Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 04

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d’Ungheria, pur tanto s’aoperò, che ’l detto re scrisse e fece
comandamento agli Ungheri ch’erano al servigio di messer Bernabò, che
se ne partissono, e assai furono quelli che l’ubbidirono. Anche tanto
operò con l’imperadore, che egli mandò comandando a messer Bernabò
che si dovesse rimanere di fare guerra contro la Chiesa a Bologna,
e quegli che fè il detto comandamento fu messer Giovanni da.... ed
assegnogli termine infra i venti dì seguenti, com’era determinato per
l’imperadore, e se questo non facesse fra il termine gli significò,
com’egli il privava d’ogni onore, e dignità e privilegio che avesse
dall’imperio; ma per tutto questo messer Bernabò non si rimanea
dell’impresa, ma a suo potere continuo fortificava la guerra, dicendo:
Io voglio Bologna mi. E questo fu del mese di maggio a’ 12 dì del detto
anno. E in questo medesimo tempo per apostolica sentenza messer Bernabò
fu condannato per eretico e contumace a santa Chiesa, e per tutta
Italia in dì solenni fu da’ prelati scomunicato in presenza de’ popoli,
ma di questo poco si curò, sollecitando per ogni modo pure di volere
Bologna.

CAP. L.
_Come la compagnia d’Anichino di Bongardo ch’era nel Regno si
rassottigliò e venne al niente._
Del mese d’aprile erano nella compagnia d’Anichino di Bongardo in
Puglia gli Ungari tanto moltiplicati, che passavano il numero di
tremila. Il re loro avendo di questo sentore loro mandò comandando, che
non fossono contro i suoi consorti, per la qual cosa s’accordarono col
re Luigi una gran parte, e partironsi dalla compagnia de’ Tedeschi, e
promisono di dare vinta o cacciata la compagnia del Regno per trentasei
migliaia di fiorini d’oro, de’ quali si convennono col re: e seguitando
il gran siniscalco ridussono Anichino co’ suoi Tedeschi in Basilicata,
e ridussonli in Atella terra tolta per loro al duca di Durazzo, e ivi
li assediarono, stando d’intorno alle frontiere; e durando il giuoco
lungamente, molti se ne tornarono nella Marca e nella Romagna, e
gli altri rimasono al servigio del re, e senza cacciare o vincere la
compagnia catuno consumava i paesani.

CAP. LI.
_Come i Sanesi ebbono Santafiore._
In questi dì, del mese di maggio del detto anno, i Sanesi avendo molto
assottigliati e annullati i conti di Santafiore, in fine di questo mese
medesimo ebbono Santafiore a patti.

CAP. LII.
_Come i Fiorentini comperarono il castello di Cerbaia._
Il comune di Firenze avea dato bando a Niccolò d’Aghinolfo de’ conti
Alberti conte di Cerbaia perchè avea morto un popolare di Firenze;
e vedendo che la Cerbaia era una chiave forte alla guardia del suo
contado da quella parte, gli venne voglia d’avere quel castello, e
fece trattato di comperarlo; il conte per uscire di bando, ed essere
cittadino popolano di Firenze, e considerando che a tenere quella
fortezza gli era non meno di spesa che d’entrata, e sempre ne vivea in
gelosia, ne domandò per prezzo fiorini settemila d’oro, e ’l comune si
fermò a sei, e ’l conte non vi si volle arrecare, e però si mise alla
difesa, ed il comune, come contro a suo sbandito, a dì 21 di maggio
vi pose l’assedio. Il conte vedendosi ribellato il fratello carnale,
e collegato co’ Fiorentini e fattosi loro accomandato, vedendosi
mal parato, l’ultimo dì di maggio diede il castello liberamente
a’ Fiorentini, e rimisesi alla misericordia del comune: il comune
lo ribandì, e fecelo suo popolare, e per via di diritta compera
solennemente fattone le carte per ser Piero di ser Grifo notaio delle
riformagioni, glie ne diè contanti fiorini seimiladugento d’oro, e fu
descritto il castello di Cerbaia in possessione e contado del comune
di Firenze, e tutti i fedeli dalla fedeltà furono liberati, e fatti
contadini di Firenze.

