Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 12

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cento fanti a piè, e con grande allegrezza fu da tutti universalmente
ricevuto, parendo a ciascuno essere in viaggio d’onorato fine alla
guerra. Il seguente dì furono creati otto cittadini, due per quartiere,
e per termine d’un anno e con balìa assai, in uficiali del comune
sopra la guerra, i quali di presente preso l’uficio incominciarono
ad intendersi con messer Pandolfo sopra i modi che intorno a’ fatti
della guerra s’avessono a tenere; nelle lunghezze delle parlanze messer
Pandolfo non mostrò cruccio di perdere tempo.

CAP. LXVIII.
_Come i Pisani co’ loro Inghilesi presono Figghine._
Messer Manetto di messer Lomodaiesi capitano generale della gente
d’arme de’ Pisani, e messer Alberto Tedesco capitano degl’Inghilesi,
con tutte loro brigate continuando loro viaggio senza contradizione
per li stretti passi del Chianti valicarono nel Valdarno di sopra,
e nella loro prima giunta presono il borgo di Figghine a dì 16 di
settembre di detto anno, dove trovarono molta roba e prigioni assai
d’ogni maniera: è vero che la maggior parte degli uomini e donne da
bene si fuggirono nel castello, ch’era assai forte: e perchè quelli
del castello non prendessono consiglio, il seguente dì gl’Inghilesi
si strinsono ad esso, onde quelli d’entro spaventati si rendeano; e
mentre che i patti si compilavano, la cattività di quelli d’entro fu
tanta che si lasciarono torre la fortezza agl’Inghilesi; il perchè
ebbono assai prigioni da bene uomini e donne, i quali Dio sa come
furono ricevuti nelle mani degl’Inghilesi uomini crudeli e bestiali,
i quali con la miseria de’ nostri arricchirono. Preso il castello il
guastarono e afforzaronsi ne’ borghi, dove stettono per alquanto di
tempo. La presura di Figghine assai diè di pensiero e di maninconia
a’ governatori del nostro comune, tutto che i cittadini ch’aveano
i palagi e abituro d’intorno e appresso la città paressono contenti
che la guerra si facesse da lungo, ma poco loro valse, come appresso
diviseremo.

CAP. LXIX.
_Come messer Pandolfo puose il campo all’Ancisa, e come il detto campo
fu preso dagl’Inghilesi con messer Rinuccio capitano, e appresso il
borgo all’Ancisa, e come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra._
Preso Figghine per i Pisani, col consiglio di messer Pandolfo tutta
la gente dell’arme de’ Fiorenti con molti pedoni che ’l comune avea
n’andò all’Ancisa, e di presente messer Pandolfo andò dietro loro, e
come giunse all’Ancisa ordinò di porre campo dirimpetto all’Ancisa, il
quale ad arte il prese di sfoggiata grandezza, prendendo dal poggio
infino all’Arno, contra il volere e consiglio di messer Rinuccio
capitano, e di messer Amerigone Tedesco e di tutti gli altri buoni
uomini d’arme che v’erano, eccetto il conte Artimanno, il quale si
scoperse traditore, i quali tutti diceano essere abbastanza e più
utile fare una bastita intorno alla torre Bandinelli, la quale diceano
potersi difendere insieme col borgo dell’Ancisa, e che tanta larghezza
di campo, traendo lui cinquecento cavalieri della migliore gente, nè
eziandio se vi fossono alla difesa, non era possibile da difendere
dalla forza de’ nemici, e che stolta cosa era commettersi a quella
fortuna. Messer Pandolfo fè orecchie di mercatante a lasciare dire chi
volle, e fè pure a suo senno, avendo dato a intendere prima a quelli
della guerra e al comune che la Compagnia del cappelletto la quale
era in Maremma condotta per i Fiorentini, e con cinquecento barbute
di quelli erano all’Ancisa cavalcherebbono i Pisani, i quali arebbono
necessità rivocare loro gente al soccorso, e sotto questo colore trasse
del campo messer Amerigone e altri caporali con cinquecento uomini di
cavallo della miglior gente fosse nel campo, lasciando al capitano il
forte ragazzaglia e vile gente, eccetto alquanti Italiani, e ciò fatto
se ne venne a Firenze. Gl’Inghilesi sentendolo partito, e che messer
Rinuccio era semplice, feciono ingaggiare di battaglia uno di loro
