
usi agli omicidii e alle rapine, erano correnti al ferro, poco avendo
loro persone in calere, ma nell’ordine della guerra erano presti, e
ubbidienti ai loro maestri, tutto che nell’alloggiarsi a campo per
la disordinata baldanza e ardire poco cauti si ponessono sparti e
male ordinati, e in forma da lievemente ricevere da gente coraggiosa
dannaggio e vergogna. Loro armadura quasi di tutti erano panzeroni,
e davanti al petto un’anima d’acciaio, bracciali di ferro, cosciali
e gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lance da posta, le quali
scesi a piè volentieri usavano, e ciascuno di loro avea uno o due
paggetti, e tali più secondo ch’era possente, e come s’aveano cavate
l’armi di dosso i detti paggetti di presente intendeano a tenerle
pulite, sicchè quando compariano a zuffe loro armi pareano specchi, e
per tanto erano più spaventevoli. Altri di loro erano arcieri, e loro
archi erano di nasso, e lunghi, e con essi erano presti e ubbidienti, e
faceano buona prova. Il modo del loro combattere in campo quasi sempre
era a piede, assegnando i cavalli a’ paggi loro, legandosi in schiera
quasi tonda, e i due prendeano una lancia, a quello modo che con li
spiedi s’aspetta il cinghiaro, e così legati e stretti, colle lance
basse a lenti passi si faceano contro a’ nemici con terribili strida: a
duro era il poterli snodare, e per quello se ne vidde per la sperienza,
gente più atta a cavalcare di notte e furare terre ch’a tenere campo
felici, più per la codardia della nostra gente che per loro virtù.
Scale aveano artificiose, che il maggiore pezzo era di tre scaglioni,
e l’uno pezzo prendea l’altro a modo della tromba, e con esse sarebbono
montati in su ogni alta torre. I detti Inghilesi, tornando alla nostra
materia, combatterono il castello di Vinci, fidandosi ne’ tardi e lenti
provvedimenti di quelli ch’allora guardavano la nostra repubblica,
e pensando che fossono poco atti alla difesa, ma furono con franco
animo e fronte senza paura ricevuti, e assai di loro di soperchio
baldanzosi furono morti e assai fediti, senza altro acquistare che onta
e vergogna; e per simile modo per due volte tornarono a Carmignano,
dove con più sicuro volto e loro dannaggio furono veduti, il perchè
si partirono di quindi, e andarsene al Montale sopra Montemurlo, con
intenzione di passare per lo stretto di Valdimarina nel Mugello, ma
sentendo che per quella volta da mille cinquecento pedoni de’ paesani e
del Mugello s’erano a passi recati, e loro con allegrezza aspettavano,
pensando con loro più tosto guadagnare che perdere, perchè tutto era
sgombro e ridotto alle fortezze si tornarono per lo passo di Seravalle
verso Pistoia nel contado di Pisa con loro gran danno, perocchè di
loro tra morti e presi nella detta cavalcata si trovarono assai più di
trecento, che da’ nostri contadini che da soldati che li tramezzarono
a Seravalle, e sì da’ Pistoiesi che vi trassono al grido. I prigioni
ch’aveano avuti a Vinci su le letta non passarono i quindici, nè i
morti i cinque: la preda che feciono a pena gli potè nutricare: ne’
giorni che stettono non arsono case, molti de’ loro cavalli perderono
per lo gran disagio e freddo soffersono, nevicando loro addosso il dì e
la notte; il perchè tornati a loro stallo molti uomini se ne morirono;
e così a poco a poco si logoravano gl’Inghilesi.

CAP. LXXXII.