CAP. LIII.
_Come il capitano già di Forlì, e messer Giovanni Manfredi si puosono
tra Imola e Faenza._
Come messer Francesco Ordelaffi fu fatto capitano di messer Bernabò,
e messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi collegato con lui
s’intesono insieme, e puosonsi a campo tra Imola e Faenza per attendere
l’avvenimento di quello ch’aveano trattato con uno più stretto e
confidente famiglio ch’avesse messer Ramberto signore d’Imola, il quale
per grandi promesse ricevute avea promesso d’uccidere il suo signore,
ma come a Dio piacque il trattato si scoperse, e il famiglio fu preso,
e negli occhi de’ nemici impiccato a’ merli delle mura della città; e
incontanente l’oste ch’attendea l’omicidio si partì e tornò a Lugo:
e poco appresso del detto mese di maggio cavalcarono sopra Forlì, e
guastarono e predarono intorno e nel paese quello che poterono senza
trovare contasto.

CAP. LIV.
_D’un gran fuoco che s’apprese nella città di Bruggia._
In questo mese di maggio del detto anno, nella città di Bruggia in
Fiandra s’apprese il fuoco in alcuna casa, il quale cominciò ad ardere
quelle ch’erano vicine, e a forte a montare con l’aiuto del vento, e
delle case di legname ch’erano atte e disposte a riceverlo, e avvalorò
per sì fatto modo, che niuno rimedio mettere vi si potea per operazione
o ingegno d’uomini, che nella città non consumasse oltre a quattromila
case, con grandissimo danno de’ cittadini: e in questi giorni medesimi
il fuoco gran danno fece nella villa di Ganto e di Melina in Brabante.

CAP. LV.
_Delle compagnie d’oltramonti._
Appare che la penna non si possa passare senza fare memoria delle
compagnie, che maravigliosa cosa è il vederne e udirne tante creare
l’una appresso dell’altra in flagello de’ cristiani, poco osservatori
di loro legge o fede. La moglie che fu del siri di Ricorti accolse
da millecinquecento cavalieri di diverse lingue per volere fare
guerra in suo paese, poi fu tirata dalla compagnia, e in persona
con la sua gente venne in servigio della Chiesa e del marchese di
Monferrato in Piemonte, e quivi lasciò con gli altri la sua compagnia
a guerreggiare. E appresso a questa scese in Provenza un’altra gran
compagnia d’Inghilesi, Guasconi e Normandi, e un’altra se n’adunò in
questi tempi medesimi presso Avignone di Spagnuoli, Navarresi e altra
gente, e questa venne sopra la città d’Arli, e corse voce che venia
a petizione del Delfino, che si dicea che volea essere re d’Arli, ma
non fu vero, per loro procaccio venne la compagnia, e una seguiva il
Petetto Meschino Alvernazzo, che poi crebbe, e fece grave danno al re
di Francia. Il paese di Provenza di là da Rodano e di qua, e ’l Venisì
e la corte di Roma ne stava in continova tribolazione.

CAP. LVI.
_Come Francesco Ordelaffi si levò da Forlì, e andonne a oste a Rimini._
Essendo Francesco Ordelaffi stato d’intorno a Forlì, e fatto il guasto
come a lui piacque, del mese di giugno del detto anno si levò da Forlì,
e con duemila barbute e cinquecento Ungari si puose presso alle porti
di Rimini, e fermò il campo a Santa Giustina, ardendo e guastando le
ville d’intorno, e facendo gran preda, e poi si rivolse dall’altra
parte e valicò il fiume, e cavalcò infino agli antiporti di Rimini,
e tutto menò a fiamma il paese, facendo oltraggio e onta a’ Malatesti
volontariamente, senza trovare chi gli facesse resistenza alcuna.