con uno di quelli d’entro, e molti saggi Inghilesi vennono nel campo
senza arme, dove si combatterono, e considerando il campo e chi v’era
alla difesa, il seguente dì 3 d’ottobre colle schiere fatte assalirono
il campo da molte parti, acciocchè la poca gente che v’era e debole
si spargesse in più parti alla difesa. Il capitano confortando i suoi
a ben fare, e della sua persona, con quelli pochi uomini che v’erano
buoni fè maraviglie, e per lungo spazio di tempo sostenne l’assalto con
danno assai de’ nemici; in fine non potendo resistere a tanta gente, nè
a tanti luoghi quant’erano combattuti, il capitano insieme col campo
fu preso, con assai degli altri che mostrarono il volto. Il conte
Artimanno traditore, possendo atare e soccorrere il campo, lasciando
parte della sua gente a guardia del borgo dell’Ancisa co’ terrazzani,
si stette a vedere. Molti de’ nostri ch’erano usciti di fuori, tale
per badaluccare tale per vedere, furono presi, più di disarmati
vogliosi troppo ch’erano corsi a vedere. Quelli valenti uomini che
erano usciti fuori virilmente a battaglia furono presi colle spade in
mano, intra’ quali fu messer Giovanni degli Obizzi e messer Giovanni
Mangiadori, alquanti se ne gittarono per l’Arno che vi annegarono,
intra i quali fu messer Bartolommeo de’ Portigiani da san Miniato.
La preda de’ cavalli, fornimenti da campo e armadura fu grande. Avuta
la vittoria gl’Inghilesi, con la preda e co’ prigioni si tornarono a
Figghine. Ricerchi i nostri, tra presi e morti si trovarono passati
i quattrocento. Conosciuto per gl’Inghilesi il male e viziato ordine
dato per messer Pandolfo, e la viltà di nostra gente, e il corrotto
animo del conte Artimanno, il dì seguente dì 4 d’ottobre ne vennono
all’Ancisa colle schiere fatte per combattere il borgo; il traditore
del conte Artimanno come li vidde venire, colla sua brigata se n’uscì
per la porta che viene verso Firenze e misesi a cammino, che se avesse
avute altrettante femmine come avea uomini d’arme arebbe difeso quel
luogo; i nemici senza contesa entrarono nel borgo e presonlo, rubaronlo
e arsonlo, per avere la via spedita volendo venire verso Firenze.
Messer Pandolfo sentendo la rotta del campo, con cinquecento uomini
ch’avea scelti e altra gente d’arme, in vista mostrava gran fretta
d’andare a soccorrere l’Ancisa, e già avea passato san Donato in
Collina, veggendo venire il conte Artimanno in fuga, possendosi allo
stretto di san Donato sostenere per non mostrare tanta viltà, subito si
volse e diessi alla fuga come uomo rotto. I nostri veggendo fuggire il
capitano seguitarono, il quale come spaventato, come giunse in Firenze
fè segno come fosse di necessità provvedere alla guardia della città
trista e lagrimosa, e che mal volentieri lo vedea, ma la necessità la
quale fa vecchia trottare strinse il nostro comune ad eleggerlo per
capitano di guerra in luogo di messer Rinuccio preso colla spada in
mano. Il quale essendo eletto nella forma che sogliono capitani di
guerra, volle ai governatori del nostro comune con belle e artificiose
parole e con sottili argomenti mostrare, che a perfezione del capitano,
pace e bene della città, necessario era che nella città e di fuori
avesse giurisdizione di sangue con pieno arbitrio, e fu sì sfacciato,
che la domandò agli uficiali della guerra, quasi dando intesa altamente
non accettare il capitanato, e più domandò, che i soldati da cavallo
e da piè giurassono nelle sue mani. Udendo i governatori della città
le sconce e le mal colorate domande vollono un grande consiglio di
richiesti, dove si proposono le domande di messer Pandolfo, e tanto
era il bisogno che aveano di lui, che niuno osava contradire, e il
concedere parea pericoloso, il perchè stavano sospesi e muti. Simone
di Rinieri Peruzzi si levò in consiglio, e disse francamente che
nulla di ciò gli si concedesse, che questo era un domandare d’essere
fatto signore, e che ciascuno si recasse alla mente il tempo del
duca d’Atene, e come da lui erano stati trattati, e che conoscessono
la dolcezza della libertà, e che volessono vivere e morire in essa.
