Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 10

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pagare il re d’Inghilterra, di quello che per i patti della pace fare
li dovea: la terza domanda fu, che gli piacesse per mezzanità sua
seguire il trattato della pace con messer Bernabò, promettendoli di
fare stare contento messer Bernabò a quattrocento migliaia di fiorini,
i quali dovesse pagare la Chiesa al re in otto anni, cinquantamila per
anno, mostrando che ciò gli era in grande acconcio alle faccende che a
fare avea con il re d’Inghilterra, affermando che messer Bernabò glie
ne facea sovvenenza quel tempo che a lui piacesse: la quarta domanda
fu, che piacesse a sua santità dare opera che la reina Giovanna fosse
sposa del figliuolo. A questa ultima il papa prima rispose, che quanto
per sè esso n’era molto contento, e gli piacea, quando il figliuolo
dimorasse nel Regno, e prestasse il saramento e il debito censo a
santa Chiesa, e dove fosse in piacere della reina cui ne conforterebbe.
All’altre domande disse al re che n’arebbe suo consiglio, e che perciò
non bisognava ch’egli stesse, che a tempo li risponderebbe; e per non
avere materia di fare in dispiacenza del re, che avea chiesti quattro
cardinali, per le digiune nullo ne volle fare. Il re passò il Rodano
visitando le terre della Provenza, mal contento alle risposte del papa.

CAP. XXXIII.
_Di grande acquazzone che in Italia fè danno._
All’entrata di novembre per tutta Italia furono grandissime e continove
piove; in Lombardia ruppono gli argini del Po in più luoghi, e tutto il
paese allagarono con danno grandissimo de’ paesani; in Firenze ruppono
la pescaia della Porta alla giustizia, e il muro fatto per lo comune
per riparo della Piagentina, e stesonsi l’acque in essa profondandosi
forte, e vennono insin presso alle mura sopra la Porta alla giustizia,
a quelle tosto arebbono con la porta e colla torre del canto gittate in
terra, se non fosse stato il presto argomento di buoni maestri, i quali
con pali a castello e con altri ripari sollecitamente e di dì e di
notte puosono riparo.

CAP. XXXIV.
_Come il re di Cipro andò ad Avignone con tre galee._
Il dì tre di dicembre 1362, lo re di Cipro con tre galee apportato
andò ad Avignone al santo padre, per ordinare e dar modo con lui al
passaggio oltremare non ancora maturo; il perchè i saracini sentendo
suo cercamento, in Egitto, e in Damasco e in Soria presono molti
cristiani, e forte gli afflissono: e per tanto questi accennamenti sono
ai cristiani che di là praticano forte dannosi.

CAP. XXXV.
_Come morì Giovacchino degli Ubaldini e lasciò reda il comune di
Firenze._
Del mese di dicembre di detto anno, per uno fedele di Giovacchino di
Maghinardo degli Ubaldini rivelato gli fu, che Ottaviano suo fratello
l’avea richiesto, e tenea trattato di torli Castelpagano; Giovacchino
volle che il fedele seguisse il trattato, e procedendo a tanto venne
al fatto, che Giovacchino essendosi dentro fornito in modo che non
potea essere forzato, ordinò che il fedele al giorno dato mise i fedeli
e’ fanti di Ottaviano; Giovacchino fece serrare le porte, e mettere
al taglio delle spade quelli che dentro v’erano racchiusi. Occorse
ch’uno fedele di Ottaviano veggendosi in luogo da non potere campare,
disperando, come un verro accanato si dirizzò a Giovacchino, e lo
fedì nella gamba, della quale fedita di spasimo indi a pochi giorni
morì. Conoscendo Giovacchino il poco amore del fratello verso lui, e
ch’era cagione di sua morte, fè testamento, e lasciò erede il comune di
Firenze; il quale poi del mese di febbraio per suo sindaco, come giusto
e legittimo erede prese la tenuta di Castelpagano, e d’altre terre e
beni che s’apparteneano al detto Giovacchino.