CAP. LVII.
_Come i Fiorentini manteneano Bologna per la strada dell’Alpe._
I Fiorentini erano stati molto sollecitati dal legato, poichè perdè la
speranza del re d’Ungheria, che prendessono la difesa di Bologna, e
non pure il legato, ma i signori di Lombardia, e i guelfi di Romagna
e della Marca continovamente per loro segreti ambasciadori glie ne
sollecitavano, mostrando che Bologna non potea più durare, che convenia
che venisse alle mani di messer Bernabò, perocchè ’l suo contado era
tutto consumato, e in podere de’ nemici infino alle porte d’ogni lato.
E mostravano, come che venuta ella fosse a messer Bernabò, che Firenze
sarebbe in pericolo, e male da potersi difendere da lui, allegando
il verso di Orazio, il quale dice: Nam tua res agitur, paries cum
proximus ardet: in volgare suona: Quando il pariete prossimo a te
arde il fatto tuo si fa: soggiugnendo, che la pace e la guerra stanno
nella volontà del potente tiranno, che ben sa a tempo con trovare le
cagioni; per la qual cosa molte volte ne fu grande controversia intra
i nostri cittadini ne’ segreti consigli, ma al tutto si sostenne che
si mantenesse la pace promessa fedelmente, non ostante il pericolo che
se ne stimava, e ancora l’autorità di santa Chiesa, che d’ogni cosa
liberava con giustizia il nostro comune. È vero che per i discreti
cittadini si stimava, che fatta l’impresa tutto il carico sarebbe
lasciato a’ Fiorentini, e non potendola i Fiorentini liberare, cadevano
in maggiore pericolo, consumato l’avere alla loro difesa: non dimeno
per savio e diritto consiglio, non facendo contro a’ capitoli e ordine
della pace, il comune intese con sollecitudine a sostenere la vita
a’ cittadini di Bologna aprendo la strada dell’Alpe, e levando ogni
divieto, per la qual cosa tanto grano, biada, olio e carne andavano
di continovo in Bologna, ch’ella se ne reggea, e mantenea assai
convenevolemente senza grande carestia. E gli Ubaldini non aveano
ardire d’impedire i Fiorentini, e i Bolognesi per loro distretto
facevano campo a Caburaccio; e per questo modo avendo Bologna perdute
tutte le strade e canali, per questa strada si nutricò lungamente.
E tanto era l’abbondanza a quel tempo ch’avea il contado di Firenze
che poco rincarò ogni cosa, e se questo spaccio non fosse occorso, a
niente sarebbe stato il grano e ’l biado e l’olio in quell’anno. Se
non fossono nati quattro leoni, due maschi e due femmine, il dì di san
Barnaba, passato mi sarei del non iscriverlo.

CAP. LVIII.
_Come l’oste di messer Bernabò volle rompere la strada da Firenze, e
ricevette danno._
Messer Giovanni da Bileggio, valoroso e savio cavaliere milanese, e
molto amato da messer Bernabò, era in quel tempo capitano generale
della gente del Biscione sopra Bologna e di quella di Romagna, il quale
avendo alla città tolte tutte le strade, e vedendo che rimaso non gli
era altro sostegno che la strada dell’Alpe che venia a Firenze, si
pensò di romperla, e ordinò una cavalcata a Pianoro. Il capitano di
Bologna, che era Malatesta Ungaro, sentì il fatto, e mise la notte
gente fuori, i quali si misono in aguato, e venendo i nemici uscirono
loro addosso, ed ebbono vittoria di quella gente, ch’erano dugento
barbute, che pochi ne camparono che non fossono o morti o presi, per la
qual cosa il capitano dell’oste prese sdegno, e ordinò di strignersi
più alla terra, e di fare correre fino alle porte d’ogni parte, e
a mezzo il mese di giugno lasciate fornite l’altre bastite si mise
innanzi con l’oste, e puosesi al Ponte maiore in sulla strada tra
Bologna e Imola, e ivi fermò il campo presso alla città un miglio.