Piacque a tutti il consiglio, e così s’ottenne; e i signori priori
mandarono di presente per tutti i soldati, e in loro mani feciono
giurare, e un Baldo dalla Città di Castello elessono per difensore del
popolo con larga e piena balía nella città. Messer Pandolfo veggendo
ciò s’infinse di non lo intendere, e accettò il capitanato al modo
usato a capitano di guerra, senza lasciare il pensiere di venire per
altra via al suo intento, come per effetto si vide. Presa la bacchetta
del capitanato fè cassare il conte Artimanno con ottocento uomini di
cavallo, perchè non rimase il comune se non con altri ottocento, e ciò
fatto, mostrando smisurata paura, fece sopra certa parte delle mura
della città levare bertesche e merlate armate di ventiere, armando la
nostra città d’eterna vergogna, più, che per le vie mastre non molto di
lungo alle porte fè fare serragli e antiserragli infino a Ricorboli.

CAP. LXX.
_Come certa parte degl’Inghilesi da Figghine cavalcarono a Ricorboli._
Gl’Inghilesi e gente de’ Pisani imbaldanzita sopra modo della rotta
del campo e della presa del borgo all’Ancisa, posati alcuni dì a
Figghine, avendo le spie dello spavento ch’era in Firenze, e de’ modi
del capitano, feciono sentire al comune con minaccevole superbia e
altre parlanze, come a dì 22 d’ottobre verrebbono in sulle porte,
e arderebbono il borgo di san Niccolò, e che a questo il comune
mettesse ogni suo sforzo a riparo, il perchè i governatori della
città perduto il cuore e il senno, e poco di concordia e rimprocciosi
gettando il carico l’uno all’altro con mormorio, parendo a loro
essere certi che quello che gl’Inghilesi prometteano l’atterrebbono,
feciono afforzare san Miniato a monte, e misonvi quattrocento fanti
pistoiesi e gli sbanditi, a’ quali promisono di ribandirli, poichè
certo tempo ivi e altrove avessono servito il comune, de’ quali fu
capitano messer Niccolò Buondelmonti, e Sinibaldo di messer Amerigo
Donati, i quali allora erano in bando della persona: il numero loro
passava i cinquecento. La città stava e quelli che di fuori erano
alle poste in tanta sollecitudine e tremore, che alcuna volta sentendo
pur un uomo dall’Apparita sonavano le campane del comune a martello,
e invano la guardia si faceva la notte co’ pennoni. Essendo per più
giorni stati grandi acquazzoni, a dì 22 del mese d’ottobre la detta
brigata degl’Inghilesi in numero di millecinquecento a cavallo e
cinquecento pedoni prima fu nel Piano di Ripoli, che per lo capitano
o per i governatori del comune niente se ne sentisse, e se niente
se ne sentì per lo capitano, che verisimile parea del sì, fece vista
di non saperne: molti cittadini in sulle letta furono presi, perchè
vennono di notte, e ucciso fu chi si contese. La preda che feciono fu
di quattrocento prigioni, e di più di mille tra asini e buoi: molti
fuggendo annegarono in Arno. La notte si stettono nel Piano di Ripoli
e nelle coste d’intorno: il loro segno levarono alla pieve a Ripoli
facendo gran trombata; la mattina, ardendo molti palagi, alberghi, e
case da lavoratori vicino alla strada circa d’un miglio, si partirono
senza trovare chi li andasse a vedere, e con la preda e’ prigioni
si tornarono a Figghine. Messer Pandolfo sapendo che erano partiti,