CAP. XXXVI.
_Come il conte di Focì sconfisse e prese quello d’Armignacca._
Erano gare e questioni spiacevoli e gravi intra il conte di Focì e il
conte d’Armignacca, il perchè in fine ciascuno fece suo sforzo sì di
sua gente e sì d’amistà, e a dì 5 di dicembre ingaggiati di battaglia
si trovarono in sul campo all’Isola presso di Tolosa, e commisono
insieme aspra battaglia, la quale per la pertinacia della buona gente
che temeva vergogna sì dall’una parte come dall’altra durò per lungo
spazio di tempo, dove si trovò morti in sul campo tra dall’una e
dall’altra parte oltre a tremila uomini da cavallo, che ve n’ebbe mille
cavalieri e gentili uomini di rinomea, e a quello di Focì rimase il
campo, e quello d’Armignacca fedito rimase prigione, e con lui il conte
di Giagne, e il conte di Montelesori, e ’l signore di Libret con due
suoi fratelli, e il conte di Cominga, e più altri signori e gentili
uomini di nomea.

CAP. XXXVII.
_Come i Pisani vollono torre il campanile d’Altopascio._
I Pisani, come uso di guerra richiede, solleciti ad offendere loro
avversari, tutto che ’l verno soglia prestare triegua alle guerre
campali, a dì 8 di gennaio di detto anno con seicento cavalli e
duemila buoni pedoni si strinsono al campanile d’Altopascio, che
l’altro per loro era stato arso, come di sopra narrammo, e quello
assediarono, ma assediati dalla durezza del verno finiti i cinque
giorni lasciarono l’impresa, il perchè i Fiorentini a’ 17 dì del
mese, il dì di santo Antonio, veggendo che i Pisani s’erano partiti
dall’assedio, considerando che la fortezza era stecco nell’occhio al
Pisano, vi mandarono il conte Francesco da Palagio con venticinque
uomini a cavallo e dugento fanti, e con molti maestri per riporre
il castello sotto la sicurtà del campanile: i Pisani, che vicini
erano al luogo, sentendo il fatto, con seicento cavalieri e duemila
masnadieri assalirono i nostri, i quali trovarono sospesi e attenti al
lavorio, i quali per lungo spazio di tempo francamente si difesono come
prod’uomini, ma il proverbio è pur vero che i più vincono, i Pisani
per le rotture del muro si misono dentro, onde i nostri non potendo
sofferire pensarono a ritrarsi a salvamento, de’ quali cento e più si
fuggirono nel campanile, gli altri alle terre del comune di Firenze
vicine ad Altopascio; e in tanta zuffa non vi furono morti che sei,
uno dalla parte fiorentina e cinque dalla parte de’ Pisani, magagnati
e fediti d’ogni parte ne furono assai. La nostra gente da cavallo che
già sentito avea il romore traeva al soccorso, e traendo caddono ne’
guati che per i Pisani erano messi, e rimasonne otto presi, i quali
agli altri scopersono i guati. I Pisani ciò fatto a dì 27 del mese si
partirono e arsono quello che rimaso era da ardere fuori del campanile,
e partiti di là si puosono a oste a Castelvecchio, e i Fiorentini
armati, e ciascuno in distanza di piccolo tempo se ne partì senza fare
frutto niuno.

CAP. XXXVIII.
_Come in Firenze s’ordinò tavola per lo comune per servire i soldati._
Gl’ingordi e disonesti usurieri, che sotto colore di prestanza
sovvenieno i soldati di loro comune, portavansene i loro soldi, l’arme
e’ cavalli, il perchè il comune ai suoi bisogni non li potea avere
cavalcati; mosse il comune a fare banco, il quale con danari del
comune potesse sovvenire a’ soldati, e del mese di febbraio 1362 fu
ordinato co’ suoi ufiziali, i quali, nel detto anno in calen di marzo
cominciarono l’ufizio, ed ebbono al cominciamento del banco dal comune
quindicimila fiorini.

