Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 05

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grandine molte e sfoggiate, le quali ai grani e agli ulivi feciono
danno assai più che nell’altre stati.

CAP. LXVI.
_Delle rivolture del paese di Fiandra in questa state._
Del mese di luglio del detto anno, nella città di Bruggia fu grande
battaglia tra’ tesserandoli e folloni dall’una parte, e da’ borgesi
dall’altra per assai lieve e subita cagione, e non senza molti morti
e magagnati da catuna delle parti: e poco appresso seguitò ch’e’
tesserandoli e folloni della città depuosono il balio del conte senza
colpa apponendoli tradigione. E in que’ giorni il conte Audinarda facea
la festa della figliuola, la quale avea data per moglie al duca di
Borgogna, il quale ciò sentendo mandò pregando li Schiavini e gli altri
ch’elli attendessono tanto che egli avesse sua festa fornita, dicendo,
che poi terrebbe giudizio del balio suo, e che se lo trovasse colpevole
si rendessono certi che ne farebbe a loro sodisfazione rilevata
giustizia e vendetta. I bestiali e arroganti di quei mestieri recando
a vile la preghiera del conte, in vergogna e dispetto suo appendere
lo feciono alle finestre del suo palagio: onde il conte con tutto suo
seguito forte ne furono turbati, ma assisesi al mostrare di non calere,
nè mostrare di sua onta.

