Cronica di Matteo Villani, vol. 5 - 03

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il suo montare alto del basso tanto era, che le stelle si mostravano
in esso come faville di fuoco; e levatosi in distanza alcuna di sopra
a Firenze valicò Fiesole, tenendo forma di ponte da Montemorello a
Fiesole, e poi con assai lento andamento trapassò nel Mugello, e in
un’ora e mezzo consumato si mostrò a coloro che di Firenze n’aveano
aspetto. Di tal segno niuna altra influenza si vide da farne menzione,
se altra per più lunghezza di giorni non dimostrasse, se non alcuno
secco, che danno fè assai alle terre sottili di nostre montagne per
tutto nostro paese.

CAP. XXXII.
_Dimostramento di smisurato amore di padre a figliuolo._
E’ ne parrebbe degno di riprensione lasciando in dimenticanza un caso
occorso in questo tempo, perchè ci pare esempio di mirabile carità
intra padre e figliuolo, ed e’ converso, tutto che apparito sia in
uomini di bassa condizione. Nel contado di Firenze e comune della
Scarperia, villa di santa Agata, uno garzoncello nome Iacopo di Piero,
sprovvedutamente uccise un suo compagno, e ciò fatto, lo manifestò
al padre, il qual turbato gli disse, che subito si partisse, e si
riducesse in luogo salvo, e così fece. Il malifizio fu portato alla
signoria, e incolpato e preso ne fu il padre del garzone, il quale
tormentato, per non accusare il figliuolo confessò sè avere commesso il
peccato all’uficiale della Scarperia, e mandato a Firenze al podestà,
confessando questo medesimo e raffermando, fu condannato nel capo. Il
figliuolo, che segretamente era venuto a Firenze per vedere che fine
avesse, vedendo il padre innocente andare a morire per lo difetto suo,
mosso da smisurato amore da figliuolo a padre, diliberato di morire
perchè il padre campasse, il quale liberamente vedea andare alla
morte per campare lui, con molte lagrime si rappresentò alla signoria,
dicendo: Io sono veramente colui che commessi il peccato; io sono colui
che ne debbo portare la pena, e non per me questo mio padre innocente,
che è tanto acceso di carità verso di me perchè io campi, che soffera
di morire per me. L’uficiale udito il garzone, quasi stupefatto ritenne
e sostenne l’esecuzione che si facea del padre, e trovato la verità
del fatto, il padre fu liberato, e il figliuolo, per la necessità
della corte, a dì 6 di marzo con pietose lagrime a chiunque l’udirono
o vidono fu decapitato. E certo se stato fosse commesso il malificio
senza malizia e casualmente, tanto atto di pietà a un benigno signore
credere si dee ch’arebbe meritato perdono almeno della vita.

