Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 11

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alle insegne de’ Pisani, e le presono e abbatterono; e ciò veggendo
messer Piero urtò forte sopra i nemici, e li strinse a fuggire.
Rinieri come ardito e pro’, fu preso colla spada in mano, e molti altri
valenti uomini. E per certo e messer Piero e Rinieri si portarono come
valenti capitani, e come arditi e pro’ cavalieri, perocchè per spazio
di due ore e mezzo si combatterono pertinacemente sotto l’incerto
della vittoria. Rotte le schiere de’ Pisani, gli Ungari con degli
altri contesono a prendere de’ prigioni, massimamente di quelli che a
piè v’erano venuti da Pisa. Molta gente da piè e da cavallo vi morì,
tanto odio lor menti occupava, e molti cavalli vi furono guasti per
i pedoni fiorentini che con le lance in mano fedirono di costa: il
capitano messer Piero co’ prigioni si tornò alla gente sua, e in quel
dì medesimo ne fu novelle in Firenze, di che si fè grande allegrezza e
festa.

CAP. LI.
_Come messer Piero da Farnese entrò in Firenze, e il capitano de’
Pisani colle insegne e’ prigioni rassegnarono a’ priori._
A dì 11 di maggio, messer Piero da Farnese col capitano, bandiere e
prigioni de’ nemici entrò in Firenze, dove ricevuto con grande letizia
e allegrezza di popolo, e consegnati furono per lui a’ priori col
capitano e bandiere de’ Pisani centocinquanta prigioni, essendoli
per lo comune offerto una ghirlanda d’alloro umilemente la ricusò,
e non la volle prendere, dicendo, che tale ghirlanda si convenia
con altro trionfo e maggiore vittoria, siccome per il senato di
Roma era diputato; furonli donati quattro destrieri nobili coverti
dell’arme sua. Con lui venne messer Simone da Camerino fatto cavaliere
nella battaglia, il quale fu lietamente veduto, e onorato di doni
cavallereschi; e di poi a dì quattordici di maggio colle solennità
usate furono al capitano date per messer Niccolaio degli Alberti
gonfaloniere di giustizia l’insegne, e per lo capitano accomandate
furono a’ Tedeschi a guardia, dando la reale a un messer Amerigone
soldato del nostro comune, il quale la ricevette in nome di messer
Giovanni di..... Tedesco, il quale era al campo. Non vi mancò augurio,
perocchè subitamente come messer Piero l’ebbe in mano surse una lieve
aura che le dirizzò verso Pisa, di che il capitano prese baldanza.

CAP. LII.
_Come i Pisani tolsono a’ Fiorentini Altopascio._
Sabato a dì 20 di maggio, Guelfo di messer Dante degli Scali, il quale
era castellano d’Altopascio, diede il detto castello a’ Pisani per
fiorini tremila d’oro che ne ricevette, il perchè domenica mattina il
dì di Pasqua rugiada i priori mossono l’esecutore colla famiglia sua
per andare a guastare le case sue; il popolo il quale era raunato in
sulla piazza de’ priori seguì l’esecutore, ed entrò nelle case degli
Scali e rubolle, e appresso vi mise il fuoco e arsonle, non potendo a
ciò riparare quelli che mosso l’aveano: dopo nona detto dì mandarono il
cavaliere dell’eseguitore a guastare i beni di contado.

CAP. LIII.
_Come i Pisani elessono per loro capitano Ghisello degli Ubaldini._
I Pisani elessono loro capitano di guerra Ghisello degli Ubaldini in
lungo di Rinieri d’Ugolinuccio da Baschi, il quale era preso nelle
carcere del comune di Firenze. Il detto Ghisello era coraggioso e di
grande animo, dotto di guerra, e corale nemico del comune di Firenze,
il quale di presente fu in Pisa, e prese la bacchetta del capitanato; e
ciò fu del detto mese di maggio.