per vedere la tratta de’ Fiorentini, ch’era vogliosa e senza ordine
niuno, con ottocento uomini a cavallo ch’erano rimasi al comune
e con gran popolo si stette alle sbarre a Ricorboli; esso vedea i
nemici sparti, e girsene per le coste, e ne’ suoi occhi ardere molti
palagi di cittadini, e senza dubbio avendo le spalle del popolo e de’
contadini, ch’erano oltre a diecimila bene armati, e che volentieri
l’arebbono seguitato, per lo danno e vergogna che fare si vedeano, li
potea offendere, e nol volle fare, ma si ritenne al primo serraglio
lasciandosene tre innanzi, a’ quali era il popolo e la gente da piè.
Dissesi, e vero fu, che non sapendo l’aspro cammino gl’Inghilesi si
mossono, e non giunsono in Pian di Ripoli che a pochi loro cavalli non
crocchiassono i ferri, e se fossono stati assaggiati erano perduti,
come essi poi confessarono aperto, ma la viltà affettata del nostro
capitano, che traeva al fine che è detto di sopra, e de’ nostri
cittadini e contadini, che gl’Inghilesi fossono leoni fu la salvezza
loro. Speranza fu di messer Pandolfo, che rimaso messer Lomodaiesi
co’ soldati de’ Pisani alla guardia di Figghine, gl’Inghilesi fossono
tutti, e che s’alloggiassono nelle belle e ricche possessioni presso
alla terra, le quali erano piene d’ogni bene, e che ’l comune per
allora vario d’animo e povero di consiglio inclinasse a volerlo per suo
governatore e maestro; questa speranza li faltò per la subita partita
degl’Inghilesi, e fecelo entrare in altro pensiere.

CAP. LXXI.
_Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del cappelletto, la quale era
condotta al soldo de’ Fiorentini._
Non ci pare da lasciare in silenzio, che essendo la gente de’ Pisani
con gl’Inghilesi afforzati in Figghine, ed essendo condotta per i
Fiorentini la Compagnia del cappelletto, la quale era in Maremma, e
co’ Sanesi avea presa convegna, e veniano al servigio del comune di
Firenze, e senza riguardo d’offesa e come fidati da’ Sanesi, per la
via da Torrita furono da loro assaliti con ottocento uomini da cavallo,
fra i quali ve ne furono quattrocento e più de’ Pisani, e loro ordine
e trattato fu per rompere le provvisioni di messer Pandolfo, le quali
aveano sentite. La zuffa dopo l’assalto de’ Sanesi non ebbe molto
contasto, perchè quelli della compagnia venendo senza sospetto come
per terre d’amici veniano in filo e sparti, il perchè di leggiere
furono sconfitti e preda de’ nemici. Presi vi furono oltre a trecento
uomini di cavallo e più di mille pedoni, e intra i presi fu il conte
Niccolò da Urbino, che era il capitano, il conte da Sarteano, Marcolfo
da’ Rimini; con altri assai buoni uomini d’arme, e morti ne furono
assai più di cento. Della quale vittoria, ovvero tradimento fatto in
dispetto, danno e vergogna del comune di Firenze, i Sanesi ne feciono
beffa festa, dicendo sè a un’ora avere sconfitto il comune di Firenze
e la compagnia la quale tanto affannati gli avea; e prosontuosamente
oltre a modo alzando il capo, per derisione e scherno mandarono due
messi a Firenze con lettere, l’uno al comune l’altro a’ capitani
della parte guelfa, contenenti con alte e ornate parole la detta
vittoria. Il comune dissimulando l’oltraggio, il fante che a lui venne
vestì di scarlatto fino foderato d’indisia, la parte vestì il suo di
cardinalesco.