CAP. XXXIII.
_Contrario esempio d’incredibile crudeltà di madre._
Avvegnachè quello che segue appresso alla narrata pietà di padre e
figliuolo dopo i sei mesi occorresse, per collazione del bene col male,
volendo operare la sfrenata lussuria operatrice d’incredibile crudeltà
di madre contra figliuolo, contra la forma di nostro ordine giugneremo
i tempi lontani. All’entrata d’agosto detto anno, nella città di
Perugia, una donna di legnaggio non basso avendo avuto d’un onorevole
popolano suo marito un figliuolo di buono aspetto, morto il padre, dopo
certo tempo la donna giovane si rimaritò a un altro cittadino dabbene,
il quale amava il figliastro quanto che figliuolo, sì per l’ubbidienza,
sì per l’industria, sì per li buoni costumi vedea in lui, il quale era
d’età di dieci anni. La madre per disordinata concupiscenza fu presa
dell’amore d’un altro giovane perugino assai accorto e dabbene, e lui
pensò d’avere per marito, e godersi con lui e sua dote, ch’era grande,
e l’eredità del figliuolo, ch’era maggiore, e altro successore non
avea che lei. E con l’adultero tenuto trattato diedono certo ordine
alla morte del figliuolo, che lo dovea la notte strangolare, ed ella
dovea avvelenare il marito; e dato l’ordine, la madre empia mandò il
figliuolo a casa l’amico con certe cose, e gli comandò non si partisse
da lui se non lo spacciasse; giunto il fanciullo al buono uomo, e
datogli quello che gli mandava la madre, con molta purità con istanza
gli domandava d’essere spacciato: vedendo l’uomo la semplicità del
fanciullo, glie ne venne pietà e cordoglio, e gli disse: Vattene a tua
madre, che tempo non è a quello ch’ella vuole. Vedendo la madre tornato
il fanciullo si turbò forte, e lo domandò perchè non l’avea spacciato,
e il fanciullo le fè la risposta. La sfacciata meretrice rimandò il
figliuolo, e gli comandò, che non tornasse a lei, ma tanto stesse,
ch’egli fosse spacciato di ciò che ragionato avea con lui.
Il fanciullo ubbidiente alla madre tornò all’amico di lei, e con
molte preghiere lo richiedea, che fare dovesse quello che la madre
gli avea imposto; ed egli molto più intenerito, quasi lacrimando gli
disse: Di’ a tua madre, che non istia a mia fidanza, ch’io nol voglio
fare: e il figliuolo tornato alla crudelissima madre le disse quello
che gli era stato detto. La bestiale scellerata ciò udito, in esso
stante comandò al figliuolo ch’andasse nella cella, ed ella gli tenne
dietro, dicendo: Quello che non ha voluto fare egli farò io; e con le
diaboliche mani segò la gola al figliuolo, e quivi lo lasciò morto.
Poco il marito tornò in casa, e domandò la madre del figliuolo: la
donna presa l’astuzia del serpente con fronte audace gli rispose:
Ben lo sai tu, va’ nella cella e vedrailo. Il marito ignorante e puro
scese al luogo, e trovò il fanciullo morto, il perchè e’ venne meno, e
forte sbaì, e perdè la favella: la moglie lo serrò dentro, e levato il
pianto, traendo guai incominciò a gridare, e dire, che il traditore del
marito le avea morto il figliuolo per godere la sua eredità; e tratta
la vicinanza a romore, ella squarciandosi il viso e’ capelli mai non
lasciò aprire l’uscio della cella infino che la famiglia della signoria
non venne, la quale apersono l’uscio, e trovarono il malificio, e a
furore ne menarono il marito, il quale tormentato confessò sè aver
fatto il malificio, e la cagione per godere l’eredità del figliastro. E
apparecchiandosi la signoria a farne aspra giustizia, all’amico della
pessima donna venne compassione di tanto male, e del sangue innocente
sparto e che spargere si dovea, e del fallo suo presa sicurtà da’
signori manifestò la verità del fatto, e la donna venuta in giudicio,
senza alcuno tormento confessò la sua iniquitade, e condannata alla
tanaglia, e più a esserle levate le carni a pezzo con i rasoi, fece
terribile esempio all’altre. Questo peccato tanto enorme forse meritava
silenzio di penna, per l’orrore d’udire tra’ cristiani sì alto e sì
sfacciato male, conchiudendolo con un verso di Giovenale poeta, che
dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter audent, parlando
delle femmine che da sè hanno scacciata la pudicizia e la vergogna, il
quale in volgare suona: Forte animo prestano alle cose che sozzamente
ardiscono di fare.