CAP. XXXIX.
_Come i Pisani vollono torre santa Maria a Monte._
A dì 26 del mese di gennaio, il capitano de’ Pisani Rinieri del Bussa
da Baschi con ottocento cavalieri e tremila pedoni cavalcò a santa
Maria a Monte, e considerando che per due ponti ch’erano sulla Gusciana
i Fiorentini poteano soccorrere il castello, quelli prestamente
tagliarono, e nel pieno della notte assalirono il castello da due
parti, e con aspra battaglia e gran romore per molto spazio di tempo
il combatterono, e per i soldati del comune e per i terrazzani furono
villanamente ributtati, avendo già poste le scale alle mura del borgo,
e assai ne furono morti e magagnati colle pietre e co’ balestri; e
sopravvegnendo il giorno, veggendosi perduta la speranza della terra,
cominciarono ad ardere e fare preda per lo paese: avendo di ciò boce
messer Ridolfo da Camerino allora capitano de’ Fiorentini trasse al
soccorso; i Pisani non lo attesono.

CAP. XL.
_Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato._
La sagacità de’ Pisani non trovava posa, ma con solleciti modi e
occulti trattati per torre delle terre de’ Fiorentini, e avendo del
mese di febbraio 1362 per danari corrotte certe guardie diputate a
certa parte delle mura di Pescia, nella mezza notte con scale assai,
e con cinquecento uomini di cavallo e con duemila fanti eletti, con
molto ordine s’accostarono alle mura della terra che guardavano i
traditori tacitamente, che quelli d’entro niente ne sentirono. I
traditori come li sentirono, che stavano a orecchi levati, uccisono le
guardie ch’erano con loro alle poste ignoranti del tradimento; onde i
Pisani avendo poste le scale sicuramente salivano, e già assai n’erano
in sulle mura. Occorse per fortuna, che quegli che andava rassegnando
le guardie in quello stante vi sopraggiunse, e scoperta la baratta in
istante levò il romore, e svegliata la terra, quelli ch’aveano prese
le mura impauriti se ne fuggirono, e le guardie del trattato con loro
insieme, e la gente de’ Pisani si ridusse a salvamento alle terre loro.

CAP. XLI.
_Come papa Urbano pubblicò in Avignone i processi fatti contro a messer
Bernabò._
All’entrata del mese di marzo 1362, papa Urbano quinto in Avignone
pubblicò il processo che fatto avea contro a messer Bernabò, e avanti
che pronunziasse, gli ambasciadori di messer Bernabò e i suoi avvocati
comparirono e dierono boce che v’era messer Bernabò, onde il papa
prolungò il termine per infino a di 4 di marzo, e di nuovo lo fece
citare, facendo cercare per suoi mazzieri tutta la corte, e il venerdì
4 di marzo mandò due cardinali in persona a fare cercare il palagio e
l’udienza, e tutto per lo detto messer Bernabò; in fine fatto armare
tutta sua famiglia e i Lombardi cortigiani a guardia della corte,
fece consistoro e sermone sopra i fatti di messer Bernabò con alto e
nobile parlare, dolendosi delle sue eresie e delle sue infedeltà, e
appresso fè pubblicare il processo suo, nel quale il condannò come
eretico e infedele in molti articoli, e lo pronunziò scismatico e
maladetto di santa Chiesa, privandolo di tutti onori, dignitadi,
titoli, e privilegi, e giurisdizioni, e assolvendo dal giuramento tutti
i sudditi suoi, annullando tutti i privilegi imperiali che avesse
per successione, e che gli fossono conceduti in persona, e ogni e
qualunque avesse per altro modo, e privollo del matrimonio liberando la
moglie come cristiana dal marito eretico e infedele: e nella sentenza
involse chiunque li desse consiglio, aiuto e favore, e i sudditi se
l’ubbidissono, e chi lo servisse in arme per soldo o in niuno altro
modo, o contro alla Chiesa di Dio s’operasse; e concedette indulgenza
di colpa e di pena a quelli che fossono confessi e pentuti a chi contra
lui prendesse la croce quando fosse predicata, e in essa sentenza
orribile involse i descendenti, come nati di sangue eretico e infedele.
Pronunziata la sentenza il santo padre si levò ritto, e misesi in
ginocchione colle mani giunte e levate al cielo, e come vicario di
Gesù Cristo invocò l’aiuto suo, e di M. S. Piero e di M. S. Paolo, e di
tutta la celestiale corte, pregando che come avea il tiranno infedele
e crudele legato in terra con sua sentenza come vicario di Cristo e
successore di san Pietro, così essi lo legassono in cielo. Lo re di
Francia, ch’era in corte a procurare per lo tiranno, e ’l procurò in
sua utilità si tornava, forte se ne scandalizzò, e molti cardinali
i quali erano suoi protettori in corte e provvisionati nel segreto
assai malcontenti ne furono, avendo più caro loro occulta prefenda che
l’onore di santa Chiesa.

