Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 06

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pace non si rimaneano di far danno e noia alla strada, cavalcarono
sopra di loro, e raccolsono preda, e feciono danno nel paese. Gli
Ubaldini gli lasciarono cavalcare, e ridussonsi a’ passi, e alla
ritratta assalirono i Bolognesi, e rupponli, e racquistarono la preda,
e vendicarono loro ingiuria. I Bolognesi all’uscita di novembre detto
anno ricavalcarono con più ordine e forza sopra loro, e arsono e
guastarono più e più villate, e senza contasto si tornarono a casa.

CAP. LXXXII.
_Del trattato delle compagnie che doveano entrare in Avignone._
La compagnia spagnuola accozzata con un’altra in Provenza aveano
trattato con certi forestieri di più lingue ch’erano in Avignone come
di furto potessono entrare nella città, dove speravano fare il sacco,
ma non fuori di misura, con l’aiuto di quelli d’entro, che prometteano
dare l’entrata, e per questa cagione di subito cavalcarono, e vennono
infino presso alla città. La cosa si scoperse perchè era vogliosa,
e con poco ordine e meno forza: dentro furono presi circa a trenta;
alcuni ne furono decapitati, e alcuni impiccati, e la compagnia si
tornò addietro senza fare altro danno, e per l’innanzi in Avignone si
fè più sollecita guardia, e ciò fu all’uscita del mese di novembre del
detto anno.

CAP. LXXXIII.
_Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi puosono l’assedio, dove
stando vollono torre Sommacolonna per incitare i Fiorentini a guerra._
Fu di sopra a suo luogo narrato, come i Pisani per soperchio d’astuzia
aveano costretto i Fiorentini levare il porto da Pisa e recarlo
a Talamone, e tutto ch’a’ Fiorentini sconcio e spesa fosse, tutto
lietamente si comportava, mostrando a’ Pisani che poteano fare senza
loro. E del fatto a littera ne seguiva quello che Piero Gambacorti
detto n’avea a quelli mercatanti che al detto tempo si trovarono su il
Rialto in Vinegia, dove il detto Piero era confinato quando la novella
vi venne, che fu in questa maniera: Fiorentini, Fiorentini, se state
fermi in vostro proponimento, Pisa in piccolo tempo diventerà un bosco:
e veramente così ne seguia, perocchè essendo partiti i Fiorentini da
Pisa, tutti coloro che con loro mercatavano e trafficavano, con quelli
ch’a’ loro servigi rispondeano aveano fatto il simigliante, il perchè
le case, i fondachi, e la terra tutti rimaneano oltre a mezza vota, e
i mestieri degli artefici in gran dannaggio, onde il soprassenno de’
Pisani raccortosi di suo errore cercò per molte vie oneste e piacevoli,
e a’ Fiorentini vantaggiose e onorate, di ritornarli a Pisa, e ciò non
potendo ottenere, e seguendo del fatto, che quelli che teneano lo stato
e governo della città n’erano caduti nell’odio e mal volere del popolo
e de’ mercatanti, e stavano in paura del perderlo, avendo del continovo
alla coda gli aderenti, seguaci e amici de’ Gambacorti, i quali erano
di fuori e li sollecitavano; onde essi sottilmente pensarono di fare
disfare due chiovi a uno caldo col fuoco della guerra, l’uno, di
unire il popolo consueto nemico de’ Fiorentini e sopra modo parziale
con la guerra, l’altro, che seguendo pace della guerra, come suole,
patteggiare nella pace la tornata del porto: e per dette cagioni con le
loro vie coperte e sagaci, per non parere d’essere i motori al rompere
della pace, presono questa cautela, che una volta e più fittizziamente
e simulatamente bandeggiarono di loro cittadini, contadini e
distrettuali, uomini atti a cercare mutazioni e riotte, nominati e di
seguito, disposti a fare piuttosto il male che ’l bene, e questi in
diversi luoghi e tempi tolsono certe tenutelle del distretto del comune
di Firenze di poca importanza; onde il comune secondo i tempi più volte
ne mandò ambasciadori a’ Pisani, e quello ne rapportavano era: E’ ce
ne pesa, sono nostri forbannuti, e loro appresso di voi semo acconci a
perseguitare infino a morte e desolazione. Il comune di Firenze per non
essere abominato di corrompere la pace se la portava pazientemente, e
con infignere di non se n’avvedere; nè pertanto si rimaneano i Pisani
di seguire la mala regola presa, cercando al continovo per questa via
di torre delle terre a’ Fiorentini, e non delle peggiori, il perchè
a’ Fiorentini fu forza a prendere loro costume, e con un Giovanni da
Sasso famoso caporale e atto all’arme feciono tentare segreto trattato,
che togliesse a’ Pisani il castello di Pietrabuona, il quale è vicino
a Pescia, e così seguì, avendo prima per colorati misfatti ricevuto
bando a Firenze della persona. A’ Pisani parendo loro avere ottenuto
loro talento subitamente con grande ordine e sforzo assediarono il
castello per forma, che niuna forza d’arme glie ne arebbe potuti
levare, nè tor loro non lo racquistassono. Stando al detto assedio,
veggendo non bastavano l’occulte a incitare e muovere i Fiorentini alla
guerra, vennero alle aperte, e del mese di gennaio preso loro tempo si
credettono furare Sommacolonna, e cavalcaronvi sforzatamente, ma non
venne loro fatto. E per arrogere all’ingiuria, avendo i Fiorentini loro
gente alla guardia di Pescia e dell’altre terre della Valdinievole,
certi conestabili de’ loro a loro diletto usavano d’andare il dì
sul poggio della Romita sopra a Pietrabuona, il quale era terreno
de’ Fiorentini, e ivi si stavano a vedere badaluccare e gittare i
trabocchi; i Pisani posto loro aguati li assalirono e uccisonne sette,
e gli altri ne menarono a prigioni, e diedono palese e aperto principio
della guerra.