CAP. LXXII.
_Di cavalcate e combattimenti di terre feciono gl’Inghilesi mentre
stettono a Figghine._
Soggiornando gl’Inghilesi a Figghine, come guerrieri senza riposo
tentarono per più riprese assai delle castella e tenute del nostro
comune che d’intorno loro erano vicine, e al castello di Tre Vigne in
due diversi giorni dierono ordinata battaglia, dove rimasono morti
alquanti di loro, e assai ne furono e dalle balestra e dalle pietre
magagnati senza acquisto niuno, lasciando le fosse piene di scale
e la terra di saettamento, e per simile modo combatterono più altre
tenute indarno. Il castelluccio de’ Benzi e la Foresta si tennono.
Vero fu che uno Andrea di Belmonte Inghilese, gentile uomo e grande
caporale nella compagnia, udita la fama della bellezza e gentilezza
di costumi di Monna Tancia donna di Guido della Foresta, di buono e
cavalleresco amore fu preso di lei, e la volle vedere, e da Guido come
da uomo d’animo gentile cortesemente fu ricevuto e onorato; seguinne,
che per l’amore di costui per tutto il tempo che stettono a Figghine
niuna novità fu fatta alla Foresta. Combatterono per tutto un giorno il
castello di Cintoia, e nol poterono avere. La notte quelli di Cintoia
per la bussa del dì tormentati, e perchè assai di loro n’erano fediti,
mandarono a Firenze a’ signori pregando per Dio li sovvenissono d’aiuto
almeno di venti fanti, perocchè attendeano d’essere il seguente dì
combattuti, e temeano della perdita; la provvisione all’usato modo fu
fredda, il perchè gl’Inghilesi il seguente dì tornarono alla battaglia.
Quelli del castello facendo loro possanza lungamente si tennono
danneggiando forte i nemici, in fine gl’Inghilesi presono il castello,
e ’l misono a sacco e l’arsono, e con la preda e’ prigioni si tornarono
a Figghine. Nel detto tempo tremila uomini di cavallo con pedoni assai
cavalcarono verso Arezzo, e poi volsono nel Casentino, dove levarono
gran preda sì di persone sì di bestiame, e senza impedimento con essa
si tornarono a Figghine.

CAP. LXXIII.
_Esempio e ammaestramento de’ popoli che vivono a libertà i quali
si conducono nella fortuna della guerra di non torre capitano uso a
tirannia._
Tornando al processo di nostra materia, gl’Inghilesi da Ricorboli
venuti a Figghine essendo ad abbondanza grassi e di prigioni e di
preda, nel consiglio de’ loro maggiori cominciarono ad entrare in
pensiero, come l’uno e l’altro potessono conducere in Pisa per li
stretti passi di Valdipesa: e per ciò potere fare, parendo loro come a
gente dotti di guerra del Chianti sentire l’intenza di messer Pandolfo,
e che pertanto era occupato intorno a’ fatti della città, poichè
alquanti giorni furono riposati feciono sentire al comune di Firenze,
che a dì undici del mese di novembre intendeano di fare consegrare un
prete novello nella badia di san Salvi, e che i signori di Firenze e
gli altri gentiluomini dovessono venire a fare onore al detto prete, e
a loro in persona di lui. Ciò indubitatamente credette messer Pandolfo,
e per le sue spie l’ebbe di certo, perocchè vidono il campo armare il
detto dì 11 la mattina per tempo, e per lo campo sentirono divolgare
come si dirizzavano verso Firenze; e certo a ciò avvisati cautamente
presono il viaggio verso Firenze, il perchè le spie non attendendo più
oltre vennono a Firenze ad informare messer Pandolfo. Stando la terra
sotto l’arme in gran tremore, scendendo all’Apparita pur un fante a piè