CAP. XXXIV.
_Delle compagnie ch’entrarono in Provenza per conturbare i paesani e la
corte di Roma._
Avvegnachè grave cosa fosse alla corte di Roma la presura che una
compagnia avea fatto di Santo Spirito sul Rodano di sopra a Avignone
otto leghe, nondimeno altre compagnie sommosse di Guascogna del reame
di Francia del mese di gennaio, febbraio e marzo, fuggendo la pace,
la carestia e la mortalità, in poco tempo l’una appresso l’altra
vennono in Provenza; e l’una che si nomava la Compagnia bianca, venne
appresso a Avignone a trenta miglia, e teneva mercato d’avere danari
dal papa, e di levare quella di Santo Spirito, che per cagione ch’avea
il Rodano di sopra in sua signoria gravava la corte, non lasciando
uscire la vittuaglia di Borgogna; e appresso un’altra di Guascogna e
di Spagna partita dalla guerra di quello di Focì e d’Armignacca, che
lungamente aveano accolta gente per guerreggiare insieme. Per questa
tempesta che conturbava i paesi d’intorno e il papa e i cardinali
erano in grave travaglio, e la corte il dì e la notte sotto l’arme,
e con molte gravezze di fortificare la città di muri, di fossi, e di
steccati, e di cittadinesca guardia, e lo re di Francia non avea podere
di liberare le sue terre dalle loro mani non che d’aiutare la Chiesa:
e in queste tribolazioni stette Avignone come assediata lungamente, e
non vi si potea entrare nè uscire con sicurtà, e l’arti, e’ mestieri,
e le mercatanzie tutte v’erano perdute, e la carestia d’ogni bene vi
montò in sommo grado. Il papa richiese Franceschi, Provenzali, Guasconi
e Catalani che lo atassono dalle compagnie; catuno chiedeva danari
per fare l’impresa, e la Chiesa non si fidava d’accogliervi più gente
d’arme che v’avesse: e così in tribolazione grande stette lungamente,
infino che per operazione del marchese di Monferrato col danaio della
Chiesa, come al tempo innanzi diviseremo, vi si mise rimedio. Daremo
ora sosta a queste compagnie e a’ fatti della corte, per ritornare
all’altre novità che in questo tempo occorsono alla nostra città di
Firenze.

CAP. XXXV.
_Come per comperare gli onori del comune alquanti che li venderono ne
furono condannati_
Rade volte occorse che i cittadini sieno condannati per baratteria,
non perchè sovente non caggino in tale errore, ma per la negligenza
de’ rettori, che passano il vizio a chiusi occhi: e perchè l’eccesso
che scrivemo fu tanto palese a tutti i cittadini, il rettore a cui la
cognizione s’appartenea di ciò non potè senza sua evidente vergogna
passare non ne conoscesse. Dalla morte di Carlo duca di Calavria in
qua, per ordinazione e costume di nostro comune osservata, e che è
di tre anni in tre anni, del mese di gennaio e di febbraio si fa lo
squittino solenne de’ cittadini degni dell’onore del comune, sì del
priorato come de’ dodici, e gonfalonieri ed altri ufici. Avvenne nel
1360, che certi de’ collegi per danari trassono a essere del numero
degli squittinatori certi pochi degni per loro antichità o virtù, il
perchè finito lo squittino, e scoperta la cattività, tali de’ collegi
trovarono colpevoli dall’esecutore degli ordinamenti della giustizia
furono condannati per baratteria, chi in libbre duemila, e chi in
mille, e pur tale pena puose freno al disonesto peccato.

CAP. XXXVI.
_Come i fatti di Francia verso il primo tempo procedeano._
Tornato il re di Francia, trovò il reame assai rotto e mal disposto, e
poco era ubbidito, e da sè nullo vigore avea di potere riducere le cose
al consueto e primo loro corso, e gastigare non potea chi fallasse,
e per questo gli uomini d’arme s’accostarono insieme a contristare le
provincie del reame: e intra l’altre tribolazioni, nel pieno del verno,
la contessa la quale fu moglie del sire di Ricorti, a cui lo re di
Francia avea fatto tagliare la testa quando tornò per ricomperarsi dal
re d’Inghilterra, ch’era suo prigione, preso cuore e animo virile fece
raccolta di Spagnuoli, di Guasconi, e di Normandi, e dicea di volere
dal re ammenda; e certo assai di male e dammaggio avrebbono fatto al
reame, se la fame che strignea il paese non l’avesse vietato: questa
poi con grossa compagnia trascorse in Proenza, la quale compagnia poi
passò in Lombardia. Il conte d’Armignacca e quello di Focì manteneano
guerra in Tolosana e nelle loro terre, l’uno contro all’altro, il
perchè troppo ne conturbavano il reame; il re reprimere non potea i
falli de’ suoi baroni, nè porre ordine in suo reame.