CAP. LXXXIV.
_Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla compagnia bianca co’ suoi
baroni, e ricomperaronsi con gran quantità di moneta._
In questo medesimo tempo, essendo venuto il conte di Savoia di qua
da’ monti a una sua terra che si chiama...... con molti baroni e
cavalieri di sua contea, non prendendosi guardia, la compagnia bianca,
la quale era vicina a quelli paesi, si mosse una notte facendo molto
lungo e disordinato cammino, e sorprese il conte e’ baroni alla terra
senza alcuna resistenza, salvo che ’l conte con pochi si rifuggì nel
castello, gli altri tutti furono prigioni: e il conte assediato e
sprovveduto, veggendosi a mal partito, trasse accordo, e tra di sè e di
suoi baroni, e de’ cittadini della terra e delle cose loro, che tutto
era in preda, venne a composizione di dare alla compagnia in diversi
termini fiorini centottantamila d’oro, parte allora, e del resto
fermezza, sicchè tutto lasciarono, e tornarsi in Piemonte.

CAP. LXXXV.
_La cavalcata che Piero Gambacorti fè sopra i Pisani._
Essendo Piero Gambacorti in Firenze, e avendo da’ suoi amici di Pisa
sollecito conforto, che procacciasse d’appressarsi alla terra con
alcuna forza, dicendo, che dove i cittadini il sentissono farebbono
novità contro i reggenti, ch’erano comunemente mal voluti. Avvenendoli
per caso che all’uscita di gennaio a Firenze erano col conte Niccola
Unghero settecento Ungari usciti del Regno, i quali doveano andare in
Piemonte in servigio del re Luigi, ma non avendo loro paga ordinata
per lo re cercavano condotta, e i Fiorentini non li voleano, perchè non
n’aveano bisogno, e non voleano un capo con tanta gente d’una lingua;
in questo a Piero Gambacorti crebbe l’animo per lo conforto de’ suoi
amici, e condusse questo conte co’ suoi Ungari, ed ebbe alcuno aiuto
da certi usciti di Lucca, e seguito di più di dodici centinaia di
fanti, niente essendoli contradetto dal comune di Firenze, e a dì 27
di gennaio uscirono di Firenze, e a dì 28 furono in Valdera, e certe
terricciuole l’ubbidirono, e non volea far guasto nè lasciare fare
preda, di che gli Ungari e i briganti n’erano assai malcontenti. I
Pisani di presente mandarono a Firenze per sapere se il comune movea
questo, e fu risposto di no; e per abbondante mandarono bando l’avere
e la persona che niuno Fiorentino contadino o distrettuale non dovesse
andare contra i Pisani, e chi andato vi fosse, sotto la detta pena se
ne dovesse partire. I briganti non potendo guadagnare se ne partirono
per lo disagio più che per lo bando, e rimase Piero con gli Ungari e
con gli altri forestieri. Gli astuti e maliziosi Pisani vedendo che
altri che Piero non era a guidare questa gente, costrinsono per forza i
più intimi amici ch’avesse in Pisa, e fecionli scrivere da più parti a
un modo, che si dovesse guardare la persona, perocchè gli Ungari aveano
trattato di darlo preso a’ Pisani, e d’averne fiorini ventimila d’oro.
Egli era a Peccioli quando le lettere di più parti li vennono, cominciò
a dubitare, e a stare a riguardo, e vedendo l’adunanze degli Ungari
parlare insieme, e non intendendoli, pensò che eglino il dovessono
pigliare, e vedendosi presso a Volterra, senza congio con sua gente diè
degli sproni al cavallo, e partissi dagli Ungari. Fu detto che alcuni
il seguitarono, ma il vero fu poi certo che tutto fu fatto a mano per
l’astuzia de’ Pisani. Gli Ungari il primo dì di febbraio senza far
danno in alcuna parte si ritornarono a santa Gonda, e poi a Firenze.