CAP. LIX.
_Come fu sconfitto l’oste di messer Bernabò al Ponte a san Ruffello._
Vedendo il capitano messer Giovanni da Bileggio avere recata la città
di Bologna a grandi stremi, che rimasa non l’era via d’aiuto altro
che la strada da Firenze, avendo animo di trarre quella guerra al suo
desiderato fine, sentendo che nella città non avea oltre a trecento
uomini d’arme a cavallo, e che ’l capitano che fu di Forlì era sopra
d’Arimini, e correa senza contasto con millecinquecento cavalieri
tutto il paese, pensò di porre una grossa e forte bastita al Ponte a
San Ruffello presso a Bologna in sulla strada da Pianoro, acciocchè
al tutto si levasse alla città ogni soccorso, e questo mise in opera,
e mossesi con tutta la sua oste, ch’erano più di millecinquecento
cavalieri, e duemila masnadieri, e molti altri fedeli degli Ubaldini,
e con lui nel vero era tutto il fiore della gente di messer Bernabò,
avendo mandati trecento altri cavalieri per scorta alla vittuaglia
che venia di verso Ferrara, con grande apparecchio di vittuaglia e
d’altro arnese, e a dì 16 di luglio del detto anno si misono per lo
fiume della Savena, e senza trovare contasto furono al Ponte a san
Ruffello, e quivi fermarono il campo per edificare la bastita, e con
grande sollecitudine attendeano a fare i fossi, e conducere il legname
d’ogni parte. In questo stante, come fu volontà di Dio, messer Galeotto
de’ Malatesti da Rimini, cavaliere di grande ardire e maestro di
guerra, avea ricolti in Faenza cinquecento barbute e trecento Ungari
per danneggiare la gente di messer Francesco degli Ordelaffi, ch’era
sopra Arimini, come detto è, il quale sentendo l’oste da Bologna messa
in mal passo, di presente cavalcò a Imola, e da Imola la sera a dì 19
di luglio improvviso a’ nemici cavalcò per modo, ch’alle cinque ore
di notte fu a Bologna, non sapendo i Bolognesi alcuna cosa. Messer
Malatesta Unghero suo nipote capitano in Bologna il ricevette la notte
sì contamente, che i nemici non lo sentirono, nè eziandio i Bolognesi
che erano a dormire, pensando fossono gente di guardia, e in quel resto
della notte agiarono le persone e’ cavalli come poterono il meglio:
la mattina per tempo serrate le porte della città fece assentire a’
cittadini, come volea assalire i nemici, i quali inanimati e confortati
dalla grazia la quale Dio mandava loro, tutti di volontà, con piena
speranza di vittoria presono l’arme, e gran parte i falcioni in mano,
e dato il segno d’uscire fuori al suono della campana della giustizia,
la domenica mattina a dì 20 di luglio, ordinate le battaglie, e dato
il nome, messer Galeotto col potestà di Bologna, ch’era pro’ e valente
cavaliere, e messer Malatesta Ungaro con settecento barbute, e con
trecento Ungari, e con quattromila Bolognesi i più bene armati, feciono
aprire le porti, e uscirono della terra, e non tennono per la diritta
strada, anzi si misono maestrevolmente per lo piano del fiume della
Savena onde erano entrati i nemici, acciocchè quindi non potessono
tornare, e alcuna parte del popolo misono per le ripe a traverso sopra
dove erano i nemici. Il cammino fu corto, sicchè si veddono prima
quelli del campo la gente addosso da due parti, che sapessono che gente
d’arme fosse venuta in Bologna, nondimeno come uomini esperti in arme
e di gran cuore, benché ’l subito caso gli smarrisse, presono ardire
e feciono testa, ordinandosi alla battaglia in fretta come poterono
il meglio, e di presente misono gente in su un colle sopra il ponte
per riparare a quelli che scendevano per la valle; ma vedendo venire
quelli della città baldanzosi e con gran cuore, abbandonarono il colle,
e tornarsi all’altra oste. Messer Galeotto e i suoi gli assalirono
molto arditamente innanzi alla venuta del popolo co’ falcioni, e i
nemici francamente gli ricevettono, combattendo con loro aspramente;
ma sopraggiugnendo il popolo, e cominciandosi a mescolare tra’ nemici
con loro falcioni, dopo lunga difesa gl’invilirono e ruppono, e molti
n’uccisono, e perchè erano in parte da non potere fuggire, quasi
tutti s’arrenderono a prigioni, che pochi ne camparono. Il podestà
di Bologna fu fedito a morte in quella battaglia, e poco appresso
morì in Bologna. Trovarsi morti in picciolo spazio di campo dove
porre si dovea la bastita quattrocentocinquantasei uomini, i quali
tutti furono sotterrati nel fosso che fatto aveano, e per l’altro
campo qua e là più d’altrettanti; in tutto numerati furono i morti
novecentosettanta, e quattrocento cavalli. I presi furono oltre a
milletrecento: a’ forestieri tolte furono l’armi e’ cavalli e lasciati
alla fede, che furono più d’ottocento; gl’Italiani furono ritenuti, sì
per lo scambiare, sì per porre loro la taglia. De’ caporali fu preso
messer Giovanni da Bileggio capitano generale dell’oste, e Guasparre
e Giovanni di Nanni da Susinana, e Andrea delle Piaggiuole tutti
degli Ubaldini, e più altri; costoro furono rassegnati al legato, e
imprigionati in Ancona. La vittuaglia che nell’oste trovarono fu grande
quantità, e gli arnesi che presono furono di gran valuta, perocchè
molto adorna era la cavalleria e i masnadieri d’arnesi d’argento,
d’armadure e robe, e aveano danari assai, e venticinque migliaia di
fiorini d’oro ch’erano giunti nel campo per fare la paga a’ soldati.
La vittoria fu grande e singolare, che essendo Bologna abbandonata
dall’aiuto della Chiesa, dall’imperadore, da’ signori di Lombardia
e da’ comuni di Toscana, e posta negli estremi, per occulta via fu
liberata, perocchè molti affermarono, e per intendimenti si tenne
essere il vero, che veggendo il legato di Spagna, il quale era in
Ancona tornato dal re d’Ungheria senza aiuto e senza consiglio, che
Bologna era in termine che senza riparo dovea venire nelle mani di
messer Bernabò, e per tanto temendo, e non osando di tornare a Bologna
per non venire nel cruccio del popolo, o nelle mani del tiranno,
che per le sue virtù e grande animo forte l’odiava, stando in forti
pensieri, mandò per il vecchio messer Malatesta da Rimini, col quale
più giorni stato in segreto sopra i fatti di Bologna, e per loro
tirato in considerazione, che la forza del tiranno era tale, alla
quale unita resistenza non era, e che messer Giovanni da Bileggio era
voglioso al terminare dell’impresa per riportarne l’onore, e gli parea
che il suo desiderio ritardasse la strada ch’era aperta a’ Bolognesi
di verso Firenze; da questi luoghi il savio messer Malatesta prese il
sottile avviso, che fatto gli venne, e con coscienza del legato mandò
suo segreto ambasciadore nel campo a messer Giovanni da Bileggio con
verisimili argomenti avvisandolo, che nel segreto amico non era del
legato per le terre che tolte gli avea, e che di lui fidare non si
potea, che venendo nel colmo di quello che appetia non gli togliesse
il resto, e che però volentieri attenderebbe ad abbassare il legato e
il suo orgoglio; ma perchè il legato gli avea sopra capo il castello
di sant’Arcangiolo, non osava levare il dito, nel quale fermava avere
trattato per torlo al legato se avesse spalle e forza di gente d’arme,
la quale dicea non potere essere meno di millecinquecento barbute:
giugnendo al fatto, che come messer Galeotto, ch’era in Bologna con
messer Malatesta vicario, fosse da lui avvisato, sotto colore di
soccorrere a Rimini, come verso là sentisse cavalcato la gente del
signore di Milano, trarrebbe di Bologna tutta la buona gente d’arme,
lasciando la trista sott’ombra di guardia della terra, e il simile
farebbe dell’altre terre della Chiesa, e che venendo il pensiere ad
effetto, come ragionevolmente dovea, esso messer Giovanni liberamente
e senza contasto veruno potea porre bastite e rompere la strada
fiorentina. A messer Giovanni piacque il trattato, e diede piena fede
all’ambasciadore, lettera, suggelli, e carte a lui presentate da parte
di messer Malatesta, e di presente elesse capitano di millecinquecento
barbute, come detto è di sopra, messer Francesco degli Ordelaffi, e
lo fè cavalcare sopra Rimini, come avvisò del tutto messer Galeotto
avvisato della baratta di messer Malatesta, onde fè gli atti e le
mostre dette di sopra, il perchè ne seguì la sconfitta al ponte a
san Ruffello. Non so se più sagace e malizioso trattato s’avesse
saputo ordinare Ulisse o il conte Guido da Montefeltro. Cesare non
lasciava ragunare la gente di Pompeo, temendo il numero e la bontà de’
cavalieri; costui con astuzia la raunata divise, e indusse il savio
capitano in folle impresa, della quale seguì la più notabile sconfitta
di morte d’uomini pregiati d’arme che fosse in Italia di nostro ricordo
di cento anni addietro.