CAP. LIV.
_Come messer Piero cavalcò sino sulle porte di Pisa battendovi moneta
d’oro e d’argento._
A dì 17 del mese di maggio, messer Piero da Farnese capitano de’
Fiorentini con duemilacinquecento cavalieri, e molti balestrieri e
altra fanteria si partì dal castello d’Empoli, e dirizzossi verso
Pisa, e il detto dì s’alloggiò sopra la Cecina intra Marti e Castel
del Bosco, il seguente passarono il fosso, a malgrado di trecento
uomini da cavallo che erano nel detto Castello del Bosco, e per la sera
s’accamparono a Ponte di Sacco, e valicarono di loro in Valdicalci e a
Caprone, facendo gran danni d’arsioni di ville e manieri. Proseguendo
il capitano sue giornate verso Pisa arse il resto del borgo di Cascina,
e tutto insin presso a Rignone e Borgo delle Campane ardendo tutto,
e quivi fermato mandò a’ Pisani il guanto della battaglia, di poi
lo giorno di Pasqua novella il capitano colle schiere fatte si mosse
verso le porte di Pisa. Messer Amerigone Tedesco con sessanta barbute
si mise innanzi a tutti gli altri, e cavalcò verso le porte di Pisa,
e trovò cento barbute de’ nemici con assai gente da piè, e loro fedì
addosso arditamente e li ruppe, in soccorso de’ quali uscirono di Pisa
dugento uomini da cavallo, i quali volsono indietro messer Amerigone,
al cui soccorso si mise messer Otto Tedesco con cento barbute e
rivolse messer Amerigone, e fatta aspra zuffa i Pisani furono rotti;
allora uscì di Pisa il potestà con seicento barbute e molto popolo,
e ruppono i nostri, e presono i detti due conestabili con alquanta
loro brigata. Messer Piero ciò veggendo come di soperchio ardito,
con trecento barbute di gente eletta, lasciandosi al soccorso la sua
gente grossa presso colle bandiere, con tanto animo si mise sopra i
Pisani che li ruppe e fè volgere, i quali per la gran calca non potendo
entrare per la porta molti se ne misono per l’Arno, de’ quali assai
n’annegarono. Molti presi ne furono, e tanti e tali che i soldati più
tosto vollono i prigioni, che paga doppia e mese compiuto, e assai ve
ne furono morti di quelli del baldanzoso e scondito popolo. Ciò fatto
il capitano a Rignone e allo Spedaluzzo fè battere moneta dell’oro,
e d’argento, e di quattrini: in quella d’argento sotto i piè di san
Giovanni sta una volpe a rovescio. E in quell’ora per i Pisani alla
richiesta della battaglia fatta per messer Piero risposto fu, che alla
battaglia verrebbono a tempo e a luogo; onde fatti per lo capitano
due cavalieri, messer Guglielmo di Bolsi, e messer Giovanni di......
sonate le trombe si fè dipartenza; e mentre che la gente che rimasa
era alla retroguardia, mandati dinanzi a sè gl’impedimenti da Rignone
e dal Borgo delle Campane si partia, gente da piè e da cavallo de’
Pisani vi sopraggiunse, e perchè quivi erano cavalieri novellamente
fatti non vollono fuggire. Nello strettissimo luogo della via, il quale
quivi la natura del luogo leva in alto, quindi l’Arno colle sue ripe
fortifica, furono i nemici da’ nostri aspettati, e subito con gran
grida s’abboccarono insieme con fiera e ontosa battaglia. I nostri
nel principio dubitarono, e crollaronsi: messer Guglielmo cavaliere
novello con la lancia uno levò da cavallo, onde premendo lui co’ nostri
sopra i nemici, quelli che in qua e in là scorreano ripresi furono, e
da capo facendo resistenza lungo tempo si combatterono con dubbiosa
vittoria. Alla fine la virtù de’ nostri crebbe, e soprastette, de’
quali l’Arno molti ne prese, e inghiottì molti pedoni nello stretto
da piè, di cavalli guasti e magagnati: molti ne furono presi, molti
morti, nè prima fu fine alla fuga, che giunsono sulla porta di Pisa.
Quivi fu il grande scalpitamento, ed ivi li scorridori mescolati con i
nemici quasi si metteano nella porta, intra i quali era un trombettino
del nostro comune, il quale sonando, fu di saetta che venne dalle
mura ferito, e cadde da cavallo, allora i nostri per studio d’avere
il giglio del trombettino, perchè il segno non venisse alle mani de’
Pisani, agrissimamente si combatterono, ove oltre a venti dei nemici
furono morti e molti fediti, e la tromba col segno del trombettino
fu ricoverato: de’ nostri ne furono morti..... e otto presi, intra i
quali furono i detti due cavalieri novelli. Alla fine divisa la zuffa i
nostri a salvamento si ritornarono al campo, il quale era fermo a san
Sevino dalla parte sinistra sopra la riva dell’Arno, che san Sevino
era bene guardato; ed essendo molto del dì nelle dette cose consumato,
levate le schiere i nostri s’alloggiarono la sera nella villa di
Peccioli, e per la fatica del giorno stettono senza guardia, solo che
delle spie: il dì seguente il capitano rimandò della gente a cavallo e
a piè verso Pisa a fare quel danno poterono.