CAP. LXXXVI.
_Come il re Luigi prese le terre di messer Luigi di Durazzo e lui mise
in prigione, e trasse del Regno la compagnia._
Era Anichino di Bongardo stato lungamente stretto dagli Ungari in certe
terre che teneano di messer Luigi di Durazzo, e non avendo potuto
guadagnare erano in male stato, e cominciando a perdere delle terre
vennono a patti d’avere sicurtà dal re, e uscirsi del Regno sotto la
sua guardia e sotto la sua bandiera, e così fu promesso, e fatto a
ciò fine. A messer Luigi dopo questo si rubellò sant’Angiolo, ed egli
vedendosi povero e mal parato si rendè al re Luigi suo cugino, e venuto
a Napoli, rendute tutte sue terre, fu messo in prigione nel castello
dell’Uovo, sperandosi per molti che il re li dovesse perdonare, ma
la sua fortuna dopo la morte del detto lo fece morire in prigione.
Anichino con la sua compagnia assai male in arnese, alla condotta di
certi baroni del re, com’era promesso, del mese di gennaio del detto
anno uscì del Regno.

CAP. LXXXVII.
_Come le compagnie si partirono di Provenza._
In questo medesimo mese di gennaio, le due compagnie ch’erano in
Provenza presono accordo co’ paesani per certa quantità di danari, e
l’una se n’andò verso la Francia, e l’altra tenne in Borgogna, chiamata
da certi baroni di Borgogna, perocchè era morto il loro duca, e temeano
del re di Francia.

CAP. LXXXVIII.
_Come fu sconfitta la gente del re di Castella dal re di Granata._
Avendo lasciato il re di Castella in Granata lo re Maometto che n’era
stato cacciato, e con lui il maestro di Ialatrenu, il detto maestro
avendo quattromila cavalieri spagnuoli e gran popolo seco, badaluccando
con la gente del re Vermiglio di Granata, con mala provvisione
ringrossò il badalucco: il re mise loro addosso subitamente molta
gente a cavallo e a piè, e combattendo insieme lungamente, in fine i
Mori sconfissono quelli di Castella, e presono il capitano e più altri
caporali, e de’ Castellani vi rimasono morti in sul campo tra cavalieri
e pedoni più di tremila, li milleottocento cavalieri; e avuto il re
Vermiglio questa vittoria, del mese di gennaio 1361, prese baldanza,
e corse colle sue genti in sulle terre del reame di Castella, facendo
spesso danno e vergogna al re di Spagna.

CAP. LXXXIX.
_Come per vendicare sua onta il re di Spagna andò sopra il re di
Granata._
Del mese di febbraio del detto anno, il re di Castella sdegnato e
infellonito contro al re Vermiglio, e contro ai suoi Mori, in furore
dell’animo suo uscì di Sibilia a dì 20 del mese, avendo prima fatto
comandamento di cuore e d’avere che catuno che potesse portare arme
il dovesse seguire in sul terreno di Granata, e subito vi si trovò
con diecimila cavalieri e trentamila pedoni in arme da combattere, e
oltre a duemila carrette con vittuaglia e dificii da combattere le
terre: e combattendo le castella, per infino a dì 22 d’aprile 1362
prese dieci forti castella piene e ubertuose, e molte altre ville di
minore fortezza, e gli uomini tutti fece servi e schiavi, e quelli
si difendevano erano morti, e quelli si rendevano salvi: per questo
avvedendosi i Mori di Malica e di Saletta che lo re di Castella era
per divenire loro signore, per non essere sottoposti a’ cristiani
deliberarono di rimettere Maometto, ch’era con il re di Castella, in
re di Granata, e incontanente lo misono in Malica, e poco appresso in
Granata, e lo re di Spagna contento di questo, avendo fornite le terre
prese, e ritenendole in sua guardia, si partì di Granata, e tornossi in
Sibilia.