CAP. XXXVII.
_Come fu guasta la bastita che ’l cardinale di Spagna facea fare in sul
canale della Pegola._
Nell’entrata di marzo del detto anno, il legato per tenere sicuro il
cammino e ’l canale dalla Pegola a Bologna facea fare con grande studio
una bastita in sul canale, ed era quasi che compiuta. I cavalieri di
messer Bernabò ch’erano in Lugo, intorno di ottocento barbute, una
notte si mossono, e vennono alla bastita, e sì improvviso a coloro
che la guardavano che vi entrarono dentro, e mortine assai il resto
presono, e rubato quella parte stimarono di portarne il resto arsono
con la bastita, e senza contasto alcuno della preda, e’ prigioni ne
menarono a Lugo. Della qual cosa a’ Bolognesi parve rimanere in male
stato, per tema che quel cammino non fosse loro tolto, e per tal tema
costretti rimisono mano a rifare la detta bastita, e a custodirla
con più cauta e sollecita guardia, e poco appresso l’ebbono fatta e
afforzata per modo non ne temeano. Lasceremo alquanto le tempeste de’
cristiani, per dar luogo un poco a quelle degl’infedeli che apparirono
in questi tempi.

CAP. XXXVIII.
_Della grande pestilenza che percosse i saracini._
In questo anno pestilenza di febbri fu in Damasco e al Cairo tanto
fuori di modo, che senza niuno riparo quasi generalmente ogni gente
uccidea; il perchè si credette, che le provincie di là rimanessono
disolate e senza abitatore, e se guari tempo fosse durata avvenia.
I morti furono tanti, che stimare numero certo o vicino non si potè.
La cagione onde mosse, a Dio solo, o cui lo rivela, è manifesta. La
naturale necessità, la quale surge dall’influenza de’ cieli e delle
stelle, dà luogo alla necessità soluta, che procede dalla sua volontà.

CAP. XXXIX.
_Come fu morto il soldano di Babilonia, e rifattone un altro, il quale
uccise molti de’ suoi baroni._
Avvenne innanzi poco a questa mortalità, ch’essendo il soldano di
Babilonia uscito a campo contro a quelli che rubellati gli s’erano, i
baroni che con lui erano, qual cosa si fosse la cagione, s’intesono
insieme alla morte sua, ed egli non prendendosi guardia di loro nel
campo l’uccisono, e tornarsene al Cairo, e quivi un suo fratello
feciono soldano; il quale presa la signoria, e confermato nel regno,
non seguendo la volontà de’ suoi ammiragli, sentì che contro a lui
s’erano congiurati per farlo morire, onde esso si provvedea di buona
guardia, e niente mostrava di sentire contro a loro, ma l’un dì trovava
cagione contra l’uno, e facealo morire, e l’altro dì contra l’altro
facea il simile, e per questa via in pochi mesi la maggior parte fece
morire, e nella fine la volta toccò a lui, e morto fu per le mani de’
suoi ammiragli del mese di febbraio detto anno, e feciono soldano un
suo fratello piccolo, e rimaso di dodici l’ultimo, perchè non si potea
traslatare il regno in altri senza gran confusione di tutti i sudditi
suoi.