CAP. LX.
_Come seguì appresso alla sconfitta di san Ruffello._
I trecento cavalieri che conduceano per loro scorta la vittuaglia nel
campo, essendo in sul Bolognese, sentendo la novella della sconfitta
abbandonaro la roba, e camparono le persone. Quelli delle bastite
le lasciarono prima fossono assaliti, e salvaronsi in Pimaccio, e’
Bolognesi l’arsono, e la roba recarono alla città. Per questa vittoria
i Bolognesi alquanto ne stettono in festa e in riposamento: il legato
ne prese cuore di potere la città aiutare e sostenere: mostra ne fè,
ma poca operazione ne fè in que’ tempi, perocchè sopra modo era la
possanza del suo avversario e la volontà pertinace. Messer Bernabò
quando questa novella sentì ne mostrò dolore singolare rodendosi dentro
a guisa di cane arrabbiato, e vestissene a nero, e molti giorni stette
che niuno gli potè parlare. Sentissi che di ciò contro a’ Fiorentini
prese grave sdegno, affermando ch’erano cagione del suo danno e
vergogna per lo mantenere della strada, ma non se ne scoperse, perocchè
tutto che irato fosse ben conosceva che a’ Fiorentini era lecito di
così fare senza corruzione di pace. Messer Francesco Ordelaffi come
seppe la novella scorse la Marca, e di notte con sua brigata prese
il congio per la via della marina, e in ventiquattro ore cavalcò
cinquantasei miglia, e con la gente a lui accomandata si ricolse in
Lugo.