CAP. LXVII.
_Come fu decapitato messer Bocchino de’ Belfredotti signore di
Volterra, e come la città venne alla guardia de’ Fiorentini._
E’ ne pare di necessità per più brevità della nostra opera, e per
meglio dare ad intendere il fatto di che dire intendiamo, raccogliere
alquante cose, le quali in piccolo trapassamento di tempo hanno fine
straboccato. Messer Francesco de’ Belfredotti da Volterra sopra il
ciglio di Volterra tenea la forte rocca di Montefeltrano, e messer
Bocchino di messer Ottaviano suo consorto era signore della terra, il
quale cupido d’aumentare sua tirannia, con solleciti aguati cercava
di torre a messer Francesco detta fortezza, e dopo la morte di
messer Francesco, messer Bocchino non lasciava stare i figliuoli in
Volterra. Il perchè il comune di Firenze sentendo la detta dissensione,
perchè non terminasse a peggio, s’interpose tra loro, e li ridusse
a concordia, e obbligaronsi insieme a pena, la quale per l’uno e per
l’altro promise il comune di Firenze per osservanza di pace; per la
quale i figliuoli di messer Francesco tornarono in Volterra sotto
l’ubbidienza di messer Bocchino. E stando senza alcuno sospetto,
all’uscita d’agosto del detto anno, il tiranno a un Volterrano,
a cui nella guerra era stato morto un suo congiunto da un altro
Volterrano amico e servidore de’ figliuoli di messer Francesco, con
segreta licenza di messer Bocchino, trovando il suo nemico a dormire
lo fece uccidere, e colui che morto l’avea con suoi parenti e amici
fece testa, perchè la terra si commosse a cittadinesca battaglia,
e alquanti degli amici de’ figliuoli di messer Francesco vi furono
morti traendo al romore, e i detti figliuoli di messer Francesco, come
era per lo tiranno ordinato, furono presi contro le convenenze per
le quali il comune di Firenze era mallevadore; il perchè il comune
per suoi ambasciadori mandò ricordando al tiranno li dovesse piacere
non farli questa vergogna, dicendo, come a richiesta e preghiera di
lui avea promessa sua fede. Il tiranno con simulate parole tenea gli
ambasciadori a parole, e dal malvagio proponimento non si toglieva.
I Fiorentini veggendo che le parole non ammollavano le parole finte
e mal disposte del tiranno, e sentendo che ciò che fatto avea era
contro alla comune volontà de’ Volterrani, e temendo che la cosa
non avesse mal fine e pericoloso per lo comune, non furono lenti, ma
prestamente mandarono gente d’arme, e fornirono la rocca de’ figliuoli
di messer Francesco, minacciando di guerra se non si facesse ammenda.
Il tiranno veggendo l’animo de’ Fiorentini contro a lui giustamente
irato si forniva di gente di sua amistà, e spezialmente de’ Pisani,
per riparare alla forza e mantenere sua fellonia, perseverando nel
detto malvagio proponimento. Certi cittadini di Firenze per trattato
che dentro aveano d’avere il torrione del monte, che è fuori delle
mura, domenica mattina a dì 24 d’agosto vi cavalcarono, e dalla gente
de’ Pisani vi furono scoperti, e ributtati con vergogna senza altro
danno, il perchè il comune v’ingrossò gente, e pose oste a Volterra.
La quale essendo in sul Volterrano, messer Bocchino per dispetto de’
Fiorentini trattò di dare la signoria a’ Pisani per trentadue migliaia
di fiorini d’oro. Il popolo di Volterra sentendo ch’e’ si trattava
di venderlo, e farli schiavi de’ Pisani, tutti d’uno volere presono
l’arme, e corsono all’ostiere dove erano i cavalieri de’ Pisani, a’
quali incauti e sprovveduti tolsono le selle e’ freni de’ cavalli,
e ciò fatto, senza far loro altra villania li misono fuori della
terra, e loro renderono freni, selle, cavalli e armadure, e i fanti
forestieri accomiatarono, e si partirono. Ciò fatto, appresso furono
al palagio del tiranno, il quale con lunga e composta diceria volendo
tiranneggiare li animava a mantenere loro libertà e franchigia, e
quinci li credette dal loro proponimento levare, ma i terrazzani
trafitti dalle sue crudeli operazioni a suo dire non prestarono
orecchie, ma sdegnosamente rispuosono, che bene saprebbono usare loro
libertà, e che per ciò fare voleano in guardia lui, e sua famiglia, e
certi suoi congiunti, e a Firenze mandarono per capitano di guardia, e
a Siena per podestà. Il capitano prestamente vi fu mandato un popolano,
e dietro ad esso mandati furono quattro ambasciadori, e simile feciono
i Sanesi. I Fiorentini temendo i movimenti de’ popoli vari, e vani e
instabili, al continovo vi facevano cavalcare gente d’arme, e a cavallo
e a piè, ancora perchè a loro parea che i Volterrani volessono col
braccio de’ Sanesi raffrenare il nostro comune: il perchè alla gente
de’ Fiorentini segretamente fu comandato, che procacciassono delle
castella de’ Volterrani, i quali cavalcarono a Montegemmoli, ed ebbonlo
per forza, ed a il loro Montecatino, e anche l’ebbono, e così più altre
castellette. I Volterrani mandarono a Firenze loro ambasciadori per i
quali domandavano libertà con l’ammenda de’ loro dannaggi, eleggendo
capitano di guardia di Firenze: la cosa per più giorni stette in
controversia e in dibattimento. I Fiorentini che in Volterra aveano i
loro ambasciadori, e il capitano, e gran parte de’ nove, e di buoni
popolani la maggior parte a loro segno feciono strignere la gente
dell’arme vicino alle mura di Volterra, avendo presentito che la setta
che voleva i Sanesi la notte vi doveano mettere gente d’arme, e così
di vero seguiva, che la notte cinquanta cavalieri e centocinquanta
fanti alla condotta d’alcuno de’ Malavolti, giugnendo con la gente alla
fonte presso alla terra, cadde nell’aguato de’ Fiorentini, e fu preso
con tutta la gente, e facendo vista di non conoscerli, loro fu tolta
l’arme e’ cavalli, ma poichè per lingua e nome si furono palesati,
ripresi da’ capitani dell’impresa facevano contro al comune di Firenze,
assai cortesemente fu loro renduta l’arme e’ cavalli, e rivolti per
la via ond’erano venuti, con assai vergogna di loro matta arroganza e
presunzione. Il popolo di Volterra di suo errore ravveduto la guardia
del cassero della città diedono a’ Fiorentini. I Sanesi ch’erano in
Volterra senza aspettare comiato si partirono, e’ Fiorentini del tutto
rimasono signori, con certe convegne, che i Volterrani promisono in
perpetuo d’avere gli amici del comune di Firenze per amici, e i nemici
per nemici, e che la rocca dieci anni si guardasse per i Fiorentini,
e del continovo debbino prendere capitano di popolo di Firenze; e per
loro ordine hanno fatto, che da Pisa, nè nella città nè nel contado
loro non possa venire uficiali nè alcuno altro d’alcuna città o terra
presso a Volterra a trenta miglia; e passato il tempo di quelli nove
uficiali ne furono altri. E il popolo di Volterra al tutto volle che
’l capitano di Firenze che v’era facesse tagliare la testa a messer
Bocchino, e così fece una domenica mattina a dì 10 d’ottobre del detto
anno, messo prima nella terra la cavalleria de’ Fiorentini con volontà
del popolo, il quale la ricevette a grande onore.