CAP. XLII.
_Come morì messer Simone Boccanera primo doge di Genova._
A dì 13 di marzo di detto anno, essendo gravemente malato messer Simone
Boccanera doge di Genova, e correndo la boce ch’egli stava male, il
popolo prese l’arme, e chiamò venti popolani, i quali domandarono in
guardia il palagio del doge, e a dì 14 del mese v’entrarono e trassonne
circa a trecento tra parenti, e famigli e amici del doge, e nel palagio
lasciarono lui, e la moglie e’ figliuoli, e questi venti che teneano il
palagio elessono altri sessanta popolani al consiglio loro, e con loro
consiglio e favore crearono nuovo doge, lo quale fu messer Gabbriello
Adorno mercatante di buona condizione e fama, il quale vollono, che
campasse o morisse messer Simone Boccanera, fosse doge; e ciò fatto
riposò il popolo, e puose giù l’arme, e i gentili uomini e gran case
di tutto niente si travagliarono. Durando nella infermità il Boccanera,
furono creati sei sindachi ch’avessono a ricercare le ragioni de’ suoi
ufici, e infine tra per l’oppressione de’ sindachi, e chi disse, e
forse non mentì, aiutato, assai miseramente passò di questa vita, e il
corpo suo con due bastagi e un famiglio fu portato alla chiesa. E tale
fu il fine del valente e famoso uomo della primizia de’ dogi di Genova.

CAP. XLIII.
_Come fu morto il conte di Lando._
Avendo del mese di marzo la Compagnia bianca tolto un castello a
messer Galeazzo, ed egli vi mandò in soccorso il conte di Lando con
quattrocento barbute; per scontrazzo s’abboccò con gl’Inghilesi e fu
sconfitto, e morto d’una lancia di posto nel petto. E tale fine trovò
colui che capo di compagnia famoso, più volte avea liberamente corsa
gran parte dell’Italia con fare ogni uomo ricomperare.