CAP. LXI.
_Come messer Bernabò si credette prendere Correggio per trattato, e sua
gente vi rimase presa._
L’animo che è insaziabile del tiranno, che sempre è con desiderio
di sottomettere i popoli liberi, e gli altri tirannelli che sono
minori, tenea messer Bernabò oltre alla presa di Bologna trattato di
torre Correggio, nè la gastigatura di san Ruffello l’avea rimosso dal
seguirlo; onde all’uscita di giugno detto anno, credendosi avere il
castello di Correggio, messer Ghiberto che n’era signore, e da esso
aveano il titolo di loro casa e famiglia, sentito il fatto, senza farne
mostra procurò aiuto da’ signori di Mantova, i quali segretamente gli
mandarono quindici bandiere di cavalieri, i quali di notte entrarono
in Correggio: venuta la cavalleria di messer Bernabò nel fare del
giorno, come era dato l’ordine, che furono diciassette bandiere, furono
lasciati entrare nelle barre che erano davanti al castello, e fatto
vista di volerli mettere nella terra, secondo l’ordine dato apersono
le porti della terra, e calarono i ponti, e la gente da cavallo
ch’era nel castello con molta fanteria si strinsono loro addosso con
grandi grida, e rinchiusi tra le barre, e storditi per lo subito e
non pensato assalto perderono il cuore alla difesa, e però gli ebbono
tutti a prigioni, e guadagnate l’arme e’ cavalli liberaro il castello
dall’aguato del tiranno.