CAP. LXVIII.
_Come il patriarca d’Aquilea fu a tradimento preso dal doge d’Osteric._
Fama era per tutta Italia per lungo tempo, la quale si trovò in
fine non vera, che ’l doge d’Osteric era dall’imperadore fatto re di
Lombardia, ma quale la cagione si fosse, mosse di suo paese con grande
compagnia di gente d’arme, e passò nel patriarcato d’Aquilea del mese
detto, dove confidentemente fu ricevuto. Il patriarca avea ripresi
di sue ragioni certi paesi d’entrata di fiorini cinquemila per anno o
più al patriarcato, i quali dal duca vecchio erano stati occupati al
tempo della vacazione del patriarcato. Questo duca movendo questione
al patriarca di queste terre, vennono a concordia di stare di ciò alla
sentenza dell’imperadore suocero del detto duca: e per trarre la cosa
a pacifico fine di concordia si mossono di là, e in compagnia andavano
all’imperadore, ed entrati nelle terre del duca nella città di Vienna,
sotto colore di fare onore al patriarca il duca li fece apparecchiare
un grande ostiere, e credendo il patriarca l’altro dì con lui seguire
il suo viaggio, vi si trovò arrestato e preso; e domandandoli delle
terre del patriarcato, il valente patriarca, messo sua persona a
non calere, fece per suo segreto e fidato messo, e con sua lettera e
suggello comandamento a tutti i sudditi suoi, che per niuno caso che
gli avvenisse niuna glie ne dessono. Il patriarca era messer.... della
Torre di Milano, prelato antico e di buona fama. Questa fu la riuscita
della grande fama del detto duca per lo reame d’Arli, la quale per
più riprese fece ristrignere a parlamento i signori di Lombardia per
provvedere a loro difesa.

CAP. LXIX.
_Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san Giovanni Laterano._
Egli è da dolere a tutti i cristiani quello che ora sono per narrare
della nobile e venerabile chiesa di san Giovanni Laterano di Roma, e
ciò pare piuttosto ammirabile che degno di fede. Uno maestro ricopriva
il tetto della nave maggiore della detta chiesa, la quale essendo
coperta di piombo conveniva che con ferri roventi le congiunture delle
piastre si congiugnessero per ammendare i difetti, ed avendo il maestro
il fuoco acceso di carboni sopra il tetto, per sinistro avvenimento
un poco di carbone cadde, e come che si entrasse, senza avvedersene il
maestro si posò sopra una trave, e quella incese, e appresso con quella
tutto l’altro edifizio senza potere essere atato a spegnere, non che
grande popolo non vi traesse con ogni argomento, ma quasi come fosse
volontà di Dio tutta la nave della chiesa, e tutte l’altre parti di
quella, e tutte le cappelle con quella di Sancta Sanctorum arse, che
nulla vi restò fuori che le mura, con danno inestimabile del costo di
tale e tanto edificio: è vero che le reliquie di Sancta Sanctorum si
camparono; e ciò avvenne del mese d’agosto del detto anno. Giugnendo
fuoco a fuoco, in questo medesimo tempo nelle contrade di Bossina fuoco
cadde da cielo, e arse gran paese senza riparo nessuno.

CAP. LXX.
_Del maritaggio del duca di Guales primogenito del re d’Inghilterra._
Contato avemo addietro le prodezze e grandi valentrie del duca di
Guales primogenito del famoso re Adoardo d’Inghilterra, a cui vivendo
la corona succedè. Costui in questi giorni si tolse per moglie una sua
consobrina contessa di Chienne, la quale era di tempo, e vedova di due
mariti di piccoli baronaggi, e aveva fatti più figliuoli. La maraviglia
che di ciò prese chiunque sapea suo alto stato, vita e condizione, ce
n’ha fatto qui fare nota, forse con iscusa alcuna.