CAP. LV.
_Sagacità usata per i Pisani per non perdere Montecalvoli._
I Pisani ch’aspettavano la Compagnia bianca degl’Inghilesi, temendo
di Montecalvoli, il quale pochi giorni si potea tenere, usarono questa
malizia, che di notte segretamente facevano uscire di Pisa loro gente
d’arme, e la mattina polverosi li faceano ritornare, e li riceveano
a gran festa, sotto nome di gente della Compagnia bianca, stimando ne
seguisse quello ne seguì: e loro venne fatto, che i priori di Firenze
avendo la falsa novella per vera, subito con poco onore e del comune e
del capitano li feciono partire dall’assedio di Montecalvoli, il perchè
i Pisani il poterono liberamente fornire e rinfrescare: e ciò fu del
mese di giugno.

CAP. LVI.
_Come il re di Francia per paura della compagnia non osò per terra
tornare nel reame, ma tornò per acqua._
In questi giorni i pessimi uomini detti latronculi, noi in volgare
diciamo ladroncelli, nel reame di Francia tanto erano multiplicati
all’appoggio delle compagnie dell’arciprete di Pelagorga e del
Pitetto Meschino, che il re di Francia essendo ad Avignone non si
assicurò tornare per terra a Parigi, per loro danno si mise ad entrare
in Borgogna. Puossi assai aperto comprendere i vestigi del santo
Evangelio, ove dice: Saranno pestilenzie e fame per luoghi, e leverassi
gente contro a gente: e soggiugne: E gli uomini saranno amatori di sè
medesimi: e certo ogni radice di carità pare dispenta.

CAP. LVII.
_Della mortalità dell’anguinaia._
Nel presente mese di giugno, per vere lettere de’ mercatanti fu in
Firenze come in Egitto, e in Soria, e nell’altre parti di Levante la
pestilenza dell’anguinaia; gravissimamente offendea e in Vinegia, e in
Padova, e nell’Istria, e in Ischiavonia, non ostante che i detti luoghi
altra volta toccasse. Anche gravemente ritoccò nelle terre di Toscana,
e quasi tutte comprese, e in Firenze, già stata generale tre mesi per
tutto giugno con fracasso d’ogni maniera di gente.