credeano fossono della brigata degl’Inghilesi, le campane sonavano a
stormo, il popolo sbalordito correa in qua e in là senza ordine e senza
capo, lasciando quasi ciascuno il suo gonfalone per ire a vedere, e di
largo avanti che messer Pandolfo giugnesse alla Porta alla croce usciti
erano della città ottomila uomini bene armati; quelli ch’erano più
gagliardi erano nel piano di san Salvi, e ordinatisi il meglio aveano
saputo, aspettando a ricevere i nemici, gli altri erano per le coste
sopra san Salvi. Il falso grido sonava per la terra che già parte di
loro n’era a Rovezzano: la gente da cavallo tutta era nella piazza de’
signori, e aspettava il capitano, il quale per la malizia soprastette
al mangiare tanto, ch’era quando se ne levò più vicino alla nona che
alla terza, e ciò fè perchè il popolo satollo uscisse fuori, e pensando
che a quell’ora ragionevolmente i nemici dovessono esser giunti a san
Salvi, e alle mani col popolo voglioso e con poco senno. Uscito il
capitano fuori coll’insegna di sua arme levata, seguendolo i soldati e
molti cittadini da bene a cavallo, come giunse alla Porta alla croce la
fece serrare, e così quella della giustizia, ed esso si stava dentro
a guardarla, lasciando il popolo di Firenze senza rifugio al taglio
delle spade e in preda de’ nemici, che bene conoscea chi era il popolo,
e chi gl’Inghilesi. Di fuori della porta era il tumulto grande delle
strida delle femmine che fuggivano co’ figliuoli in collo e a mano,
e voleano entrare dentro e non poteano, e quelle grida confermavano
nella testa a messer Pandolfo che i nemici fossono giunti, e a zuffa,
e ripreso da molti buoni cittadini che non lasciava entrare le femmine
e’ fanciulli, fatto per alquanto di tempo orecchie di mercatante, quasi
come temesse che per lo sportello entrassono i nemici e corressono la
terra, alla fine udendo il mormorio del popolo e de’ buoni uomini fece
aprire lo sportello: e io scrittore che era in quel luogo vidi molti
cittadini grandi e da bene, e a cui era cara la libertà della città,
piagnere e lagrimare vedendo il caso pericoloso, e ricordando il tempo
del duca d’Atene, e come si fece signore, e alquanti di loro n’andarono
a’ signori, e li consigliarono che provvedessono di vittuaglia il
palagio, e facessono mettere le balestra grosse e le bombarde in punto
sicchè il palagio avesse difesa, e tale, che di fatto, come al tempo
del duca d’Atene, occupato non fosse. E stando nel tumulto del fornire
e armare il palagio alla difesa, un messo giunse loro da Figghine,
e disse come i nemici aveano arso il campo e il borgo di Figghine, e
come s’erano partiti co’ prigioni e colla preda, e fatta la via per
lo Chianti; onde i signori mandarono a dire a messer Pandolfo che
facesse aprire le porte, e tornassesi allo stallo suo, il quale ciò
udito, caduto della speranza, con gli occhi bassi e mal volto di tutti
si tornò a casa sua. Quetato il popolo, e lasciata l’arme, i signori
ebbono gran consiglio di richiesti, e veduto il pessimo animo di messer
Pandolfo, e come pure intendea a volere essere signore di Firenze a
dispetto del popolo, determinarono li fosse tenuto mente alle mani
sicchè non li venisse fatto, e da quell’ora innanzi cominciò a essere
in dispetto di tutti: e perchè il popolo non traesse più mattamente,
feciono che ciascuno dovesse trarre al suo gonfalone alla pena di
lire sei, la quale pensando si dovesse risquotere ciascuno sarebbe
sollecito a seguire il suo gonfalone. Per messer Pandolfo mandarono, e