CAP. LXXI.
_Come papa Innocenzio riformò santa Chiesa de’ cardinali morti per la
morìa._
Erano morti in pochi dì nella corte di Roma il vicecancelliere di
Preneste, il cardinale Bianco, quello d’Ostia e di Velletri, quello
di Calamagna, messer Andrea da Todi detto il cardinale di Firenze,
il cardinale della Torre, e quello che fu generale de’ frati minori,
e un altro. Il papa volendo riformare santa Chiesa di cardinali, nel
tempo delle digiune del mese di settembre dello anno ne fece altri
otto: il cancelliere di Francia, l’arcivescovo di Ravenna assente, che
poi morì in cammino, ed era Caorsino, l’abate di Clugnì Borgognone,
il vescovo di Nemorsi Francesco, l’arcivescovo di Carcassone nipote
del papa, messer Guglielmo suo referendario ch’era di Limosi, il
figliuolo di messer Pietro da san Marcello, e l’arcivescovo d’Aques in
Guascogna, tutti oltramontani, e niuno ne fece Italiano, dimostrando
che di visitare la cattedra di san Piero a Roma era strano al tutto del
desiderio e appetito degl’Italiani.

CAP. LXXII.
_Come il re Buscialim della Bellamarina fu morto, e delle rivolture di
Granata._
Regnando Buscialim in Fessa, ed essendo tornato al regno con l’aiuto
del re di Castella, certi caporali cristiani e mori del detto re si
levarono senza cagione debita contro al re, e uccisonlo, dicendo,
che loro non dava loro soldi, ma il vero fu, che morire lo feciono
perchè egli era troppo amico del re di Castella, e la cagione si
prese, perocchè avendo il re di Castella guerra col re di Granata,
mosse Maomet cacciato dal detto re di Granata, che dovea essere re
egli, a ritornare nel paese, e il re Buscialim a petizione di quello
di Castella avea scritto a tutti i rettori delle sue terre ch’avea in
Ispagna, che ubbidissono il detto Maomet come la sua persona, della
qual cosa turbati i Mori uccisono il loro re Buscialim; e morto costui,
feciono re un Busciente, ch’era in prigione fratello del detto re,
ma non era di sana mente, e però altri governava il reame, e costoro
incontanente contramandarono a’ balii delle terre di Spagna, che non
lasciassono entrare Maomet in loro terre. E poco appresso, del mese
di novembre del detto anno, quelli di Fessa, vedendosi avere il re
smemoriato, mandarono ambasciadori a Sibilia a un giovane della casa
reale di Bellamarina, il quale si stava a Sibilia con un altro suo
fratello minore assai poveramente: gli ambasciadori lo addomandarono,
il re di Castella li fece armare una galea e menarlo a Setta, e di là
per terra il condussono a Fessa, e in ogni parte fu ricevuto per loro
re, e l’altro ch’era mentecatto fu rimesso in prigione: e allora il re
di Castella fece pace co’ Mori, e con il loro novello re ritenne grande
amistà, e da lui ricevette ricchi doni.

CAP. LXXIII.
_Come la compagnia spagnuola ch’era nel vescovado d’Arli prese Vascona,
e poi ne furono cacciati._
In questi dì la compagnia degli Spagnuoli ch’era in Provenza per una
notte feciono una lunga cavalcata ed entrarono in Venisì, e improvviso
a quelli di Vascona entrarono nella città, e uomini e femmine con
arnesi con grandissimo danno e di cittadini e di forestieri recarono in
preda; e intendendo così fornito a volersi partire, ma i paesani d’ogni
parte sopravvennono prestamente loro addosso, e furono tanti, che per
forza vinsono la compagnia, e con gran danno d’essa racquistarono la
preda, e cacciaronli del paese.

CAP. LXXIV.
_Come si scoperse che messer Bernabò era vivo, e ’l trattato tenea del
castello di Bologna._
Essendo tanto stata la fama di non sapere novelle di messer Bernabò,
che li più affermavano che morto fosse per molti indizi e congetture
che ciò parevano mostrare, esso in questi giorni lavorava alla coperta
colla lima sorda, nulla dimostranza dando di sè, ma piuttosto ampiando
la fama della morte sua, e cercava trattato, lo quale ordinato avea
con uno Spagnuolo e due suoi famigli, a’ quali in grande confidanza
il legato di Spagna avea accomandato la guardia del castello della
porta che va verso Modena di Bologna: costui per ingordo boccone di
danari per tornarsi ricco a casa l’avea promesso a messer Bernabò, e di
ciò era stato il motore a messer Bernabò messer Giovanni da Bileggio
mentre che là era in prigione, anzi che mandato fosse ad Ancona, e
dovea averlo la notte di san Bartolommeo d’agosto: e scopersesi questo
trattato per un ragazzino che venne al castellano di notte, e fu preso.
Per questa cagione messer Bernabò venne in persona a Parma con duemila
barbute non sapendosi la cagione nè il perchè, se non che scoperto il
tradimento si tornò alla caccia, e il castellano con gli altri che gli
erano consenzienti in Bologna furono attanagliati e impiccati.