CAP. LVIII.
_Come i Barghigiani colla forza de’ Fiorentini presono i battifolli._
Nel detto mese di giugno, essendo stata assediata Barga da’ Pisani
lungamente con tre battifolli, e Sommacolonna con due, e assai strette,
il capitano de’ Fiorentini essendo a oste a Montecalvoli trasse
dal campo cinquecento barbute con alquanti masnadieri, e diè boce
ch’andassono in Maremma per preda, e feceli conducere a Volterra, onde
i Pisani mandarono la loro gente in Maremma alla difesa, e costoro
furono condotti a Barga improvviso a’ Pisani; e sentendolisi presso
quelli di Barga, che n’aveano l’avviso, uscirono fuori a combattere
l’uno de’ battifolli. Avvenne che quelli degli altri due battifolli,
lasciando pochi di loro alla guardia de’ battifolli, trassono al
soccorso di quello ch’era combattuto. Aspra battaglia era tra loro
quando sopraggiunse la gente de’ Fiorentini; e trovò i due battifolli
sforniti, e presonlisi, e appresso percossono alle reni de’ nemici,
e con loro entrati nell’altro battifolle lo presono, e perseguitando
i nemici, pochi ne camparono, che non fossono morti o presi. Quello
che trovarono ne’ battifolli sì di vittuaglia come d’armadura misono
in Barga, e arsono le bastite, e il simile feciono di quelli di
Sommacolonna, e ciò fatto, la gente de’ Fiorentini si tornarono al
campo senza niuno impaccio.

CAP. LIX.
_Come morì messer Piero da Farnese._
Essendo entratala furia della pestilenza dell’anguinaia nell’oste de’
Fiorentini, molti n’uccise, molti ne indebolì, molti ne avvilì. Il
perchè essendo levato l’assedio da Montecalvoli, per comandamento de’
signori di Firenze, il capitano era in Castello Fiorentino, e quivi lo
prese il male dell’anguinaia a dì 19 di giugno, e il detto dì n’andò a
san Miniato del Tedesco, e quivi in sulla mezza notte passò di questa
vita, e il corpo suo in una cassa alle spese del comune fu recato in
Firenze, e posato a Verzaia, aspettando Ranuccio suo fratello per cui
era mandato; poi a dì venticinque del mese il corpo suo fu recato in
Firenze alle spese del comune con mirabile pompe d’esequie, le quali
furono di questa maniera
_Qui manca._
Poi seppellito fu nella chiesa di santa Reparata con intenzione di
farli ricca sepoltura di marmo. Valente uomo fu in arme, e saputo
e accorto con grande ardire, e leale cavaliere, e in fatti d’arme
avventuroso, e per certo ogni onore che fatto li fosse e per lo innanzi
gli si facesse lo merita.

CAP. LX.
_Dell’ammirabile passaggio de’ grilli._
Il dì primo di luglio, un vento schiavo temperato per dieci ore
continove del dì nelle parti di Pesaro, Fano e Ancona condusse
incredibile moltitudine di grilli, quasi come in passaggio per l’aire,
tanto stretti che ’l sole non rendea la luce se non come per una nuvola
non troppo serrata, e trovossi per quelli che la notte sopraggiunse che
molti l’uno portava l’altro. Dove presono albergo, cavoli, lattughe,
bietole, lappoloni, e ogni erba da camangiare la mattina si trovarono
tutte colle costole e’ nerbolini tutti bianchi, che a vedere era
cosa nuova. Perchè per lo freddo della notte non si poteano levare,
i fanciulli ne portavano le cannuccie coperte dal capo a piè, tanto
stretto l’uno sotto l’altro che non vi si sarebbe messo la punta
dell’ago. I grilli erano di lunghezza d’un dito colle gambe lunghe e
rosse, e l’alie grandi, col dosso ombreggiava in verde chiaro. Molti o
la maggior parte annegarono in mare, che ’l fiotto gittò alla marina,
i quali ammassati gittarono orribile puzzo, e trovossi che i pesci non
presono cibo di loro, e gli uccelli e gli altri animali insino alle
galline se ne guardarono.