_Come Anichino di Bongardo con tremila barbute venne al servigio de’
Pisani, e come sagacemente cercarono avvantaggiosa pace._
Nel detto anno 1363, a dì 15 del mese di marzo, Anichino di Bongardo
Tedesco, il quale era stato in Lombardia al soldo di messer Galeazzo
Visconti nella guerra del marchese di Monferrato, con tremila barbute
venne in favore de’ Pisani mandato per lo detto messer Galeazzo sotto
colore e titolo di soldo, sicchè in quel tempo i Pisani si trovarono
avere più di seimilacinquecento buoni uomini di cavallo, il perchè loro
parendo, e così era il vero, loro avere il migliore, ed essere di loro
onta vendicati, con segreto e cauto modo cercarono d’avere pace onorata
e vantaggiosa per le mani di santa Chiesa, e ordinarono che papa Urbano
quinto mandò per suo legato in Toscana per cercare detta pace un frate
Marco da Viterbo generale de’ frati minori, il quale essendo stato in
Pisa venne a Firenze, e onoratamente fu ricevuto, e in fine dicendo,
che al santo padre era in calere che della guerra da’ Fiorentini
a’ Pisani la quale era il guasto di Toscana si venisse alla pace, e
che tanto era fatto quinci e quindi che bene vi cadea, ebbe questa
risposta: che i Fiorentini erano stati tirati a loro malgrado nella
guerra dalla soperchia astuzia de’ Pisani, e che avanti li facessono
risposta di pace e volessono udire domande de’ Pisani, considerato che
il fatto non era pur loro, ma dell’università, sopra ciò ne voleano
tenere consiglio; e licenziato il generale, il seguente dì feciono
un consiglio di richiesti dove furono oltre a mille cittadini; e ciò
fu fatto per richiudere la bocca a’ mormoratori della pace, e per
schifare la pace che parea vituperosa, presentendosi segretamente
le disoneste e sconce cose domandavano i Pisani. Adunque si tenne
quest’ordine, che anzi che volessono i signori e’ collegi udire le
domande, vollono che ’l detto generale le sponesse nel detto consiglio;
e prima che mandassono per lui, uno de’ signori si levò nel consiglio
e assai oscuramente disse, che ciò che nel consiglio venia non era
loro movimento, ma che i priori passati n’aveano di corte avuto alcuno
odore, e che gli otto della guerra di ciò niente sapeano, e che gli
otto gli avviserebbono degli ordini presi per loro nella prosecuzione
della guerra e di loro possanza, e appresso Spinello della Camera, il
quale era pienamente informato dell’entrata e uscita del comune e del
debito suo, loro farebbe chiaro di quanto il comune fosse possente a
danari. Posato quello de’ signori si levò uno di quelli della guerra,
e distesamente e apertamente disse, che l’ordine dato per loro era
questo, cioè, che per settantamila fiorini aveano condotto per sei mesi
quattromila barbute di quelli della Compagnia della stella, la quale
era in Provenza, intra i quali erano più di cinquecento gentili uomini,
e più nella Magna duemila barbute intra i quali era il conte Giovanni,
il conte Guido, il conte Ridolfo stratti della casa di Soavia, e che
al presente n’aveano scritte al soldo tremila, e che le dette brigate
si doveano rassegnare in Firenze innanzi l’uscita del mese, e altre
molte cose disse le quali poteano sollevare gli animi degli uditori
alla guerra, soggiugnendo, che tale spesa per la pace schifare non si
potea. Appresso si levò Spinello della Camera mostrando l’entrata e
l’uscita del comune, e che pagate le dette brigate per tutto il mese
d’ottobre il comune rimanea in debito di centossessantasei migliaia
di fiorini, di che udite le sopraddette cose gli animi degli uditori
accesi e sollevati inclinarono alla guerra; e ciò fatto, i signori
feciono chiamare il generale, e sporre le domande de’ Pisani, le quali
erano superbe troppo e fastidiose, e tali, che se avessono avuto il
comune di Firenze in prigione sarebbono state sconvenevoli, sconce e
disoneste, sopra le quali levati molti dicitori in fine di concordia
di tutti si prese, che dove pace avere si potesse ragionevole, e quale
comportare si potesse, col nome di Dio si prendesse, quanto che no, che
francamente si seguitasse la guerra, e avvenisse ciò che avvenire ne
potesse; vero che non si facesse pace s’avessono fatto lega con messer
Galeazzo, per la quale si dicea essere ito per ambasciadore de’ Pisani
in Lombardia Giovanni dell’Agnello.

CAP. LXXXIII.
_Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes per lo re di Francia a
quello di Navarra._
Nel detto anno 1364 a dì 8 d’aprile, messer Beltramo di Craiche
cavaliere Brettone Galese, il quale era nelle parti di Normandia,
capitano per parte del duca di Normandia prese la villa di Nantes
che si tenea per lo re di Navarra, e poco appresso prese la villa di
Mellavit, e tutte le fortezze per la gente del detto duca, e furono
prese più gente di Pag, e tali che teneano la parte del re di Navarra
contro al re di Francia, e fu d’alcuni fatta giustizia.

CAP. LXXXIV.