CAP. LXII.
_Dell’armata del re di Cipro, e il conquisto di Setalia e del
Candeloro._
Dando alcuna parte agli avvenimenti d’oltremare, lo re di Cipro avendo
fatta sua armata, e non sapendo dove si dovesse andare, a dì 24 di
luglio 1361 con ventiquattro galee armate, con l’aiuto di tre galee
dello Spedale armate di franchi e valorosi frieri, e con altri legni
e armati e di carico in numero di cento vele si partì di Cipro, e del
mese seguente d’agosto percosse sopra la città di Setalia, la quale
era d’un signore di Turchi di gran possanza, e avendo sua gente posta
in terra, e combattendo la terra, che avea tre procinti di mura, de’
quali nel primo stavano mercatanti e Giudei, nel secondo i saracini, e
nel terzo i Turchi ch’erano signori della terra, ed essendo tutta gente
sprovveduta e poco atta alla difesa, il perchè i cristiani entrarono
dentro per forza, onde il signore che v’era con poca gente se n’uscì,
e la terra fu presa. Ma poco stante il Turco tornò con più di tremila
Turchi tra a cavallo e a piè, e senza dubbio arebbe ripresa la terra,
se non fosse la provveduta guardia che feciono li frieri, i quali
sapendo loro costumi del continovo stavano apparecchiati: e ciò venne a
gran bisogno, perocchè ritennono l’empito e subito assalto de’ Turchi,
tanto che l’altra gente s’armò, e venne alla difesa. I Turchi veggendo
che loro impresa venia stolta, con loro vergogna e dannaggio si
partirono. Lo re di Cipro avuta questa vittoria montò in galea, e con
sua armata se n’andò al Candeloro, il quale era al governo e signoria
d’un altro Turco, il quale senza volere fare difesa s’acconciò con il
re, e riconobbe la terra da lui, e li promise certo censo e tributo
d’anno in anno: e il re lasciata fornita Setalia si tornò nell’isola di
Cipro.

CAP. LXIII.
_Come i Turchi di Sinopoli assalirono Caffa, e furono vinti da’
Genovesi._
In questa state i Turchi di Sinopoli armarono quattordici galee nel
Mare maggiore, e assalirono il Caffa terra e porto di Genovesi, e
fecionvi danno assai e per mare e per terra, perchè i Genovesi di ciò
non si guardavano; ma tantosto in Caffa e in Pera armarono quattordici
galee come in fretta il meglio poterono per seguitare i Turchi nel
ritorno che fare doveano a Sinopoli, e trovatili, li seguirono,
fuggendo i Turchi, tanto che per forza li feciono dare a terra colle
balestra loro, avendone molti e morti e fediti, onde i Turchi per
forza costretti furono a disarmare, e disarmati i Turchi, i Genovesi
lasciarono in que’ mari due galee armate, e l’altre disarmarono. I
Turchi veggendo queste due galee rimase tra loro, di subito cinque
n’armarono, e vennono contro quelle de’ Genovesi, le quali cominciarono
a fuggire, e’ Turchi a seguitare, tanto che essi si trovarono insieme
in alto mare. Come i Genovesi si vidono dilungati da terra, girarono
le loro galee contro le cinque de’ Turchi, e misonsi tra loro, essendo
bene ordinati, e colle loro balestra non gettavano verrettone in vano,
ma fedivano soprassaglienti e galeotti senza rimedio, onde i Turchi si
misono alla fuga, e i Genovesi li seguitarono tanto che si diedono a
terra, e salvarono i corpi delle loro galee, mortine assai di loro, e
fediti e magagnati.