CAP. XL.
_Come un signore de’ Turchi trattò di fare uccidere l’imperadore di
Costantinopoli._
Lo signore di Boccadave possente tra i Turchi, ed ai Greci vicino,
avendo molte volte tentato con palese guerra di vincere Costantinopoli,
e non ne possendo avere suo intendimento, cercò con doni larghi e
con impromesse grandi fatte a certi Greci costantinopoletani, i quali
erano della setta di Mega Domestico cacciati dall’imperadore, a modo
tirannesco di farlo uccidere, pensando che morto lui per la inimicizia
ch’avea nella provincia, e per molte terre ch’avea acquistate sopra
l’imperio, d’essere del tutto signore; ma come piacque a Dio si
scoperse il trattato, e quale de’ traditori fuggì, e quale rimase o
preso o morto, ma non di manco la città ne rimase in mala disposizione.
Il Turco nondimeno tenendo Gallipoli e altre terre vicine, con suoi
legni in mare e con i suoi Turchi per terra tribolava e consumava
il paese, senza trovarsi per i Greci alcun riparo fuori che delle
mura. E in questi medesimi giorni il signore d’Altoluogo in Turchia
si guerreggiava con un suo zio, e l’altro signore della Palata si
guerreggiava col fratello; e portante guerre e divisioni de’ Turchi i
paesi loro erano rotti e in grande tribolazione, e per questa cagione i
Greci aveano minore persecuzione da loro; e più ciò fu materia al re di
Cipro di fare l’impresa sopra loro con onore e vittoria grande, come a
suo tempo racconteremo.

CAP. XLI.
_Come il legato si partì di Bologna per andare al re d’Ungheria._
Tornando alle italiane fortune, il legato di Spagna, uomo savissimo
e pratico delle mondane volture, vedendosi per allora e a tempo senza
potenza da resistere a messer Bernabò, e povero di danari, e veggendo
la poca gente d’arme ch’avea alla difesa, conoscendo che il tiranno
suo avversario era di sue entrate abbondante, e di quello che gravava
i sudditi suoi, il perchè non si curava di mantenere la guerra, e per
continovare la guerra gli parea essere certo di vincere Bologna, e
perciò mantenea a Castelfranco e a Priemilcuore, a Pimaccio, e a Lugo
tanta gente a cavallo e a piè, che con le loro cavalcate teneano sì
assediata Bologna di verso la Lombardia e la Romagna, che poca roba vi
potea dentro entrare, e di verso l’Alpe facea agli Ubaldini rompere le
strade, perchè al legato ne parea essere a mal partito, e a’ cittadini
a peggiore: e vedendo ch’a petizione di santa Chiesa niuno tiranno,
comune o signore italiano si volea scoprire ad atare Bologna contro a
messer Bernabò, avendo la Chiesa lungamente trattato col re d’Ungheria,
il quale s’affermava che farebbe l’impresa con la persona, al primo
tempo parve al legato d’uscire di Bologna sotto scusa d’andare a lui,
e nel vero e’ non si fidava potervi stare con suo onore, nè senza grave
pericolo. E però contro la volontà de’ cittadini prese d’andare al re,
promettendo di tornarvi del mese di maggio prossimo, e a dì 17 di marzo
se ne partì facendo la via d’Ancona, e là soggiornato alquanto mandò
al re d’Ungheria, come seguendo nostro trattato diviseremo. In Bologna
lasciò messer Malatesta e messer Galeotto suo figliuolo capitani de’
soldati e de’ cittadini alla guardia.