_Come rotto il trattato della pace i Pisani cavalcarono i Fiorentini._
Mentre che il venerabile frate Marco per commissione di papa Urbano
quinto cercava la pace tra’ Fiorentini e’ Pisani, i Genovesi, Perugini
e Sanesi mandarono loro ambasciadori per cercare la detta pace insieme
col detto frate Marco, il quale ricevuta la risposta dal comune di
Firenze, che voleva pace dove fosse sopportabile e onesta, si tornò
a Pisa, e trovando i Pisani per lo caldo della molta buona gente
d’arme ch’aveano montati in più altere domande con minacce, tutto
che la speranza della pace avessono gittata indietro alle spalle, non
di manco i detti ambasciadori seguiano la cerca innanzi che le cose
inzotichissino più, minacciando i Pisani che se la pace prestamente
non si prendesse nella forma che l’aveano domandata, che farebbono
la lor gente cavalcare a desolazione e distruzione del contado di
Firenze. A’ Fiorentini parea al di dietro avere ricevuto soperchio
oltraggio, e aspettavano in corti giorni l’avvenimento della Compagnia
della stella, la quale per sagacità e sollecitudine di messer Galeazzo
corrotta per danari ritardava sua venuta, dipoi levata ne fu, e le
duemila barbute soldate nella Magna, fidandosi in questa speranza, e
ne’ valenti uomini ch’aveano a provvisione, ch’erano messer Bonifazio
Lupo da Parma, messer Tommaso da Spuleto, messer Manno Donati, messer
Ricciardo Cancellieri, e Giovanni Malatacca da Reggio, i quali erano
pregiati maestri di guerra, e stato ciascuno di per sè capitano di
grande esercito e avutone onore, e già in Firenze era venuto il conte
Arrigo di Monforte, e in sua compagnia il conte Giovanni e il conte
Ridolfo stratti della casa di Soavia con cinquecento uomini di cavallo
tutti giovani, e per la maggior parte gentili uomini, grandi e belli
del corpo, e quanto per un fiotto di tanta gente a giudizio di tutti
non era ricordo che entrasse in Firenze più bella nè meglio in punto
d’arme e di cavalli, ed esso conte era di bello e gentile aspetto.
Per le dette cagioni i Fiorentini con più cuore rifiutarono la pace,
e le minacce misono a non calere; onde i Pisani posta giù la speranza
della pace, avendo seimilacinquecento uomini di cavallo tra Tedeschi
e Inghilesi capitanati da Anichino di Bongardo e Giovanni Aguto in
forma di compagnie, e giunti loro oltre a mille cittadini e contadini
i più guastatori, licenziarono che intendessono a fare aspra guerra,
il perchè a dì 13 del mese d’aprile si mossono e passarono per la
Valdinievole, e posarsi nel piano di Pistoia, e in due luoghi puosono
campo, e il seguente dì gl’Inghilesi a schiere fatte si dirizzarono
a Prato, e in su la porta di Prato combatterono i Pratesi, e con mano
presono il ponte levatoio con maravigliosa sicurtà vietando che non si
levasse, la quale audacia a’ nostri fu in grande terrore, e a dì 15
d’aprile circa a mille uomini a cavallo della brigata degl’Inghilesi
nel mezzo della notte si partirono del campo, e vennono infino alla
Porta al prato, onde la terra si scommosse tutta ad arme, e di loro
quattro gagliardi toccarono la porta, de’ quali l’uno ne rimase, e
senza arrestare si partirono con parecchi che trovarono nelle letta, e
con alquanti buoi, e tornarono al campo. E il seguente dì gl’Inghilesi
per lo stretto di Valdimarina passarono nel Mugello, non senza vergogna
de’ provveditori del nostro comune, a cui parea che per le civili
dissensioni Iddio avesse tolto il cuore e ’l senno; l’intenzione
degl’Inghilesi fu di passare per lo Mugello, e venirsene nel piano di
san Salvi, e ivi porre campo, e attenere a’ Fiorentini la promessa di
fare il prete novello: Anichino dovea tenere campo a Peretola. Passati
adunque la notte gl’Inghilesi la Valdimarina in sul fare del giorno
giunsono a Latera e a Barberino, e trovarono i villani non avvisati e
male provveduti, onde ebbono da cento prigioni, e da cento paia di buoi
e assai bestiame minuto, e trovarono pieno di biada e di vino e d’altra
roba da vivere, e la cagione fu per allora, che dove i governatori
della città doveano levare le gabelle acciocchè la roba venisse alla
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