CAP. XC.
_Come messer Bernabò si credette avere Reggio per trattato._
Messer Bernabò mostrandosi poco contento della pace promessa a santa
Chiesa, e usando parole contro il fratello messer Galeazzo, dicendo,
che egli avea fatto più che da lui non avea avuto in mandato intorno
alla pace, dando intendimento di volere fare maggior guerra a Bologna,
accolse molta cavalleria di sua gente, e in persona con essa ne venne
a Parma del mese di febbraio del detto anno, avvisandosi per tutto che
dovesse andare sopra Bologna, ed egli avea trattato d’avere Reggio,
ed entrarono dentro nella città circa a cinquemila masnadieri. Messer
Feltrino avvedendosi della baratta, avendo grande ardire e gente poca,
si fedì francamente fra loro; i masnadieri inviliti per tema di maggior
forza vedendo l’ardire pensarono a campare, e molti ve ne furono morti
e presi: sentitosi la novella, messer Bernabò si ritornò addietro.
Appreso messer Bernabò che ’l verno era già passato, e che il tempo
atto alla guerra ne venia, e che la mortalità era a lui riuscita con
grande acquisto per quelli che morti erano senza eredi, i beni de’
quali erano incorporati alla camera del comune la quale era sua, e
sentendo che la Chiesa era in poco podere di gente d’arme, e Bologna
mal fornita, cominciò a domandare cose che mai non erano state, non
che addomandate, ma nè pensate, e perciò mandò a corte di Roma suoi
ambasciadori per terminare le dette domande; e infra l’altre arroganti
domande fece chiedere che voleva il figliuolo arcivescovo di Milano, e
volea che per decreto e rescritto papale l’elezione dell’arcivescovo
fosse di elezione della casa de’ Visconti di Milano, e voleva il
vicariato dell’imperadore, ed essere da lui restituito in tutte le
sue dignitadi, e che lecito li fosse potere guerreggiare ogni terra
e signore, fuori le terre della Chiesa, con patto che la Chiesa non
se ne travagliasse, e non desse a quelle le quali egli guerreggiasse
nè favore nè aiuto in alcuno modo, mettendo per sospetti i signori e
comuni nominati per la guardia di Bologna, tanto ch’egli fosse pagato,
e volea che la città di Bologna si guardasse per i Pisani; e domandando
queste, e altre cose sconce e villane, al continovo non cessava
di crescere la gente dell’arme sopra la città, e di guerreggiarla
scorrendo tutto giorno fino alle porte. La Chiesa i patti che domandava
con suo onore accettare non potea, e non si potea difendere dalla forza
del tiranno nè dalla superbia sua, ricorse a Dio con singolare orazione
comandata per tutta la cristianità, e la misericordia sua tosto vi
provvedè di salutevole consiglio, come seguendo nostra leggenda trovare
si potrà.

CAP. XCI.
_Come i Pisani feciono cosa da incitare i Fiorentini._
All’entrata del mese di marzo 1361, i Pisani feciono cavalcare lor
gente a piè e a cavallo nella Cerbaia distretto de’ Fiorentini, e
levarono preda di bestiame minuto, e condussonlo al Cerruglio. I
Fiorentini di ciò sdegnati feciono della lor gente di Valdinievole
cavalcare infino alle porti di Montecarlo, e la notte misono gente in
aguato in Pietrabuona, ma i Pisani se n’accorsono, e ritennonsi dentro
al battifolle, onde la gente de’ Fiorentini si ritornò in Pescia.
Queste furono assai picciole cose, e poco degne di memoria, ma per
quello che per questi inzigamenti dipoi ne seguì, che furono grandi
cose, l’animo nostro ha patito di porre questi lievi principii.