CAP. XLIV.
_Come Bernabò Visconti fu dalla gente della lega sconfitto alla bastita
a Modena, e come la perdè._
A dì 16 d’aprile 1363, Bernabò eretico per sentenza del santo padre,
con duemilacinquecento cavalieri di sua gente eletta venne per
fornire la bastita che tenea sul Modanese, la quale era assediata
e forte stretta dalla gente della lega de’ Lombardi, e giugnendo la
mattina, preso in prima agio, rinfrescamento e ordine, colle schiere
fatte, anzi si strignesse alla bastita, ne fece subitamente rizzare
un’altra non molto di lungi dalla Negra; la bastita era dificata in
forma che non s’avea se non a conficcare: la gente de’ collegati bene
capitanata e in punto, con due forti campi intorno alla bastita con
due lati e profondi fossi, l’uno lungo il campo, e l’altro di fuori
alla tratta del balestro, sicchè bene si potea la gente della lega
tra’ due fossi schierare. Il tiranno colla forza di sue schiere passò
il primo fosso, onde convenne a quelli ch’erano tra le barre per
paura rifuggire ne’ due campi, e lasciarono fornire la bastita, dove
mise il tiranno trentasei carra di fornimento; e ciò fatto Bernabò
se n’andò a Crevalcuore per sollecitare il resto del fornimento,
e a’ suoi impose che attendessono la notte prima si partissono, ma
Anichino di Bongardo partito Bernabò disse, che poichè fatto avea il
servigio per che era venuto quivi non intendea albergare, e si mosse
con ottocento barbute. I capitani della lega imbaldanziti, veggendo i
modi che teneano i nemici in sconcio e male ordinati, essendo in punto
colle schiere fatte e bene capitanati, le brigate coraggiosamente
percossono a loro. La battaglia per la eletta gente di Bernabò fu
aspra, la quale durò infino all’ora di vespero, e allora, come fu il
piacere di Dio, la gente de’ collegati vinse; assai furono i morti, e
non de’ minori. Presivi furono messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di
Bernabò, messer Lodovico dall’Occa da Pisa, messer Guglielmo de’ Pigli
da Modena, messer Sinibaldo degli Ordelaffi da Forlì, messer Guglielmo
Cavalcabò, messer Giovanni Penzoni da Cremona, messer Guido Savina,
messer Ghiberto da Correggio, Antonio da Santovito figliuolo di messer
Ghiberto da Fogliano, Beltramo de’ Rossi da Parma, Guglielmo Aldighieri
da Parma, messer Andrea de’ Peppoli, messer Niccolò Pallavicini,
messer Giovanni dalla Mirandola, messer Giovanni Bolzoni di Milano
ricco di quattrocentomila fiorini, Antonio d’Ungheria, Luchino de
Asalis da Milano, Piero da Correggio, Guido da Foiano, Mocolo dalli
Pelagri, Alessandro da Verona, Giovanni Scipioni, Paolo Zuppa da Parma,
Maffiuolo da Labro di Milano, Damulo Dusmago di Milano, Baroncio del
maestro Manno, e altri nomati infino nel numero di trentotto: a bottino
mille cavalli e molti prigioni. Quinci seguì, che quelli della bastita
non essendo forniti, Bernabò non avendo possanza di soccorrerli,
s’arrenderono salve le persone.