CAP. XLII.
_Della ribellione fatta per messer Giovanni di messer Riccardo Manfredi
al legato._
Isidoro nelle sue etimologie afferma, che per la differenza e natura
varia de’ climati i Greci per natura sono lievi, i Romani gravi, gli
Affricani astuti e maliziosi, e gl’Italiani feroci e d’agro consiglio.
Questo vedemo nella piccola provincia di Toscana, dove sono i Sanesi
reputati lievi per natura, i Pisani astuti e maliziosi, i Perugini
feroci e d’agro consiglio, i Fiorentini gravi, tardi, e concitati,
e così per natura i Romagnuoli hanno corta la fede: e pertanto per
antico proverbio si dice, che il Romagnuolo porta la fede in grembo:
e però non è da maravigliare quando i tiranni di Romagna mancano di
fede, conciosiachè sieno tiranni e Romagnuoli: i tiranni per paura
di loro stato, e cupidi ancora di più signoria, usano e fanno arte di
tradimenti. Messer Giovanni figliuolo naturale di messer Manfredi di
Faenza avendo pace col legato, vide suo vantaggio per le promesse di
messer Bernabò, e rubellossi alla Chiesa, e cominciò a fare guerra
e da Bagnacavallo, e da Salervolo, e da altre sue tenute a Faenza e
ad altre terre della Chiesa di Romagna, e avuta cavalieri da messer
Bernabò ch’erano a Lugo, cavalcò a Porto Cesenatico, dove trovò molta
mercatanzia, le case arse e ’l porto, e la mercatanzia e grossa e
sottile e’ prigioni ne menarono in preda, e in quel porto peggiorò
i cittadini di Firenze oltre a dodicimila fiorini d’oro di loro
mercatanzie, e senza impedimento alcuno si tornò a Bagnacavallo. Per
questa rebellione i suoi palagi di Faenza furono disfatti.

CAP. XLIII.
_Come il marchese di Monferrato trasse delle compagnie da Avignone per
conducere in Piemonte._
Essendo lungamente la Provenza di là dal Rodano, e ’l Venisì, e la
Provenza di qua dal Rodano, e la corte di Roma stata in grandissime
persecuzioni delle compagnie addietro narrate, e tenuto il papa con
loro per le mani di più baroni trattati di trarli del paese senza avere
effetto, in fine il valente marchese di Monferrato, per la guerra
ch’avea co’ signori di Milano, essendo molto amato dai buoni uomini
d’arme, e favoreggiato co’ danari della Chiesa, in prima s’accordò con
la compagnia ch’era a’ Mongiulieri, Inghilesi, Guasconi e Normandi,
con la donna del siri di Ricorti: ed avendo fatto questo accordo del
mese di marzo, non tennono il patto, ma sotto la sicurtà del trattato
passarono il Rodano, e mutarono pastura; e un’altra maggiore compagnia
valicò nel Venisì, e consumando il paese infino al maggio. Cominciata
la fame e la mortalità in quelle provincie, la compagnia di Santo
Spirito, avuto dal papa trentamila fiorini con patto di seguire il
marchese lasciata la terra, e l’altra che ’l marchese con danari
della Chiesa avea prima patteggiata s’accozzarono a volere passare
in Piemonte, e non meno per fuggire la pestilenza e ’l paese, che per
servire la Chiesa e il marchese, con tutto che più di centomila fiorini
costasse al papa la spesa di levarlisi d’intorno. E spandendosi di
ciò la boce per la Provenza, una gran parte se n’avviò a Marsilia,
e credendosi entrare nella terra e non potendo, e non avendo da’
Marsiliesi il mercato, arsono i borghi della città, e feciono assai
danno nel paese, e poi s’addirizzarono verso Nizza, e a parte a parte
valicarono seguendo il marchese nel Piemonte, non senza grave danno de’
Provenzali. E nondimeno essendo di Provenza partiti da seimila cavalli,
ne rimasono due altre compagnie, una di quà una di là dal Rodano,
lungamente a vivere di preda e di rapina sopra i paesani, e teneano la
corte in paura e in travaglio. Lasceremo delle compagnie, e torneremo
ad altre più degne cose di nostra memoria.