CAP. XCII.
_Dell’operazioni delle compagnie in questi tempi._
Tornando a’ tormenti delle compagnie, in questi giorni del verno
avanti alla primavera, la Compagnia bianca col marchese di Monferrato
acquistate più castella le quali si teneano per messer Galeazzo
nel Piemonte, e più feciono loro cavalcate infino a Pavia passando
il Tesino, e quivi stati più giorni si ritornarono in Piemonte. La
compagnia la quale era in Borgogna capitanata dal Pitetto Meschino,
uomo alvernazzo e di niente, e per sua prodezza e maestria di guerra
montato in grande stato e pregio d’arme, prese in Borgogna più terre,
dove s’adagiò con la sua brigata, conturbando forte tutta la parte
del re di Francia, riguardando sempre tutti quelli che al re erano
contrari, il perchè il re condusse la compagnia delli Spagnuoli per
cacciare il Pitetto Meschino di Borgogna, i quali Spagnuoli ne’ detti
giorni erano in Berrì, e condotti, così faceano di male ad amici come
a nemici, dove stendere potessono le mani senza guastare il paese
o uccidere. La compagnia d’Anichino di Bongardo uscita del Regno, e
condotta da messer Bernabò, in questi giorni se ne venne in Toscana per
andare sopra Bologna. Così e molto più era intrigata e avviluppata la
cristianità dalle maladette compagnie in questi tempi.

CAP. XCIII.
_D’una cometa ch’apparve di marzo nel segno del Pesce._
Del mese di marzo del detto anno, apparve tra ’l levante e ’l mezzodì
sul mattutino una cometa nel segno del Pesce Con la coda lunga di
colore cenerognolo, la quale alcuni astrolaghi dissono ch’era chiamata
Ascone. Quello che di sua influenza si vidde fu, che il verno, fu
bellissimo e asciutto, e non troppo freddo, atto molto alla sementa e
coltivamento della terra; la primavera fu fresca e umida, e la state
temperata d’acque, onde ne seguì grande abbondanza. E a dì 8 d’aprile
l’anno 1362, alle due ore del dì, essendo l’aria serena e chiara uno
grande tuono si sentì in aire, lo quale molto fece maravigliare la
gente, e innanzi li venne un baleno con vapori incesi, che caddono
in Firenze sopra il fiume d’Arno e da santa Maria in Campo senza fare
alcuno danno, e l’aria rimase serena e chiara che era.

CAP. XCIV.
_Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo Tortonese._
Del mese di marzo la Compagnia bianca essendo di lungi al contado
di Tortona per tanto di spazio, che i paesani non aveano riguardo,
partendosi di giorno, e cavalcando verso la notte, feciono a gente
d’arme smisurato viaggio, e in sul dì seppono sì fare, che la mattina
entrarono anzi dì di furto in Castelnuovo Tortonese, e come furono
dentro, chi si volle difendere uccisono, il perchè i morti si trovarono
sopra a trecento: il castello era bene di milledugento uomini.
Sentito ciò messer Galeazzo v’andò con più di tremila cavalieri e bene
quindicimila pedoni, e tutto che li paresse essere bene in apparecchio
da combattere co’ nemici non s’attentò di mettersi a partito, ma fornì
le castella d’attorno, e tornossi a Milano.