PROEMIO DELLA CRONICA di FILIPPO VILLANI
_Nel quale racconta la morte di Matteo suo padre, e la cagione che lo
mosse a seguitare di scrivere._

In questi giorni la pestilenza dell’anguinaia prese il componitore di
quest’opera Matteo, e trovandolo di sobria e temperata natura e vita
il dibattè cinque giorni, in fine il duodecimo dì del mese di luglio
divotamente rendè l’anima a Dio. Il quale in tanto possiamo dire
meritevolmente essere da laudare, in quanto esso con lo stile che a lui
fu possibile non sofferse, che perissono le cose occorse nel mondo per
lo tempo che scrive degne di memoria, quindi apparecchiando materia a’
più delicati e alti ingegni di riducere sue ricordanze in più felice e
rilevato stile, qui a me Filippo suo figliuolo lasciando il pensiere di
seguitare su per infino alla pace fatta con i Pisani, per non lasciare
la materia intracisa, e così m’ingegnerò di fare la storia di tempo in
tempo, con l’altre cose occorse nell’altre parti del mondo le quali a
mia notizia perverranno.

CAP. LXI.
_Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese loro capitano di guerra._
Seguendo quanto mi sarà possibile lo scrivere di Matteo Villani mio
padre, per principio di mia perseguitazione ne tocca a scrivere, che
per lo grande amore che ’l comune di Firenze ebbe a messer Piero da
Farnese, senza rispetto de’ grandi pericoli che vedeano sopraggiugnere,
senza lunghezza di tempo puosono Ranuccio suo fratello, non perchè
’l conoscessono sufficiente e atto a tanto peso, ma per donarli quel
titolo per grazia dell’anima di messer Piero. Uomo era pro’ della
persona, e ardito e leale, ma poco sperto in guidare gente d’arme, e
nelli pronti avvisi che la guerra richiede.

CAP. LXII.
_Come gl’Inghilesi giunsono in Pisa._
Gl’Inghilesi ch’erano in Monferrato al soldo del marchese, col
procaccio di messer Galeazzo Visconti ebbono il passo per lo Genovese,
e col loro capitano messer Alberto Tedesco giunsono in Pisa il dì 18
di luglio. Honne fatta menzione, perchè dal non averli condotti come
messer Piero da Farnese consigliava molto di danno e di vergogna si
ricevette per lo nostro comune, come per l’innanzi leggendo apparirà.