CAP. LXXV.
_Come si scoperse in Perugia una gran congiura di notabili cittadini
per mutare stato e reggimento._
Erano nella città di Perugia in questi tempi molti e molti cittadini,
e gentili uomini e popolari di buone e antiche famiglie d’animo
guelfo, le quali quasi del tutto erano schiusi dagli ufici e governo
della città, reggendosi la terra per popolani mezzani e minuti, sotto
la guida e consiglio della famiglia de’ Michelotti e di Leggieri
d’Andreotto, il quale a quel tempo era il da più, e il maggiore
cittadino di Perugia, e il più creduto dal popolo, e molte altre
famiglie di buoni popolari e uomini singolari da molto che teneano con
loro sotto il nome e titolo di Raspanti. Quelli ch’allora s’appellavano
i mali contenti, e mossi e sollecitati con ammirabile astuzia da uno
Tribaldino di Manfredino spirito malizioso, sagacissimo e inquieto, le
cui operazioni dipoi scoperte li feciono dai suoi cittadini meritare il
nome del secondo Catilina; e forse non indegnamente, perocchè facendo
comparazione da città a città, non era minore quella di Tribaldino
verso di sè, che quella di Catilina verso di sè. La congiura fu per
lui lungamente guidata tanto copertamente e cautamente, che niuno
segno se ne potè vedere nè scorgere per i reggenti, e infra l’altre
sagaci cautele, che ne usò molte, fu questa, che per li parenti e
amici ch’avea intra i reggenti sovente facea falsamente muovere che
trattato v’era nella terra, il quale criato era, e trovato non vero,
il perchè spesseggiando ai priori e a’ camarlinghi di Perugia in cui
stava il tutto del reggimento, era venuto a rincrescimento e a niente
che si ragionasse di trattato, nè prestavano orecchi nè davano fede: e
ciò fece il malvagio traditore, perchè quando il vero trattato venisse
in campo senza prendere avviso il governo della città, più certamente
e più liberamente avesse l’effetto suo. Quelli cui ’l malvagio
uomo trasse in congiura furono questi: messer Averardo di...... da
Montesperello, messer Guido dalla Cornia, messer Alessandro.......
messer Giovanni di....... da Montemellino, messer Niccolò di......
delle Mecche, messer Tivieri di...... da Montemellino, tutti cavalieri,
Colaccio di Cucco de’ Baglioni, Francesco di messer Rinuccio da......
detto il Zeppa, Francesco di messer Andrea e Iacopo di messer Guido da
Montemellino, Piero di Neri delle Mecche, Erculano di........ Mattiolo
di....... e....... detto lo Squatrano, con altri simili in numero di
più di quarantacinque gentili uomini e popolani, con seguito d’altri
novantaquattro che ne furono condannati, ed oltre a quattrocento altri
cittadini, i quali per non fare troppo gran fascio furono lasciati
addietro. Costoro aveano fatto loro capitani Colaccio di Cucco de’
Baglioni, il Zeppa di messer Rinuccio e Mattiolo di...... e nelle loro
mani aveano giurato. Costoro a un giorno preso doveano correre la
piazza, e pigliare il palagio de’ priori e delle signorie, perocchè
come detto è pensavano per le beffe de’ trattati non veri trovare i
priori addormentati: per la città a’ loro seguaci dispersi in vari
luoghi deveano fare infocare case per tenere alla bada de’ fuochi
i cittadini, doveano uccidere i priori e’ camarlinghi, e qualunque
innanzi loro si parasse senza riguardo d’amico o di parente. Messer
Averardo dovea stare di fuori a sollecitare i loro lavoratori, e amici
del contado e le loro amistà, e a ribellare delle castella. E per
certo il sollecito reo uomo seguendo lo stile di Catilina avea dato
ordine, che se Dio non avesse posto il rimedio a tanto pericolo, per
certo la città ne venia in desolazione e tirannia. Esso Signore che
tutto vede puose nel cuore a messer Tivieri da Montemellino, uno de’
principali congiurati, che lo revelasse, acciocchè tanto pericolo e
male non fosse; il quale essendo quasi vicino a Leggieri d’Andreotto,
sotto sicurtà della sua persona senza domandare altro merito gli
rivelò il fatto, il quale di presente n’andò in palagio de’ signori,
e quivi con loro, e co’ camarlinghi, e con gli altri dello stato si
mise a’ ripari. Fu preso messer Niccolò delle Mecche, e Ceccherello
de’ Boccoli con quattro loro masnadieri di nome, e con sette altri
mascalzoni, gli altri congiurati tutti si dierono alla fuga. Seguette,
che il dì di santo Michel Agnolo si fece l’adunanza generale, che noi
diciamo parlamento, nella quale si determinò, che i detti cavalieri,
gentili uomini e popolani, insino nel numero di quarantacinque,
fossono condannati per traditori e rubelli del comune di Perugia
infino...... e che altri novanta secondo loro gravezze di loro colpe
fossono condannati di danari, e alcuni a stare a’ confini; gli altri
per meno male passati furono sotto silenzio. Più vi si provvide, che
Tribaldino guidatore e ordinatore del male, con messer Averardo, e con
alquanti degli altri più focosi principali fossono dipinti _ad eternam
rei memoriam_ colle mitere in capo in piè della piazza nella faccia
del casamento del maggior sindaco: e così seguitò, che messer Niccola
delle Mecche, e Ceccherello de’ Boccoli con i quattro masnadieri furono
decapitati, e i sette mascalzoni furono appesi; gli altri tutti ebbono
bando come nell’adunanza era ordinato, e così furono dipinti quelli che
doveano esser dipinti. Bollendo e ribollendo ragionevolmente la città
in questo stato dubbioso e sospetto, come il male venne agli orecchi
del nostro comune tantosto vi mandò ambasciadori con cento uomini di
cavallo. I Pisani domandato licenza di mandarvi cento cavalieri per
lo nostro contado, e liberamente ottenuto, anche vi mandarono loro
ambasciadori con la detta gente, i quali co’ nostri insieme assai
temperarono l’animo voglioso e crucciato debitamente de’ Perugini.