lo ripresono forte de’ modi tenuti per lui, e dicendoli che stesse dove
li paresse alle frontiere a guerreggiare i nemici, che il popolo di
Firenze ben saprebbe guardare la città. Se non fosse stato della casa
de’ Malatesti, per lo nome e titolo di parte guelfa amata e onorata dal
comune di Firenze, per certo si tenne n’arebbono preso altra via. Avemo
tritamente narrato questo caso per esempio, se potesse profittare,
a quelli che verranno, di non tor mai a capitano di guerra tiranno
di terra notabile, perocchè l’avvenimento della guerra è vario, e la
fortuna or quinci or quindi presta il favore suo, e sovente il tiranno
la fa essere ria per usurpare la sua libertà. E nullo ammiri perchè
io dissi se potesse profittare, perocché ’l governo allora del nostro
comune, avendo novellamente sì aspra ed evidente battitura ricevuta
da messer Pandolfo, e lui partito con disonore e vergogna, sotto
titolo e colore di ricoverare l’onore della casa de’ Malatesti, con la
forza degli amici loro fu chiamato capitano di guerra messer Galeotto
Malatesti; quello ne seguì nel seguente trattato a suo luogo e tempo si
potrà trovare.

CAP. LXXIV.
_I modi teneano gl’Inghilesi tornati in Pisa._
Con grande festa e trionfo gl’Inghilesi tornati da Figghine per i
Pisani furono ricevuti, e loro quasi come a cittadini fu consegnata
certa parte della terra, e dell’altre furono abbarrate le vie perchè
non noiassono a’ cittadini; ciò veggendo gl’Inghilesi lor parve che i
Pisani li avessono accettati per loro cittadini participando la terra
con loro, e modi teneano che pareano che intendessono così; i Pisani
veggendo per segni e parole l’intento loro più volte cercarono per
ingegno e astuzia di trarlisi di casa, infignendo d’essere cavalcati
da’ nemici, e facendo venire molte lettere di diverse parti che loro
annunziavano soprastare a gran pericoli, ma per allora fu nulla, che
gl’Inghilesi che s’erano molto affannati, e bisogno aveano di riposo,
ed erano caldi di danari di prigioni e di preda, se ne feciono beffe,
il perchè i Pisani vernano in gran gelosia.

CAP. LXXV.
_Come i Pisani furono sconfitti a Barga._
Avendo i Pisani la lor gente dell’arme e gl’Inghilesi nella città,
non potendo, come detto è di sopra, nè in parte nè in tutto trarre
gl’Inghilesi di Pisa, per non perdere il tempo gran parte di loro
soldati con grande ordine e apparecchio mandarono a Barga all’entrare
di dicembre, per porre sopra gli altri battifolli che vi aveano un
altro battifolle dalla parte del monte. In Barga era capitano per i
Fiorentini Benghi del Tegghia Bondelmonti, a cui i Fiorentini, poichè
gl’lnghilesi aveano abbandonato Figghine, aveano mandati centocinquanta
degli sbanditi ch’erano stati in san Miniato a monte, i quali doveane
certo tempo servire il comune nella guerra alle loro spese, e poi
essere ribanditi; la gente de’ Pisani portando fornimenti assai, sì
per porre detto battifolle, e sì per fornire e quello e gli altri
ad abbondanza, non parea che desse cuore di fare quello ch’era stato
loro commesso senza altro aiuto, forte temendo la brigata di Barga,
il perchè quelli ch’erano negli altri battifolli lasciandoli male a
difesa forniti si dirizzarono con loro in viaggio. Benghi, sentendo
che i battifolli erano sforniti e quasi come abbandonati, con i
Barghigiani, che v’andarono uomini e femmine vogliosamente, e co’ detti
centocinquanta sbanditi assalì i detti battifolli, e tantosto li vinse.