CAP. LXIII.
_Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in sulle porte._
Nel detto anno a dì 25 di luglio, Ghisello degli Ubaldini capitano di
guerra de’ Pisani, con ottocento cavalieri di soldo, e con quattromila
pedoni tra di soldo e di volontà, e con molti gentili uomini e popolani
a cavallo che vogliosamente il seguirono, e messer Alberto Tedesco
capitano degl’Inghilesi, con duemila cinquecento uomini a cavallo e
duemila a piè si partirono di Pisa, e andarono a Lucca, e a dì 26 di
detto mese passarono per le montagne di Montaquilano, e scesono nel
piano di Pistoia nel dì di santo Iacopo; e a’ Pistoiesi non lasciarono
correre loro palio. Ben furono di tanto animo i Pistoiesi, che dissono,
in modo fu inteso dal capitano de’ Pisani, che mai il detto palio non
si correrebbe se non si corresse sulle porte di Pisa, e così addivenne,
come si troverà nella scrittura che per i tempi segue. Temettesi forte
non si strignessono alla terra, che senza dubbio a gran pericolo era,
sì per lo subito assalto, al quale niuna provvisione o riparo era
fatto, sì per la pestilenza dell’anguinaia, che assai cittadini tolti
avea, molti ne tenea in sul letto, e quelli ch’avea tocchi in vita
erano fieboli: la troppa voglia ch’ebbono d’impiccare gli asinini, e
fare le beffe muccerie, loro tolse il consiglio. Il seguente dì senza
prendere arresto se ne vennono a Campi e a Peretola, e quivi fermarono
il campo, poi colle schiere ordinate vennono insino al ponte a Rifredi;
e sentendo sonare le campane dal comune a stormo, gl’Inghilesi,
che secondo l’uso di loro paese pensarono che ’l popolo uscisse a
battaglia, temettono un poco, e rincularono, il perchè i Pisani feciono
correre il palio per traverso a Rifredi e tra le schiere. Più feciono
battere moneta, e al ponte a Rifredi impiccarono tre asini, e per
derisione loro puosono al collo il nome di tre cittadini, a ciascuno il
suo. Ecco in che i savi comuni di Firenze e di Pisa spendono i milioni
di fiorini, rinnovellando spesso queste villanie. Adunque impiccati
gli asini volsono le schiere, e tornaronsi a Campi e a Peretola. Ben
fece innanzi messer Alberto cavaliere Ghisello degli Ubaldini, messer
Giovanni de’ Guazzoni da Pescia con più altri, con grande gavazza di
gridare di stromenti, in parole altamente villaneggiando e dispettando
il comune di Firenze. Arsioni i Pisani che v’erano feciono assai,
ma non fuori di strada, lasciando le possessioni d’alcuno notabile
uomo popolare per far dire male di lui. Il seguente giorno, arso ciò
ch’aveano potuto fuori di Firenze e di Prato, passarono Arno, e arsono
il borgo alla Lastra, e per i monti di verso Valdipesa di notte si
partirono, e arrivarono nel piano d’Empoli, scorrendolo tutto con fare
quel male poterono, quindi per lo Valdarno con grande preda e copia di
prigioni senza essere loro a niente risposto si tornarono a Pisa. Da
indi a pochi giorni messer Ghisello passò di questa vita, e onorato fu
di sepoltura assai per i Pisani.

CAP. LXIV.
_Come si fermò pace dalla Chiesa a messer Bernabò._
Del detto anno del mese d’aprile si fermò la pace tra papa Urbano
quinto (che tanto vogliosamente, e tanto aspramente e vituperosamente
avea fulminate le sentenze contro a messer Bernabò) e il detto
messer Bernabò, per la Chiesa di Roma assai vituperevole, e onesta:
vituperevole, perchè si ricomperò dal tiranno ancora scomunicato, e
perchè a petizione del tiranno divise la legazione, dando Bologna e
Romagna in sua legazione all’abate di Clugnì, e togliendo a colui che
con tanto onore di santa Chiesa l’avea acquistata: onesta, perchè egli
come padre spirituale dee amare la pace e riconciliazione, e aprire
le braccia a chi vuole tornare alla misericordia, verificando in buona
parte il detto del poeta che dice: O tu che sol per cancellare scrivi:
nè per essa pace si ruppe a’ collegati promessa, e in loro potestà
rimase l’accettare. Poi appresso messer Bernabò rendè a santa Chiesa
Castelfranco, Pimaccio e Crevalcuore che tenea in sul Bolognese, e
ciò fatto i collegati con santa Chiesa accettarono la pace. L’abate
passò per Milano, e più giorni vi stette, dove fu alla reale in tutto
onorato, quindi ne venne a Bologna, ove col caroccio con molto onore e
festa fu ricevuto.