CAP. LXXVI.
_Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di loro stato, e della
difensione che saviamente ne presono._
In questi medesimi dì all’entrata d’ottobre, essendo Piero Gambacorti
in Firenze, rotti i confini i quali avea a Vinegia, alquanti artefici
e certi mercatanti pisani, che per lo partimento che i Fiorentini
aveano fatto di Pisa e per loro cagioni, anzi quasi tutti i mercatanti
forestieri che trafficavano co’ Fiorentini, e i reggenti che n’erano
stati cagione udivano e sentivano costoro e molti altri di ciò
rammaricare, dicendo, come al tempo de’ Gambacorti godeano la pace co’
Fiorentini, e’ guadagni del porto, e delle mercatanzie e dell’arti,
e che loro era faltato e il procaccio e ’l guadagno; o che questa
fosse la cagione, o che di loro sentissono alcuno trattato con Piero
Gambacorti, ventidue ne presono, e a quattro de’ mercatanti feciono
tagliare la testa; li altri si riserbarono in prigione, e a molti
diedono i confini.

CAP. LXXVII.
_Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono la signoria di Montalcino._
In questo mese d’ottobre del detto anno, Giovanni d’Agnolino Bottoni
con centocinquanta cavalieri e ottocento pedoni cavalcò improvviso
sopra Montalcino per rimettervi gli usciti ch’erano suoi amici, e
questo fece con ordine d’alcuno trattato ch’avea nella terra, ma i
terrazzani presti alla difesa tolsono ardire di muoversi dentro a chi
n’avea sentimento. Vedendo Giovanni che ’l trattato ordinato non gli
venia fatto, per ricoprire sua intenzione si stava loro intorno. I
terrazzani, che erano ubbidienti e in pace co’ Sanesi, maravigliandosi
di questa novità mandarono a Giovanni di fuori a sapere perchè facea
questo, e quello volea da loro: il savio e accorto disse, che volea
che fossono in accordo col comune di Siena: i semplici terrazzani,
sentendosi amici e ubbidienti al comune di Siena, elessono ventiquattro
della loro terra i maggiori e più potenti che v’erano, e mandaronli
per ambasciadori a Siena. Giovanni avvisò l’uficio de’ signori, come
era tempo d’avere libera la signoria di quella terra, avendo appo
loro li ventiquattro ambasciadori ch’erano il tutto della terra, ed
egli essendo là con forza d’arme, la quale si fè accrescere, diceva
di strignerli e tenerli in paura. Gli ambasciadori giunti a Siena, e
fatta la riverenza, e sposta la loro ambasciata, ebbono per risposta,
che non si partirebbono da Siena, che Montalcino sarebbe libero alla
guardia de’ Sanesi; la cosa non potè avere contradizione, e però
convenne ch’avessono libero Montalcino, e avuto, rimandarono indietro
i ventiquattro ambasciadori sani e salvi, e smisurata festa in Siena se
ne fece.