CAP. XCV.
_Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse l’oste del re di
Francia a Brignai._
Lo re di Francia infiammato d’onta contro la compagnia del Pitetto
Meschino d’Alvernia suo picciolo servo fuggito, nonostante che avesse
condotta la Compagnia spagnuola contro a loro, la quale ancora non era
giunta in Borgogna, radunò prestamente del mese di marzo un’oste di
bene seimila cavalieri franceschi, e tedeschi e di altre lingue che
erano in Francia, e fattone capitano messer Giacche di Borbona della
casa di Francia con quattromila sergenti gli mandò in Borgogna. E in
que’ giorni la compagnia del Pitetto Meschino avea preso un castello
del re che si chiama Brignai, e lasciatovi alla guardia trecento
di sua compagnia, ed egli con tremila barbute e duemila masnadieri
i più Italiani ch’erano in sua compagnia era cavalcato nel contado
di Forese, facendo loro procaccio: in questo il duca di Borbona con
l’oste sua giunse e puosesi a campo a Brignai, credendolosi in pochi
giorni racquistare: e così standosi all’assedio baldanzosamente, e
senza debita provvisione e con poco ordine, avendo con l’animo grande
a vile il loro avversario, il Pitetto Meschino maestro e pratico di
arme con la brigata sua vogliosa di zuffa, e ardita e bene in punto,
essendo lontano da Brignai giornata e mezzo, avendo lingua come i
Franceschi con molto disordine si reggevano a campo, confortata sua
brigata, e animata della gran preda, con sollecito studio di cavalcare
raccorciando i cammini, avanti al giorno di più ore giunse al campo
sopra gli sprovveduti Franceschi, e senza alcuno arresto gli assalì
con grande tempesta e romore; onde tra per le terribili grida, e per
lo subito e sprovveduto assalto i Franceschi bairono, e mancarono di
cuore, e non di manco ciascuno come meglio poteo ricorreva all’armi
per difendersi, ma quelli della compagnia gli percoteano, e gli
sollecitavano sì con l’arme, che non gli lasciavano far testa; e così
quell’oste ove avea tanti baroni e valenti cavalieri sventuratamente
fu rotta e sbarattata, con molti di loro morti e magagnati: quelli
che camparono con loro cavalli e arnesi quasi tutti vennono in preda
del vassallo del re di Francia Pitetto Meschino. Messer Giacche duca
di Borbona fu a morte fedito di più fedite, ed essendo preso, vedendo
che era per morire fu lasciato alla fede, e portato a Lione sopra a
Rodano in pochi giorni passò di questa vita. Preso rimase il conte di
Trinciaville, il conte di Forese, il maliscalco di Dunan, l’arciprete
di Guascogna altra volta stato capo di compagnia, messer Broccardo
di Finistagion Tedesco capitano di millequattrocento barbute, messer
Amelio del Balzo, e il conte di Clugnì, tutti signori e gran baroni,
e assai d’altri signori e cavalieri banderesi de’ quali uscì grande
tesoro a riscatto. I soldati furono lasciati alla fede, e quelli che
in sul campo furono morti o fediti lasciarono portar via. La valuta
della preda fu tanta, che la compagnia se ne fè ricca: e per questa
vittoria presono tanto d’audacia e d’ardire, che in grande tremore
stette la corte di Roma, usa di essere pettinata dalle compagnie, che
non corressono sopra Avignone, ma tanto dimorò la compagnia in Borgogna
ch’ebbono i danari che si riscattarono i baroni e’ cavalieri. Lo re
di Francia sentita questa novella sopra modo si turbò di cuore, e osò
dire, che mai non ristarebbe, ed eziandio con porre la sua persona al
pari d’un soldato, che dell’onta ricevuta si vendicherebbe. E per non
avere più a tornare sopra la presente materia per infino che altra
gran cosa non seguisse, il Pitetto Meschino e quelli di sua compagnia
udite le minacce del re, per accrescere il dispetto e l’onta, mostrando
d’avere il re e le sue parole a vile, del mese di giugno appresso
se n’andarono vicini a Parigi, facendo gran preda e danni a’ paesani
d’intorno alla città. Io non mi posso tenere, che io non dica qui per
gl’intendenti ragionatori si misuri la gloria vana e fallace degli
stati mondani; ma nella presente materia quelli massimamente che hanno
avuto notizia della eccellenza del reale sangue di Francia, per cui al
presente è tanto vilmente calcata: e certo il Pitetto Meschino è di sì
oscuro luogo nato, che fuori del sapere che egli è Alvernazzo, non si
sa chi fosse nè madre nè padre: e questo basti.