CAP. LXV.
_Dello stato della città di Firenze in que’ giorni._
E’ ne pare necessario dire in questo luogo, per quello che seguirà di
messer Pandolfo de’ Malatesti, il reggimento e governo della città di
Firenze in que’ tempi, il quale era venuto in parte e non piccola in
uomini novellamente venuti del contado e distretto di Firenze, poco
pratichi delle bisogne civili, e di gente venuta assai più da lunga, i
quali nella città s’erano alloggiati, e colle ricchezze fatte d’arti,
e di mercatanzie e usure in dilazione di tempo trovandosi grassi di
danari, ogni parentado faceano che a loro fosse di piacere, e con
doni, mangiari e preghiere occulte e palesi tanto si metteano innanzi,
ch’erano tirati agli ufici e messi allo squittino. Le grandi case
de’ popolari aveano i divieti; molti antichi e cari cittadini saggi
e intendenti erano schiusi dagli ufici, e quello che ne risultava
di peggio di loro governo era, che temendo di non essere ingannati e
consigliati per lo contradio da’ savi e pratichi cittadini che con loro
si trovavano agli ufici, essendo bene e utilmente consigliati, e con
amore e fede alla repubblica, sovente prendeano il contrario in danno
e vituperio del comune. Molti gioventù che non passava l’adolescenza,
si trovarono negli ufici per procuro de’ padri loro ch’erano nel
reggimento; e occorse, che facendosi lo squittino in que’ tempi si
trovò che de’ quattro i tre non passavano i venti anni, e per tali
furono portati allo squittino che giaceano nelle fascie. Le ammonizioni
sboglientavano, e gli odii pertanto e occulti e pregni teneano l’animo
de’ cittadini. Più, l’avarizia tanto tenea occupato l’animo di molti,
che con novi modi e ufici non necessari, e per altre coperte vie,
faceano al comune spendere i suoi danari. Le sette non quietavano, e
l’una all’altra per paura tenea l’occhio addosso: e così la repubblica
si trovava nelle mani del giovanile consiglio, negli occulti odii,
e ne’ desiderii delle private ricchezze. Se queste controversie e
confusioni non avessono allettato e sollevato l’animo del tiranno a
speranza di signoria assai sarebbe più da maravigliare, che tenendolo
in ciò occupato. Quelli che conduceano la guerra cassarono i soldati,
pensando a primo tempo riconducere a sofficienza, e cercavano d’avere
la Compagnia della stella, che di numero si ragionava passasse le
seimila barbute. Della Magna speravano trarre duemila barbute, delle
quali non n’ebbono che cinquecento, sotto il capitanato del conte
Arrigo di Monforte, e del conte Giovanni, e del conte Ridolfo suo
fratello, il quale era sfoggiato di grandezza, e menno, e però era
chiamato il conte Menno, e questi due si diceano stratti della casa
di Soavia. Non pensando trarre dalla Magna più gente, nè avere la
Compagnia della stella, e correndovi giorni, condussono messer Ugo
Tedesco valente uomo con mille uomini di cavallo, i quali, erano
giovani e prod’uomini, ma male armati e peggio a cavallo; fu a ciascuno
quando entrarono per lo comune donato una lancia nuova, perchè non
entrassono così brulli. Appresso condussono il conte Artimanno con
mille ragazzi, verificando il proverbio, a tempo di guerra ogni cavallo
ha soldo: vennono a mezzo il mese di febbraio in Firenze a rifarsi.