Quelli de’ battifolli ch’erano iti coll’altra gente a porre la bastita
sentendo le grida e lo stormire di quelli che combatteano le bastite,
subito colla detta gente de’ Pisani si volsono indietro per soccorrere
a’ battifolli. Benghi capitano co’ Barghigiani e sbanditi suddetti li
ricevettono francamente, e dopo lunga battaglia e aspra li sconfissono,
dove de’ nemici furono morti oltre a centocinquanta, e assai fediti
e magagnati, e molti ne furono presi; lo stendardo del comune di Pisa
con altre tredici bandiere rimasono prese, le quali i Barghigiani ne
mandarono a Firenze, e’ battifolli furono arsi, e quello che dentro
v’era con quello che recato v’aveano per porre l’altro sì di vittuaglia
come d’arnesi fu messo in Barga, e loro a gran bisogno sovvenne. Benghi
perchè s’era fedelmente e francamente portato fu fatto di popolo, e
rifermo in capitano di Barga per diciotto mesi.

CAP. LXXVI.
_Come il re Giovanni di Francia passò in Inghilterra e là morì._
Uscendo un poco del bosco delle nostre speziali riotte, facendo
intramessa di cose forestiere, torneremo alquanto addietro a quello
che scritto fu per Matteo nostro padre della pace intra i due re di
Francia e d’Inghilterra, dove il re di Francia s’obbligò a pagare al
re d’Inghilterra gran quantità di moneta per la sua diliveranza; e per
osservare sua promessa lasciò per stadico il fratello duca d’Orliens, e
messer Giovanni duca di Berrì suo figliuolo, e più altri duchi, conti e
banderesi; onde in quest’anno 1363 a dì 3 di gennaio, il detto messer
Giovanni figliuolo del re che stadico era a Calese, villanamente,
essendo largheggiato d’andare a cacciare e uccellare a sua volontà, si
fuggì da Calese senza tornarvi con gran sua vergogna, e fè rubellare
agl’Inghilesi più terre teneano in Normandia per gaggi della pace. Onde
il re Giovanni, come franco e nobile signore, per lo detto misfatto
del figliuolo e rompimento della pace, e per trattare patto e grazia di
sua redenzione, di sua volontà a dì 3 di gennaio 1363 entrò in mare a
Bologna sul mare per ire e si rassegnare prigione in Inghilterra, e il
giovedì appresso giunse a Dovero, e dipoi a dì 24 di gennaio giunse a
Londra, e incontro gli andarono oltre a mille a cavallo gente nobile,
e tutti vestiti di variate assise, e dismontò a una casa detta Saona
per lui riccamente e alla reale apparecchiata. Della quale andata il
detto re da tutti i cristiani fu molto lodato, ed eziandio gl’Inghilesi
l’ebbono molto a bene e feciongliene ogni grazia. Nel raccozzamento de’
due re, e nella pratica, il perchè v’era ito, il detto re di Francia
era passato nell’isola. Potrei far fine qui e riserbare al mese suo la
morte del re di Francia, ma per non interrompere la materia la porremo
qui. Seguì, che poco appresso poi all’entrata di marzo prese al re di
Francia una malattia, e dipoi a dì 8 del mese d’aprile 1364 la notte
passò di questa vita. Onorato fu di sepoltura largamente alla reale,
riservando in una cassa il corpo suo per recarlo a tempo a Parigi. Il
reame succedette a Carlo primogenito del detto re Giovanni, duca di
Normandia e delfino di Vienna.

CAP. LXXVII.
_Come messer Niccolò del Pecora fu cacciato di Montepulciano._
In questi giorni per trattato fatto per i Sanesi colla forza de’ fanti
d’Agnolino Bottoni, contra i patti della pace fatta tra’ Perugini
e’ Sanesi, messer Niccolò del Pecora per i conforti suoi fu cacciato
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