CAP. XLIV.
_Della morte del duca di Lancastro cugino del re d’Inghilterra._
Egli è strano al nostro trattato fare memoria della naturale morte
d’uomo, ma considerando l’altezza della superbia umana con la fragilità
di quella recata alla mente degli uomini, non può passare senza alcuno
frutto. Il conte d’Aui duca di Lancastro, cugino carnale del valente
re Adoardo d’Inghilterra, avendo lungo tempo fatte grandi e notevoli
cose d’arme, essendo sopra i Franceschi stato venticinque anni grave
flagello, e riposata la guerra in pace con grande sua fama e onore, a
dì 22 del mese di marzo gli anni Domini 1360 lasciò l’arroganze delle
guerre, e le fallaci fatiche del mondo con la sua morte, lasciando
senza ereda maschio due figliuole femmine ne’ suoi baronaggi.

CAP. XLV.
_Come riuscì l’impresa del re d’Ungheria, dove la speranza del legato
di Spagna si riposava._
La Chiesa avea richiesto il re d’Ungheria al soccorso di Bologna,
ed il re avea dato speranza alla Chiesa di fare l’impresa con la sua
persona, e mandati però suoi ambasciadori a corte per fermare i patti,
de’ quali per diversi modi si sparse la fama in Italia, in prima che
dovea avere titolo dalla Chiesa e dall’imperio, e danari assai dal
papa, che le terre ch’acquistasse fossono sue: l’altra boce era, che
’l papa il dovesse assolvere del saramento si dicea ch’avea fatto di
fare il passaggio d’oltremare, e che dovea dispensare che la moglie, la
quale apparve per infino a qui sterile, si rinchiudesse in un munistero
di sua volontà, ch’egli potesse avere anche un’altra moglie, acciocchè
’l reame non rimanesse senza successione di sua generazione, e che di
questo il legato avea dal papa piena legazione: verisimile e non senza
grande cagione il legato andò a lui in Sagravia del mese di maggio del
detto anno. Il re in quei giorni avea fatto bandire generale oste per
tutto suo reame, per titolo di porre confini al suo regno, per lo quale
tutti i baroni e popoli lo debbono servire, e credettesi che ciò fosse
per intendere al servigio della Chiesa; ma come che la cosa s’andasse
gli ambasciadori di messer Bernabò erano a lui, e ricevuti avea doni
da parte di messer Bernabò. E però, o perchè non avesse dalla Chiesa
quello che volesse, o avesse promesso al tiranno di non venire contro a
lui, la vista fu ch’egli intendea d’andare con la sua gente per l’oste
già bandita in altra parte; e quello che rispondesse al legato non si
potè per parole comprendere, ma l’effetto si dimostrò per opere, che
senza alcuno aiuto il legato del detto mese di maggio si ritornò ad
Ancona, perduta la speranza del soccorso di Bologna, in grave pericolo
di quella città, cresciuta la baldanza e l’oste dei suoi avversari.