CAP. LXVI.
_Come i Perugini, per tema che la compagnia degl’Inghilesi non
soccorressono i loro rubelli assediati in Montecontigiano, condussono
la Compagnia del cappelletto._
Nel detto anno del mese di novembre, i Perugini, i quali aveano
condotta la Compagnia del cappelletto per venti dì, temendo che
gl’Inghilesi non soccorressono i loro usciti i quali erano assediati
in Montecontigiano, rafforzarono l’assedio, e in pochi giorni appresso
ebbono il castello. Il modo fu nuovo, che i detti usciti con i fanti
masnadieri che aveano seco feciono vista d’essere fuggiti, e tutti si
nascosono per le case, di che quelli dell’oste maravigliandosi, non
veggendo alle poste le guardie, mandarono alquanti infino alle porti,
e guatando per gli spiragli non viddono per la terra persona, di che
tornati al campo e detto il fatto, il campo a romore si mosse colle
scale a ire a prendere la terra: li usciti ch’erano pro’ come leoni,
insieme co’ loro fanti masnadieri lasciarono salire i loro nemici
in sulle mura, e quando li vidono in sulle mura uscirono delle case
francamente, e con raffi a ciò ordinati tirarono delle mura a terra
assai conestabili e valenti uomini che v’erano montati, e montarono in
sulle mura essi, e per forza ne levarono coloro che su v’erano saliti
con aspra e fiera battaglia, di che i Perugini si tornarono al campo.
Infra quelli che rimasono presi fu un cavaliere tedesco, che lungo
tempo era stato al soldo de’ Perugini, e fatto gli era grande onore;
costui andando un dì a sollazzo per lo castello con certi caporali
masnadieri, e’ fu da loro dimandato, che aveano di loro diliberato
i Perugini; il sagace cavaliere rispose, di mai non partirsi finchè
arebbono il castello, e d’impiccarli tutti; ma che s’elli voleano
campare, che poteano, dando loro gli usciti a’ Perugini, di che i fanti
per paura a ciò s’accordarono; e il seguente dì cominciarono questioni
con gli usciti, domandandoli se di niuno luogo aspettavano soccorso,
i quali risposono di niuno, onde i masnadieri loro dissono che
piglierebbono partito per sè, ed ebbono tra loro oltraggiose parole;
veggendo ciò messer Alessandro de’ Vocioli con sette de’ migliori
ch’erano con lui deliberarono di ricorrere alla misericordia, e con li
capestri in gola uscirono del castello e andarono al campo gridando
misericordia, e’ furono ricevuti: i signori di Perugia per fuggire
le preghiere mandarono quattro camarlinghi a Montecontigiano, i quali
il detto messer Alessandro con altri sedici cittadini di Perugia suoi
compagni e di buone famiglie quivi feciono decapitare.

CAP. LXVII.
_Come messer Pandolfo Malatesti venne con cento uomini di cavallo e con
cento fanti a servire il comune di Firenze per due mesi._
Conoscendosi per i Fiorentini che nell’impresa della guerra il comune
era senza capo e senza consiglio, e con gente d’arme di poco valore,
forte si cominciò a dubitare, e massimamente per coloro a cui potea
meritamente la perdita tornare nella testa; costoro co’ loro seguaci
furono a’ signori, pregandoli che provvedessono di capitano di guerra,
e loro puosono innanzi messer Pandolfo de’ Malatesti, il quale per
le sue savie e franche operazioni, contra il conte di Lando e sua
compagnia, come Matteo mio padre scrive di sopra, in Firenze avea
buona fama, e la grazia di tutti i cittadini, il quale di presente fu
eletto senza sospezione alcuna, e fatti gli ambasciadori ch’andassono a
portare l’elezione, e patteggiarsi con lui, e scritto gli fu in segreto
dagl’intimi suoi che venisse, che ciò che domandasse al comune arebbe,
ed esso ben sapeva la condizione della città, e l’infermità di essa
gli era negli occhi; onde ricevuti gli ambasciadori colla elezione li
lasciò a Pesero, ed egli n’andò dove era messer Malatesta, vecchio
e messer Malatesta giovane, e con loro più giorni stette in segreto
consiglio. Quali fossero i ragionamenti, l’opere di messer Pandolfo il
manifestarono. Tornato agli ambasciadori a Pesero, per meglio coprire
suo segreto mostrava per molte vie poca voglia di volere venire, e con
cautela disse non potea senza la licenza di messer di Spagna legato
di papa, ed esso medesimo per suo segreto messo infra pochi giorni
l’ottenne; e ciò fatto, venne alla pratica con gli ambasciadori di
quello volea, e le sue domande erano in gran parte sì spiacevoli e
disoneste, che gli ambasciadori del tutto si partirono da lui; ed
essendo per mettere i piè nella staffa, parendo a messer Pandolfo
avere mal fatto, li fè richiamare, e loro disse non intendea di venire
come capitano, ma come amico del comune volea venire a servirlo due
mesi, e così per gli ambasciadori fu accettato, e così venne ed entrò
in Firenze a dì 15 del mese d’agosto con cento uomini di cavallo e
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