CAP. XCVI.
_Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori di Lombardia contro a
messer Bernabò._
Veggendo gli altri signori della Lombardia la pertinacia di messer
Bernabò intorno al racquisto di Bologna, e che per averla di sua fede e
promessa mancava a santa Chiesa, nelle loro menti presono concetto, che
se vincesse Bologna a loro non perdonerebbe, stimando che con cagioni
controvate contro a loro volgesse la guerra con assai più vicino e
possente braccio. Il perchè entrati in sospetto e paura, con loro
segreti ambasciadori cercarono di far lega e tra loro insieme con la
Chiesa di Roma; e nel trattato occorse che il signore di Verona diede
la sorella per moglie al marchese di Ferrara; e fornito il parentado
per modo che non potea tornare addietro, il signore di Verona come a
stretto parente il fè con festa a sentire a messer Bernabò, il quale
udito il fatto a maraviglia se ne turbò, dicendo: Io son fatto cognato
di uno sterpone. Il marchese con tutto che di ciò avesse obria era
d’animo nobile e valente uomo, magnanimo e di grande cuore, e compare
di messer Bernabò, e molto l’avea servito contro alla Chiesa nella
guerra di Bologna, dando libero il passo a sua gente d’arme, el a suo
piacere vittuaglia e per acqua e per terra. Fermato il parentado intra
i detti due signori, del seguente mese d’aprile lega e compagnia si
fermò tra il legato di Spagna in nome di santa Chiesa e il signore
della Scala, e il signore di Padova, e il marchese di Ferrara; e la
taglia della gente della lega fu in nome di tremila cavalieri, de’
quali la Chiesa dovea pagare i millecinquecento cavalieri, e ciascuno
degli altri cinquecento per uno: e oltre a ciò ne’ patti della lega
promesse ciascuno a loro difesa, e della città di Bologna, e all’offesa
di messer Bernabò, e d’ogni qualunque che contro alla lega facesse.
E stando le cose in questi termini, messer Bernabò mandò al Finale
navilio grande con molta vittuaglia per fornire le castella ch’avea sul
Bolognese, e il marchese la fece volgere indietro. E appresso i detti
signori di concordia per loro ambasciadori mandarono a dire a messer
Bernabò, ch’a lui piacesse non volere fare più guerra alle terre di
santa Chiesa, con ciò fosse cosa che d’allora innanzi con tutto loro
sforzo si porrebbono alla difesa di questa lega: il superbo tiranno
ebbe singolare e altero sdegno, e nelle sue rilevate parole molto gli
avvilì, usando queste parole: Essi sono matti fantisini: e seguendo col
fatto l’altero parlare, a catuno di loro per derisione mandò dono di
vasellamento d’argento, de’ quali nello smalto di quelli da Verona era
una scala appesa a un paio di forche, in quelli del signore di Padova
erano colombi volanti, in quelli del signore di Ferrara una ferza,
giusta la considerazione della sua vana e superbia fantasia; ma in
picciolo tempo le cose seguirono in forma, che per opera vedere si potè
che non avea a fare con fantisini, ma con valenti e savi signori, come
seguendo nostro trattato racconteremo.

CAP. XCVII.
_Come fu morto il re Vermiglio di Granata._
E’ ne pare venire a scrivere cosa assai disusata e sconvenevole non
che a re cristiano, ma a qualunque barbaro, ma quale è scriver la ci
conviene. Sentendo il re Vermiglio di Granata come i Mori aveano sopra
sè per loro re esaltato Maometto, cui egli avea altra volta del reame
cacciato, conobbe che non potea resistere a Maometto avendo seco il re
di Castella, e però mandò al re di Castella in Sibilia, e gli domandò
sua sicurtà e fidanza, con dire di volere venire a sua ubbidienza.
La sicurtà data gli fu libera e piena; ma chi il re volle scusare del
gran tradimento disse, non seppe che per parte del re domandato fosse
il salvocondotto, nè che per lui dato non gli fu. Costui, quanto che
fosse Saracino, lasciato il reame a Maometto, con quattrocento tra di
suo sangue, e amici e di suo seguito, con molta ricchezza, sotto la
fidanza del salvocondotto, se ne venne a Sibilia là dove era Pietro di
Castella re, e a dì 20 del mese d’aprile, gli anni Domini 1362, venne
davanti al re, e gli si gittò a’ piedi con grande reverenza e umiltà.
Il re con buono viso il vide e ricevette, e nella Giudecca, che è luogo
di grandi abituri e d’intorno murato, lo mise, e quello luogo assegnò
a lui e sua compagnia, e in quel giorno gli mandò e doni e presenti
amichevolmente: dipoi venuta la notte lo detto re Pietro fece prendere
lo re Vermiglio e sua compagnia, e rubare tutto loro tesoro, e arme,
e cavalli e arnese, e loro tutti mettere in buone prigioni con buone
catene: loro tesoro recò tutto a sè, che passò la stima di ottocento
migliaia di fiorini d’oro. E il sabato appresso a dì 24 d’aprile, il
re Pietro fece menare davanti da sè il detto re Vermiglio in Tavolata,
che è un campo fuori della città di Sibilla forse una balestrata, in su
un asino, e con lui appresso tre de’ suoi maggiori baroni, gli altri,
ch’erano quarantuno, tutti grandi Saracini, tutti legati a una fune;
lo re Pietro a cavallo con molti suoi baroni e cavalieri con lance in
mano, e colle spade a lato, avendo i Saracini al campo legati, lo re in
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