CAP. XLVI.
_Della pestilenza dell’anguinaia ricominciata in diversi paesi del
mondo, e di sua operazione._
In Inghilterra d’aprile e di maggio si cominciò, e seguitò di giugno e
più innanzi, la pestilenza dell’anguinaia usata, e fuvvi tale e tanta,
che nella città di Londra il dì di san Giovanni e il seguente morirono
più di milledugento cristiani, e in prima e poi per tutta l’isola.
Gran fracasso fece per simile nel reame di Francia; nella Provenza
trafisse ogni maniera di gente. Avignone corruppe in forma che non vi
campava persona: morironvi nove cardinali, e più di settanta prelati
e gran cherici, e popolo innumerabile. E di maggio e giugno si stese e
percosse la Lombardia, e prima Como e Pavia, con tanta roina, che quasi
le recò in desolazione. In Milano mise il capo, dove altra volta non
era stata, e tirò a terra il popolo quasi affatto, con grande orrore e
spavento di chi rimanea. Vinegia toccò in più riprese, e tolsele oltre
a ventimila viventi. La Romagna oppressò forte e assai quasi per tutte
sue terre, ma più l’una che l’altra, e nell’entrata del verno cominciò
a restare in Lombardia, e a gravare la Marca, e la città d’Agobbio
forte premette. L’isola della Maiolica perdè oltre alle tre parti
degli abitanti. Nè lasciò l’Alpi degli Ubaldini senza macolo per molti
de’ luoghi suoi. E molti paesi del mondo in uno tempo erano di questa
pestilenza corrotti, nè già quelli a cui parea che Dio perdonasse
non ritornavano a lui per contrizione, partendosi dalle iniquitadi
e dalle prave operazioni ostinate, e come le bestie del macello,
veggendo l’altre nelle mani del beccaio col coltello svenare, saltavano
liete nella pastura, quasi come a loro non dovesse toccare, ma più
dimenticando gli uomini il giudicio divino si davano sfacciatamente
alle rapine, alle guerre, e al mantenere compagnie contra ogni uomo,
alle ingiurie de’ prossimi, e alla dissoluta vita, e a’ mali guadagni
assai più che negli altri tempi, corrompendo la speranza della
misericordia di Dio per lo male ingegno delle perverse menti; e ciò per
manifesta sperienza si vide in tutte le parti del mondo dove la detta
pestilenza mostrò il giudicio di Dio.

CAP. XLVII.
_Come per la fama delle compagnie che scendevano in Piemonte i signori
di Milano si provvidono alla difesa._
Messer Galeazzo Visconti sentendo che il marchese di Monferrato venia
in Piemonte con le compagnie tratte di Provenza del mese d’aprile
del detto anno, e sapendo ch’ell’erano per poco tempo provvedute di
soldi, e che già la mortalità era tra loro, e cominciata nel Piemonte,
provvide di gente d’arme tutte le sue terre e le loro frontiere per
fare buona guardia, e sostenere l’impeto de’ nemici, senza mettersi
a partito di battaglia; e però messer Bernabò ritrasse della gente
ch’avea a Lugo e a Castelfranco sopra Bologna la maggiore parte per
dare favore al fratello, pensando straccare quella gente, come in parte
venne loro fatto, con piccolo danno di loro distretto, come appresso si
potrà nel suo tempo vedere. Nondimeno tra per lo riparo del Piemonte,
e del fare la guerra a Bologna, continovo si fornivano di gente d’arme,
non curandosi della grande spesa, perocchè bene la poteano comportare a
quella stagione.

CAP. XLVIII.
_Come messer Bernabò venne sopra Bologna, e assediò e prese Pimaccio._
All’uscita del mese d’aprile del detto anno, messer Bernabò accolse
gente, li più cittadini di sue terre, e con duemila cavalieri in
persona venne da Milano a Castelfranco dov’era il forte di sua gente,
e di nuovo fece combattere il castello di Pimaccio per due riprese,
e appresso il fece assediare intorno, e a dì 9 di maggio per patto
ebbe la terra, e la rocca si tenne. Di là poi si partì lasciando
fornita la terra, e la rocca assediata, e con la gente sua cavalcò a
Panicale presso di Bologna facendo danno assai; e del detto mese di
maggio ebbe la rocca di Pimaccio, e andossene a Lugo, e l’accomandò
a messer Francesco degli Ordelaffi, e diegli gente d’arme, con che
egli guerreggiasse Bologna da quella parte e la Romagna; e fornite
l’altre terre, e confortati gli amici suoi a fare guerra, e lasciato
il marchese Francesco al ponte del Reno a campo, con milledugento
cavalieri si tornò a Milano, e la sua gente ebbe fatta forte e ben
guernita di tutto all’entrata di giugno la bastita dal ponte del Reno.

CAP. XLIX.
_Come il legato procurava aiuto contro messer Bernabò._
Il legato del papa, tornato senza niuna speranza d’aiuto dal re
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