CAP. LXIV.
_Come le compagnie condotte in Piemonte cominciarono a guerreggiare._
Le compagnie tratte per lo marchese e per la Chiesa di Provenza,
condotte in Piemonte in questi tempi della moria cominciata in
Milano del mese d’agosto, cominciarono a guerreggiare nel Piemonte,
dove acquistarono al marchese sette castella le più loro arrendute.
Messer Galeazzo si ridusse a Moncia fuggendo di Milano la morìa che
asprissimamente li perseguitava, avendo le sue terre fornite di buona
guardia, e in campo non mise persona: ben tentò di trarne al suo soldo
di quelli della compagnia, e d’alcuna parte li venne fatto per la forza
del fiorino d’oro, non dimanco il resto rimase sì grande, che corse
insino al Tesino senza contasto. Messer Bernabò veggendo la pestilenza
sformata in Milano, che per giorno fu che levò ottocento, e mille e
milledugento, e tal fu dì de’ millequattrocento, e ben parea volesse
ristorare i Milanesi, cui per l’altre moríe non avea assaggiati,
si partì di Milano con tutta sua famiglia, e andonne al suo nobile
castello di Marignano, il quale è verso Lodi, il luogo foresto e di
sana aria, facendo gran guardia che nessuno non gli andasse a parlare,
avendo ordinato col campanaro della torre, che per ogni uomo che
venisse a cavallo desse un tocco. Occorse che certi gentili e ricchi
uomini di Milano andarono a Marignano, ed entrarono dentro; il signore
li ricevette bene, ma turbato contro il campanaro mandò su la torre
suoi sergenti, e comandò lo gettassono della torre; i quali andati su,
trovarono il campanaio morto appiè della campana: per la qual cagione
messer Bernabò terribilmente spaventato di presente senza arresto
abbandonò il castello, e si mise nel più salvatico e foresto luogo, ove
più di due miglia da lunga fece rizzare pilastri con forche ne’ quali
era scritto, che chi li passasse su vi sarebbe appeso. Per allora in
avanti sua vita fu tanto remota e solitaria, che voce corse, e durò
lungamente, ch’egli era morto, ed egli n’era contento per farne a tempo
suo vantaggio. Giugneremo a questo, per non fare nuovo capitolo, che in
questi tempi della moria, che anche requistava in Vinegia, morì il doge
loro, e funne fatto un giovane di quarantasei anni, il quale non era di
gran famiglia, nomato Lorenzo Celso: costui per la maturità de’ suoi
costumi e virtù montò a questo onore, e innanzi ai più antichi e più
nobili cittadini oltre a loro consuetudine: e pertanto notato l’avemo,
e per la sequela del fatto.

CAP. LXV.
_Di grandi terremoti che furono in Puglia, e assai guastarono della
città d’Ascoli._
A dì 27 di luglio del detto anno, in su l’ora del vespero, furono in
Puglia grandissimi terremuoti, e apersono la città d’Ascoli di Puglia,
e quasi tutta la subissarono con morte d’oltre a quattromila cristiani.
A Canossa caddono parte delle mura della terra, e molti dificii puose
in ruina; in altre parti fece poco danno. Furono ancora in questo anno
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