CAP. XLV.
_Come i Pisani vollono torre Barga._
Partito all’entrante di marzo 1362 messer Ridolfo da Camerino, venne
in Firenze per capitano di guerra in suo luogo messer Piero da Farnese
senza pompa, se non quanto a uso militare si richiede, e veduto e
ricevuto fu con buono volto. I Pisani con sollecitudine seguendo
giusta loro possa ogni atto di guerra, sentendo che messer Ridolfo
avea fornito per tutto il mese di febbraio suo capitanato, e tutto che
avesse francamente e come valente uomo lealmente esercitato suo uficio,
con poco onore s’era partito, e mal contento, e con fama di poco leale
cavaliere, e che messer Piero da Farnese uomo coraggioso e per lunga
esperienza grande maestro di guerra era giunto in Firenze, immaginando
che innanzi che messer Piero fosse informato della intenzione del
comune, e innanzi che fosse in atto da poterli offendere che poteano
usare il tempo della guerra a loro vantaggio. E pertanto domenica
d’ulivo, dì 27 di marzo 1363, fatto tutto il loro sforzo con mille
cavalieri e quattromila pedoni nel pieno della notte con molto ordine,
con scale e altri ingegni s’accostarono a Barga senza niuno sentore de’
terrazzani, tanto fu netto e presto l’assalto, e presono gran parte
delle mura, e lo spedale che è accostato ad esse, e già aveano rotte
parte delle mura allato allo spedale per mettere dentro i cavalieri. I
terrazzani svegliati al rompere del muro, non inviliti per l’improvviso
assalto, presono l’arme, e per lo naturale odio tra loro e’ Pisani, per
non venire alle loro mani, e gli uomini e le femmine raddoppiarono le
forze, e francamente cominciarono la battaglia; ma tanti erano i nemici
ch’erano montati sullo spedale e in sulle mura vicine allo spedale,
che cacciare non li ne poteano, ma come uomini per lunga esperienza di
guerra dotti, con presto e buono avviso affocarono di sotto lo spedale,
onde fu necessità a’ nemici, tra per lo gran fumo, e per la vampa della
paglia de’ letti dello spedale la quale subito aspettavano, abbandonare
il muro, per il quale aveano la salita dello spedale, e lo spedale
ancora. Di loro alquanti ne rimasono morti, molti ne furono fediti. I
Pisani levati dal pensiero d’avere la terra per quella via si misono a
porvi l’assedio, e puosonvi tre battifolli forti e bene apparecchiati
a offesa e a difesa, pensando d’averla per lunghezza d’assedio, perchè
molto era lontana dal soccorso de’ Fiorentini, il quale convenia che
passasse per lo distretto loro. Sentissi che con tanta sollecitudine
presa aveano questa per cambiarla con Peccioli, la quale teneano i
Fiorentini in sulle ciglia di Pisa.

CAP. XLVI.
_Come messer Piero da Farnese credette torre Lucca a’ Pisani._
Poichè messer Piero da Farnese capitano de’ Fiorentini ebbe
l’informazione dell’intenzione del comune, e dello stato della guerra,
si partì di Firenze, e andò in Valdinievole dov’era il forte della
gente dell’arme de’ Fiorentini, e da essa ricevuto fu a grande onore
per le sue virtù conforme a gente d’arme, e di presente si dispose
all’asercizio dell’arme: e avendo rispetto alla natura de’ Pisani
sottratta e vaghi di trattati, per contrappesare a’ loro ingegni,
e tenerli in paura, cercò trattato in Lucca, e quello menando
sollecitamente, e con sollecitudine avendo la ferma la notte de’
12 d’aprile, con duemila barbute e con cinquemila fanti si mosse da
Fucecchio, e cavalcò sotto il Ceruglio dal Colle delle donne, e all’ora
data giunse alle porte di Lucca. I Pisani, o che avessono presentito
il fatto, o che per la buona guardia sentissono il romore della gente
e de’ cavalli, erano pronti alla difesa, e aveano corsa la terra, e
presi quarantadue cittadini e certi forestieri. Messer Piero sentendo
scoperto il trattato, e la terra ben guarnita alla difesa, senza fare
arsione o preda in sul Lucchese, che liberamente far lo potea, il
giorno medesimo per la diritta via si tornò a Pescia. I Pisani assai
de’ presi decapitarono, e assai degli altri mandarono a’ confini,
stando con più sollecitudine alla guardia di quella, e dell’altre loro
terre, e non di manco aveano l’assedio a Barga, alla terra di Gello, e
a Castelvecchio, dove il capitano cavalcò, e fornillo per quattro mesi.

CAP. XLVII.
_Come i Pisani presono per forza il castello di Gello sul Volterrano._
Rinieri d’Ugolinuccio, detto Rinieri del Bussa da Baschi capitano
de’ Pisani, uomo d’alto cuore e sollecito guerriere, a dì 12 del mese
d’aprile si mosse da Pisa con cinquecento cavalieri e duemila pedoni
eletti, intra i quali furono molti balestrieri di Gera, e si mosse
per la Maremma, e con molto ordine assalì il castello di Gello non
provveduto, e dibattuto assai per lo assedio. Il castello è di cento
famiglie assai forte, e per luogo ben situato a difesa, e quello per
lungo spazio di tempo combatterono, e quello per forza vinsono con
assai morti e magagnati, e di quelli d’entro e di quelli di fuori.
Vinta la terra si dirizzarono alla rocca, che era forte e ben guernita
alla difesa, e la combatterono per lungo spazio, tanto che quasi non
era fante nella rocca che dalle buone balestra non fosse fedito, i
quali disperati di soccorso, il quale colla sollecitudine di messer
Piero giugnea, s’arrenderono salve le persone. Rinieri fornito il
castello di gente atti a tenerlo se ne tornò a Pisa.