CAP. LXXVIII.
_Come i Turchi presono la città di Dometico ch’era dell’imperadore di
Costantinopoli._
Del mese di novembre del detto anno, un grande signore de’ Turchi
di Boccadave, sentendo l’imperadore di Costantinopoli giovane, e in
discordia co’ suoi per la ragione già detta di Mega Domestico cui egli
perseguitava, e altre volte essendo suo balio avea occupato l’imperio,
accolse di suoi Turchi grande esercito, e vennesene ad assedio alla
nobile e antica città oggi chiamata Dometico, la quale siede tra
Costantinopoli e Salonicco, presso a quattro giornate a Costantinopoli,
la quale appresso Costantinopoli solea essere sedia imperiale. I
cittadini sentendo che Orcam con grande quantità di Turchi venia loro
addosso, e non vedendo onde potesse a loro venire soccorso, inviliti
(come è la volontà di Dio per la loro contumacia contro a santa
Chiesa) abbandonarono la città forte e difendevole per lungo tempo, e
abbondevole a sostenere sua vita. Orcam trovandola abbandonata v’entrò
dentro co’ suoi Turchi, e misevi gente ad abitare e alla guardia con
vittoria senza fatica, e si ritornò in suo paese con gran vergogna e
vitupero e abbassamento dell’imperio di Romania.

CAP. LXXIX.
_Come il re di Castella mosse guerra a’ Mori di Granata, e al loro re
Vermiglio._
Fermata la pace dal re di Castella a quello d’Araona del mese di
settembre del detto anno, e tornato il re di Spagna in Sibilia con
sua cavalleria, Maometto già stato re di Granata e cacciato dal re
Vermiglio, come di sopra dicemmo, esso re di Spagna col detto Maometto
cavalcò in Granata, e nel paese fece danno assai e d’arsione e di
preda, e lasciato Maometto alle frontiere con sue genti e co’ cavalieri
castellani a sufficienza a poter far guerra, del mese d’ottobre si
tornò a Sibilia. Di poi a tempo ritornò a oste sopra il re di Granata,
e stato sopra lui lungamente, in fine non avendo soccorso da’ suoi
saracini del Garbo e di Bellamarina, perchè erano collegati col re di
Spagna, disperato s’arrendè a quello di Spagna, il quale avuto e lui
e suo reame ne fè che al re Vermiglio fece tagliare la testa, e fece
re uno de’ reali della Bellamarina suo confidente, il quale da lui
riconobbe il reame, e gli promesse suo aiuto e di suoi saracini in
tutte sue guerre, e appresso li promesse ogni anno certo tributo.

CAP. LXXX.
_Come gli usciti Perugini presono per furto Civitella de’ Benazzoni, e
poi l’abbandonarono._
I nuovi usciti di Perugia avendo per viltà abbandonate le loro
forti tenute al comune di Perugia, in una cavalcata di due bandiere
di cavalieri per furto entrarono poco appresso in Civitella de’
Benazzoni, assai forte castello e ben guernito. I Perugini di presente
vi mandarono quaranta bandiere di cavalieri e con popolo grande, e
puosonvisi ad oste. Gli usciti veggendosi male ordinati da potere
attendere soccorso, per lo mene reo, come per furto l’aveano preso,
così per furto se n’uscirono, avendo il nome la notte di quelli del
campo, e ridussonsi a un castello ivi presso ch’era degli Spuletini,
e quindi se ne vennono ad abitare ad Arezzo, cercando rimedii a loro
fortuna.

CAP. LXXXI.
_Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare sopra gli Ubaldini._
Essendo in Bologna speranza della pace, la quale parea ferma dal
legato a messer Bernabò, e per tanto avendo alcuna speranza di potere
sollevare le fatiche, sentendo che gli Ubaldini per tutta la boce della
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