CAP. XLVIII.
_Come i Pisani condussono la Compagnia bianca degl’Inghilesi._
Come narrato avemo nell’addietro, la Compagnia bianca degl’Inghilesi
sotto il capitanato di messer Alberto Tedesco, in numero di
tremilacinquecento uomini da cavallo e duemila a piè, erano al servigio
del marchese di Monferrato contro a messer Galeazzo Visconti, il quale
più tenere non li potea, e messer Galeazzo volentieri la si levava da
dosso, e i Pisani che si vedeano nel fondo, e venire al disotto della
guerra, loro ambasciadore aveano a messer Galeazzo, come a singolare
amico e protettore, e per aiuto e soccorso contro alla forza de’
Fiorentini, e risposto avea che fare non potea servando sua fede contro
i Fiorentini, ma che se voleano conducere la compagnia degl’Inghilesi,
la quale di corto finia sua ferma, ed era per prendere viaggio, che
loro ne sarebbe buono, e li dicea il cuore di poterlo fare: a questo
gli ambasciadori ch’aveano il mandato larghissimo assentirono. I
Fiorentini essendo di ciò avvisati, lentamente cercarono per uno
Giovanni Buglietti Fiorentino, lungo tempo stato in Inghilterra, e
guida della detta compagnia in Italia, la condotta di detti Inghilesi,
e per l’amistà e usanza de’ Fiorentini che stavano e praticavano
nell’isola d’Inghilterra, gl’Inghilesi si vollono alloggiare co’
Fiorentini per diecimila fiorini meno che non feciono co’ Pisani, e più
tempo tennono sospesa la condotta de’ Pisani, aspettando conducersi co’
Fiorentini; nella quale sospensione, essendo messer Piero da Farnese in
Firenze, per i governatori de nostro comune li fu sopra questa materia
chiesto consiglio, il quale rispose: Io non credo che per altrettanta
di gente Cesare la vedesse migliore, nata e allevata in guerra,
argomentosa in maestria di guerra, e senza niuna paura; affermando
senza dubbio, che chi li avesse e li potesse sostenere non lungo tempo
senza fallo sarebbe il superiore della guerra. Ciò udito nel processo
della condotta, quanto l’animo de’ collegi e degli altri governatori
della città inclinassono a prenderli, il gonfaloniere della giustizia
s’oppose, con dire, e chi pagherà? e fu l’autorità sua tanta, e di chi
lo seguì dell’ordine suo, che sturbò la condotta. I Pisani savi e non
lenti di presente la condussono in forma di compagnia per quattro mesi,
a ragione di fiorini diecimila il mese di soldo.

CAP. XLIX.
_Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer Piero da Farnese avea
mandati in Garfagnana._
Parendo a messer Piero da Farnese ragionevolmente non potere avere
battaglia di campo co’ Pisani, la quale sommamente desiderava per
mostrare sua virtù e provare sua ventura, avanti che la Compagnia
bianca condotta per i Pisani giugnesse, contra i quali non sperava
potere tenere campo, tenne trattato con certi di Garfagnana e fece loro
rubellare Castiglione e certe altre castella, e avendo di ciò il certo,
per fornirle di gente e di vittuaglia vi fece cavalcare Spinelloccio
de’ Tolomei da Siena per capitano, e Currado di messer Stefano da
Iesi, con certi altri conestabili, e con trecento uomini di cavallo,
e dugento masnadieri di soldo. I Pisani sentendo della ribellione
delle castella, e immaginando che per i Fiorentini si dovessono
soccorrere per lo loro capitano, prestamente e con tutta loro forza
misono uno aguato, dove vedeano che i nostri accampare si doveano.
Passò in Garfagnana Spinelloccio con la detta gente senza contasto, e
accamparonsi dove doveano, e come Rinieri s’era pensato per fornire le
dette castella; Rinieri come li vidde infaccendati e occupati intorno
all’accamparsi, e in atto di poterne avere il migliore, coll’aguato
grosso e ordinato uscì loro addosso, e dopo lunga e fiera battaglia gli
ruppe. La gente era buona, e veggendosi per lo soperchio de’ nemici in
rotta, si ridussono in su un poggio vicino dove era stata la zuffa,
e d’onde potea loro essere il passo sicuro per tornarsi a’ suoi: i
Pisani francamente seguendoli si sforzavano a tor loro il passo, e
fatto lo arebbono, ma i detti Spinelloccio e Currado seguitando l’orme
degli antichi e buoni Romani, come franchi, leali e buoni uomini di
subito si gittarono a piè, e si misono alla difesa del passo, e facendo
maraviglie di loro persone, e tanto lo tennono, che per lo stretto la
gente de’ Fiorentini si ricolse, in modo che pochi impediti ne furono.
Spinelloccio e Currado, poi che vidono la brigata a loro commessa in
luogo che non poteano ricevere offensione, s’arrenderono a prigioni.

CAP. L.
_Come Rinieri da Baschi colla gente de’ Pisani fu sconfitto e preso da
messer Piero da Farnese._
Parendo a messer Piero da Farnese avere doppia vergogna, sì per le
castella perdute, sì per la gente sbaragliata in Garfagnana, in forte
pensiere, e come potesse sua onta vendicare, onde domenica mattina a
dì 7 di maggio 1363, essendo cavalcati in verso il Bagno a Vena con
ottocento tra Ungari e altra buona gente di cavallo, e con ottocento
fanti eletti, il capitano de’ Pisani sentendo la cavalcata, non meno
coraggioso e voglioso che messer Piero, i quali amendue si studiavano
di fare innanzi la venuta degl’Inghilesi, raunò della gente da cavallo
de’ Pisani circa a seicento, e pedoni assai, e continovamente da Pisa
li cresceva forza, per torre alla detta gente de’ Fiorentini il passo
a san Piero, e colle schiere fatte si pararono innanzi a messer Piero,
perchè non potesse tornare, e di dietro e da lato da Pisa traeva
gente senza numero alle spalle a messer Piero per combatterlo dinanzi
e di dietro. Vedendo messer Piero davanti da sè i nemici schierati
in sul campo, veggendo che quello che desiderato avea gli venia
fornito, di presente ordinò le schiere sue, e perchè il luogo dove
combattere doveano era pieno di solchi, impedì il ferire delle lance,
onde confortati i suoi a ben fare colle spade in mano fieramente si
percosse sopra i nemici, i quali non con meno cuore gli ricevettono.
La battaglia fu dura e aspra, e la prima schiera de’ Fiorentini fu
ributtata per difetto degli Ungari due volte, ma rannodati ruppono
la prima schiera de’ Pisani, ma i rotti si ridussono alle spalle
dell’altre loro schiere, e con la forza di molti pedoni tratti loro in
aiuto percossono francamente sopra i Fiorentini. Messer Piero sgridati
e confortati i suoi a ben fare con la sua schiera si mise sopra i
nemici, lasciando l’insegne nel mezzo, ed egli dinanzi con i più eletti
cavalieri. Indurando la battaglia, messer Piero fè a dugento cavalieri
fedire i nemici per costa, i quali non avendo resistenza, ne vennono
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